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Quarant’anni per dirsi addio.

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di Paola Caridi

“È difficile stabilire il momento in cui si prende commiato da una persona”

Nella tradizione popolare musulmana, in Egitto, si dice che per quaranta giorni l’anima della persona che muore se ne stia tra la terra e il cielo. Sono quaranta giorni di sospensione tra la nostalgia per la vita e la tensione verso ciò che c’è dopo l’esistenza terrena. Poi, alla fine dei quaranta giorni, l’anima trova finalmente la sua pace, scioglie il suo legame con la terra, e sale al cielo. Si libera. Chi rimane, scioglie a sua volta i lacci del lutto individuale e collettivo, e celebra con una festa collettiva e gioiosa l’anima che si libera e raggiunge un’altra dimensione, tutta spirituale.

Costanzo Ioni – Stive

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di Daniele Ventre

La poesia di Costanzo Ioni vive da sempre nella dimensione verbo-motoria della performance, tanto che quando appare nello spazio bianco della carta stampata, vi si ritrova come confinata, deprivata in parte del suo effetto perlocuzionale. Una volta di più questo fenomeno si riscontra per i testi, fra verso e “iper-prosa”, raccolti nella silloge Stive (il suo secondo libro, dopo Prêt-à-porter del 1985), edita per i tipi di Guida nel 2017 e prefata da Antonio Pietropaoli. Sin da subito le forme poetiche di Stive, con la loro tensione espressiva e il loro impasto fonico, impongono all’avventurato fruitore l’infrazione della lettura del silenzio, come lo stesso Pietropaoli annota al termine della sua prefazione, un’avvertenza da cui abbiamo voluto prendere le mosse come da un fiat lux primordiale.

La genesi del linguaggio di Ioni, con la sua ποικιλία, la sua variegata polifonia, ha alla base una lunghissima tradizione. Ovviamente, nelle ascendenze immediate, la linea che arriva alle neoavanguardie, ai novissimi, al gruppo ’63, e si invera per altra via, quasi per rovesciamento dialettico, oltre che numerico, nel gruppo ’93 e all’area del Baldus, a cui Costanzo Ioni è storicamente contiguo; ma più a largo raggio, l’ars macharonaea e fidenziana, l’espressionismo, la deformazione comico-realistica con i suoi antenati contemporanei, moderni e medievali e antichi, da Gadda a Joyce, da Rabelais a Cervantes, fino a Dante, e a Petronio. Ioni costruisce così la sua lingua deviante, anomala, periferica eppure centrale, in una mescidanza abnorme, anticanonica, anticuriale, antiaulica.

Ne vengono fuori una poetica e una politica del ritmo e del linguaggio che riflettono la realtà in anamorfosi. Così la lingua di Ioni restituisce di sguincio, o in tralice, il quadro oggettivo di tutto l’affare del mondo, denunciandone l’irrisoria messinscena. Questa parola esagerata, passata sotto una gragnuola destruente di riassestamenti fonetici, morfosintattici, lessicali, al di là dei confini fra italiano standard e dialetto, fra dialetti italiani e lingue europee contingue, finisce per travolgere in sé i tic e gli automatismi della neolingua mercantile oggidiana, ne riarrangia gli idioms, ne riorienta le dinamiche comunicative usuali. Risultato: un argot plurivoco, surreale, di un surrealismo ontologicamente più solido del reale: una lingua creolizzata, che delle lingue creole riflette le dinamiche di auto-organizzazione, fra parole macedonia, calchi morfosintattici aberranti, spiazzamenti ortoepici. Nello stesso tessuto di Stive convivono, con permanente sfrigolio contrastivo, idiotismi dialettali, lessici pseudo-familiari da pubblicità, esotismi.

In questo pot-pourri di strutture convergono ovviamente apporti formali e metatestuali di ogni tipo e di ogni epoca. L’incipit (“n’iperbole e chenneso – ca l’opra s-terminata”) ricostruisce la quartina zagialesca di doppi settenari dei poemetti di Bonvesin de la Riva e delle laude di Jacopone. L’ironia metafisica di “Codice e regolamenti”, la prima sezione della raccolta, esordisce scandita da vasti versi atonali, pseudoprosa alla Mazzonis, brevi esquisse prosastici pseudo-didascalici. La sezione successiva, L’antica allegria del guidatore, comincia con un evidente richiamo all’incipit del Don Chisciotte, e procede esclusivamente per ampie lasse versolibere e atonali, di varia struttura e misura, in cui sembra campeggiare in sottofondo un io narrante tipico dei romanzi in versi alla Pagliarani e alla Bertolucci -naturalmente con tutt’altra impostazione formale e concettuale. Le lasse di pseudoprosa non giustificata di “Fuochi fatui” spezzettano la parola in una disgregazione ortografica scandita dallo slash e fonata al limite della lallazione. Una prosa di lingua anarcoide, fra dialetto dell’età dell’informazione e gergo cancelleresco tardorinascimentale, si esprime in “Limiti di velocità”, che però mostra una breve sezione versale connotata da nitido monolinguismo. Tutt’altra temperie espressiva è invece in “Clo(w)ne e il doppio”, in cui formalismo e tecnicismo ironizzati e degradati, ridotti al comico tramite calembour e figure etymologicae, campeggiano a ogni linea. Nelle brevi sezioni centrali di “Ciurme tempestose” e “War games graffiti (le donne, i cavalier, l’arme, gli amori)”, “Que ten(e)(n)iss” la lingua in assonometria esplosa di Ioni fa le sue prove più allucinate, travolgendo e stritolando senso e significato, introducendo lo stile debordante delle sezioni finali, “Rif.Lettere”, “A Chevalier donato”, “Stive”. L’intero libro segue dunque una climax ascendente della complessificazione espressionistica