Alla manifestazione milanese del 25 aprile scorso ( 2017) ha destato disappunto e ironia il cartello portato da un militante del PD che inneggiava a Coco Chanel come madrina spirituale dell’Europa unita, dati i trascorsi antisemiti e collaborazionisti della celebre stilista che evidentemente gli estensori del cartello ignoravano. Se torno sull’episodio ovviamente non è per rinfocolare le polemiche politiche che da qualche anno in qua accompagnano la festa della Liberazione, ma perché questa gaffe è il sintomo di un certo quadro di idee diffuse nella nostra società non solo tra i sostenitori del PD. Nel commentarlo alcuni hanno tirato in ballo l’ignoranza dei tempi e che lo spirito dei tempi abbia qualche cosa a che fare con la vicenda è indubbio, anche se non sarei così draconiano nell’ascrivere a pura ignoranza la genesi dell’episodio.
In primo luogo, infatti, il cartello per Coco non era isolato ma in compagnia di altri dedicati a personaggi famosi, personalmente ne ho visto uno per Jane Austen e un altro per John Lennon, che, sebbene abbiano condotto vite onorevolissime e immuni da pecche così gravi, con l’Europa unita non c’entravano molto. Diciamo che l’unico criterio che può accumunare insieme personaggi così diversi tra loro in una manifestazione di questo genere è quello di aver goduto di grande successo nei rispettivi campi e nelle rispettive epoche. Insomma essi erano in quel contesto quelli che nel linguaggio pubblicitario si chiamano dei testimonial. Ora è probabile che il meccanismo logico che ha prodotto la gaffe si situi a questo livello: essendo stata Coco una persona di successo e dunque una perfetta testimonial, non occorreva controllare i dati della sua biografia perché si presume che questo genere di personaggi di successo possano avere idee politiche magari vaghe e anodine, ma comunque sempre presentabili. L’idea di dare una controllata su Wikipedia alla sua vita presupponeva uno scetticismo rispetto alle logiche correnti dell’immaginario e una consapevolezza storica della diversità del passato che difficilmente si trovano nei contesti sociali odierni.
E’ chiaro che questo tipo di mentalità ha molto a che fare con la dimensione del politicamente corretto. Oggi, infatti, il politicamente corretto si presenta in primo luogo come una serie di affermazioni a carattere eticopolitico che costituiscono una sorta di standard per poter essere ammessi sia nel circuito mediatico mondiale sia in quella che potremmo chiamare la sfera globale della società. Coloro che hanno necessità impellente di esservi ammessi, d’altra parte, sono le personalità di successo o aspiranti tali in tutti i campi dell’umano agire. Se dunque tuttora Coco Chanel resta un’icona internazionale, non potrà che avere avuto comportamenti e posizioni compatibili con quegli standard. Ecco verosimilmente l’errore logico, che senza neanche troppo sarcasmo potrà essere ribattezzato paralogismo di Coco o anche paralogismo numero cinque, causa della gaffe.
La natura di questo paralogismo ci permette di illuminare quella che è la funzione sociale del politicamente corretto. In questo senso è possibile paragonare il politicamente corretto alla morale vittoriana, naturalmente non dal punto di vista dei contenuti normativi ( basti pensare alle prescrizioni sessuali di cui quella era generosissima che in questo sono sporadiche), ma nella sua funzione di indicatore universale e onnipresente di ciò che è appropriato. Come spiega Franco Moretti ne Il borghese, nella morale vittoriana “ciò che conta non è tanto il contenuto del codice ( una prevedibile miscela di cristianesimo evangelico, immaginario ancien régime ed etica del lavoro) quanto la sua inaudita onnipresenza”, che è quanto si può dire del politicamente corretto. Questa sua onnipresenza è dovuta al fatto di essere l’indicatore di appartenenza a una classe o, se si preferisce, a un ceto, quello dei gentiluomini allora, quello dell’èlite globale oggi. Come ieri lo era il vittorianesimo, così oggi il politicamente corretto è funzionale alle esigenze di autorappresentazione ideologica dell’organizzazione produttiva della società. L’enfasi posta sulla lotta contro ogni discriminazione, salvo quelle di status economico e competitività, è una forma di universalismo necessaria al dispiegamento del mercato globale, non tanto in senso geografico, ma in quello biopolitico nelle vite di ciascuno, come dimostra il contestuale rifiuto di una percezione dei problemi sociali in termini storici.
Ritengo, ma mi potrei sbagliare, che l’abbrivio decisivo per questa diffusione universalistica del politicamente corretto sia stato dato dai grandi concerti evento tipo Live Aid che, a partire dalla metà degli anni ottanta fino a qualche anno fa, hanno contrassegnato la nostra vita pubblica arricchendo di una coloritura di impegno sociale le tradizionali attività di beneficenza del mondo dello spettacolo.
Come tutti i generi mediatici di successo il politicamente corretto genera anche un sottogenere d’opposizione dagli accenti populistici, oggi particolarmente in voga dopo Brexit e il successo di Trump, che rivendica la funzione salvifica di alcune forme di discriminazione rivolgendosi a un pubblico tradizionalista disorientato dal progressismo globalista e offrendole come succedaneo della lotta di classe ai ceti impoveriti dalla globalizzazione: si tratta di due fenomeni complementari, che partono dalla premessa comune di accettare la subordinazione alle istanze del mercato, allo stesso modo che sul mercato musicale alle stelle più sofisticate della scena pop internazionale si contrappongono cantanti legati a tradizioni locali o a versioni pop meno aggiornate, che però in un singolo mercato nazionale possono avere più seguito dei primi.
Il fatto che i due generi siano complementari non deve però trarre in inganno sul fatto che solo il politicamente corretto è in grado di assolvere a quelle funzioni, fondamentali per il neoliberismo, di elaborazione di un senso individuale nell’interiorizzare i meccanismi di competitività, di “riscrittura etica delle relazioni sociali” ( Moretti) e di fornire un galateo per una vita trascorsa perlopiù in nonluoghi; in breve è solo questo che ha capacità egemoniche. In questo senso allora se la critica del politicamente corretto è un compito primario, esso non può coincidere con l’opposizione ai suoi contenuti, nella maggior parte dei casi difficilmente contestabili per la loro genericità, che è già prevista nel gioco della contrapposizione populista, ma consiste nella capacità di porre al centro ciò che non è dicibile nel discorso politicamente corretto.
( questo articolo è apparso su Alfabeta 2 il maggio scorso, lo ripubblico perché mi sembra che i problemi che sollevava siano ancora più evidenti oggi, g.m.)
o la storia di come Bartolo e Terzita si toccarono
di Andrea Cafarella
Era stato, perciò, dopo che le Isole erano scomparse alla sua vista dietro Capo Milazzo, e Stromboli, Vulcano, Lipari, che intravvedeva per la prima volta distanti e da terra, dopo averle viste sempre dalla palamitara, salendo per il Golfo dell’Aria, sembravano vaporare nel sole come carcasse di balene cadute in bonaccia.
S. D’Arrigo, Horcynus Orca, p. 7
Lo sfregarsi del mare e del cielo s’illuminava della luce purpurea del sole all’èspero; di destra dipingeva l’Italia: Scilla seguita da miglia di lunghissima Calabria, lontana e vicina, per grazia di Morgana; il vento di scirocco scrollava via dal blu oscuro dello Stretto la spuma vorticosa di tutta Cariddi marittima e, d’innanzi, poco più lontane, le sette Eolie, di cui se ne vedevano almeno quattro chiaramente, mentre Alicudi, Filicudi e Salina si percepivano, come carcasse di cetacei ormai abbandonate in un cimitero galleggiante di sogni e pensieri ventosi. Di sinistra, l’isola si contorceva per Palermo fino a Trapani guardando le colonne d’Ercole verso l’inconoscibile.
La sabbia finissima di Spadizzi splendeva di arabo e si faceva deserto; cosparsi sopra quei trecento metri d’intimo isolamento, cumuli di densissimo fumo corporeo si facevano strada verso il sole, emanati, come auree luminose, da corpi di uomini e donne intrecciati l’un l’altro sulla battigia. Gli spadizzini che fanno l’amore. Nudi sulla spiaggia. Il contatto epidermico con la sabbia, immersi in quell’aria ancora fresca e a tratti pungente, era per ognuno di loro, e per quell’insieme, una prima penetrazione dei sensi: simbiosi con il vento la terra e tutti gli esseri del mare. Una manciata di coppie: sei uomini e sei donne, mentre, nell’assopirsi del sole, consumano il calore della carne e della sabbia che, esattamente in quelle ore, inizia a sprigionare l’energia accumulata dai raggi del giorno per regalarla alle stelle.
Non un giorno qualsiasi dell’anno, ma quello che gli spadizzini chiamano U iònnu1, Il giorno. Quello che altrove viene chiamato Solstizio d’estate. Quello che solo nel piccolo mondo di Spadizzi precede la notte della Pesca a mani nude. Quello che per Bartolo, prima, significava tutto, e che anche per i suoi compaesani voleva dire: la notte più bella dell’anno e della vita, ogni volta: la grande pesca, la comunione con il mare. Che, con i suoi rossi e viola e verdi, tinteggiava all’occaso, sulle isole, la magia della mamma, della Sicilia, e che richiamava uomini e donne da ogni dove, nel tentativo di assistere allo spettacolo di corpi e luci e mare e ombre. Quello che avevano dipinto e cantato, che avevano raccontato in molti modi. Quel giorno sempre unico tra tutti i giorni irripetibili.
L’Assunta, sacerdotessa della spada, teneva gli occhi fissi sulla palla di fuoco che discendeva il blu del mediterraneo di fronte a lei. Piccola e smagrita, nei suoi anni incontabili, stava in piedi trattenuta dal suo bastone fedele. In quella selva di corpi carezzevoli, concentrava le due minuscole pupille di ossidiana fino al punto esatto del tuffo di Apollo, dove il sole si spegne. Assunta aspirava lo scirocco suo, ogni anno, sembrandole di respirare la Sicilia tutta e l’intera sua lunghissima vita e le vite dei suoi conterranei; per richiamare a sé un’energia superiore e donarla in canto alla sabbia di Spadizzi; per fecondare le pelli di quei suoi figli e nipoti. Stirava la gola nell’attesa dell’ultima scintilla di sole, e poi, con la potenza di quel vento antico, innalzava l’urlo di richiamo alla vita e all’amore: un sibilo costante, che pareva provenire dalle viscere della terra ed esplodere su quelle teste e quelle spalle e quelle ginocchia, che subito cominciavano ad avvilupparsi per tributare quel giorno.
In paese si teneva molto alla festa e alla partecipazione corale, di tutte le famiglie; ma quell’anno, piuttosto che crescere in numero, da sette coppie, erano presenti in sei, e tutti sapevano chi mancava e perché, e la sacerdotessa Assunta lo sapeva meglio di tutti e pesava sul suo cuore in modo particolarmente intenso, perché chi mancava era Bartolo, lo zito di sua nipote Terzita. Bartolo, che si era dovuto imbarcare per forza e che si era messo in testa l’idea di compiere il suo destino; che fosse lontano da quel piccolo mondo, l’unico che Terzita avrebbe mai potuto accettare, che avrebbe mai voluto accettare; perché lei sarebbe stata sacerdotessa dopo sua nonna Assunta, perché lì si sta bene e c’è il sole e si mangia bene e si possono prendere le aguglie a mani nude. Dove pensava di trovare una cosa del genere Bartolo? Credeva davvero che ci sarebbe stato qualcosa di meglio altrove? Come sperava di sentire ancora l’energia di quel mare e di quei corpi distante miglia e miglia di altri mari infreddoliti e corpi imbiancati dal gelo?
Ma Bartolo era testardo e si era imbarcato lo stesso, e il suo cuore, e il suo corpo, e la sua pelle, che si sarebbe dovuta riscaldare con la sabbia di Spadizzi e dentro la carne di Terzita, navigavano i mari del nord Europa.
Terzita, anche lei, aveva scelto di non partecipare con la totalità del suo corpo quell’anno a quella notte, pur essendoci con l’interezza sconfinata del suo spirito e della sua voce, promettendo alla nonna che avrebbe di nuovo preso parte alla cerimonia l’anno dopo, Bartolo o non Bartolo.
Il suo corpo era ancora retto dalle sue stesse gambe, poste al fianco di nonna Assunta, durante e dopo l’urlo, quando quegli uomini e quelle donne, suoi fratelli e sorelle, si mischiavano senza di lei e con lei. L’interno sensibile, dell’involucro che la definiva un essere agli altri, era però volato altrove proprio al grido della nonna, si era sparso per il globo alla ricerca di Bartolo e invece Bartolo, o tutto ciò che conservava dietro lo sterno, era tornato, tornato indietro, a casa, e si era sistemato accanto alla sua Terzita, silenzioso, contemplando quell’andirivieni di membra in movimento, mentre già sul mare s’intravedevano i primi schizzi che predisponevano la scena al miracolo. Distanti ma vicini: il mare e le sue onde li facevano toccare in una dimensione impossibile, ma che esisteva in quei tempi e in quei luoghi, per grazia di Morgana. Non solo esisteva per loro, ma anche per gli altri tredici corpi raggrumati sulla spiaggia di Spadizzi: era vero.
La danza del cosmo e delle carni che circonda il corpo dei giovani amanti, fatto di due corpi fatti di energie che nuotano nei flussi e s’immergono nella materia dello spirito, nell’incanto dell’irrealizzabile e del sensitivo: la mistica dell’amore, il mistero del mare.
Lo sfregarsi dei corpi di Bartolo e Terzita s’illuminava di schizzi di luce e spruzzi di mare, a cagione dei tuffi di aguglie imperiali e pescispada, slanciatisi verso il cielo per poi ricadere sullo Stretto, riunendosi e pinneggiando nel canale di Spadizzi, come succede una sola volta l’anno, al calare del sole. Dalla sabbia si era alzata un’onda delicata di corpi, fatti d’acqua salata. Uomini e donne si separavano con lentezza, come se avessero fermato il tempo; e poi gli uomini correvano verso la riva e poi nel naviglio. Una seconda e una terza ondata, di nudi cacciatori marini, seguirono placidamente: ogni onda a suo tempo. Si alzavano, a ritmo sempre più rapido, e qualcuno dei pescatori già s’infilava nelle acque del canale fino alla vita, in attesa dei pesci e del mare. Terzita, che ancora esisteva in due luoghi, accanto ad Assunta e insieme a Bartolo, levò la sua voce seguendo quella della nonna in un canto che si perdeva nella storia del mondo fino alle radici dell’uomo.
Quando uno dei pescatori del tramonto, Pippo, sollevò la prima aguglia, che gli si era praticamente tuffata tra le braccia, la strinse così forte che sembrò che l’urlo di Giovanna, sua moglie e sua compagna, venisse direttamente dal corpo del pesce, unendosi anch’esso alle voci limpide della sacerdotessa e di sua nipote Terzita. E seguirono le altre donne, una a una: perché quel giorno furono pescati in più di una dozzina, tra aguglie e pescispada, tanti come non era mai accaduto prima, e i canti delle donne spadizzine, che esistono assieme alle stelle e con lo scirocco, soffiarono sui corpi e sul mondo senza confini. I fratelli e le sorelle di Spadizzi sapevano che sarebbero seguiti giorni di festa, di estasi dionisiache, giorni d’amore e di canti, giorni di sale; che, per tutto l’anno, quella visione, quell’ebrezza spumosa, si sarebbe calcificata quotidianamente tra le loro ossa, circolando nel sangue e sussurrando canti sibillini all’ombra notturna, illuminata solo dallo sguardo della luna e dal silenzio reboante del mondo sottomarino.
Quando Bartolo si riebbe si trovava nella sua cabina, lontano miglia e miglia di terra e acqua, sentì addosso il sale mediterraneo, avvertì il sapore delle labbra di Terzita e, seppure queste sensazioni esistevano adesso soltanto nei suoi neuroni e in qualsiasi altra cosa ci sia sotto la pelle, sapeva, che ovunque sarebbe stato, lo scirocco e l’odore acre del sale marino, lo avrebbero seguito per sempre, sopra e sotto la pelle.
1U iònnu si riferisce alla festa di San Bartolomeo dei pescatori che si festeggia tutti gli anni il 21 Giugno, il giorno del Solstizio d’estate, nella località Spadizzi, frazione costiera della VI Circoscrizione del comune di Messina, situata sulla costa tirrenica a circa una ventina di chilometri dallo Stretto.
Il testo che segue è il terzo capitolo di un romanzo, Il pantarèi, che dopo una lunga storia di elogi e di rifiuti editoriali, iniziata nel 1980, fu infine pubblicato nel 1985 da una piccola casa editrice di Milano, SPS (poi Sapiens), conquistando qualche isolato lettore ma passando sostanzialmente inosservato. Si tratta di un metaromanzo sul romanzo del Novecento. Il protagonista, Daniele Stern, viene incaricato da una casa editrice con la quale saltuariamente collabora di scrivere in pochi giorni una storia del romanzo del Novecento, destinata a trovar posto nell’ultimo volume di una Enciclopedia della Donna. Il libro affianca, in ogni capitolo, una parte saggistica, dedicata a uno dei grandi autori del XX secolo, e una narrativa, legata alla prima da analogie spesso sotterranee e misteriose. Quella che presento qui è la parte saggistica del capitolo su Joyce, già pubblicato integralmente sulla rivista Fronesis, n. 20, luglio-dicembre 2014, con il titolo “Padre Joyce, che sei nei cieli”. Il romanzo Il pantarèi, nel suo insieme, sarà invece riproposto nei primi mesi del 2019 dall’editore TerraRossa.
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Dormire? No, a quest’ora (è l’una di notte) Stern è preso da un estro di sonnambulo. Potrebbe, lui che sul quarto gradino di una scala a pioli è già preda di norma dell’horror vacui, muoversi agilmente sui tetti e camminare disinvolto su angusti cornicioni.
Lo champagne ha lasciato dentro di lui una vaporosa leggerezza. Il cervello di Stern frizza e schiumeggia. Generoso è il suo spirito.
Joyce. Quale momento migliore per simili equilibrismi?
Lo champagne provoca anche frequenti minzioni. Mi punge desiderio di. Il ventre teso come un palloncino. Quando sei ritto e a gambe larghe, in posizione, crollano le difese, si rilassano gli sfinteri e devi esser lesto a estrarre l’animale. Che da giorni non serve che a questo.
Una pressione insostenibile, quasi da piangere. Poi il getto liberatorio. Fluisce. Tintinna argentina. Ah che sollievo! Limpida e bionda come lo champagne. Poi acqua gelata sul viso come a scacciare recenti dolorose allucinazioni. Stern è pronto. Si accinge al lavoro. Ebbro ed euforico, picchia sui tasti con impeto da invasato. James Joyce aveva una splendida voce tenorile. Fu anche sul punto di vincere un concorso e di essere ingaggiato da un impresario dublinese. Anche suo padre, John Stanislaus, oltre che un forte bevitore e un instancabile dilapidatore di quattrini, era un buon cantante e talora si esibiva con successo in qualche caffè di Dublino (proprio come Simon Dedalus, padre di Stephen Dedalus-Joyce, in una pagina di Ulisse) interpretando romanze d’opera non senza un trascinante pathos di ubriaco. La musica fu per Joyce qualcosa di più di un violon d’Ingres: un atteggiamento dello spirito. Fra tutti i suoi sensi acutissimi, l’udito fu almeno primus inter pares e fin da bambino i suoni esercitarono su di lui un fascino arcano e avvincente. Non vi è dunque di che sorprendersi se, nella fase decisiva della sua carriera di narratore, Joyce si dedicò anche, se non principalmente, a rivoluzionare il linguaggio, adattandolo alla sua esasperata sensibilità musicale. Senza arrivare alle acrobazie della sua ultima opera, Finnegans Wake, basterà questo passo di Ulisse come esempio di una scrittura che, pur nell’inevitabile violenza che le fa la traduzione, rimane quasi nient’altro che suono: «Bronzo accanto a oro udirono i ferrei zoccoli, acciaisonanti. Impertnt tntntn. Schegge, levando schegge dall’unghia rocciosa schegge. Orrore! E oro arrossì ancora. Una nota roca di piffero la sbloccò. Sbloccò. Bloom blu è la patina sul Aurea chioma ingugliata. Una rosa danzante su serici seni di raso, rosa di Castiglia. Trillante, trillante: Ahidolores. Cucù! Chi c’è nel…cucudoro? Din pianse pietosamente a bronzo. E un richiamo, puro, prolungato e palpitante. Richiamo lentamorire. Lusinga. Morbida parola. Ma guarda! Le vivide stelle vaniscono. O rosa! Note cinguettanti risposta. Castiglia. Sorge il mattino. Tinnulo tinnulo in calessino tintinnante. Risuonò la moneta. Pendola rintoccò.» E ancora: «Un picchio, un ticchio col chicchiric coccoricoc. Pregate per lui! Pregate, brava gente! Le sue dita gottose schioccanti. Big Benaben. Big Benben. Ultima rosa di Castiglia d’estate lasciato Bloom fiorire mi sento così triste solo. Puii. Venticello zufolò uiiii. Uomini leali Lid Ker Cow De e Doll. Sì, sì. Come voi uomini. Alzerete il cin col cian. Fff! uu! Dove bronzo da presso? Dove oro da lungi? Dove zoccoli? Rrrpr. Kraa. Kraandl.» Ma non ci si inganni. Non si tratta di delirio. La musica è sì fantasia liberata, ma anche rattenuto, freddo rigore formale. L’estro dell’artefice va incatenato a leggi ferree perché non si volatizzi in frivolo ghirigoro. La musica apparirà forse al profano puro ornamento, volteggio, inconscio al galoppo; ma essa obbedisce a regole ben precise, di armonia, di ritmo e, perché no?, anche di contenuto. Proprio perché è l’arte dell’inconscio, la musica è un universo di simboli. Una catena ininterrotta di simboli, connessi gli uni con gli altri secondo leggi elastiche ma non sovvertibili. Un discorso, quindi, con un suo significato.
Metti il morso, Stern, al tuo inconscio al galoppo. Iooooh! Frena, frena, frenetica bestia! Dove corri caracollante cavallo? Tàntaratàntaratàn taratàntatit ungula càmpum.
Relax! Prima di tutto non lasciarsi influenzare. Conservare gelido acume critico. E senso delle proporzioni. Non sei accademico sublime ma lavorante a domicilio. Enciclopedia di quart’ordine. Poche idee ma chiare.
Stern si misura col suo cimento. Joyce. Educazione cattolica. Gesuiti. Senso del peccato. Irlanda: patria e religione. Dedalus. Il labirinto. Uscire alla luce. Telemaco. Esilio. Trieste. Svevo. Il mercante di gerundi. Misogino e monogamo. Dissacratore di ogni valore. Ma con l’orrore dell’adulterio. Dunque sempre cattolico? Edipo. Oreste. Amleto. Nausicaa è una povera zoppa esibizionista. Spiritosone! Ulisse. Genio ma anche rompicoglioni.
E allora? Devi scrivere tre pagine, non un volume. Ri-di-men-sio-na. Anche Ulisse è un universo di simboli; e anche Ulisse è rigore formale. La complessità dell’opera è tale che non si potrà forse mai estrarne l’ultima goccia di succo ottenibile. Ma, a oltre mezzo secolo dalla sua pubblicazione, sembra almeno che l’«ulissologia» abbia raggiunto un risultato definitivo: lo scheletro del romanzo, il suo schema compositivo, è completamente sviscerato. Se non vi è sufficiente sapere che Ulisse è la trasposizione in chiave moderna dell’Odissea omerica; che, come quest’ultima, è diviso in tre parti, la prima corrispondente alla Telemachia, la parte centrale al viaggio e alle varie avventure di Ulisse (Esodos), quella conclusiva al ritorno a Itaca (Nostos); che, più in dettaglio, ognuno dei diciotto capitoli corrisponde a un episodio del poema (Telemaco, Calipso, Ade, Eolo, Lestrigoni, Scilla e Cariddi, ecc.), che, naturalmente, ogni personaggio del romanzo è l’alter-ego di un personaggio del poema (Ulisse-Leopold Bloom; Telemaco-Stephen Dedalus; Penelope-Marion Tweedy; Calipso-Martha Clifford; Nestore-Mr Deasy; Nausicaa-Gertie Mc Dowell, ecc. ecc.); ebbene, esistono decine di «guide» alla lettura di Ulisse che possono soddisfare la vostra curiosità, tabelle addirittura, che in rapida sintesi vi rendono noto che ciascun capitolo: a. si svolge a un’ora diversa dello stesso giorno nella stessa città (Dublino, 16 giugno 1904, dalle otto del mattino a notte inoltrata); b. è sotto l’egida di una scienza o arte (teologia, storia, economia, retorica, medicina, ecc.); c. corrisponde a un organo del corpo umano (reni, genitali, cuore, polmoni, utero, ecc.); d. ha un riferimento simbolico (erede, cavallo, vergine, madre, prostituta, marinaio, ecc.); e. ha un colore predominante (bianco, bruno, verde, arancione, ecc.); f. utilizza una diversa tecnica narrativa; e così via anatomizzando.
Stern, dopo così cruda elencazione, è stanco. Il suo notturno estro scalpita, incatenato. Ha per le mani una di queste «guide». L’occhio gli corre, ansioso, su questa trinaria illuminazione trifase: «Costruito con perfetta simmetria, il libro evoca la trinità cristiana, i tre gradi del bello secondo san Tommaso, le tre età della vita, le tre vie dell’iniziazione, le tre aree di un tempio greco, d’una cattedrale e d’una loggia, il trivio medioevale, il triangolo massonico, i tre movimenti di una sinfonia, i tre termini della dialettica…»
E chi se ne frega!
Preso da autentica ira notturna, Stern scaglia il libretto lontano da sé. Non ha però l’alfieriano coraggio di gettarlo dalla finestra. Con quello che costano.
E perché non il triangolo matrimoniale? Tre è davvero il numero perfetto. Ma non ci aveva già pensato qualcuno?
O Dedalus, perché perderti nel labirinto della pedanteria? Non fosti proprio tu a dirlo? Grandi porte apre il genio per cui poi entra il tentennante bibliofilo calvo, assiduo, dalle orecchie lunghe e dal piede tenero dolcemente scricchiolante. Dunque, senza il genio, non avremmo neppure il bibliofilo, deo gratias! Godete, uomini, ridete, scopate liberamente! Vobis nuntio gaudium magnum! La Cultura è morta. Soffocata: causa mancanza geni apriporta. O forse: esplosa, come teso ventre di ranocchia. Incatenato in una cornice così rigida a leggi ferree e minuziose, si potrebbe pensare che il romanzo attinga a una sua grandiosa unità, sul tipo di quella della Divina commedia o della citata Ricerca proustiana. In realtà, Ulisse è la frantumazione di tutte le sopravviventi unità del romanzo: non solo di quella temporale, ma anche (e questo punto fa di Joyce lo scrittore più «rivoluzionario» del secolo) della sola unità che gli altri innovatori conservano: quella stilistica. Ogni brano dell’opera è scritto, come già accennato, con una tecnica differente, che si sforza di «vestire» la differente situazione: autentico acrobata della lingua, capace di cavarne tutti gli effetti desiderati, Joyce usa la parola non per descrivere ma per riprodurre le sensazioni visive olfattive uditive tattili, i pensieri i desideri i ricordi che di volta in volta sfiorano o colpiscono la coscienza dei personaggi, per incidere nello stesso modo la coscienza del lettore. La lingua diviene quindi uno strumento mutevole, una materia liquida che assume la forma del recipiente in cui viene versata: l’inglese di Joyce si trasferisce rapidamente dai chiostri di Oxford ai marciapiedi dei sobborghi urbani, ricorre a prestiti latini francesi triestini romaneschi e a stupefacenti invenzioni onomatopeiche, si gonfia di artifici retorici, risuona di toni epici, si distende in abbandoni lirici, si snoda in un fiume di immagini prive di interpunzione e di nessi sintattici, per divenire a tratti cavo clangore di sillabe o dolcissima seduzione musicale. Poema dell’esistenza quotidiana? Epopea dell’uomo qualunque? O non piuttosto ricerca sociologica, trattato di psicanalisi, manuale di filosofia, commentario di retorica, enciclopedia medica, pamphlet politico, saggio di teologia, guida liturgica, dizionario tecnico-scientifico, atlante di anatomia, fumetto erotico, album autobiografico? Ulisse non è né l’una né l’altra di queste opere: il virtuosismo «demoniaco» di Joyce le ha scritte tutte contemporaneamente. Quello che alla fine prende risalto dalla sua pagina è l’uomo, tutto intiero, fascio di nervi e di muscoli, completo di ogni sua parte, corpo e intelletto, l’uno all’altro fuso e contorto: se Joyce ha dissolto tutte le sopravviventi unità del romanzo, ha però restituito all’uomo l’unità del suo organismo.
La giornata di Stern è stata feconda. Come una molla che si distenda, balza egli ora dalla sedia e danza per la casa vuota intonando, a mo’ di epinicio, l’apostrofe seguente.
Lode a te, organismo uno e trino. Gloria al padre intelletto, al cuore figlio e alla santa spiritualità del corpaccio nostro gaudente e dolente. Padre Joyce, che sei nei cieli, posa i tuoi occhi sofferenti su di noi, proteggi il tuo umile servo Stern, che elevando oggi a te l’ammirato canto della sua devozione ha guadagnato il pane suo quotidiano con il sudore benedetto della fronte sua. Proteggilo, e tieni lontana da lui ogni tentazione, ma sopra tutte quella rovinosa della letteratura, che Satana con le sue arti malefiche tenta già di insinuargli nel petto. Scrolla via dal capo del tuo umile servo, o padre James, il peccato orribile della superbia. Ricordagli che, come tu hai stabilito, non vi sarà altro romanzo dopo di te. Amen.
La frase di apertura compare in Sogni, seconda sezione del Racconto didattico di , dedicato allo storico dell’arte e critico Mieczysław Porębski (fu compagno di studi del poeta a Cracovia), scritto nel 1959 e pubblicato nel 1962 nella raccolta Nic w płaszczu Prospera (trad. it. “Nulla nel mantello di Prospero” ). In Sogni. Różewicz si immagina di raccontare in sogno al suo amico pittore Andrzej Wróblewski, morto di infarto nel 1957 a soli quarant’anni, suo compagno di studi di storia dell’arte a Cracovia nell’immediato dopoguerra, le impressioni tratte dalla sua passeggiata per le sale della XXX Biennale di Venezia (Wróblewski fu una delle figure di spicco nella scena artistica dell’immediato secondo dopoguerra, solo apparentemente legato alla poetica del realismo socialista, nelle sue opere testimoniò la sofferenza sua e della sua generazione, sopravvissuta agli orrori dell’occupazione nazista e costretta a fare i conti con i dictat del nuovo Regime). Nella prima parte della poesia ritornano i ricordi del periodo bellico, che lasciarono un segno indelebile nella biografia intellettuale e nella creazione artistica del poeta polacco. Tra le nebbie finalmente appare Venezia. Il poeta passando attraverso le sale della mostra dedicata ai futuristi ne raccoglie le impressioni, che riferisce al suo amico, legate ai giochi verbali e agli slogan del futurismo italiano e del dadaismo tedesco (“dadamax ernst” è uno degli pseudonimi di Max Ernst) e finalmente giunge alle sale dove sono esposte le opere di Alberto Burri, l’artista che più di tutti lo colpì (“è vicino al mio cuore/l’immondezzaio della grande città/”).
La figura e l’opera del grande artista italiano non era passata inosservata in Polonia. Era stato lo stesso Mieczysław Porębski, a cui l’intero Racconto didattico è dedicato, a menzionarlo in un suo appunto del 1960 nel quale faceva notare che gli artisti italiani Burri, Fontana e Vedova “avevano qualcosa di vero da dire” . A questa osservazione dello storico dell’arte polacco si rifà il poeta. Il quale, profondamente colpito dalla poetica dell’artista, nel tentativo di comprenderne il senso della sua originale creazione artistica, conia il concetto di “immondezzaio”, che tuttavia egli allarga fino a ricomprendervi anche la propria creazione poetica. Il concetto di “immondezzaio” in Ròżewicz prescinde l’opera di Burri e diventa per il poeta in questi anni una vera e propria ossessione. Nella prima strofa di, Walka z aniołem (trad. it.: Lotta con l’angelo), del 1959, aveva scritto: “Cresceva l’ombra delle ali/ l’angelo canticchiò in falsetto/ le sue narici/ umide mi toccavano/ gli occhi le labbra/ lottavamo sulla terra/ battuta di giornali/ in un mondezzaio dove/ sangue saliva e fiele/ si mescolavano a sterco di parole”[1], mentre così si chiude Biancore: “L’agnellino è disteso/ sul tavolo della vivisezione/ addobbato di verde/ infarcito di speranza/ attorno seggono mucchi di sporcizie/ adorni di pennacchi bianchi/ mossi/ dal vento della storia”[2]. Questo concetto di “immondezzaio” fu uno dei principi compositivi di Kartoteka, pietra miliare del teatro polacco del ‘900, presto tradotto e rappresentato in tutta Europa, che risale proprio a questo periodo (l’opera venne pubblicata e rappresentata nel 1960), caratterizzato da una struttura incongrua, frammentaria e caotica (è abolita l’unità di tempo, spazio e azione) nella quale il protagonista assume diverse età, nomi e mestieri “un signor nessuno che le esperienze della guerra hanno svuotato interiormente e reso incapace di qualsiasi contatto umano”[3] Il linguaggio di Kartoteka, basato su cliché e scimmiottamenti di vari di vari registri stilistici e retorici e l’uso di materiali di risulta della comunicazione (stesso principio adottato anche nel citato poema Racconto didattico), ci ricorda molto da vicino i principi compositivi e la poetica delle opere del grande artista italiano.
Le improvvise aperture nella vita culturale determinate dai cambiamenti del 1956 (il cosiddetto “disgelo”) non avevano scaldato troppo il cuore del poeta, il quale non fu un entusiasta del nuovo corso. Tuttavia l’edizione delle sue opere complete, nel 1957, rappresentò senza dubbio la consacrazione della sua creazione poetica, a cui venivano tributati gli onori di un classico. Nello stesso anno perse la sua amattissima madre e partì per Parigi, dove incontrò Czesław Miłosz (il quale dal 1951 aveva interrotto i suoi rapporti con la Polonia comunista). Malgrado le grandi distanze che li dividevano sia dal punto di vista stilistico che da quello politico-ideologico i due mantennero un vivace rapporto intellettuale e umano per tutta la vita. Al suo ritorno in Polonia, profondamente depresso, comprende che la sua creazione poetica non poteva essere una stanca ripetizione delle sue prime raccolte di poesia, con le quali si era guadagnato una posizione di rilievo nella scena letteraria polacca.
Il volume Formy (“forme”), del 1958, rappresenta sia una rottura nei confronti con le esperienze generazionali sia una apertura verso nuove ispirazioni estetiche riconducibili alle istanze delle neoavanguardie («Quelle forme un tempo così educate/ ubbidienti sempre pronte ad accogliere/ la morta materia poetica/ spaventate dal fuoco e da odore di sangue/ si sono rotte e sparpagliate»[4] dichiarava in Formy). Le impressioni ricevute dalla visita alla XXX Biennale, e in particolare dalla figura umana (nel poema vi sono anche riferimenti alla biografia di Burri) e dalla poetica del grande artista italiano ebbero quindi un ruolo del tutto particolare nella vicenda intellettuale e artistica del poeta polacco, il quale vide e trovò nell’artista di Città di Castello consonanze e ispirazioni che metterà a frutto nella propria creazione artistica.
Il 20 Aprile 2018, a Firenze, il Chiasso Perduto – Galleria d’Arte ospiterà la prima edizione di PartesExtraPartes, rassegna di musica sperimentale, scritture e arti visive.
Durante la serata, dalle 18 alle 22, il programma offrirà al pubblico progetti e ricerche di alcuni artisti contemporanei volti alla sinergia tra linguaggi artistici, tra materiali sonori, proiezioni video, installazioni, scritture, readings, sonorizzazioni.
Il progetto a cura di Alessandra Greco, Simona Menicocci, Roberto Cagnoli e con la collaborazione del collettivo artisti StudioLab di Firenze, ospita in uno spazio libero ventiquattro tra artisti, videoartisti, scrittori, musicisti e fotografi che propongono in modo diversificato riflessioni sul tempo storico, sul tessuto e sulla tessitura del sistema umano, realizzando una macchina espositiva esperita non per se stessa, ma per gli altri, in cui i dispositivi sonori, lo scavo verticale della scrittura nella materia organica, i cut up linguistici e visivi dello scenario contemporaneo e sociale e delle sue criticità, sono elementi volti essi stessi all’interrogazione di ciò che ci circonda, spostando le consuete modalità di sguardo, di comprensione e di attenzione, verso nuove proposte di immaginazione e codifica critica del contesto attuale.
Programma della serata a cura di Alessandra Greco:
NOW!: sonorizzazioni di Roberto Cagnoli (electronics) e Marco Cencetti (tromba).
Erika Giansanti : Electronics & Improvvisazioni per viola a pedale
In permanente:
Sezione Opere/Installazioni a cura del collettivo artisti StudioLab, Firenze:
Sebastiano Benegiamo, Takako Ishii, Leonardo Magnani, Jacopo Rachlik, Emiliano Renzini, Marco Zamburru. Fotografie in esposizione di Andrea Amorusi.
Sezione Video a cura di Simona Menicocci:
Le opere proposte nella sezione video sondano in vario modo i rapporti tra mondo e uomo, tra percezione ed esperienza, attraverso un approccio critico del mezzo visivo volto a una profanazione delle strategie visive odierne, a una messa in crisi del dominio della narrazione, della rappresentazione e delle forme del discorso dominanti, per costruire e mostrare un loro uso differente.
Saranno proiettati video di:
Pietro D’Agostino, Marco G. Ferrari, Nicco Furri, Alessandra Greco, Mariangela Guatteri, Salvatore Insana & Alessandra Cava, Andrea Leonessa, Luca Matti, Simona Menicocci, Luca Rizzatello, Silvia Tripodi.
Il perturbante è alterazione. Se assistessimo alla lenta e metodica trasformazione fisico-chimica delle rocce saremmo costretti ad ammettere un male senza tempo: una modifica così impercettibile da non riuscire a distinguere l’inizio dalla fine. Ora trasponiamo tutto alle narrazioni dell’orrore quelle che generano un suono, una domanda, una percezione che sbatte contro le pareti della nostra testa senza che la sua eco abbia un padrone. Il perturbante è qualcosa di diverso dall’orrore, perché lavora sulla distanza tra sicurezza dell’umano controllo e l’inesorabile ritorno alla cenere.
Ligotti nel suo manifesto dell’orrore filosofico, La cospirazione contro la razza umana, semplifica il perturbante come proprio di «forme sovrumane che fanno sfoggio di qualità umane». Razionalizza così la qualità umana del porre ragione a tutto. Ligotti è il narratore del Male endemico e immanente che ha la stessa probabilità di una malattia fisica. A questo male Orazio Labbate – che più volte ha dichiarato il debito verso l’autore americano – ha aggiunto uno stile personale e una propria teoria dell’orrore. Ha definito, come nelle migliori tradizioni orrorifiche, una geografia ben precisa. Suttaterra, il suo ultimo lavoro arrivato in casa Tunuè, racconta di Giuseppe Buscemi, un becchino trentenne originario di Gela che riceve una lettera dalla moglie defunta.
Tutto inizia da Milton, in Virginia, in un paesaggio brullo e contadino. È proprio nell’anonimia del suo tappeto di granturco che Milton assume quell’isolamento tipico del Sud americano dove tutto accade in una bolla temporale regolata dalle leggi di natura.
Nelle campagne di Milton le magie si consumavano da sempre, sullo sfondo di sempre eguali e indifferenti cosmi. La casa dei Buscemi, squallida eppure maestosa, in un singolare stile vittoriano, si sollevava su due piani. Nerastra e beffarda, innalzava i suoi mattoni scuri arrivando fin quasi ad alterare il confine delle nuvole. L’edificio che le faceva da contraltare, al di là del loro campo, pareva invece cambiare densità al crepuscolo. Era una bianca e lignea chiesa, all’origine metodista, sulla quale risaltava un tetto grigio scuro e screziato, come sopravvissuto a un incendio, da cui svettava uno stretto campanile assommitato da una nera croce di ferro.
Qui è dove Razziddu Buscemi ha contemplato la morte nello Scuru, il precedente capitolo di quella che nella testa dell’autore si prefigura come una trilogia. Proprio a Milton ha perpetrato i suoi deliri, infliggendoli al figlio Giuseppe. L’ossessione del perdono e della redenzione fanno della religione un fanatismo nel quale è semplice passare nel blasfemo. Milton diventa l’origine temporale di un eterno ritorno: punto d’incontro tra un orrore moderno e l’arcaicità della religione che ha radici siciliane. Giuseppe Buscemi si forma in un carapace prestabilito di esaltazione, magia e riti per scacciare l’ignoto e lo indosserà a sua volta senza conoscere tregua.
A fare del mutamento religioso un processo immanente contribuiscono una lingua rinnovata e una commistione scenografica. Lo Scuru sembrava composto come un interminabile incantesimo recitato al ritmo del dialetto. Si avvaleva di visioni nate dal folklore di riti popolari che dallo scherzo della scaramanzia diventavano visioni soprannaturali, punti di accesso alla metafisica del divino. In Suttaterra nasce una seconda generazione dell’orrore con l’abbandono del dialetto e una lingua italiana che da una parte si nutre del continuo riferimento all’entità materica degli eventi («Intanto le stelle cadevano a sassate rigando il buio e ustionando il tetto della Saint Mary’s») e dall’altra fa della contaminazione con l’immaginario statunitense il suo punto di forza. Quando Giuseppe tornerà a Gela, altra tappa della mappa dell’orrore, ricorderà il sapore mefitico della città, a metà tra i fumi dello sviluppo industriale e le origini mistiche. Il luna park si mescolerà al panorama del Petrolchimico creando una diapositiva a doppia esposizione: la cementificazione elimina il paesaggio siciliano e il porto di Gela somiglia a un «mausoleo in cui sembrava dimorassero le ombre. Trionfava di cemento, e il metallo in ogni suo finimento, e le barche scosse dal Mediterraneo, allocate dentro un’insenatura costiera alla sinistra, erano simili a bare»; il luna park è il luogo della perdizione che collega due terre separate dall’oceano attraverso costellazioni fatte di insegne al neon e ballerine disincantate.
A Gela il tempo era scuro. Durante la luna di miele il pendolo dell’orologio fu freddo. La giostra del luna park su cui si erano fermati a sedere era immota. Lui sedeva su un cavalluccio; lei dentro una maldestra riproduzione della carrozza di zucca di Cenerentola. Si toccava la pancia e l’esserino scalciava a ogni ticchettio. La sua zampetta ruminava la parete della vita della madre. Giuseppe scese dal cavallo e la raggiunse lì dentro. Da quando si era sposato aveva l’impressione che gli si fossero acuiti e distorti i sensi, e mentre compiva quel brevissimo tragitto gli parve che la giostra odorasse di tempo e di legno.
In una mancanza di tempo definito l’unico punto fermo sarà Maria, la donna alla quale Giuseppe guarderà come donna angelica. Nelle vicende dei Buscemi le figure femminili si associano alla dolcezza del perdono. Quando nello Scuru Razziddu giace con Rosa abbiamo la visione di affondare nel corpo femminile, di penetrarlo per trovare conforto oltre ogni peccato: «Piangeva silenziosamente il ragazzo e Rosa Marturana lo amava. Amava la sua propensione all’alienazione corporea». In Suttaterra Maria sarà una figura chiave, una luce che brillerà come unico appiglio alla realtà, una boccata di ossigeno atemporale per riemergere dalla discesa negli inferi, salvifica e demoniaca allo stesso tempo. Più reali, paradossalmente, saranno le guide di Giuseppe, il neonato del luna park e il nano che lo condurranno in una divina commedia capovolta – con tutte le distinzioni del caso. Il percorso redentivo nelle composizioni di Orazio Labbate assume diverse forme la cui risposta non corrisponde alla vera e propria liberazione dal peccato. Nella tradizione della scrittura del sud americano Flannery O’Connor definiva il grottesco come un’improvvisa rottura dell’equilibrio: le caratteristiche dei personaggi «si allontanano dai modelli sociali tipici, in direzione del mistero e dell’imprevisto». Lo sguardo indifferente della natura, la contemplazione della catastrofe dei protagonisti che assaporano l’estasi, in Labbate non corrispondono a una vera e propria ricerca e accettazione della salvezza. Percorrendo i suoi racconti di Stelle Ossee al timore del peccato e all’arrivo della redenzione l’autore siciliano sostituisce una ragnatela di nuovi valori: gli episodi incendiari del racconto Case infestate permettono ai due protagonisti di soppiantare il vecchio significato di purificazione; il povero Vinny Butera contempla la visione del proprio battesimo in una terra lontana dalla patria, dove il monoteismo delle origini viene sostituito da nuove divinità in Madonna verde.
È proprio l’indugio nel peccato, più del peccato stesso, a costituire materia viva per le storie di Orazio Labbate. I suoi personaggi si muovono continuamente tra il conforto della tradizione e la tentazione dell’ignoto: domandano al buio di prenderli, ma non indossano il volto della vittima perché sanno di impersonare il ruolo universale del peccatore. I paesaggi si plasmano su di loro passando dall’ampio respiro della campagna all’asfissia della metafisica demoniaca che diventa reale. Un procedimento personalissimo che fino ad ora ha saputo unire l’attenzione alla lingua e una caratterizzazione che non si ferma al regionale ma travalica i confini scovando profonde similitudini.
Il marito di Candida morì all’improvviso: adesso nessuno poteva più interromperla durante le sue letture. Col passare degli anni però il suo corpo cominciò ad indebolirsi, così Candida decise di andare a vivere in una casa di riposo: aveva ormai più di novant’anni. Il nipote, ad ogni visita, le portava delle casse piene di libri, «soprattutto romanzi e poesie». Candida in poco tempo esaurì quella piccola biblioteca, eppure, durante l’ultima visita, disse al nipote di non volere più libri, e di portare via tutti quelli che aveva nella sua stanza: «I medici le avevano detto che stava perdendo la vista. In pochi mesi sarebbe diventata completamente cieca. E più leggeva più l’evoluzione della cecità sarebbe stata rapida».
Candida è la protagonista della pièce By Heart. Apprendre par coeur (Les Solitaires Intempestifs, 2015), scritta e portata in scena dal portoghese Tiago Rodrigues. Candida è anche la nonna di Tiago, il narratore. Dopo una vita passata dietro i libri adesso Candida se ne vuole liberare, per ritardare la perdita definitiva della vista. Ma ha anche un’altra richiesta da fare al nipote: difatti vorrebbe consacrare «ciò che le resta della sua vista ad imparare un libro a memoria». O meglio: par cœur. By heart. Il libro definitivo, quello che resterà impresso nella sua testa; il libro che potrà leggere mentalmente quando gli occhi non funzioneranno più. E dovrà essere proprio suo nipote a sceglierlo: «Torchiato dal tempo devo compiere questa terribile missione» afferma un inqueto Tiago.
Candida si è ritrovata nella stessa condizione di uno dei lettori più persuasivi che conosciamo: Jorge Luis Borges. «C’è una foto in cui si vede Borges che tenta di decifrare le parole di un libro che tiene in mano, attaccato alla faccia. Si trova in una delle gallerie alte della Biblioteca nazionale di calle México, accovacciato, lo sguardo contro la pagina aperta»: in questo breve e malinconico ritratto, Ricardo Piglia (L’ultimo lettore, Feltrinelli, 2007) ci racconta di un Borges ormai cieco ma mai domo, che nonostante tutto non sembra voler rinunciare alla lettura; ed è lecito ipotizzare che sia stata proprio la lettura la causa della sua cecità. Quelle di Candida e di Borges appaiono allora come delle figure archetipiche del cosiddetto “ultimo lettore”: quel lettore che ha passato la vita leggendo, che ha bruciato i propri occhi nella luce della lampada. «Ora sono un lettore di pagine che già non vedo più» diceva Borges di se stesso, e giustamente Piglia ci ricordava che «nella chirurgica arte di leggere non sempre chi ha la vista migliore legge meglio».
Borges conosceva numerosi, forse innumerevoli, testi a memoria. A Candida invece bastava impararne uno: l’ultimo. L’arte d’imparare a memoria viene considerata fondamentale da George Steiner, che sosteneva che «imparare a memoria significa essere in un rapporto stretto e attivo con il fondamento stesso della nostra essenza» (Le silence des livres, Arlea, 2006). E non è un caso che Tiago si rivolga proprio a Steiner, cui spedisce una lettera manoscritta nel suo studio di Cambridge, per dirimere la gravosa questione dell’ultimo libro da consegnare agli occhi di Candida. Tiago difatti si era appassionato ad una conferenza dal titolo Bellezza e consolazione (Beauty & Desolation), vista su Youtube, nella quale Steiner parlava dell’apprendimento a memoria come atto di resistenza. Resistenza alle dittature, ma anche resistenza alla morte e all’oblio. In questo discorso viene evocata, tra le altre, la storia di Nadejda Mandelstam, che riuniva nella sua cucina dieci persone per imparare a memoria una poesia del marito, Ossip Mandelstam, perseguitato e torturato dal regime stalinista; per ogni poema dieci persone; al sessantesimo poema erano già in seicento ad aver imparato a memoria quei versi. In seguito quelle poesie avrebbero dovuto essere trasmesse ad altre dieci persone, e poi altre dieci ancora, e così via: una catena indispensabile agli occhi di Nadedja (che in russo significa “speranza”), perché bisognava «affidare alla memoria ciò che non si poteva affidare alla carta».
Ma la resistenza steineriana è anche un rimedio contro il fuoco: chi non si ricorda di Guy Montag, il pompiere di Fahrenheit 451 di Ray Bradbury (Mondadori, 1966)? A quel tempo i pompieri non spegnevano i fuochi, ma li accendevano: più precisamente bruciavano i libri vietati. Un giorno, mentre mettevano al rogo libri e giornali nella casa di una vecchia signora, un libro cadde tra le mani di Montag, e il pompiere non riuscì più a liberarsene. Da quel momento in poi iniziò a svilupparsi il suo amore per i libri, che lo portò alla fine a raggiungere la cosiddetta resistenza. Ma che cos’era la resistenza? Erano uomini e donne che imparavano i testi vietati a memoria. Poi li bruciavano, per non essere presi in flagrante, e aspettavano; aspettavano il momento in cui avrebbero dovuto recitare quei libri affinché venissero ristampati. Quando Candida chiede al nipote il favore di scegliere il testo che dovrà imparare a memoria, Tiago sta leggendo proprio Fahrenheit 451, e quella vecchia signora della casa presa d’assalto dai pompieri incendiari, gli fa venire in mente sua nonna: perché anche lei, la vecchia signora, guardava con gli occhi ormai vuoti i propri libri morire, e la sua vita scivolare via dentro il fuoco dell’oscurità.
Sempre George Steiner, in un saggio dal titolo Quelli che bruciano i libri (in I libri hanno bisogno di noi, Garzanti, 2013), ritorna sulla annosa questione dell’inquisizione libresca: «Quelli che bruciano i libri, che mettono al bando e uccidono i poeti, sono ben consapevoli di ciò che fanno. È incalcolabile il potere indeterminato dei libri. Ed è tale proprio perché il medesimo libro, la medesima pagina può avere sui lettori gli effetti più disparati». È interessante notare come Steiner, che qui evoca la forza illimitata dei libri, in Le silence des livres insista sul fatto che oggi ci stiamo dimenticando che i libri sono vulnerabili, e che, come ogni produzione umana, possono essere distrutti; un rischio ben riassunto proprio da Borges: «Le cose, su Tlön, si duplicano; ma tendono anche a cancellarsi e a perdere i dettagli quando la gente le dimentichi» (Finzioni, Einaudi, 1955). L’educazione moderna agli occhi di Steiner non contribuirebbe di certo a superare quest’oblio, anzi: essa «svuota lo spirito del bambino, sostituendo all’apprendimento “a memoria” un caleidoscopio transitorio di saperi sempre più effimeri. Installando, financo nei sogni, il magma dell’omogeneità e della pigrizia». La stessa visione pessimistica la ritroviamo in Luigi Meneghello, che nel testo Le valenze della lettura (in Jura. Ricerche sulla natura delle forme scritte, Garzanti, 1987) pone l’accento su come a scuola «si privilegiano lo scrivere e il parlare nei confronti della lettura». Secondo l’autore veneto «l’idea di far leggere dei libri per intero per semplice curiosità» mancherebbe del tutto nella scuola, mentre sarebbe necessaria una contro-educazione fondata sulla lettura, «un’attività formativa e cordiale, […] nella quale il mondo prevale su di te, e quest’effetto anziché mortificarti ti esalta. Più ti appaiono diverse e plurime le cose con cui non c’entri, e più ti senti a tuo agio, […] e l’idea che sia tu il tuo custode svanisce».
Ciò che sottolinea Meneghello, e con lui Steiner, è che il sistema, in primis quello educativo, senza più bisogno di roghi pubblici, tiene in ostaggio libri e potenziali lettori, facendo dei primi degli hrönir, per ritornare alla Tlön borgesiana, ovvero oggetti secondari, «creature della dimenticanza e della distrazione». Michel Crépu, critico letterario francese, ritiene che in un contesto come quello odierno, nel quale il silenzio della lettura è ormai connotato come il più strano degli esotismi, quella esperienza capitale, sorta di iniziazione al mondo, «venga impedita o addirittura vietata». Ma allora in che modo è possibile salvaguardare l’esercizio della lettura (e della letteratura)? Lo stesso Michel Crépu propone una soluzione-rimedio: in un testo in appendice a Les silence des livres di George Steiner (Ce vice encore impuni), Crépu parla della “clandestinità della lettura”: «Vi giuro, quando penso ai libri non vedo dei roghi, vedo un ragazzo seduto nel fondo di un giardino con un libro sulle ginocchia. È là e non è là; lo chiamano, è la famiglia. […] Andare o no? Il libro o la famiglia? Scegliere il vizio (impunito) o la virtù (ricompensata)?». Il ragazzo decide di rispondere al richiamo della famiglia, ma la lettura, come sostiene Crépu, gode di una certa impunità, per cui si può stare in mezzo agli altri continuando clandestinamente le proprie operazioni. Il giovane ragazzo ha obbedito all’ingiunzione, fa finta di ascoltare, ma nel frattempo nella sua mente scorrono le immagini di Michel Strogoff che corre nella steppa: «Egli continua a tradire pensando ad altro. Non si legge a tavola? Non fa niente, il libro continua a leggersi in lui». Si rivela dunque necessario seguire l’esempio del ragazzo nel giardino (e quello di Nadejda e di Montag): bisogna tornare alla clandestinità affinché il vizio sopravviva impunito.
Ma c’è un’altra componente da prendere in considerazione: oggi ci troviamo in un’epoca caotica, una realtà che è stata profondamente modificata dal dilagare di internet e delle nuove tecnologie, nella quale il sapere è teoricamente aperto e accessibile a tutti come mai lo era stato prima. Eppure, secondo Crépu, «non è mai stato così difficile trasformare questo sapere in arte». Perché manca qualcosa di essenziale: la pazienza, il silenzio, «ovverossia il tempo, quindi la noia». La domanda che ne consegue è abbastanza ovvia: qual è l’effetto di questa nuova realtà sulla lettura e sulla funzione dei libri? Forse una risposta in tal senso ce l’ha data Pierre Bayard: non c’è tempo né ci sono le condizioni per leggere. Bisogna semplicemente parlare dei libri senza averli letti (Comment parler des livres que l’on n’a pas lus?, Minuit, 2006). Perché «la lettura non è solamente conoscenza di un testo o acquisizione di un sapere. Essa è anche, a partire dal momento in cui ha inizio, coinvolta in un irreprensibile movimento di oblio». E mentre cominciamo a leggere stiamo già iniziando a dimenticare.
Bayard in questo saggio-finzione dal tono ironico e provocatorio, parla «in qualità di non-lettore» e vista la sua approfondita esperienza in materia decide di addentrarsi in una riflessione a proposito di quello che è a tutti gli effetti un tabù: perché è quasi impossibile parlare di non-lettura «visti i numerosi divieti da infrangere» (come quello per esempio di non aver letto i testi considerati canonici). L’intento dell’autore appare in realtà quello di smascherare una certa ipocrisia che ruota attorno ai libri, e in particolare di desacralizzare il rapporto lettore – testo (e quindi anche quello non-lettore – testo). Agli occhi di Bayard la nostra relazione con i libri non è un processo continuo e omogeneo, e nemmeno il luogo di una conoscenza trasparente di noi stessi, «ma uno spazio oscuro infestato da brandelli di ricordi, e il cui valore, compreso quello creativo, è legato agli imprecisi fantasmi che vi circolano». In sostanza la non-lettura è un atto di creazione che ci libera dal peso di una certa cultura, e che si pratica anch’essa in una sorta di clandestinità. Un’evoluzione necessaria secondo Bayard, «per sbarazzarci di tutta una serie di divieti, spesso incoscienti, che pesano sulla nostra rappresentazione dei libri e ci conducono a pensarli, fin dai nostri anni scolastici, come degli oggetti intangibili, e dunque a sentirci in colpa ogni qualvolta gli facciamo subire delle trasformazioni».
Piglia in L’ultimo lettore, a proposito di Tlön, parlava di un universo saturo di libri, dove tutto sta scritto, solo si può rileggere, leggere in un altro modo. Per questo «una delle chiavi del lettore inventato da Borges è la libertà nell’uso dei testi, la disposizione a leggere secondo i propri interessi e le proprie necessità». Questa arbitrarietà borgesiana, una certa inclinazione a leggere male, è il marchio del lettore di Borges, assolutamente autonomo. Per Bayard invece, nell’universo odierno saturo di libri e di segni, non solo si può rileggere: si può anche non-leggere, perché la finzione non dipende solo da chi la scrive o da chi la legge, ma anche da chi non la legge, parlandone. Senza sensi di colpa. «Ora sono un lettore di pagine che già non vedo più» diceva Borges, e ben presto lo dirà anche Candida. Attraverso una forzatura potremmo considerarli, con Bayard, non più l’archetipo dell’ultimo lettore, ma l’archetipo dei primi non-lettori, legati solo ai loro ricordi. Che i libri li portano dentro di sé, per cui impunibili nel loro vizio.
Una questione rimane ancora irrisolta: quale sarà l’ultimo libro di Candida? Steiner in Beauty & Desolation raccontava questo aneddoto: «1937, congresso degli scrittori sovietici. L’anno peggiore. Le persone cadevano come mosche, tutti i giorni. Gli amici di Boris Pasternak si riunirono attorno a lui e gli dissero: “Se parli durante il congresso ti arresteranno. E se non parli ti arresteranno lo stesso, per insubordinazione ironica”». Il congresso durò tre giorni, e Pasternak non proferì parola. Ancora Steiner: «Al terzo giorno fu preso da parte dai suoi amici: “Qualunque cosa tu faccia ti arresteranno. Per favore, dovresti dire qualcosa. Qualcosa che potremo conservare in noi, quando sarai in prigione”. Pasternak era un uomo incredibilmente bello. Misurava più di un metro e ottanta. […] Pasternak si alzò, mi dissero che il silenzio si sentiva fino a Vladivostok. E quando Pasternak salì sul palco gridò un numero. Un numero e duemila persone si alzarono in piedi». Si trattava del numero di un sonetto di Shakespeare tradotto da Pasternak, il trenta, un sonetto sulla memoria. Duemila persone si alzarono in piedi e recitarono il sonetto a memoria. Che cosa voleva dire quel gesto? Voleva dire: «Voi non potete toccarci, non potete distruggere il fatto che conosciamo a memoria ciò che Pasternak ci ha dato». Pasternak non venne arrestato.
Perché siamo quello che ricordiamo, come dice George Steiner, e quello che è in noi nessuno ce lo può prendere. «Ho offerto i sonetti di Shakespeare a Candida» afferma Tiago alla fine della pièce. Candida li ha accettati senza fare domande. Era contenta di ricevere delle poesie, perché sono senza fine, «e in questo momento preferisco le cose senza fine». Il giorno del novantaquattresimo compleanno di Candida, Tiago decise di farle una sorpresa: si recò con dieci persone alla casa di riposo, di modo che potessero imparare da Candida un sonetto a memoria. Si sedettero di fronte a lei: «Non era ancora cieca, ci poteva vedere, ma non ci riconobbe. Ignorava chi fossero quelle persone davanti a lei. E quando le parlai non capì chi stava parlando. Le chiesi “E i sonetti? Ti ricordi un sonetto?”». Candida, come la vecchia di Bradbury, aveva gli occhi vuoti che guardavano il muro. Sembrava non ricordasse più niente. Dopo un leggero movimento degli occhi iniziò a parlare. A recitare: un sonetto di Shakespeare, il numero trenta. La vista volava via, il vizio invece era rimasto impunito.
Quando alle Assise del muto e gentil pensiero
convoco memorie di cose passate,
sospiro per ciò che invano ho ricercato,
e per antiche pene piango ancora lo spreco del mio tempo amato;
posso allora annegare gli occhi (non usi a sgorgare)
per amici preziosi nascosti nella notte infinita della morte,
e piango ancora pene d’amore da tempo condonate,
e lamento la perdita di molte viste svanite.
E soffro per passate sofferenze,
e di dolore stanco riconto
la triste lista di lamenti lamentati,
che pago ancora come se non pagati.
Ma se per caso ti penso (caro amico)
ogni perdita è risarcita, e ha fine ogni tormento.
(Trad.: Dario Calimani. Cfr. Dario Calimani, William Shakespeare: i sonetti della menzogna, Roma, Carocci, 2009, pp. 70-71)
( pubblico questo brano tratto dal romanzo di Roberta Salardi Ventriloquio della crisi, Milano, Effigie, 2017, g.m.)
“Ragazzi, volete sapere l’ultima?”
“Be’… ragazzi… adesso non esageriamo….”
“La notizia merita un sussulto di entusiasmo e di ringiovanimento. Ragazzi, udite udite: le infermiere sono salite sul tetto! Stanno protestando contro le minacce di licenziamento!”
“Stai scherzando? Qualcuno ha parlato di licenziamenti?”
“Sì. Girava voce di prossimi tagli del personale.”
“Non si sapeva quando però… Era un’ipotesi…”
“Recentemente è diventata più chiara, è stata formalmente espressa dall’azienda.”
“Aspetta aspetta… Sono salite sul tetto con gli zoccoli e tutto, proprio con la divisa e le scarpe da infermiere?”
“Ma perché t’interessa?”
“Così… mi sembra piuttosto scomodo…”
“Sono salite con giacca a vento, sciarpe, cappelli per il freddo e addirittura delle piccole tende da campeggio perché hanno intenzione di dormire lì…”
“Che forza!”
“Una di loro è Graziella, la conosco. E’ sola con due figli da mantenere. Ancora adolescenti. L’unico stipendio è il suo; sarebbe un grosso problema per lei restare improvvisamente senza lavoro…”
“Un’altra è Margherita, la conoscete? Ha quattro figli e un marito in cassintegrazione.”
“Il coraggio ti viene per forza in certi casi.”
“Sapete che vi dico? Dobbiamo aiutarle!”
“Dobbiamo armarci di forza e coraggio e andare anche noi sul tetto a portare la nostra solidarietà!”
“Forse è la volta buona che si torna giovani…”
“Mi sento già scorrere altro sangue nelle vene…”
“Saliamo, saliamo!”
“Andiamo a vedere!”
“Uniamoci alla lotta!”
“Andiamo a vedere chi c’è!”
Le donne salivano sui tetti, i quasi-pensionati e i cassintegrati restavano sospesi a mezz’aria, in spaccata, da una situazione all’altra… Tutta quell’aria fresca aveva schiarito le idee. Le idee erano molto più chiare adesso, e anche i progetti.
“Ma che dici? Questo è solo un chiacchiericcio, cicaleccio, ventriloquio collettivo, scilinguagnolo, scioglilingua… blablabla… parole vuote… tutto fumo e niente arrosto… Qua non si combina niente…”
“Ma che vuoi combinare?”
“Questo lo dici tu, che non si combina niente… Ragazzi, andiamo!”
“Andiamo a portare la nostra solidarietà!”
“Il nostro aiuto!”
“Siamo qui! Ci siamo anche noi!”
Qualcuno si era portato anche la bandiera, ma quella coi pesci, con tanti pesci piccoli che mangiano il pesce grosso.
Un discreto gruppetto di pensionati era riuscito a raggiungere le nostre eroine e si era fatto spiegare il perché e il percome.
Volevano lasciarne a casa un bel po’, circa la metà. Qualcuno parlava addirittura di chiudere prima o poi la struttura perché rendeva poco, dava molte spese che non si sapeva per quanto tempo ancora si potevano sostenere. I posti letto comunque dovevano essere ridotti. Per un certo numero di degenti era previsto il trasferimento in una struttura più grande (un posto dove nessuno voleva andare perché troppo grande, una specie di casermone grigio e malfamato con dentro troppi pazienti tutti trascurati, si diceva, forse legati e picchiati…).
“Andiamo a dar manforte!”
“Ne va anche di noi!”
Mia figlia era accorsa e seguiva da vicino la situazione. Un po’ si teneva in contatto col telefonino un po’ ci veniva a trovare.
Alla fine anche i più coraggiosi dei vecchietti salirono a far tremare le tegole (perfino le tegole tremavano per paura di un’imprevedibile caduta!). Io no perché ero in carrozzella, ma li sostenevo dabbasso con un bel po’ di fiato quando si trattava di parlare nell’altoparlante. La voce certo non mi manca.
Tutte le antenne erano puntate sul gruppetto dei coraggiosi facinorosi.
Ciononostante, qualche maligno malignava: “Macché occupazione e occupazione… Quelli sono saliti all’ultimo piano a ballare con le infermiere! Li sento io che cantano e ballano tutto il giorno…”
Non era vero. Tutte le antenne, i giornali e i telegiornali erano puntati sui ribelli, non più ribelli al voto ma ribelli ai tagli e ai licenziamenti.
Nei momenti di massima adesione della folla io impugnavo il megafono e facevo il mio discorso molto incoraggiante.
Non bisognava perdere il coraggio e le energie.
Si organizzarono turni per sostituire temporaneamente le nostre eroine. Salì pure qualche mamma con i bambini al collo (mogli di alcuni infermieri). Così ci fu un momento che donne, vecchi e bambini erano gli eroi della situazione.
Qualcuno continuava a non crederci e diceva che erano favole, discorsi di una vecchia arterioscheletrica…
Macché arterioscheletrica e arterioscheletrica! Pensate pure quello che vi pare, ma c’erano le tivù a documentare il tutto e anche di più: l’osabile e il non osabile, il facile e il difficile, il pensabile e il fattibile.
Una volta il ritornello era Silviocè; adesso era diventato lacrisicè. Si lasciava andare il disco tutto il giorno.
Una cosa molto seria, da prendere sul serio ma anche un po’ allegramente.
Tant’è vero che si faceva festa. Ci arrivavano torte e manicaretti fatti dalle madri di famiglia per tenerci su. Le amiche delle infermiere e le figlie dei vecchietti saliti agli onori della cronaca ci mandavano ogni giorno nuove prelibatezze fatte in casa con amore e con risparmio.
E se qualcuno diceva: sul tetto ci sono i pensionati che ballano con le infermiere, poteva anche essere vero, tale era l’entusiasmo che ci aveva preso…
Voi non ci crederete ma io mi divertivo un mondo.
Si raccontava che nelle tende del presidio, in quei piccoli iglù piantati da settimane al freddo e al gelo di notte non c’era certo da star bene; ed era vero; ma di giorno in compenso c’erano sempre tante cose da pensare e da organizzare e le malinconie ce le scordavamo tutte.
Eravamo noi le antenne, puntate con tutti i nostri sensi verso il futuro. Ero io la disc-giocchei della situazione. Non ridete, la cosa era massimamente seria, un divertimento serio e pure allegro.
Ero in onda su tutti i canali, su tutti gli schermi, reali e immaginari.
“Be’, ora non esageriamo!”
Ero l’antenna più sensitiva, più intuitiva di dove si stava dirigendo il mondo come un dirigibile o mongolfiera… Stava salendo il suo quoziente di gradimento e anche il suo quoziente d’intelligenza secondo me. Stava prendendo quota un mondo bellissimo mai visto prima.
Ballare sul tetto come i gatti era diventata l’ultima specialità. Ma non pensate a una passeggiatina di quelle che fate abitualmente in cortile o ai giardinetti… Gioco di equilibrio e di squilibrio insieme, vertigine e massima concentrazione… Non bisognava perdere una sola battuta degli altoparlanti e dei protagonisti tutti, che erano tantissimi. Non bisognava lasciarsi sfuggire un qualunque nullissimo nonnulla.
Bastava poco per perdere di vista il quadro generale. E il quadro d’insieme era importante per dirigere il nostro dirigibile…
Un partito prima delle elezioni ci aveva fatto parlare su un palco in una grande piazza. Era il partito dei grilli parlanti e saltanti. Capitò di vedere salti molto alti e acrobatici. Nessuno poteva immaginare il punto di arrivo…
Era un piacere finalmente che la storia si era messa a correre, aveva le ali ai piedi… Girava pure la testa per tutto quel vuoto, quello spazio nuovo che si aveva attorno al dirigibile o alla mongolfiera.
D’ora in poi potevamo votare con il compiuter e trovarci tutti nell’internèt.
Ma, ripeto, non pensate a cose che scorrono lisce lisce o a qualcosa del genere, a uno scivolare morbido da una cosa all’altra o di una cosa nell’altra…
La vertiginosa altezza che ci stava intorno ci spaventava pure qualche volta. La spericolatezza ci sbilanciava.
Non si guardava né su né giù.
Nei momenti della massima incertezza una sola immagine chiara ci veniva in mente: i nostri uomini politici, aggrovigliati e ammatassati insieme, che se ne andavano in un unico grosso nodo indistricabilmente annodato spazzato via da una scopa forsennata…
Eravamo molto sbilanciati, spericolati, un po’ teste matte, un po’ agitatori dell’Anno zero, un po’ agitati ed esagitati, un po’ infervorati ed entusiasmati… Volevamo le cinque stelle e molte di più…
Piersandro Pallavicini, La chimica della bellezza, Feltrinelli, 270 pagine
Massimo Galbiati, professore di chimica di mezza età che ha conosciuto la passione per la ricerca scientifica pura e, al contempo, la frustrazione di un sistema universitario gretto e incapace di mettere in luce il suo talento, non ha alcuna voglia di accompagnare il professor de Raitner ad un convegno a porte chiuse a Locarno. Ma l’arcigno barone non ammette repliche. Galbiati gli deve fare da chauffeur, dato che il professore non è nelle condizioni di guidare la sua bellissima jaguar, avendo ormai centoquattro anni. E un cane bassotto che non sopporta i rumori molesti. E una moglie che sembra una mummia egizia.
Basterebbero queste premesse per comprendere la tonalità dell’intero romanzo di Piersandro Pallavicini. Da qualche anno Pallavicini ha liberato nei suoi ultimi romanzi la sua scatenata vena brillante. Ne La chimica della bellezza si sorride. No, di più. Spesso si ride fino alle lacrime. Le situazioni paradossali dove il protagonista si ritroverà nel corso della trama sono meccanismi così ben oliati da fare dell’autore un maestro della commedia. Ma senza mai cadere in viete volgarità. Ché è di scienza che si parla. Di chimica. La materia che non abbiamo mai compreso a scuola.
Pallavicini, che è chimico nella vita, ne conosce l’intima bellezza. E riesce a trasmettere nelle sue pagine, grazie a una scrittura lieve e garbata, il suo amore per la disciplina. Non mancano colpi di scena, agnizioni, intrighi. Ma la vera scommessa dell’autore è aver distribuito per tutto il romanzo puntuali digressioni e didascalie sul mondo sconosciuto della sua disciplina riuscendo al contempo a non essere mai didascalico. L’Io narrante, che così tanto gli somiglia, trasmette un entusiasmo vero per la sua materia. Al punto che si chiude il libro, e asciugate le lacrime, viene voglia di aprire il vecchio, impolverato, manuale di chimica.
(precedentemente pubblicato su Cooperazione, numero 44 del 31 ottobre 2016)
C’è sempre un risarcimento
un ciottolo di selce levigato
una disposizione del carbonio che scintilla
o il fuoco addomesticato
a sedimentare la memoria del cosmo. L’istante
dove spunta l’inizio dei pensieri
la nascita.
Ci saranno dissolvenze, la grazia di frammenti
provenienti da lontano, nelle foto
nei diagrammi dei ricordi. Solo una scena si ripete
sbucando da un’epoca scolpita
nel tepore di un’auto in partenza, in un viso trasformato.
Un dettaglio marginale – sepolto o inaccessibile –
che compensa l’angoscia
la distanza sconfinata dalle stelle.
***
Per legge fisica e per dinamica del tempo
dovrà accadere che questo sterminato fiorire di stelle
verrà a riflettersi nel vuoto oscuro
restando sottopelle. La singolarità delle parole dette
riaffiorerà – insieme ai silenzi laboriosi –
dalla polvere smossa dei deserti
con una presenza che affollerà la mente
più di ora che il respiro ci fa forza.
Un nome circonderà le soste
e i segni sulle pietre rimosse
saranno dilatati, restando ai margini dei volti.
Ci stringeremo in un più breve spazio
e violeremo la nostra segretezza
cercando l’eterno
in ogni fotogramma del ricordo
nell’indaco del cielo che si rinnova agli occhi.
***
(per Maria Teresa)
Ti invito a pensare al microcosmo degli eventi
come induzione della vita
e se l’estensione svilisce
reclamane la forma nelle tue azioni giornaliere
e il taglio netto dello sguardo sulle cose.
Hai mura spesse
che ti vincono e proteggono,
tutti i sogni ciclostilati in questi oggetti
(dalle giunture perfette) sbiadiscono
se arrendi i tuoi pensieri e le parole.
Sei noi
scaraventati dal temporale,
la grandine che ha reso i suoi fregi alle piante
e spezzato i fiori.
Cerca – nell’acqua fragile – l’amicizia del sole.
***
Nota critica di Salvatore Ritrovato
Domenico Cipriano, L’origine, L’arcolaio, Forlì, 2017 (su: PUNTO – Almanacco di Poesia, 3 gennaio 2018).
Quello che mi ha da sempre colpito della poesia di Domenico Cipriano è la sua versatilità, una dote non comune fra i poeti di oggi. Versatilità soprattutto formale, che non discende da una indecisione stilistica, bensì dal dubbio che la poesia non debba inseguire il verso, se mai il contrario. Rispetto a Novembre (Transeuropa, 2010) e a Il centro del mondo (Transeuropa, 2014), alcune delle più importanti raccolte di Cipriano, L’origine (L’arcolaio, Forlì, 2017) spicca per una più marcata estensione della sonorità timbrica del verso che non si appaga più di misure metrico-ritmiche fisse e regolari, ancorché chiuse, e predilige invece il taglio obliquo, sghembo, di una voce che si ferma e ricomincia proprio nel punto in cui l’immagine, quale si snoda nel verso, ad ogni ripartenza fino all’a-capo, libera ormai lo slancio lirico.
Ne deriva una “forma-testo”, per questa nuova raccolta, che non possiamo dire del tutto inedita nella poesia di Cipriano, dal momento che si apparenta, almeno nella costruzione del fraseggio, a quella della musica jazz, le cui forme compositive, di là dai differenti generi – sia qui lecito semplificare – si caratterizzano per una sviluppo della linea melodica fra sincopi ed extrasistoli, e per quella capacità propria di improvvisare di volta in volta (ed è qui il senso di libertà che esso procura) un’idea musicale. D’altronde, Domenico Cipriano, cultore di musica jazz, da molti anni è impegnato a esplorare la frontiera tra poesia e musica con varie formazioni di jazz-poetry, in particolare il progetto JPband, insieme al musicista Enzo Orefice e all’attore Enzo Marangelo, con i quali ha realizzato il CD JPband: le note richiamano versi (Abeat records, 2004). Non saprei dire quanto questa esperienza abbia influito sulla poesia di Cipriano, e non credo sia necessario in questa sede stabilirlo; senz’altro, i brani concepiti per JPband rispecchiano la costruzione di un “assolo” con note e sillabe legate tra loro, secondo un preciso sistema di rispondenze, in una nuova avvolgente forma-testo che si protende, come ora dimostra L’origine, ad accogliere il mondo nel suo «intimo inizio», ovvero con uno sguardo in grado di coglierne l’incanto “incipitario”, ancorché disposto a non sottovalutarne gli aspetti meno appariscenti, i dettagli più nascosti, e insomma a restituire la realtà (ricordi, episodi, incontri) nella sua articolata e non di rado sottovalutata complessità.
Lirica? Sì, una lirica da eseguire sulla traccia – come avverte l’autore nella Nota al testo – di brani jazz (citati in apertura alle tre sezioni) che danno il la ideale alla lettura, senza forzarne la lettera: una sorta preludio emotivo che la parola assorbirà nella sua ostinata calorosa fiducia, traducendolo in un segno orfico di salvezza («Di ogni gesto di delicatezza o gemito / scegliamo la grazia per ricondurci al mondo»).
traduzione di Giulia Zavagna per Liberaria Editore (marzo 2018)
Toute nostalgie est un dépassement du présent.
Même sous la forme du regret, elle prend un caractère dynamique:
on veut forcer le passé, agir rétroactivement, protester contre l’irréversible.
La vie n’a de contenu que dans la violation du temps.
L’obsession de l’ailleurs, c’est l’impossibilité de l’instant;
et cette impossibilité est la nostalgie même.
E.M. Cioran
Capitolo 1
Ricordi…? È un fatto indubitabile che proprio nel momento in cui Farabeuf varcò la soglia della porta, lei, seduta in fondo al corridoio, agitò le tre monete nell’incavo delle mani giunte e poi le lasciò cadere sul tavolo. Le monete non toccarono la superficie del tavolo nello stesso momento e produssero un lieve tintinnio, un leggero rumore metallico, appena percettibile, che si sarebbe potuto prestare a numerosi fraintendimenti. A dire il vero, non è possibile precisare nemmeno la natura concreta di quel gesto. I passi di Farabeuf che sale le scale, trascinando lentamente i piedi sui pianerottoli o il suo respiro affannato, che arrivava fino a te attraverso le pareti foderate di carta da parati, alterano completamente le nostre congetture sull’indole esatta del gioco che lei stava giocando nella penombra di quel corridoio. È possibile, comunque, ipotizzare che si trattasse del metodo cinese di divinazione mediante esagrammi simbolici. Il rumore che facevano le tre monete cadendo sul tavolo lo lascia supporre. Ma l’altro rumore, quel rumore forse di passi che si trascinano o di un oggetto che scivola sopra un altro producendo un suono simile a quello di passi che si trascinano, ascoltati attraverso un muro, può anche portarci a supporre che si trattasse della planchette che scivolava sulla tavola più grande, solcata da lettere e numeri: la ouija. Questo metodo di divinazione, tradizionalmente considerato parte del patrimonio magico della cultura occidentale, possiede, tuttavia, un elemento di somiglianza con quello degli esagrammi: su ogni estremità della tavola è incisa una parola significativa: la parola SÌ sul lato destro e la parola NO sul lato sinistro. Ciò non rimanda forse al dualismo antagonistico del mondo espresso dalle linee intere e dalle linee spezzate, gli yang e gli yin che si combinano in sessantaquattro modi diversi per darci il significato di un istante? Tutto questo, ovviamente non fa che aumentare la confusione, ma tu devi fare uno sforzo e ricordare quel momento che racchiude, per così dire, il significato di tutta la tua vita. Qualcuno, forse lei, balbettò o proferì parole in una lingua incomprensibile immediatamente dopo che si produsse il tintinnio delle monete sul tavolo. Il nome dell’uomo nella fotografia, un uomo nudo, sanguinante, circondato da curiosi, il cui volto persiste nella memoria, ma di cui si dimentica la vera identità… Lei pronunciò quel nome… forse…
«Lei è una persona estremamente meticolosa, dottor Farabeuf. Questa meticolosità ha contribuito, senza dubbio, a fare di lei il chirurgo più abile al mondo. È sicuro di non aver dimenticato nulla? Qualsiasi indizio della sua presenza in questa casa può avere conseguenze terribili e irrimediabili. Deve assicurarsi, con la meticolosità che la contraddistingue, che non manchi nessuno strumento, neanche uno. Passi in rassegna l’intera lista dello strumentario. Per farlo può avvalersi di diversi metodi. Può, per esempio, passare in rassegna ogni strumento in ordine di grandezza discendente: dall’enorme forcipe di Chassaignac o dallo speculum vaginale num. 16 di Collin, fino ai piccoli cateteri, alle sonde oftalmiche o alle pinzette per l’emostasi capillare o agli affilatissimi aghetti ipodermici o di sutura. Può anche applicare inversamente questo metodo, vale a dire in ordine di grandezza ascendente. È necessario, soprattutto, che non si dimentichi nulla qui. Ha già controllato il tavolino di ferro con il ripiano in marmo accostato al muro sotto il quadro allegorico? Si assicuri di rimuovere il cotone insanguinato e le garze intrise di pus; un ago indispensabile, una piccola sonda nasale di grande utilità vi si potrebbe nascondere. Ricontrolli, uno a uno, i suoi strumenti di lavoro; quelli che si pregia di aver inventato e progettato lei stesso e che le hanno reso il giusto onore in tutto il mondo; ma anche quelli che si devono all’ingegno dei suoi colleghi migliori. Non si distragga, dottore, nel fare quest’inventario mentale. Non faccia caso alla bella donna nuda raffigurata nel quadro che ha davanti agli occhi. Allo stesso modo, faccia attenzione a non abbassare lo sguardo sul pavimento; i vecchi giornali che vi sono stati sparsi potrebbero distrarla altrettanto. Forse sa già perché. Uscirà da qui tra pochi minuti e forse non metterà più piede in questa casa. Oggi ha dovuto fare una considerevole deviazione dal suo tragitto abituale per venire fin qui all’uscita dall’Ècole de Médicine. Ha esitato prima di azzardarsi a entrare in questa casa in cui ha vissuto per tanti anni. Quando è arrivato per la prima volta davanti alla porta non è entrato ed è tornato sui suoi passi per dirigersi nuovamente al Carrefour de l’Odéon ad aspettare l’autobus che l’avrebbe riportata a casa, dall’altra parte della città. Eppure poco dopo ha cambiato idea ed eccola qui già sul punto di andarsene, e forse per sempre. È per questo che si deve assicurare di non dimenticare nulla. Ci rifletta con calma… i diversi coltelli da amputazione le cui lame estremamente affilate la rendono tanto orgoglioso… gli scalpelli con le loro varie impugnature che si adattano perfettamente alla mano che li afferra… i bisturi appuntiti il cui solo peso è sufficiente a produrre tagli delicatissimi… la sega a dorso mobile che le ha dato risultati notevoli applicata sul femore… o la sua sega universale con lame intercambiabili, utile, soprattutto, quando si tratta di rimuovere le braccia mantenendo l’articolazione della testa dell’omero nella cavità glenoidea della scapola… la cesoia, anch’essa di sua invenzione, di incalcolabile valore per smussare le estremità lasciate dalla sega dopo la sezione di un osso o nel caso di fratture traumatiche, spesso d’ostacolo allo svolgimento di un intervento nitido, perfetto… le varie clamps e i morsetti, alcuni di bronzo scuro con viti a pressione ai lati, altri di gomma rossiccia e altri, infine, di gomma color ambra… le cannule… le tortuose sonde che permettono di penetrare attraverso le fosse nasali fino alle cavità craniche occipitali o che consentono, attraverso la bocca, di esplorare i meandri dell’orecchio interno… Non dimentichi, in particolare, i suoi complicati tronchesini, tra tutti gli strumenti di sua invenzione quelli che più le fanno onore poiché uniscono la rapidità istantanea, sì i-stan-ta-ne-a, alla precisione e alla pulizia del taglio nella disarticolazione delle ossa lunghe… e la sega a filo di Gigli, un altro complicato prodotto di inventiva medica mediante il quale si è risolto per sempre l’annoso problema della segatura ossea che aveva messo a repentaglio tante illustri reputazioni… È sicuro che non manchi nulla? Ha con sé tutti, assolutamente tutti gli strumenti debitamente avvolti in piccole pezze di lino, accuratamente riposti nella vecchia valigetta di pelle nera…?»
Nel varcare quella soglia – chi l’avrebbe varcata sotto la pioggia, provenendo da quell’incrocio? – il ricordo si confondeva con l’esperienza (forse a causa della tenacia di quella pioggia leggera che cadeva ininterrottamente da giorni). La vita era soggetta a una confusione nella quale era impossibile distinguere il presente dal passato. Nel varcare la soglia di quella casa lussuosa e decrepita insieme, un passante che si fosse fermato a contemplare la facciata rugosa di quel palazzo, progettata in accordo con la più pura tradizione del modern style, colma di cornici voluttuose impregnate di salnitro, di fumo, di nebbia e di pioggia, sì, si sarebbe fermato come per interrogare le pietre logore di quel parapetto scolpito in forma di enormi fauci – quello del lato destro, in cui avevano messo radici dei licheni grigiastri –, per interrogarle su quale fosse il vero significato di quell’appuntamento preso in un’epoca remota, di quel momento che solo ora si compiva. È un uomo – l’uomo – che scende frettolosamente da una piccola automobile sportiva di colore rosso, con le mani guantate e gli occhi nascosti dietro occhiali dalle lenti fumé, si dirige verso il cancello, spinge la porta di ferro per aprirla e penetra in quel dedalo di siepi di bosso abbandonate, cresciute oltre la loro originale armonia fino a trasformarsi in costruzioni tortuose che si confondono con gli arabeschi vegetali che fregiano l’architettura della casa. Com’è tutto trascurato…, pensa tra sé facendosi strada tra le siepi lasciate al capriccio della propria crescita. È un vecchio – l’uomo – che arriva a piedi sotto la pioggia dal Carrefour de l’Odéon, avvolto in un grosso cappotto di panno nero, sul cui bavero sono appuntati i nastrini di tre decorazioni, gli stessi che porta sul risvolto della giacca. In una mano regge una valigetta di pelle nera e nell’altra un vecchio ombrello attraverso il quale l’acqua cola cadendo a grandi gocce sulle spalle del cappotto incrostate di forfora secca. Ricordi i suoi gesti affaticati, non è così? Ricordi il suo passo artritico mentre attraversava quella strada lastricata, ricordi il suono lento – come quello della ouija quando inizia a muoversi –, il suono arido dei suoi antiquati stivaletti ortopedici sui gradini della scala deserta di quella casa – 3, Rue de l’Odéon –, ricordi l’inquietudine che il suo respiro affannoso emanava quando si fermava a riprendere fiato su ognuno dei pianerottoli tappezzati di una pelouche color vinaccia, appoggiato al corrimano della scala, mentre accarezzava nervosamente le decorazioni di bronzo della balaustra? Senz’altro hai registrato tutto questo nella tua memoria. Il tuo sguardo ripercorre queste pareti. Sei tornato dopo alcune ore – tu, io –; sei tornato dopo molti anni – lui, lei. Sei venuto perché lei – la donna – ti ha telefonato appena mezz’ora fa. Hai sollevato la cornetta e hai ascoltato la sua voce lontana che senza darti il tempo di dire una sola parola ti implorava di soccorrerla, che ti chiedeva di raggiungerla pronunciando una formula convenuta. Forse l’hai dimenticato? Non aspettavi più quella chiamata eppure il telefono ha squillato proprio quando sapevi che l’avrebbe fatto. Ora sei venuto in cerca del ricordo dell’Infermiera – la donna – sempre vestita di bianco. La tua vera identità non importa più: forse sei il vecchio Farabeuf che arriva a questa casa dopo aver amputato due o tre gambe e braccia nell’enorme anfiteatro dell’Ècole de Médicine, o forse sei un uomo senza significato, un uomo inventato, un uomo che esiste soltanto come rappresentazione di un altro uomo che non conosciamo, il riflesso di un volto nello specchio, un volto che nello specchio incrocerà un altro volto. Tutto qui. Quello che importa ora è ricordare il contesto. Tu lo ricordi, non è così? Ma la tua memoria non va oltre quel volto. Vorresti dimenticarlo. Vorresti dimenticare la sensazione che produceva quell’oggetto oceanico, putrefatto, tra le tue dita. È necessario che io ravvivi tutto questo nella tua memoria riluttante; ognuno dei dettagli che compongono questa scena inspiegabile. Non devi dimenticarlo perché solo così sarà possibile arrivare a toccare il mistero di quegli eventi singolari che qualcosa o qualcuno, forse una mano che scivola su un vetro appannato, tenta di cancellare. No… è necessario ricordare non solo il volto di quella donna vestita di bianco – o forse di nero –, ma anche le circostanze e gli oggetti che la circondavano nel momento in cui decise di concedersi, in preda – si crede – all’eccitazione suscitata da un’immagine che aveva contemplato a lungo mentre cadeva la pioggia, prima di telefonare e pronunciare la formula convenuta; un’immagine vaga che rappresentava, confusamente, un fatto incomprensibile, o forse terribilmente chiaro. Non avrai dimenticato, ne sono certo, quell’enorme salone, che solo per la sua enormità, duplicata nella superficie di quello specchio dalla complessa cornice dorata, sembrava lussuoso e splendido, ma che in realtà era frusto e macchiato dal tempo e da tutte le cose che nel corso degli anni vi si erano riflesse. La luce vaga del pomeriggio, torbida di polvere, filtrava dalle due finestre che davano sulla strada sopra il giardinetto abbandonato. In controluce non era possibile determinare le esatte condizioni del velluto dei tendaggi che avvolgevano le finestre. Sapevamo, tuttavia, che era un velluto sbiadito dalla luce degli anni: drappeggi funebri logorati dal loro stesso ondeggiare, sfilacciati nella parte inferiore per il tanto strascicare pesantemente su quel pavimento di parquet che la pioggia, filtrando dalla cornice della finestra, aveva corroso e reso ruvido. Fu proprio su quella parte del pavimento, muffita dall’acqua, accanto alle frange sporche delle tende di velluto sbiadito, che una mosca – senz’altro te lo ricordi, non è così? – cadde morta dopo aver svolazzato insistentemente vicino alla finestra, dopo aver colpito ripetute volte i vetri appannati. Avresti voluto correre su per quelle scale, posando appena le tue mani guantate sul logoro corrimano. Avresti sfiorato appena, arrivando al pianerottolo di quella scala scricchiolante, le decorazioni in bronzo, ma nel giungere di fronte alla porta chiusa di quel salone ti saresti fermato un istante per assicurarti che ci fosse una presenza ad aspettarti, ad accoglierti oltre quella soglia e la tua memoria avrebbe rievocato il frangersi delle onde e, per un istante, ti saresti creduto in riva al mare. Dei passi, il rumore prodotto da due tavolette di legno che si sfiorano, da alcune monete che cadono su un tavolo, ti avrebbero fornito la sicurezza che cercavi. Ma la porta e i muri erano troppo spessi e tutti i rumori che si udivano erano rumori lontani e senza senso per te in quel momento.
Tre yin… una linea spezzata… se si strappa via il frutto viene fuori anche la radice… la perseveranza porta con sé la buona sorte…
È necessario entrare nel salone senza dire una sola parola, pensò l’uomo quando arrivò in cima alle scale.
Mi cadono queste ore di attesa sulla schiena, sulla lingua la scia della sigaretta e del suo fumo, i lividi sotto gli occhi che mi fanno da penitenza, e tutto questo momento sembra una fotografia scattata distrattamente, da qualcuno che stava pensando ad altro.
Brucia come una ferita aperta, quella giornata in cui appena sveglio vidi mia sorella piangere quasi fino a strozzarsi nello schermo di un computer; mi chiamava dalla Cina, nostro padre era deceduto da un mese e lei mi cercava risposte e al contempo mi riempiva di domande, così tante che me le sentivo ingombrare sotto la pelle.
“Non ce la faccio, non ce la faccio a restare qui, devo tornare a casa.”
Mi diceva, con le parole distorte da quella potenza acquosa disordinata che le cadeva via dagli occhi, che le impasticciava la lingua e le colorava le guance come se fossero state esposte al fuoco.
“Tu lo sai che papà avrebbe voluto che tu partissi, la Cina e i tuoi progetti, lui per te voleva questo e il meglio adesso, per te, è questo. Torni qui, torni adesso, e per fare cosa? Mamma cade ad ogni passo, lascia macerie ovunque, dammi il tempo di rimetterla a posto, prenditi i giorni buoni e quelli meno buoni, e poi torna, torna forte, torna come sai fare tu.”
Parole che scapparono veloci dalla mia lingua, come un ballo folle, come qualcosa che si amalgama con te e quando se ne va ti lascia il vuoto, e quando è assenza senti l’arto che manca, il pezzo fantasma. Smesse le lacrime, riposte e custodite, costruito un sorriso, una forza di denti bianchi e stretti e viso steso, quella mattina, dopo quella videochiamata, corsi al cimitero. Il viale gonfio di lapidi, l’erba ai lati della strada, un cane che steso all’ombra si stiracchiava incurante della vita e della morte, disobbediente alle leggi buone della società che impongono rispetto a chi si rivolge al dolore senza mostrare barriere. Per qualche secondo mi sembrò di sentire delle voci che non c’erano, voci ricordi e voci di me bambino che componevano il nome “papà”, corse sul cemento, con un pallone tra i piedi e lui in porta, passi sulla sabbia, passi appena attenti dentro il mare che lui mi insegnò a conoscere, quel mare dove lui, con quella mano dietro la schiena, mi face capire le leggi della fisica e del voler bene. Un cielo pieno di lividi era sul punto di rompersi, ma io non ascoltavo niente, guardavo la lastra di marmo, sopra c’era il tuo nome, la tua foto che così poco ti somigliava; ho bestemmiato senza contegno, ricordo la lingua impastata e i muscoli delle spalle tesi.
Quando suona la sveglia io sono già in piedi, sul tavolo della sala da pranzo: due tazzine vuote, dei biscotti, la moka sul fuoco; apre gli occhi e si mette seduta di soprassalto, come se quel suono quasi metallico fosse per lei un richiamo alla fretta, le sue giornate ragazzine, quando doveva correre a perdifiato giù per le scale di casa, perché era in ritardo.
“Buongiorno.”
Le dico, mentre sta ancora cercando di mettere a fuoco la stanza.
“Ciao.”
Risponde, e adesso cadono sulle sue labbra tutte quelle ore in cui è stata indecisa, tutte quelle volte in cui doveva scegliere e ha preferito rimanere ferma, perché ogni scelta avrebbe condizionato e lei non voleva condizioni.
Un’alba slavata viene via dalle vetrate della finestra, i netturbini si affaccendano sotto, in strada; il brusio del frigorifero, due passi che si avvicinano, Sofia entra in questa giornata con la faccia piena di sonno.
“Ciao piccola mia.”
Le dico, lasciandole un bacio docile sulla guancia.
“Ho fame.”
Mi dice, mentre si mette seduta, lasciando andare il suo corpicino sulla sedia di legno.
Le nostre prime ore sono state una separazione di vetro, ti guardavo per ore, respiravo sulla lastra trasparente, mentre tu, in una culla, circondata da altri neonati dormienti, parevi sorridermi, volevo credere che mi stessi sorridendo. La prima volta che ti ho tenuta al petto il terrore di poterti rompere con una stretta più forte era un pensiero che non riuscivo in alcun modo a mettere da parte; devi aver percepito la rigidità di quel primo abbraccio, quando impacciato, in piedi, immobile, nel corridoio di quell’ospedale, eravamo due figure schiacciate dalle luci bianche che piovevano dal soffitto, smussando angoli e cancellando sfumature. Eri leggera, Sofia, eri inconsistente come l’aria, ti ho avvicinata al battito cardiaco che in quei momenti doveva essere furioso, e tu, con quei rumori toracici, devi averci giocato, devi averci cercato un codice morse, in cui forse provavo a dirti che ero felice, oltre la paura, l’incertezza, oltre Ginevra e la mia invidia verso di lei, che sembrava già aver capito la maniera di montarti e smontarti.
“Vuoi un po’ di latte?”
Mentre le faccio questa domanda, Ginevra esordisce a voce bassa, lasciando sulla fronte di Sofia una carezza che trema.
Il vecchio morì proprio all’inizio dell’estate. Come se avesse continuato a ritardare il momento, per aspettare quel periodo e non un altro. E così successero tante cose, in qualche modo notevoli e definitive, anche se passarono inosservate.
Il Colorado Chico venne a cercarli con la lancia e tutti pensarono che il momento era arrivato.
– Andiamo! – disse soltanto. E partirono.
Avevano messo il vecchio in una stanzetta, da solo.
– Come un personaggio importante – disse il Bastos.
Erano due giorni che non riconosceva più nessuno. Tutto in lui si era consumato gradualmente, lentamente, e solo brillavano i suoi occhi, ancor più profondi.
Rimasero a osservarlo per un paio d’ore, muti e rammaricati, senza saper che fare nessuno dei quattro.
Entrarono due suore e cominciarono a dire il rosario. Ne furono anche più impensieriti. Cosa stavano facendo? Quando capirono che era arrivato il momento, la vecchia si avvicinò al letto e carezzò i capelli del vecchio. E in quel gesto c’era una sollecitudine e una tenerezza indicibile.
Allora il vecchio si rizzò nel letto e guardò tutti con una strana lucidità. Aveva un’aria serena, vittoriosa e tremendamente dignitosa. Afferrò una mano della moglie e disse:
– Vecchia mia!
Fu tutto quel che disse.
I becchini escono dalla fossa e si asciugano il sudore con le maniche della camicia. Ansimano. Loro e il gruppetto si guardano sospettosi. Il Boga osserva i loro stivaletti sudici, screpolati e affondati nella terra umida che hanno spalato. Impugnano la pala con una certa impazienza.
Il cimitero è silenzioso e deserto, come le isole sul fiume aperto. Le croci bianche, le lapidi bianche, dormono al sole.
– Forza! – dice uno dei becchini, e sollevano la cassa, la depongono sul fondo, trattenendola con le funi.
Si fermano e aspettano. Nessuno si muove.
Allora l’uomo dice:
– Gettate la prima terra.
La vecchia ne raccoglie un pugno e lo getta sulla cassa. Loro ne spingono altrettanta con i piedi. Le zolle di terra cadono sul coperchio producendo un suono sordo, simile a quello della pioggia. Adesso i due becchini cominciano a spalare con regolarità. Quando hanno finito non resta altro che un piccolo monticello di terra smossa. Nessuno riesce a capire come hanno potuto far così in fretta.
I becchini se ne vanno, e loro restano indecisi. La vecchia è lì, senza una lacrima, e tiene in mano il mazzo di fiori. La osservano di sottecchi, aspettando che faccia un gesto. Alla fine, il Colorado dice:
– Nonna, meglio che andiamo…
Lei solleva gli occhi verso il Colorado, con quella antica mansuetudine che si rassegna a tutto. Si china a depositare il mazzo sul monticello di terra smossa.
Escono. Ormai vicino alla porta il Bastos dice:
– Be’, se n’è andato come ha voluto… Quando si metteva in testa una cosa non si fermava fino a quando non la otteneva.
Il fiume cambia. A volte è amaro, ma altre volte sembra fatto a misura d’uomo.
L’inizio dell’estate venne a coincidere con la gran secca di dicembre, che durò cinque giorni. Si videro calare le acque e il fiume svuotarsi interminabilmente. Di notte il livello risaliva un po’, ma nel giro di poche ore le acque tornavano a scorrere verso il fiume aperto, sempre più spesse, perché si portavano via il fango del fondo.
Il Boga e il cane baio erano coperti di sporcizia dalla testa ai piedi. Il cane sembrava contento. Negli altri cresceva una sorda e costante irritazione. Di notte il Boga dormiva sulla veranda con il cane disteso di traverso ai suoi piedi, sentendo il fango che gli si seccava sul corpo e gli tirava la pelle. Gli infiniti fossi e rii che si scaricavano nel canale producevano un mormorio soporifero, sempre più intenso nella notte, fino a penetrare nelle vene. Il rumore secco dei pesci gatto che cercavano di uscire nel fiume aperto spaventava il cane baio. Allora il Boga prendeva la lampada e scendeva giù verso la metà del canale. Si appostava dove trovava un fondale basso e li ammazzava a bastonate. La pinna dorsale del pesce spuntava fuori dall’acqua e lui, per colpire, scaricava il colpo un po’ più avanti. Andò avanti così una notte dopo l’altra.
La mattina del sesto giorno tutta la zona era inondata. Alle ore piccole si alzò il vento di sudest e l’acqua cominciò a espandersi con una velocità incredibile.
La prima cosa che fece il Boga fu di gettarsi in acqua e levarsi di dosso la sporcizia. Poi lui e il cane uscirono ben oltre la foce, fino in mezzo al banco. L’acqua era altissima e loro sembravano sperduti in un mare infinito. Però, con l’acqua alta e il cielo rannuvolato, i rumori risuonavano più vicini.
Gli parve di sentire delle voci dalla parte del fiume, finché scorse, ben oltre il banco, la figura indistinta di un battello che avanzava con tutte le vele spiegate. Lì c’era poco fondale, ma lo yacht ci si era avventurato sfruttando la piena. In effetti era la prima volta che vedeva una simile imbarcazione da quelle parti, sicché l’acqua doveva essere davvero molto alta. Sembrava un grande uccello intento a eseguire dolci e maestose virate. Dalla struttura, gli parve di riconoscere il Pintarrojo, un ketch con le vele alla vecchia maniera.
Ne fu quasi abbagliato. Rimase in piedi in mezzo alla barca contemplandolo a lungo in silenzio. Il vento di sudest continuava a soffiare, ma più leggero, e portava con sé un odore come quello del mare. Il cielo cominciò ad aprirsi sopra l’orizzonte, verso est, e la luce penetrò di lì. Il Pintarrojo virò lentamente e mise la prua in quella direzione. Lo vide allontanarsi e sparire in una lama di luce.
Poteva considerarlo davvero come un segno.
Il giorno stesso andò fino alla capanna del Bastos e quando tornò mise tutte le sue cose in una sacca di tela incatramata. Il cane baio si mise a mugolare e a inseguirlo dappertutto, e lo guardava con aria agitata. Alla fine, il Boga si affacciò alla cucina e disse:
– Nonna, sei lì?
– Ti ascolto – disse la voce, dal buio.
Gli ci volle un po’ per decidersi.
– Nonna, me ne vado – disse alla fine, facendo uno sforzo.
– Lo vedo.
Capì che la vecchia si era alzata e veniva da lui. Quando gli fu davanti, lo guardò negli occhi.
– Come vuoi, ragazzo mio – disse con la sua voce piena di calma, che non si turbava mai.
Lui rimase in silenzio, senza saper che fare.
– Non preoccuparti per me, se è per questo.
Anche lui la guardò.
Lei li conosceva bene questi uomini.
– Ho parlato col Bastos… verrà qui lui… mi sembra la cosa migliore…
– Come vuoi, ma non preoccuparti per me.
– Sì, sì…
– Mi pare che il vecchio ti doveva dei soldi…
– Non voglio niente.
– Non è giusto.
– No, no. Non voglio.
– Vabbè, allora prendi il fucile del vecchio.
– No. Servirà a te… prendo la barca del Bastos, e il tramaglio, quello piccolo, e qualche palamito.
– È poca roba.
– A me sta bene così.
– Quella barca non è nostra, ed è marcia.
– Mi sta bene così.
– Che tipo che sei!
Il Boga si grattò la zucca.
– Quel coltello del vecchio… ti serve quel coltello?
La vecchia ebbe un debole sorriso.
– Che me ne faccio di un coltello?
Lui sorrise a sua volta e tornò a grattarsi la zucca.
La barca del Bastos, come ogni cosa, ha la sua storia. Adesso in pochi pagherebbero qualcosa per averla, ma a suo tempo era stata un’ottima barca e perfino qualcosa di più di una semplice barca. Anche oggi un occhio esperto si rende conto di quanto sia ben fatta. Il Bastos l’aveva comprata dal vecchio Messali quando era già vecchia. Il vecchio Messali, a sua volta, l’aveva comprata dal vecchio Sotelo. Fu quando avevano cambiato alcune assi della chiglia. Quanto al vecchio Sotelo, pare che avesse ricevuto la barca dalle mani del turco Zarur in cambio di una vacca che, pure lei, aveva la sua storia. Ma questi sono fatti troppo lontani e in verità, a partire dal vecchio Sotelo, esistono versioni discordanti. Tante volte si confondono le barche e si confondono le storie. Uno crede di parlare di una barca sola e in realtà sta parlando di due o tre. Per di più, la stessa barca dà luogo a diverse storie. A un certo punto la barca ha subìto tante di quelle modifiche che uno la prende per nuova. Capita che una barca, dopo un certo tempo, non sia più la stessa, salvo per la forma o per quello spirito che vive in lei, perché attraverso gli anni non c’è tavola, non c’è chiodo, non c’è niente che non sia stato sostituito. E non è affatto strano che una barca di una certa lunghezza finisca per diventare un’eccellente lancia. Era questa l’idea del vecchio Messali quando fu sul punto di montarci un motorino Lauson da 2 Hp. Li avevano messi in commercio nel ’38, molto a buon mercato, compreso asse, elica e premistoppa. Ma il destino decise altrimenti.
NdR: il testo è un estratto di Sudeste, romanzo di Haroldo Conti, nella traduzione di Marino Magliani e Riccardo Ferrazzi, pubblicato recentemente da Exorma, che ringraziamo; Ferrazzi ne parla qui
Haroldo Conti (1925-1976) è stato uno scrittore e giornalista argentino.
Nel 1962 vince il premio Fabril per il suo primo romanzo Sudeste con cui diventa una delle figure di riferimento della cosiddetta «Generación de Contorno» (nello stesso anno pubblicano autori come Sábato, Mujica Lainez, Cortázar, Marta Lynch). Pubblica inoltre i romanzi Alrededor de la jaula (Premio Universidad de Veracruz, Messico) – poi trasposto per il cinema da Sergio Renán con il titolo Crecer de golpe – e En vida (Premio Barral, Spagna, della cui giuria facevano parte Mario Vargas Llosa e Gabriel García Márquez).
Nel 1975 pubblica il romanzo Mascaró, el cazador americano, che vince il Premio Casa de las Américas (Cuba), tradotto in Italia con prefazione di Gabriel García Márquez, Milano, Bompiani, 1983.
Il 5 maggio 1976, a seguito del golpe militare in Argentina, Haroldo Conti viene sequestrato. Il suo nome figura fra quelli dei desaparecidos. Molti anni più tardi il Generale Videla fu costretto ad ammettere il suo omicidio; probabilmente Conti è stato gettato in mare come molti suoi connazionali.
Chiromantica medica
Narrano degli uomini senza occhi, bocca o orecchie. Narrano degli uomini che non riuscivano a leggere il pensiero ma che dei pensieri riuscivano a percepire l’intensità.
Come un olfatto sviluppatissimo, come se ne sentissero l’odore nel diaframma o fin dentro le tempie.
Il loro senso era così fine che gli oggetti andavano ad alterare l’intensità della percezione, sentivano la densità del materiale attraverso cui filtrava, le forme che si frapponevano, i volumi e gli spazi, così che nella loro mente si andavano a formare figure e contorni. Narrano di come Essi, attraverso i pensieri altrui, vedessero.
Pare che i pensieri fossero così evanescenti che nessuna superficie riuscisse a schermarli del tutto, che diffondessero attraverso ogni corpo come luce da una finestra. Narrano del loro mondo trasparente, della sensazione di freddo che poteva dare una superficie piatta come il metallo e del torpore avvolgente della roccia. Il marmo con le sue venature era percepito come una dolcissima lastra di ghiaccio, l’acciaio e il ferro umidi e opachi come una spessa pellicola.
Si dice che per loro il legno fosse limpido come cristallo e che gli alberi si dispiegassero come elementi di una foresta di vetro.
Il loro essere era nella folla, sembra che il brusio di tutte quelle menti facesse sì che riuscissero a concepire un cielo, a intuire gli uccelli e le nuvole, che seguendo un pensiero fin dove andava dissolvendosi comprendessero l’orizzonte.
Narrano del buio della solitudine, di come fossero ciechi e indifesi, di come più di qualsiasi altra creatura avessero bisogno della presenza dell’altro per far luce nel loro mondo.
***
Per mantenere l’ordine decisero di scoraggiare la mascolinità. Fu proibito agli uomini di specchiarsi con il fallo eretto.
Funzionò.
***
Gli specchietti venivano piantati sulla grande tuberosità dell’omero all’incirca al secondo mese di vita quando il cervello dei bambini era al massimo della sua plasticità.
La Udvidet-Syn si raggiungeva a 12 anni. Si intendeva una coscienza espansa, una maggiore consapevolezza di se stessi nello spazio. Vedevano un universo di 202 gradi circa, era concepibile un mondo anteriore, Front e uno alle proprie spalle, Dertsyen.
I giovani amanti si sedevano schiena contro schiena e l’infinito prodotto dai due riflessi che incontrandosi si moltiplicavano, era un’emozione per la quale nemmeno loro avevano una parola.
Se uno specchietto disgraziatamente s’infrangeva non poteva essere sostituito ma chi era amato veniva accompagnato a braccetto per tutta la vita così che potesse guardare il mondo da altri specchi.
***
La mestruazione nel primo giorno di luna nuova, il dio nell’albero, la donna nel dio
La donna il cui ciclo era sincronizzato con la luna era considerata parte dell’albero. La sua schiena fusa con la corteccia, i piedi interrati fra le radici, lo sguardo rivolto al di là delle fronde, cercando di specchiarsi nell’astro, a farsi toccare dalla luce concupiscente, a indagare il mistero di quella sincronia fra carne e cielo.
Il terrore nel novilunio, la nudità, l’estasi. La donna-pianta era considerata una dea.
Gli uomini erano figli dell’albero, tutti. Privi di coscienza o pensieri, l’istinto li governava, il loro mondo di impulsi era incentrato nella cura della dea, la proteggevano dalle belve, le offrivano i frutti della foresta.
Non possedevano linguaggio e le conoscenze venivano apprese per imitazione. Era quando riposavano tutti insieme ai piedi dell’albero che un Noi affiorava, un Noi di carne e clorofilla, un misto di immagini ed emozioni, un sentimento d’esistenza.
E Noi che respiriamo col sole e abbiamo fame d’acqua, e Noi che amiamo solo lei, che a lei apparteniamo, che sogniamo tepore e paradisi pluviali.
Quando la luna era piena gli uomini possedevano l’albero e possedevano la donna in un girotondo voluttuoso che aveva fine col sorgere del sole. Fecondata da tutti e da nessuno, dopo nove mesi la dea generava e dai suoi seni sgorgava linfa con cui allattare il figlio del legno.
Le malattie veneree non erano considerate riprovevoli e venivano esibite come un dono divino. Tricchiolature agli angoli della bocca e occhi incrostati da licheni, muschi che parassitavano le loro schiene e funghi che crescevano fra i loro inguini.
Quando pioveva sulle foglie sentivano il bagnato sulla pelle, quando il freddo gelava la pianta gli uomini sentivano freddo, quando un ramo si spezzava provavano lo stesso dolore e il coro dei loro gemiti era accompagnato dal vento tra le fronde.
Cosa significa teorizzare lo scarto di parallasse come “primo passo necessario verso la riabilitazione della filosofia del materialismo dialettico”?1
Slavoj Žižek ha concepito La visione di parallasse (2013) come un’opera sistematica, articolandola in tre ampie sezioni – “filosofica, scientifica e politica” – in cui l’approfondimento speculativo è corroborato dal dibattito a distanza con pensatori e scienziati, nonché da argomenti desunti dai più disparati campi dell’esperienza umana, non escluse l’aneddotica storico-politica, il gossip e persino le barzellette.2
Il proposito dichiarato del libro fa giustamente presagire il ricorso sistematico a Hegel e a Marx, che però Žižek coniuga con pensatori tradizionalmente estranei all’orizzonte materialista – Kant innanzitutto, poi Kierkegaard e Heidegger – leggendo i loro contributi con la lente del beneamato Lacan, i cui Seminari disegnano confini e morfologia del campo speculativo.
Lo strumento metaforico di questo paradossale avvicinamento di filosofi materialisti e filosofi “idealisti” via Lacan è – appunto – il concetto di parallasse, attinto al linguaggio settoriale della fisica e della fotografia e così definito: “il dislocamento apparente di un oggetto (lo spostamento della sua posizione rispetto allo sfondo) causato da un cambiamento nella posizione di osservazione che determina un nuovo asse visivo”.3
È lo stesso Žižek però a sgombrare subito dopo il campo da un facile equivoco, cioè che lo sdoppiamento dell’oggetto – dell’intero campo dell’esperienza – dipenda banalmente dall’angolatura epistemologica del soggetto e sia pertanto solo apparente. In realtà approccio conoscitivo e statuto dell’oggetto sono reciprocamente implicati nel delineare una paradossale ontologia duale tutta immanente per cui l’intera realtà, ogni cosa, è sempre accompagnata da un’ombra indefinibile che la raddoppia e la complica.
Per quanto l’Autore esemplifichi questa dualità intrinseca delle cose anche con il riferimento scontato alla meccanica quantistica e alla neurobiologia, è il ricorso a un passo dell’Antropologia strutturale di Lévi-Strauss che gli permette di fare definitiva chiarezza su questo punto fondamentale.4
L’antropologo strutturalista spiegava che i due sottogruppi della tribù dei Winnebago da lui studiata rappresentavano il loro villaggio in due modi differenti, entrambi distanti dall’oggettiva disposizione delle case: gli uni disegnavano sulla sabbia un anello di capanne intorno a un tempio centrale, gli altri due agglomerati “separati da una frontiera invisibile”.5
Žižek, interpretando Lévi-Strauss, chiarisce che questa divaricazione prospettica dipende sostanzialmente dall’irrappresentabilità della pianta urbanistica effettiva, necessariamente filtrata e distorta agli occhi dei Winnebago dalla lente delle tensioni sociali che – avrebbe detto Lacan – deformano il campo ordinatamente strutturato del Simbolico.
Dato poi che l’assunto materialista esclude qualsiasi apertura metafisica, la pianta urbanistica effettiva, la Cosa in sé del villaggio, non è per noi dislocata in un Altrove noumenico – accessibile o non accessibile che sia; essa, del tutto immanente, è ineluttabilmente e ontologicamente segnata dall’effetto-ombra con cui la percepiamo, dallo “scarto intrinseco all’Uno”, dalla “differenza minima che segna la non-coincidenza dell’Uno con se stesso”.6
Più precisamente l’Autore sostiene che “c’è un Reale; questo Reale, però, non è la Cosa inaccessibile, ma lo scarto che ci impedisce di accedervi, lo “scoglio” dell’antagonismo che deforma la nostra visione dell’oggetto percepito attraverso una prospettiva parziale”.7
E conclude: “La verità esiste, non è tutto relativo, ma questa verità è la verità della deformazione prospettica in quanto tale, non la verità distorta dalla visione parziale di una prospettiva unilaterale.”8
A voler essere rigorosi però, bisogna riconoscere che le parole con cui Žižek si sforza di spiegare che l’asserita dualità è nell’Essere e non nella debolezza teoretica di chi lo indaga appaiono poco convincenti, soprattutto quando afferma che il Reale è precisamente il prisma che divarica le prospettive lontano dalla “Cosa inaccessibile”. Quindi dietro le quinte del fenomenico la “Cosa inaccessibile” esiste? È Qualcosa? E in che modo differisce dal noumeno di Kant o da una Sostanza divina? La chiave per venire a capo di questa apparente aporia è naturalmente Lacan.
“Un Reale impossibile, un vuoto che nonostante tutto funziona” (9)
Tanto fitti e determinanti sono i richiami a Lacan all’interno delle quasi 600 pagine del saggio che le coordinate del suo pensiero sono per il lettore imprescindibili. Semplificando, ciò che guida l’individuo è l’inconscio, che è però da sempre rimosso a causa di un interdetto originario. L’orizzonte esclusivo che si dischiude dinanzi a noi, dunque, non può che essere quello conscio che, come un linguaggio, ha in primo luogo la valenza strumentale e secondaria – propriamente “simbolica” – di significare il materiale inconscio rimosso. Ne consegue che ogni nostro comportamento, ogni nostro pensiero non è in primo luogo che il Significante di un Significato nascosto e definitivamente inaccessibile di cui in certo modo costituisce il sintomo. Va da sé che ogni oggetto della nostra esperienza risulta in tal modo potenzialmente raddoppiato, dal momento che entro la cornice apparentemente assoluta del nostro reale esso acquista un senso dalla relazione con gli altri oggetti10, mentre di fatto e, per altro verso, esso altro non è che il Significante di un Significato vuoto perché da sempre rimosso.
È lo stesso Žižek a precisare come “non ci sia nessun “mondo” al di fuori del linguaggio, nessun mondo il cui orizzonte di significato non sia determinato da un ordine simbolico”. Dobbiamo arguirne che così come il parlare metaforico deve per forza appoggiarsi su un senso letterale autonomo di cui costituisce l’ombra non necessaria, allo stesso modo la realtà che sperimentiamo ha un senso autonomo che sta a noi cogliere anche come riflesso di un Significato originario cancellato una volta per tutte dalla rimozione e dal conseguente ingresso nell’ordine Simbolico. Ecco dunque che alla Cosa inaccessibile corrisponde – propriamente parlando – un Vuoto, il Nulla, “un vuoto che nonostante tutto funziona, esercita influenza, causa effetti, curva lo spazio simbolico”.11
La tradizionale dicotomia tra realtà (la dimensione delle essenze) e apparenza (il luogo destituito di verità dei puri fenomeni) viene a cadere, dato che la prima non esiste se non come apparenza, ovvero ogni apparenza è il modo sempre imperfetto di riempire sul versante del Simbolico – l’unico nel quale si svolge la nostra vita – il vuoto che ad esso corrisponde sull’altro versante dell’inconscio. Quando guardiamo le cosiddette apparenze, quindi, noi stiamo guardando di fatto la realtà, ma mediata dal filtro-linguaggio simbolico, analogamente a quanto ci accade quando osserviamo la scena di un quadro attraverso la sua cornice: “la configurazione parallattica minima” è caratterizzata da “un certo effetto di surplus” derivato dal fatto che “le medesime cose che prima guardavamo “direttamente” vengono ora viste attraverso la cornice.”12
Ovviamente – precisa Žižek – “non esiste alcuna realtà “neutrale” (…) in cui le cornici isolino la sfera delle apparenze”: “Ogni campo della “realtà” (ogni “mondo”) è già da sempre incorniciato e visto attraverso una cornice invisibile.”13
Per quanto invisibile, tuttavia, questa cornice lascia immaginare una superficie vuota sottostante su cui l’immagine dipinta – l’apparenza – si accampa. A migliore comprensione l’Autore rinvia ad alcuni celebri dipinti (Quadro rosso su sfondo bianco di Malévich, Hopper, Madonna di Munch e i quadri di Hopper) in cui l’artista ha volutamente enfatizzato lo scarto tra due cornici, tra la cornice per così dire naturale della nostra percezione – il punto di osservazione imposto dal taglio prospettico della scena rappresentata – e la cornice esterna: in questa fascia intermedia si situa lo spazio paradossale del Vuoto originario – Vuoto perché da sempre rimosso – su cui le cose sembrano per così dire gettate come materiale di riempimento, un vuoto senza il quale di fatto neppure percepiremmo la sfasatura tra “realtà” e “apparenza”, esattamente come accade quando pensiamo al vuoto cosmico prima del Big Bang. 14
La “Cosa inaccessibile” quindi non esiste come sostanza separata, ma paradossalmente come alone vuoto che incornicia ogni oggetto della nostra esperienza e lo raddoppia in modo imprevedibile, perché nel dominio esclusivo della materia ogni vuoto è destinato ad essere riempito: le case dei Winnebago sono disposte in un certo modo, ma anche in un altro variabile a seconda di come i due sottogruppi della tribù hanno riempito il Vuoto inafferrabile che ai loro occhi le incorniciava. Con questo “statuto del Reale (…) puramente parallattico e, quindi, non sostanziale” si sono misurati secondo Žižek anche Kant e Hegel, con diversa fortuna. 15
Con la svolta trascendentale Kant avrebbe inaugurato una terza via tra gnoseologia empirista, del tutto immanente, e gnoseologia razionalista, di fatto trascendente, poiché deduce la comprensione dei fenomeni da a priori universali e ideali. Per Kant, gli a priori esistono, ma non sono né trascendenti né sostanziali, visto che consistono di strutture puramente formali (le categorie) che resterebbero vuote se in esse non si riversassero i contenuti dell’esperienza fenomenica.16
Se da una parte quindi Kant riporta gli assunti di base del razionalismo nel fenomenico, depotenziandoli, dall’altra però ammette l’esistenza di un dominio della Ding an sich, della Cosa in sé, che sfugge costantemente alla presa delle categorie trascendentali e quindi alla conoscenza. Sarebbe questo, secondo Žižek, il riconoscimento di una parallasse fondamentale tra il fenomenico, imbrigliato dalle maglie delle categorie come il Simbolico di Lacan lo è dalle regole stringenti del linguaggio, e il noumenico inafferrabile che tuttavia amplifica i fenomeni oltre i confini della loro conoscibilità. Il limite di Kant, naturalmente, è aver dislocato il noumenico in un altrove trascendente invece di coglierlo come un elemento fenomenico eccessivo, trasgressivo, irrazionale che spunta a riempire lo sfondo vuoto su cui i fenomeni si stagliano, raddoppiandoli. 17
Più meritevole ancora è Kant, quando distingue il giudizio negativo da quello indefinito: dire che “lui non è umano” è ben diverso dal dire che “lui è inumano.” In quest’ultimo caso infatti si apre una dimensione terza tra lo statuto di uomo e quello di bestia, quello di un uomo-bestia che implica che “l’eccesso da combattere è del tutto immanente, sta al cuore della soggettività stessa.”18
Se Kant ha intuito ma non sistematizzato – e soprattutto non riconosciuto come intrinseco ai fenomeni – lo statuto parallattico del reale, l’Hegel della triade dialettica sembra averne avuto una consapevolezza piena, a patto di non dare al suo pensiero la connotazione metafisica che taluni gli attribuiscono. Ripercorrendo alcuni passi della “Filosofia dello Spirito” e della Scienza della logica, Žižek insiste “lacanianamente” sul fatto che lo Spirito e il Soggetto non esistono in sé, come Universali a priori o, per dirla alla Kant, come Cose in sé dislocate nella dimensione separata del noumenico.19
Al contrario, è il movimento libero dello Spirito, “radicalmente desostanziato”, che nel momento propriamente dialettico dell’incontro-scontro tra i particolari concreti (Antitesi o negazione, ma anche il dominio anarchico e osceno dell’inconscio pre-simbolico) pone se stesso retrospettivamente (Tesi, ma anche ingresso nel Simbolico per effetto di una castrazione/interdetto originari).20
In questo schema il momento speculativo finale della Sintesi (Aufhebung, negazione della negazione) aprirebbe uno spazio inedito analogo a quello del giudizio indefinito di Kant, uno spazio terzo consapevolmente parallattico in cui per esempio l’uomo astrattamente e rigidamente definito risulta non-uomo, ovvero un uomo attraversato da continui rigurgiti del suo inconscio. Ciò su cui Žižek pone l’accento in questa rivisitazione parallattica di Hegel è che la sua “riconciliazione” non ricompone lo scarto in una sintesi superiore, ma lo conserva in quanto tale.21. Inoltre il luogo in cui esso si manifesta non è il termine astratto dell’essenza (il reale), ma quello concreto dell’apparenza: un’osservazione decisiva per salvaguardare l’assunto materialista di base e per fare di Hegel il fondamento più solido di Lacan.22
Dire infatti che l’essenza affiora a margine di ciò che appare, per la percezione di una sorta di incompletezza dell’apparenza, significa cogliere lo scarto tra le cose che ci si squadernano davanti agli occhi (i Significanti dell’ordine simbolico) e il “vuoto del loro luogo di inscrizione”, “la superficie vuota della cornice” (il materiale inconscio rimosso)23.
Assodato dunque che l’intera partita dell’esistenza e della conoscenza per noi si gioca esclusivamente nella dimensione immanente (Simbolica per Lacan) del molteplice, la nozione di trascendenza altro non è che una “illusione prospettica”sollecitata dalla parte vuota dello scarto parallattico: non esiste alcun dio, né alcun regno delle Idee o del Noumeno.24
Resta da chiarire l’implicazione di epistemologia e ontologia nella definizione di questo statuto parallattico del reale. In fondo, se lo spazio esclusivo dell’ordine Simbolico nasce a causa di una rimozione originaria, la parallasse ontologica del mondo non può che derivare da una parallasse originaria del Soggetto.
Lo statuto parallattico del Sé, tra determinismo neuronale e libertà
Attraverso una disamina articolata e puntigliosa del pensiero di neuroscienziati e filosofi cognitivisti che occupa un intero capitolo del libro 25, Žižek conclude che “se penetriamo la superficie di un organismo e guardiamo sempre più in profondità, non troviamo mai un elemento centrale di controllo che sarebbe il suo Sé, che tira in segreto le fila dei suoi organi.”26
Tra gli altri è Dennett a interpretare l’attività mentale in modo completamente deterministico come interazione di reti neuronali agli stimoli esterni, anche se poi è costretto a “spiegare” l’intenzionalità per lui apparente del soggetto con l’estrema complessità del meccanismo: in un cartello pubblicitario elettronico migliaia di pixel che si accendono e si spengono in modo programmato danno da lontano l’impressione che i soggetti rappresentati si muovano intenzionalmente.27
Per quanto l’intenzionalità del soggetto sia considerata da Dennett illusoria, è sul suo riconoscimento che Žižek fa leva per individuare un soggetto paradossale che è “radicalmente desostanziato” come lo Spirito hegeliano e che allo stesso modo può essere posto solo retrospettivamente.28
Applicando poi il consueto filtro di Lacan, Žižek ha gioco facile a ricostruire l’ambivalenza parallattica dell’individuo, per un verso rigidamente determinato dalle sue reti neuronali – ed è questo il lato dell’ordine simbolico, secondario -, per l’altro puro vuoto di un rimosso originario che in quanto vuoto la scienza non può fisicamente intercettare, ma che le pulsioni inconsce ambiscono tuttavia a riempire di contenuti eccessivi, abnormi e scabrosi nel dominio – di fatto esclusivo – della realtà materiale.
Abbiamo insomma un uomo e l’ombra sua, per parafrasare Pirandello. 29
Žižek ribalta poi “la procedura critica tradizionale” per cui “il concetto di soggettività (autocoscienza, autonomia che si fonda da sé, ecc.)” rappresenta l’elemento che l’uomo ben integrato nel meccanismo sociale dell’ordine simbolico deve disciplinare: la parte più autentica dell’uomo è al contrario la sua ombra che, per quanto inafferrabile, “esercita influenza, causa effetti, curva lo spazio simbolico” e fa di lui un Soggetto, un individuo capace di autodeterminazione, di vera libertà, di scelta etica.30
Dati infatti i due domini, quello ordinatamente strutturato del nostro mondo (lo spazio esclusivo del Simbolico di Lacan) e quello del Vuoto originario da sempre rimosso (equivalente alla dimensione noumenica della Ding an sich di Kant), è evidente secondo Žižek che non può darsi autentica libertà in nessuno dei due prescindendo dalla interazione con l’altro: nel primo caso dovremmo sottostare come marionette ad un principio ordinatore (le categorie di Kant, le reti neuronali di Dennett), nell’altro – assunto per assurdo – sarebbe come trovarsi al cospetto della inesorabile necessità di dio, e saremmo quindi marionette a maggior ragione. Ne conclude quindi l’autore che “la nostra libertà esiste solo in uno spazio tra il fenomenico e il noumenico” ovvero nello spazio aperto dalla divaricazione parallattica tra noi come identità definite – il mio nome, ciò che io sono per gli altri -, e noi come ombre inquietanti, come faglie di emersione del rimosso originario.31
Stante però che secondo Lacan il nostro universo simbolico altro non è che sintomo, la manifestazione sul piano emerso della vita di effetti definiti che hanno la loro causa in spinte sommerse che li determinano, risulta difficile immaginare in questo schema un margine di manovra davvero libero per l’uomo. Anche in questo caso Žižek esce dal vicolo cieco sulle ali del paradosso – una delle parole più usate nell’intero saggio: “noi soggetti siamo passivamente condizionati da oggetti e motivazioni patologici; ma, in modo riflessivo, abbiamo il potere minimo di accettare (o rifiutare) di essere condizionati in questo modo; possiamo cioè determinare le cause a cui è consentito di determinarci o, almeno, la modalità di questa determinazione lineare.”32
Ciò significa che nulla possiamo contro le forze inconsce che fanno di noi quello che siamo, se non guardare dietro le quinte del teatro del mondo e dei nostri comportamenti, ammettere nelle tenebre del backstage il Vuoto che produce noi e la realtà come suo riempitivo necessario e – soprattutto – accettare con piena consapevolezza e altrettanto piena responsabilità che non potremmo essere diversi da quello che siamo: il vero atto libero si ha quando “il soggetto (della scelta) è responsabile per la situazione entro cui il suo atto particolare gli appare come inevitabile, nella modalità del “non posso fare altrimenti.”33
Il presupposto necessario per questa stravagante idea di libertà – ragiona Žižek sulla scorta di Lacan – è in fondo l’imperativo categorico di Kant, in quanto colloca dentro l’individuo il criterio della scelta etica, sganciato dal tradizionale ormeggio “dell’ontologica metafisica”, ovvero di una Legge superiore posta al di fuori del soggetto. Mentre infatti una Legge di questo genere ha il suo capostipite nell’Interdetto originario e quindi rifonda incessantemente il teatro del nostro ordine simbolico, della nostra realtà alimentando con i suoi divieti il nostro desiderio34, spostare “la legge morale dentro di me” significa innescare potenzialmente una tensione dialettica tra principio morale, misteriosamente agganciato al Nulla/Vuoto originario, e Legge costitutiva di un reale/simbolico secondario: la dialettica propriamente materialistica della parallasse, dal momento che il Vuoto non esiste se non nella controluce del reale, come sua ombra.
Se dunque “con Kant, la dipendenza da un’Interdizione prestabilita contro cui possiamo affermare la nostra libertà non è più possibile, la nostra libertà si afferma come autonoma”,35 è anche vero però secondo Žižek che né Kant, né Sade – la sua faccia nascosta e complementare, dato che un principio etico del tutto soggettivo potrebbe legittimare anche la perversione – sono riusciti del tutto a prescindere da un fondamento veritativo esterno e superiore seppure indimostrabile: Kant immagina un collegamento con la dimensione inconoscibile del Noumeno, Sade rinvia alla Natura anarchica e sempre prorompente oltre le barriere artificiali della legge.36
Di fatto quindi il Giano bifronte costituito da Kant/Sade ha avuto sì il merito di contrapporre alla Legge che tiene le fila del reale/Simbolico un principio etico profondamente radicato nell’inconscio dell’individuo, ma con il suo riferimento a un Altrove normativo universale non è stato capace di disegnare un perimetro esclusivamente materialistico della libertà del soggetto: un soggetto abissalmente libero – proprio perché indipendente da qualsiasi principio superiore – di accettare o rifiutare le regole dell’ordine simbolico che egli stesso per altro verso necessariamente produce.
In modo ancora paradossale sarà a giudizio di Žižek un filosofo-teologo, Kierkegaard, a restituire all’individuo la sua vertiginosa libertà autoreferenziale di screditare l’assetto normativo della realtà (simbolica) dall’interno della stessa realtà (simbolica).37
Infatti – ragiona l’Autore -, è pur vero che Kierkegaard risponde all’angoscia per l’assoluta mancanza di senso della realtà con la “rassegnazione infinita” di chi vi rinuncia per affidarsi -letteralmente – a un Dio/Significato, ma è altrettanto vero che lo stesso Kierkegaard connota Dio esclusivamente in negativo come l’altra faccia dell’ “incertezza della vita terrena, in cui tutto è incerto”: Qualcuno che “è precisamente presente appena l’incertezza del tutto è pensata come infinita.”38
Il Dio di Kierkegaard quindi, il Dio che affiora a riempire la mancanza di senso del reale e in nome del quale il soggetto è spinto al “sacrificio insensato” di tutto quanto caratterizza la sua vita reale (nell’ordine simbolico), ha straordinarie analogie con il Vuoto/Nulla che accoglie il reale delle apparenze come la superficie “neutra” della cornice le immagini di un dipinto. È per questa ragione che – conclude Žižek – esiste un “contenuto materialista nascosto nel sacrificio religioso di Kierkegaard, dove si rinuncia a tutto, a tutto ciò che conta realmente, per nulla.”39
Quindi la scelta etica, del tutto contingente, lascia all’individuo l’abissale libertà di accettare o rigettare – come il Kierkegaard della “rassegnazione infinita” – l’intera dimensione strutturata e strutturante del reale (simbolico) insieme alla Legge che le è coessenziale. Di fatto però – precisa Žižek – rinunciare al nostro mondo (simbolico) per la Causa/Cosa (il Dio di Kierkegaard, il Vuoto/Nulla inconscio di Lacan) comporterebbe necessariamente “la perdita di questa stessa Cosa-Causa”40, esattamente come togliere un oggetto dal sole comporta necessariamente la scomparsa della sua ombra: l’orizzonte esclusivamente materialistico nega sia i rapimenti estatici in un’altra dimensione, sia gli eccessi distruttivi e autodistruttivi di Bataille, “il filosofo della passione del Reale” originario, laddove “gli opposti coincidono.”41
Ecco dunque che la sua natura parallattica consente al soggetto di cogliere il carattere secondario e sempre mutevole della nostra realtà e di scuoterne l’assolutezza monolitica che la Legge vorrebbe garantirle, senza peraltro mai abbandonare il perimetro esclusivo della materialità della sua (e nostra) esistenza. È questa in definitiva la posta in gioco del materialismo dialettico per il soggetto: sottrarsi con piena autonomia etica alla presa di qualsiasi ordine costituito spostando continuamente il fuoco della prospettiva di osservazione dall’interno del quadro di cui egli stesso è parte al Vuoto della cornice che lo fonda. Ma qui siamo già nella sfera più propriamente politica in cui opera la parallasse, quella a cui il soggetto consapevole ed eticamente libero può opporre il “Preferirei di no” di Bartleby, lo scrivano del famoso racconto di Hermann Melville.
I would prefer not to, ovvero Bartleby il Rivoluzionario
La visione di parallasse presuppone che ogni manifestazione definita del nostro reale – oggetti, individui, idee – abbia una parte sommersa che la sostiene. Nel caso del capitalismo ormai pressoché globale, la parte emersa appare come un processo quasi magico di produzione di beni e di ricchezza potenzialmente capace di generare benessere diffuso, mentre sottotraccia è il desiderio osceno di accumulare che caratterizza il capitalista – quella che Žižek chiama “l’ingiunzione superegoica a godere” – a convertire il lavoro degli operai in plusvalore e a rilanciare la dinamica D-M-D’ (denaro- merce- più denaro).42
Secondo questa logica, inoltre, i lavoratori che sul piano storico-politico sono gli antagonisti del capitalista, ne sono sul versante nascosto i più fedeli alleati, dato che un’analoga ingiunzione superegoica a godere li trasforma fuori della fabbrica nei consumatori che permettono alla catena capitalistica di scorrere senza intoppi.43
La conclusione che sembra doversi trarre da queste considerazioni è che non esiste un correttivo agli aspetti più ingiusti del capitalismo, dato che la sua forza emancipativa si regge proprio sull’avidità del capitalista e su quella, in scala, del lavoratore, tanto che l’utopica realizzazione della dittatura del proletariato porterebbe paradossalmente ad un crollo della produttività. Un’altra ragione, più psicanalitico-lacaniana, sembra inoltre rendere ineluttabile il capitalismo insieme a tutte le sue storture sociali. Nel suo movimento incessante di processo che si alimenta da solo, esso corrisponde perfettamente al meccanismo della pulsione che spinge il soggetto a riempire il vuoto originario “del suo luogo di inscrizione” con materiali reali (simbolici) sempre nuovi perché sempre insoddisfacenti: tanto bene esso si sposa con la nostra connaturata “ingiunzione superegoica a godere”, che oggi anche la politica – ovvero il dominio delle forze regolative del nostro mondo (simbolico) attraverso il potere e la legge – ha miniaturizzato il suo raggio d’azione fino a diventare biopolitica, di fatto una post-politica volta a garantire e a disciplinare il godimento individuale.44
C’è da aggiungere – insiste Žižek nella rappresentazione di questo quadro sconfortante – che non è certo la democrazia il regime politico che meglio può contrastare il capitalismo globale sospinto dal vento delle più distruttive pulsioni inconsce. Anzi, il tipico egualitarismo democratico rappresenta una petizione di principio più adatta a sostenere la dissoluzione dell’ordine strutturato del reale (simbolico), delle sue gerarchie interne e quindi dei suoi necessari antagonismi: “è necessario un leader per scatenare l’entusiasmo per una Causa, per provocare un cambiamento radicale nella posizione soggettiva dei suoi seguaci, per “transustanziare” la loro identità”, ovvero per incarnare e mettere dinanzi ai loro occhi l’oscena verità inconscia che li costituisce e che informa il loro mondo.45
Un leader di questo genere, specchio del subconscio indicibile del suo popolo e di fatto contiguo alla figura del dittatore totalitario, mostra anche analogie stringenti con la figura dell’analista, cui lo stesso Lacan guardava come a un autentico soggetto rivoluzionario quando immaginava la costituzione di un collettivo sociale di analisti che sapessero portare allo scoperto il lato oscuro della organizzazione della nostra realtà (simbolica) e avviare così attraverso la consapevolezza il cammino verso nuovi orizzonti: progetto – registra Žižek – miseramente fallito.46
Evocando provocatoriamente la figura di un dittatore al posto di una democrazia, in cui le forze dell’inconscio colonizzano lo spazio del reale (simbolico) tanto da risultare irriconoscibili, l’autore intende porre ancora una volta l’accento sulla natura parallattica del Potere – la faccia della Legge come proiezione del desiderio inconscio di infrangerla – e sulla necessità che esso sia costituito come cardine ordinatore esplicito – il Significante-Padrone di Lacan – del mondo perché le forze pulsionali sempre insoddisfatte possano coagularsi nelle forme di un antagonismo rivoluzionario.
Anche in questa direzione però la strada sembra sbarrata, perché se il Vuoto che ci precede genera un desiderio che non può mai essere colmato, il sovvertimento di un Potere non può che ricadere in un altro Potere, e così via all’infinito, senza che il supporto fantasmatico che dal versante dell’inconscio sostiene il Potere e la sua Legge venga mai portato allo scoperto. È invece cruciale secondo Žižek che proprio questo sia il bersaglio politico, appunto perché “la Legge pubblica e il suo supplemento superegoico non sono due parti diverse dell’edificio legale, sono il medesimo “contenuto”; con un lieve spostamento della prospettiva, la Legge solenne e impersonale appare come un’oscena macchina di jouissance.”47
A dimostrazione poi del legame indissolubile tra Potere costituito sulla Legge e pratiche oscene che lo fondano, ha gioco facile l’Autore a citare i casi degli abusi commessi ad Abu Ghraib dai soldati americani, come se “i valori della democrazia, della libertà e della dignità personale” fossero per ciò stesso rivelatori del desiderio inconscio di trasgredirli, e quelli “di abuso sessuale su bambini da parte dei preti”, che Žižek rubrica icasticamente così: “la pedofilia è generata dall’istituzione cattolica del sacerdozio come sua “trasgressione intrinseca”, come suo supplemento osceno segreto.”48
L’unica strada percorribile resta alla fine quella di scalzare dalle fondamenta l’intero edificio del Potere esercitando la libertà abissale, completamente autonoma che – come si diceva sopra – un orizzonte esclusivamente materialista consente al soggetto: la libertà, certo, di riconoscere e accettare le oscure pulsioni inconsce che costituiscono per così dire il materiale di costruzione del nostro mondo e di ciò che noi stessi siamo, ma soprattutto la libertà di destituire della sua inesorabilità l’organizzazione sociale, politica, economica del reale (simbolico) semplicemente spostando la prospettiva da un’angolatura della parallasse all’altra, dal quadro del reale (simbolico) come Tutto che ingloba in una stessa logica il Potere e le forze che lo combattono, alla cornice del Vuoto originario che apre un campo non-Tutto davvero alternativo: tra capitalismo e anticapitalismo – insiste Žižek – la possibilità di una vera rivoluzione riposa sul tertium datur.
L’emblema dell’apertura di questo spazio terzo davvero rivoluzionario è il “Preferirei di no” dell’umile scrivano del racconto di Melville: “Nel suo rifiuto dell’ordine del Padrone, Bartleby non nega il predicato, ma piuttosto afferma un non-predicato: non dice che non vuole farlo; dice che preferisce (vuole) non farlo.” 49 Questa posizione, del tutto coerente – ricorda Žižek – con il giudizio infinito di Kant e con la negazione della negazione (Aufhebung) della triade hegeliana, non va confusa con il banale antagonismo, dato che negare il potere costituito vuol dire in fin dei conti riconoscerlo, accettare la logica del reale (simbolico) che esso ha egemonizzato, né con il disimpegno di chi non disturba il manovratore: si tratta al contrario di una disposizione permanente di disincanto verso il “mero teatro d’ombre” della realtà, della consapevolezza di chi dal grado zero del Vuoto originario sa che qualsiasi Potere, qualsiasi Legge, qualsiasi configurazione ordinata del reale è un non-Tutto a cui bisogna opporre sempre un “gesto formale di rifiuto in quanto tale”che è in sé autenticamente rivoluzionario.50
È Bartleby quindi il vero rivoluzionario, e siccome “il sogno di una rivoluzione senza violenza è per l’esattezza il sogno di una “rivoluzione senza rivoluzione” (Robespierre), dire I would prefer not to è il gesto più violento che si possa compiere.
Note
1 Slavoj Žižek, La visione di parallasse, Il Nuovo Melangolo, Genova, 2013, pp. 9-10.
2 Slavoj Žižek, The Parallax View, MIT Press, Cambridge 2006.
3 Ivi, p. 28.
4 Ivi, p. 14: “C’è un’intera serie di modelli di parallasse in diversi domini della teoria moderna: fisica dei quanti (dualismo onda-particella); neurobiologia (la scoperta che quando guardiamo oltre il volto, nello scheletro, non troviamo nulla, “non c’è nessuno in casa”, solo un mucchio di materia grigia (…);”. Circa la fisica dei quanti cfr. anche p. 257.
5 Slavoj Žižek, La visione di parallasse, il nuovo melangolo, Genova, 2013, pagg. 40-41. Nella nota 21 di pag. 41 il riferimento bibliografico preciso all’opera di Lévi-Strauss: “C. LÈVI-STRAUSS, Esistono le organizzazioni dualiste?, in Antropologia strutturale, trad. it. di P. Caruso, Milano, Il Saggiatore, 2009, pp. 153-183; i disegni si trovano a pagina 154.”
6 Slavoj Žižek, op. cit., p. 56
7 Ivi, p. 414.
8 Ibidem.
9 Slavoj Žižek, op. cit., p. 60.
11 Slavoj Žižek, La visione di parallasse, cit., p. 60.
12 Ivi, p. 46.
13 Ibidem.
14 Slavoj Žižek, op. cit., pag. 47: “(…) non appena scorgiamo, attraverso la Cornice, l’Altra Dimensione, la realtà si trasforma in apparenza.”
15 Slavoj Žižek, La visione di parallasse, cit., p. 42.
16 Ivi, pagg. 33-34: “Lungi dall’indicare una “sintesi” tra le due dimensioni, il “trascendentale” kantiano sta piuttosto per il loro scarto irriducibile “in quanto tale”: il “trascendentale” si riferisce a qualcosa all’interno di questo scarto, a una nuova dimensione che non può essere ridotta ad uno dei due termini positivi tra cui lo scarto si sta aprendo.”
17 È esplicito Žižek su questo punto: “Il limite di Kant non è il suo permanere entro i confini delle opposizioni finite, la sua incapacità di raggiungere l’Infinito, ma, al contrario, proprio la sua ricerca di un dominio trascendente oltre il regno delle opposizioni finite (ivi, p. 43).
18 Ivi, p. 35.
19 Ivi, p. 72-73, rispettivamente alle note n. 57 e n.60.
20 Ivi, pag. 72. Più esplicito il ragionamento qualche rigo sotto: “(…) il solito discorso sullo Spirito hegeliano che aliena se stesso e che poi si riconosce nell’alterità, riappropriandosi così del suo contenuto, è profondamente fuorviante: il Sé a cui lo spirito ritorna si produce nel movimento stesso di questo ritorno, o altrimenti: ciò a cui il processo di ritorno sta tornando è prodotto proprio dal processo di ritornare.”
21 Slavoj Žižek, La visione di parallasse, cit., p. 162: “È questo il modo in cui opera la “riconciliazione” hegeliana: (…) i due momenti opposti sono “riconciliati” quando lo scarto che li separa è posto come intrinseco a uno dei termini.”
22 Ibidem: “la differenza tra essenza e apparenza è interna all’apparenza, non all’essenza.”
23 Ibidem: “lo scarto tra apparenza e realtà significa che la realtà (ciò che è dato immediatamente “là fuori”) appare come espressione di un’essenza interna, che non prendiamo più la realtà “per buona”, che sospettiamo che ci sia nella realtà “più di quel che vediamo”, e cioè che sembra esserci un’essenza da qualche parte all’interno della realtà come suo nucleo invisibile.”
24 Slavoj Žižek, op. cit., p. 56: “La tensione tra immanenza e trascendenza è così secondaria in riferimento allo scarto interno all’immanenza stessa: la “trascendenza” è un tipo di illusione prospettica, il modo in cui noi (fra)intendiamo lo scarto/dissidio che inerisce all’immanenza stessa.”
25 Si tratta del capitolo 4, intitolato “L’anello della libertà” (pp. 299-371). Gli studiosi più citati sono F. Varela, T. Metzinger, D. C. Dennett, A. Damasio.
26 Slavoj Žižek, op. cit., p. 307.
27 Slavoj Žižek, La visione di parallasse, cit., pp. 352-354. Il riferimento preciso si trova alla nota 61, p. 352: D. Dennett, L’evoluzione della libertà, trad. it. di M. Pagani, Milano, Cortina, 2004, pp. 146-163.
28 Supra, p. 4 e nota 20 corrispondente.
29 Cfr. Luigi Pirandello, Il fu Mattia Pascal, in Luigi Pirandello, Tutti i romanzi, (a cura di Giovanni Macchia), vol. I, I Meridiani Mondadori, Milano, 1993 (8^ ediz.), p. 509: il titolo del capitolo XV è “Io e l’ombra mia”. Per comprendere quanto sarebbe interessante una rilettura del romanzo nella controluce di Lacan e di Žižek, si consideri la chiusa del capitolo (pp. 523-524), quando Adriano Meis, affranto per non poter condurre la vita che vorrebbe a causa della sua esclusione dall’ordine sociale (la sua identità è fittizia, egli è per il mondo quel Mattia Pascal trovato morto nella gora del mulino), fa i conti con la sua ombra proiettata sulla strada: “L’ombra di un morto: ecco la mia vita… (…) Ma aveva un cuore, quell’ombra, e non poteva amare; aveva denari, quell’ombra, e ciascuno poteva rubarglieli; aveva una testa, ma per pensare e comprendere ch’era la testa di un’ombra e non l’ombra di una testa. Proprio così! Allora la sentii come cosa viva, e sentii dolore per essa (…).”
30 Slavoj Žižek, op. cit., pp. 63-64.
31 Ivi, p. 37. Il ragionamento, di per sé convincente, è svolto da Žižek sulla scorta di Kant, Critica della ragion pratica, trad. it. Di V. Cicero, Milano, Bompiani, 2000, p. 293: se si potesse accedere al noumenico, “Il comportamento dell’uomo (…) si trasformerebbe, dunque, in un semplice meccanismo, in cui, come in un teatro di marionette, tutti i “gesti” sarebbero compiuti bene, ma nelle figure non si troverebbe “vita alcuna.”” (citato a p. 36).
32 Slavoj Žižek, La visione di parallasse, cit., p. 30.4
33 Ivi, p. 361 (il corsivo è sempre dell’Autore). Poco oltre Žižek accosta questo ragionamento alla “idea freudiana di decisione inconscia: (…) si tratta del paradosso di una decisione passiva, di accettare passivamente la Decisione che fonda il nostro essere come l’atto supremo di libertà – il paradosso del sommo atto libero che consiste nell’accettare che si viene scelti.”
34 Secondo Lacan – semplificando – la matrice formalmente vuota del nostro rimosso induce in noi il desiderio di riempirla con oggetti reali (dimensione esclusiva del Simbolico) sempre insoddisfacenti: l’oggetto sempre sfuggente, come la Morgana di Boiardo, che assume volta a volta panni differenti e inappropriati, è chiamato da Lacan “piccolo oggetto a” (cfr. ivi, pp. 62-63 tra le innumerevoli altre). Per l’implicazione necessaria “della Legge e della sua trasgressione” si veda la pagina 136: “la Legge origina il desiderio di “liberarsi” violandola e (…) il “peccato” è la tentazione intrinseca alla Legge; (…) quanto più rigorosamente noi obbediamo alla Legge, tanto più testimoniamo il fatto che, nel profondo di noi stessi, sentiamo la pressione del desiderio a indulgere nel peccato”.
35 Slavoj Žižek, op. cit., p. 142.
36 Slavoj Žižek, La visione di parallasse, cit., pp. 140-142.
37 Secondo Žižek “solo una linea sottile, quasi impercettibile, separa Kierkegaard dal materialismo dialettico vero e proprio.” (ivi, p. 114).
38 Ivi, p. 120: i virgolettati sono citazioni dell’Autore da S. Kierkegaard, Postilla conclusiva non scientifica, in Opere, a cura di C. Fabro, Firenze, Sansoni, 1972, rispettivamente pp. 304 e 305.
39 Ivi, p. 123. Per la stessa ragione l’Autore scandisce lapidario più avanti che bisogna “affermare la verità letterale dell’affermazione di Lacan secondo cui i teologi sono gli unici veri materialisti.” (p. 157)
40 Ivi, p. 122.
41 Ivi, rispettivamente pp. 144 e 143. Per un approfondimento su Bataille rinvio al mio saggio su Bataille pubblicato su Nazione Indiana (www.nazioneindiana.com/2017/04/01/la-parte-maledetta-georges-bataille/).
42 A questo proposito Žižek rilancia l’obiezione posta da Lacan a Marx: l’autore del Capitale avrebbe sì compreso che il desiderio di accumulare ricchezza da parte del capitalista costituiva un ostacolo al dispiegarsi della piena produttività del capitalismo (il capitale interamente reinvestito ed equamente distribuito, con il comunismo, avrebbe evitato “crisi economiche socialmente distruttive”), ma non che “rimuovendo l’ostacolo (…) si perde proprio questa produttività che sembrava essere generata e al tempo stesso vanificata dal capitalismo.” (Slavoj Žižek, op. cit., p. 393).
43 Osserva l’Autore che “questo è forse il caso definitivo di situazione parallattica: la posizione del lavoratore-produttore e quella del consumatore dovrebbero essere affermate come irriducibili nella loro divergenza, senza privilegiarne una come “verità profonda” dell’altra.” (ivi, p, 83).
44 Slavoj Žižek, op. cit., p. 457: “Oggi non c’è tanto una politica della jouissance, quanto piuttosto la regolamentazione (amministrazione) della jouissance che è stricto sensu post-politica. La jouissance è in sé senza limiti, l’eccesso oscuro dell’innominabile, e il compito è regolare questo eccesso. Il segno più evidente del regno della biopolitica è l’ossessione per il tema dello “stress”: come evitare situazioni stressanti, come “superarle”. “Stress è il nome che diamo alla dimensione eccessiva della vita, per l’“eccessività” che deve essere tenuta sotto controllo.”
45 Slavoj Žižek, op. cit., p. 557. Quanto al dittatore che incarna la natura inconscia del suo popolo, la memoria corre istintivamente a Mussolini e al fascismo nella folgorante definizione di Piero Gobetti: “il fascismo (…) è stato l’autobiografia di una nazione.” (Piero Gobetti, La Rivoluzione Liberale, Einaudi, Torino, 2008 [1964], p. 165).
È difficile descrivere una voce, circoscriverne il raggio e le modalità d’azione. Leggendo gli scritti di Lisa Ginzburg – che si tratti di romanzo, racconto o dei suoi numerosi articoli e recensioni – non si può far a meno di riconoscere, nell’andamento della narrazione, in un giro di frase o nel costrutto di un’immagine, un medesimo timbro.
Con l’ultimo Buongiorno mezzanotte, torno a casa (Italosvevo, 2018), il cui titolo riprende nella prima parte un verso di Emily Dickinson, Ginzburg propone una esplorazione del vocabolario dell’esilio: distanza, déplacement, transito, esitazione, non ritorno sono alcuni dei lemmi a partire dai quali l’autrice indaga la nostalgia nervosa del dispatrio, un sentimento quasi speculare a quello racchiuso nel titolo del romanzo di Kundera L’ignorance, evocativo della sofferenza che sta nel non sapere cosa accade a ciò che si è lasciato. Qui il tormento nasce invece dall’incessante rovello sulla eventuale opportunità del ritorno: quello narrato è un esilio volontario, non mosso da ragioni concretamente drammatiche, ma tipico di molte vite plasmate sulla mobilità del XXI secolo, che mai esclude la possibilità del rientro in Italia – il paese più amato, continua ossessione di chi scrive.
In modo efficace Ginzburg associa l’idea del déplacement allo strabismo, spiegando come il disturbo ottico non sia una pulsione a guardare in direzioni opposte, bensì un’ostinata fissità che ostacola il cambio di prospettiva; così il termine francese viene a indicare «un dislocarsi fisico, senza che tuttavia al pensiero riesca di stare al passo con la transizione geografica». E, ancora, si legge: «Lontana dall’Italia, continuo a pensare all’Italia», lungi però dall’idea di concretizzare il ritorno.
Come si configura allora il rapporto con la terra ospitante, in questo caso la Francia? Il primo commento riguarda il polemico rapporto con la lingua: «Non mi sforzo di parlar bene al punto da mimetizzarmi e non lasciar trasparire il mio essere italiana. Mi esprimo al contrario con deliberata sciatteria, in segreto rallegrandomi con me stessa della mia imprecisione». In una città come Parigi, un atteggiamento di questo tipo rappresenta il supremo atto di resistenza a una forma di integrazione che la città pretende senza complimenti: restare significa inquadrarsi, anche linguisticamente, altrimenti la patina di straniero resterà il primo elemento identificante. Ginzburg – che è attratta dall’ossimoro perfetto, l’idea del transito duraturo, l’ebbrezza delle molteplici possibilità – si sottrae al gioco dell’incasellamento con la volontà di cogliere, invece, le occasioni creative che la libertà del vivere all’estero offre, nel momento in cui diventa possibile reinventarsi incessantemente e offrire così nuova linfa alla scrittura.
Nella prima metà di questo piccolo libro tutto sembra convergere verso l’idea che il ritorno resti incompiuto soltanto per la voglia di riservarsi tale possibilità per il futuro, suggerendo dunque che la nostalgia non sia altro che una raffinata forma di desiderio: finché non si torna, ci si può sempre gingillare con il pensiero del rientro; quale altrove immaginario resta invece a chi rimpatria?
Nella seconda parte, tuttavia, le carte si rimescolano. «A cosa servono le radici se non puoi prenderle con te?» diceva Gertrude Stein, citata da Susan Sontag, che commentava quanto un simile concetto fosse «very Jewish». Il nodo delle radici ebraiche è esplicitamente affrontato dall’autrice, che ad esse ascrive «l’ossessiva divagazione su distanza, nostalgia, autoascolto versus inventività quando lontana da “casa”»: ecco che il piano del discorso si sposta nettamente sulla creazione letteraria; compagni d’esilio dell’autrice diventano Ortese, Gogol, Joyce, Rhys. Quest’ultima scriveva: «non sarei mai appartenuta a nessun luogo, e lo sapevo, e sarebbe stato così per tutta la vita, cercare di appartenere, e non riuscirci». Attraverso il pensiero dei quattro autori, intervallato da suggestioni suscitate ora da una citazione, ora da una canzone, Ginzburg mette in luce il modo in cui la distanza «funziona come “fecondo tormento”», quando l’esilio – che è anche latitanza da sé stessi, e parziale vaccino al narcisismo – rovescia l’io al di fuori di sé, rendendolo più ricettivo ai sensori esterni, più attento e dunque più ispirato.
Al di là del legame tra creazione e nostalgia, l’altrove è diventato un’utopia condivisa, come l’autrice non manca di rilevare nelle ultime pagine, compiendo quel salto dal dato biografico alla descrizione di una condizione collettiva, lo slancio sempre necessario dal particolare all’universale. L’inquietudine geografica nasconde in realtà una difficoltà storica: è il proprio tempo che è difficile abitare e questo poco ha a che vedere con la città che scorre sullo sfondo. Abitare il proprio tempo: una sfida che Ginzburg sembra vincere entrando nella dimensione del racconto, seguendo il movimento della parola, trovando infine casa proprio all’interno della voce citata in apertura.
Facciamo una cosa diversa, cominciamo dalla fine. Dichiariamo solennemente:
Il fantastico non è un genere letterario ma un modello trascendentale, la cui funzione specifica è porre senza sosta la domanda: cos’è il reale?
In un mondo ordinato quest’affermazione sarebbe arrivata in chiusa, in seguito a una lunga e serrata argomentazione; inoltre sarebbe stata pronunciata (al netto della nota cacofonia lessicale del discorso filosofico) dal vecchio cieco Borges (già vecchio e cieco, voglio dire, al momento di enunciarla). Non è così invece – il motivo è semplice. Il vecchio cieco Borges avrebbe pensato questa frase a partire da un’opposizione fondamentale: realismo letterario vs. finzione speculativa (o non-empirica); questa opposizione nasconde un’altra coppia dualistica: natura vs. cultura.
C’è un segreto. Io l’ho capito non uscendo mai di casa e guardando le persone dalla finestra. È un segreto importante e forse non lo meritate, ma ho deciso di dirvelo lo stesso. Magari migliorate, magari. Il segreto è che muore soltanto chi si sforza. Muoiono i muli, come muoiono i ponti e come muoiono le idee, perché provano a reggere il peso del mondo, e dopo un po’ di tempo si spezzano e allora crollano in terra e non si alzano più. Muoiono le persone come muore la memoria, come muoiono i contenitori, a furia di voler tenere tutto assieme, a portata di mano, tutto classificato, finisce che si ritrovano senza più energia e allora si lasciano interrare in silenzio, per la vergogna e la stanchezza.
Io e la mamma non ci sforziamo mai, siamo saggi come le nuvole, siamo saggi come le macchie: dove ci troviamo, stiamo, dove ci spostano, andiamo: per questo non moriremo mai. L’ha detto un tedesco, una volta. La vita è un ripiego. Così ha detto. A me e alla mamma basta guardare la vita degli altri, per vivere. La vivano loro, la vita, la vivano loro, la morte. Io e la mamma non usciamo mai di casa.
E li guardiamo. Il vecchio dai capelli gialli stringe il bocchino della sigaretta con i denti. Ha le mani aggrappate ai fianchi, i gomiti larghi, la pancia protesa in fuori. Osserva il cortile che si estende sotto di lui sporgendosi dalla ringhiera dell’ultimo piano, il suo sguardo scorre come un nastro trasportatore, e lui gli permette di spostarsi con fermezza e precisione da un dettaglio all’altro, senza intoppi e senza mutazioni di ritmo: ci sono appartamenti talmente illuminati che è possibile studiare ciò che gli abitanti fanno al loro interno – secondo il vecchio dai capelli gialli fanno tutti le stesse cose, cose necessari e banali che lui ha già fatto e che ha già fatto meglio – riesce persino a valutare il peso delle bici legate alle ringhiere, individuando la lega di metalli di cui sono composti i telai, poi sposta lo sguardo verso il basso, verso i vasi, e immagina l’odore delle piante appassite e di quelle rigogliose, avverte in bocca l’acidità dei terricci e l’eccessiva stagnazione delle acque. “Si crede padrone del mondo”. Questo dice di lui la mamma, ma soltanto quando lui è lontano o invisibile. La mamma ha sempre ragione, la ragione non si dà agli scemi, la ragione si dà alla mamma.
Il vecchio dai capelli gialli è felice di credersi il re del mondo, specialmente la notte, quando il cortile interno è deserto e ci sono giusto i sorci che lavorano, ma piano piano, in punta di zampa, coi baffi, nell’ombra. È più facile credersi re del mondo se nessuno fa rumore o si agita, ed è più facile essere felici. L’uomo dai capelli gialli ogni notte riafferma il proprio dominio sul mondo e per questo è felice. Lo si capisce dal modo in cui sputa il fumo della sigaretta, pronunciando lente bestemmie e ingiurie, che nella sua bocca sono dolci come cioccolata. Ma se lui è felice perché convinto di essere solitario e regale mentre contempla il proprio regno, io, che lo osservo e lo studio e lo capisco, io allora sono ancora più felice: io allora sono ancora più re di lui.
La vita trascorsa sempre chiusi in casa è uno zoo. Bisogna rispettare la flora e la fauna. Nessuno ti spiega chi è il cacciatore e chi la preda, sono cose che bisogna sapere, ci vuole intuito per non uscire mai di casa. Nell’appartamento quasi buio mi sposto con grande armonia. Il frigo gracchia, allora striscio il piede contro la moquette lasciando che il calzino mollo mi segua in ritardo, come la bava di una lumaca. Il lavabo della cucina perde, riempie la cucina lercia di un rumore da cascata in miniatura, e io succhio le guance all’indentro, come un pesce. Se sbatto contro i mobili o i sacchi della spazzatura, li faccio miagolare, li faccio cinguettare, trasformo il compensato e le lattine in gatti e uccellini. Riconosco gli oggetti sfiorandoli o calpestandoli coi piedi.
Sento il profumo del disordine sedimentato, del disordine quando viene lasciato in pace, a macerare. Sopra il mandarino iniziato e mai finito cresce una peluria scura, corta e morbida: se avessi un cugino avvocato o un amico bravo a giocare a scacchi, quella sarebbe la sua barba. Nel barattolo di yogurt vive una piccola foresta dominata da funghi e muschio neri. Chi ha paura del buio è complice della luce accecante, della luce degli ospedali, io invece sono pronto per i fondali del mare, per i posti profondi, nascosti sotto le isole remote. Dormo durante il giorno. È il mio modo di perdonare il mondo per il vizio che ha di sprecarsi nella confusione, in piena luce.
Le sirene blu della polizia, filtrate e deformate dai vetri dell’ingresso principale, sbocciano improvvise sui muri interni del cortile, sono piante rampicanti, coralli di ghiaccio. Gli uomini in divisa arrivano, come sempre, come quasi ogni notte, quando le urla sono finite. Indossano guanti adatti a indagare il silenzio che segue il rumore degli oggetti fratturati e del sangue colato. Non si fanno scrupoli a giudicare ciò che resta della violenza realizzata o di quella promessa e poi fallita, o soltanto rimandata. Poco dopo, immancabilmente, arriva l’ambulanza ad appiccicare altre luci sui muri, a disegnare righe in terra con le ruote delle barelle: gli infermieri sono uomini e donne di passaggio, si vestono di bianco. I nostri vicini si scopano come conigli e si scannano come cani, questa è la spiegazione della mamma, e io, più di una volta, avrei voluto domandarle se le due cose le fanno assieme, se è roba che si può fare tutta assieme, ma ho sempre mancato il momento giusto. Non ho mira col tempismo delle frasi, per questo parlo poco, per questo non parlo mai. E proprio adesso che vorrei domandarlo, adesso che mi sento pronto, la mamma continua a dormire, ha molta fame di riposo.
Quando scaldo il brodo affiorano graziosi dischi di grasso che somigliano a ufo in miniatura, sono puliti, eleganti, al tempo stesso bianchi e gialli, come il burro. Io il brodo lo bevo direttamente dalla pentola. Mi brucio di proposito la bocca perché voglio gli occhi bagnati, perché voglio dedicare questo pianto breve al tempo, al tempo vuoto e indifferente, crudele, che non smette di passare. Io ci tengo a vendicarmi con affetto, come i felini, che dopo lunghi e faticosi inseguimenti invece di sfogarsi contro la preda acciuffata con pugni e sputi, la infilano in bocca, trovano spazio tra i propri denti, e poi in gola, e poi ancora più dentro, in un abbraccio nascosto e lungo che dura fino alle budella, e magari ancora di più. Il brodo cura, l’acqua del brodo è come un olio di mucca, come una spremuta di bestie che invece di vivere lassù, nel verde dei prati, hanno fatto un sacrificio per noi. Per me e la mamma. E noi ricambiamo la loro generosità andando ghiotti di brodo. E poi il brodo dura, va avanti giorni e giorni, basta levare la membrana che si forma durante il giorno, basta sbucciarlo, il brodo, oppure basta farci dei buchi dentro, quando va a male, come fanno gli eschimesi per pescare nel ghiaccio. Io lo do alla mamma, lei ha bisogno di essere curata perché ha la malattia degli anni, l’accumulo, l’indigestione degli anni, e io invece ho bisogno di lei, ho bisogno che lei duri. Quando è troppo stanca per mangiare e preferisce continuare a dormire, io allora lo bevo anche per lei, il brodo. Mi sforzo di berne più di quanto me ne serva, e le sto vicino, bruciandomi la bocca e la gola, sudando, affinché il mio sforzo, come di rimbalzo, di carambola, si traduca in cibo per lei, in uno spuntino almeno, per farla durare ancora, ancora un po’ di più.
Bambino intrappolato dentro il corpo di un adulto ritardato. Ti puzza l’alito anche quando tieni la testa sott’acqua. Cuore di blatta. Bestia senza la coda. Sei un ergastolo con i piedi.
Questi sono alcuni dei complimenti che mi fa mamma quando non è impegnata a dormire con la faccia premuta nello stomaco del divano sfondato. E quando si complimenta con me la mamma prova a darmi degli schiaffi, però senza mai riuscire a colpirmi come si deve, perché è vecchia, è stanca, e i suoi pugni dati nel vuoto sono carezze: sono le carezze di chi non avendone mai ricevute non ne conosce l’alfabeto.
Io invece, studiando la notte del cortile, osservando attentamente le persone gli animali e gli oggetti che la popolano, io conosco l’alfabeto delle carezze, io pratico la giurisprudenza del cortile interno, io so i vocabolari del mondo. Mi basta leggere o ascoltare una parola per sapere tutto di lei, per avere notizie dei suoi genitori, dei suoi piatti preferiti, tutto sulle lettere che per esistere è stata costretta a tradire. Tutto.
Una parola molto bella tra quelle dei vocabolari del mondo, secondo me, è miseria. Perché la miseria è profonda come una vasca, spaziosa come la gola di una balena, come un pozzo. Io e la mamma la nostra miseria la spendiamo senza sosta e senza remore, con la generosità di un fiume, che si chiama Volga o si chiama Danubio: la diamo a chiunque la desideri, la nostra miseria, la regaliamo per aria come un profumo forte.
Un’altra parola molto bella che ho trovato nei vocabolari del mondo è rapina.
La parola gonorrea per chi non esce mai di casa è come andare a raccogliere le more nel bosco, la dici in bocca e senti la bacca staccarsi, e sai che dopo arriva un bel gusto dietro la lingua.
Come parola, è bella anche alambicco, perché è una parola che sa di scogliera e di animali coperti dal guscio, una parola che di sicuro alleva al proprio interno ostriche e perle grosse come acini d’uva.
Io mi faccio la barba in corridoio, ripetendomi nella testa le parole che vivono dentro i vocabolari del mondo. E ci sono volte che le ripeto talmente bene che dagli altri appartamenti arrivano dei rumori forti, come a dirmi di continuare, di non smettere. Fanno i grugniti i vicini, ruttano i sospiri e bestemmiano le minacce: per incitarmi. Però io dopo un certo periodo di tempo non ho più barba da tagliare, è tutta per terra la barba, e allora devo smettere anche con le parole nella testa. Perché è una questione di correttezza. I vocaboli del mondo vanno esercitati poco alla volta, bisogna accettarli e fraintenderli a piccole dosi, pelo dopo pelo. Una volta che anche i baffi sono andati allora bisogna fermarsi e strizzare gli occhi con gratitudine, come fanno i ratti, come fanno i castori.
Ma anche palude e ghigliottina sono belle parole, anche budella e clistere, anche rigagnolo e uranio, anche vescica e balcone.
C’è grande soddisfazione, lo ammetto. C’è grande soddisfazione nell’aspettare che mamma si svegli. Perché è grazie alla mia paziente attesa che intere valli ospitano vigne e piantagioni, perché è grazie alle mie giornate trascorse rannicchiato sul pavimento che i minerali, superati i loro momenti di razzismo, si uniscono a formare catene montuose sulle quali le capre dalle lunghe corna possono vivere le proprie faccende private.
E se un giorno la mamma non dovesse più svegliarsi, senza dire nulla io aprirò la porta di casa e mi lancerò dal balcone: cadrò nell’aria e mi trasformerò in una divinità azteca, in un gas solido o in un grumo di piume. Qualsiasi parola andrà bene.
«Che accadrebbe – si chiedeva un artista – se l’universo fosse leggibile? Forse c’è questo, nascosto dietro alla spaventosa bellezza della realtà. Ci accorgiamo che qualcosa parla con noi. Conosciamo quella lingua. Eppure non capiamo una parola»1.
che la storia non è un fatto, è invece un permesso,
a volte casuale: attorno alla tazza madreperlacea si snoda un bassorilievo scolpito e inciso nella primavera del 1946 a Norimberga dal fattorino del Pubblico Ministero, tale Slobodan, durante i tempi morti, tra una consegna e l’altra, una fascia a narrazione continua come in un rocco della colonna di Traiano, un fregio in parte traforato in parte inciso sull’esterno di un ‘Nautilus pompilius’ incastrato a bocca all’insù tra un ampio piedistallo e una statuetta sormontante prensile, entrambi in argento dorato, cosicché la coppa, montatura e conchiglia, raggiunge la considerevole altezza di 48,5 cm. e una larghezza massima di 19 cm., e da solo il piedistallo bifronte è alto almeno metà dell’insieme
che fu realizzata così l’inversione, il crimine
di soppressione precedente al genocidio
che mai nella storia uno Stato è scomparso
per pura coincidenza
che è scivolato di lato il compromesso
della civiltà
circa a metà del fregio madreperlaceo un uomo con la testa di cane si sporge da uno scranno, mentre sulla destra tre figure in parte abrase si concentrano nella lettura di un documento, chi ad ascoltare distratto, chi si aggiusta le cuffie dicendo all’interprete di dire all’imputato di parlare più lentamente
e dire che non solo uno Stato è stato distrutto,
ma anche il Gioco dell’Oca, pedine e predatori,
che i giocatori multi-laterali, multi-centrali,
multi-internazionali
hanno calpestato suolo, sangue
e diritto
sul rovescio della base del piedistallo è stata scoperta l’incisione del nome dell’artista orafo autore del supporto argenteo, tale Markovic, croato, che ebbe la tazza intarsiata in dono dallo zio Slobodan – serbo, alla fine del processo di Norimberga, quando tornò in Patria -, e ne disegnò e realizzò il supporto nei tempi morti tra un massacro e l’altro, che
Fratello e Uno è il gruppo dei soldatini
di stagno,
che, meglio, si sganciò da cinque a sei volte più
veleno che a Hiroshima,
che sradicherà dopo cento anni la pianta e la sua
pestilenza
pesta il piede con ira una delle due statuette a tutto tondo del piedistallo, quella dell’uomo barbuto, mentre inforca una lancia sormontata da un bucranio che spaventa la donna sulla destra, la quale si ritrae alle sue spalle, inorridita, infine
che era ovvio che non era negli interessi degli Striati
che ci fosse pace nel cortile,
come la fiaccola pendente dalla mano del vertice che attanaglia il processo, spelling I-C-D-S-M.
*
Oggetto: larva acquatica I
d’aprés Hubert Duprat
a una scala più grande i Nostri diventano i Vostri
a una scala più piccola i Vostri diventano i Loro: Lei può immaginare che cosa provai in quel momento. (…) Quando aprimmo l’uscita di emergenza n. 38 il calore che ne uscì fu così intenso che non potemmo scendere
: nessuna scala che porti dentro al serbatoio
dal serbatoio nessuna scala che porti fuori:
come cotti, evaporati, astucci perlati custoditi in acqua
attorno a tricotteri carbonizzati, a immagine e somiglianza
divina,
con pagliuzze auree
(‘Museo di Arti Applicate’ di Dresda, Sala 45, teca 13/2a)
*
Oggetto: larva acquatica II
d’aprés Hubert Duprat
Negli ecosistemi delle acque dolci, specialmente nei corpi d’acqua superficiali dell’areale paleartico, i Tricotteri (Trichoptera Kirby 1813) sono uno degli Ordini più importanti degli Insetti acquatici in quanto componenti di catene trofiche complesse e per il fatto che la loro biologia interagisce con interi comparti di organismi fluviali
con interi comparti che non sapevano nuotare o nuotavano
male, con interi spiedini infilati ordinati dalla sera prima, chi
ancora ardente, nel gonfiore di larve esse stesse metalliche,
meglio a quel punto immergere al più presto la custodia
in acqua e guardare la città che brucia di fronte,
inanellando attorno a sé nuove pietre
preziose più della vita
– pagliuzze ossee
(‘Museo di Arti Applicate’ di Dresda, Sala 45, teca 13/2b)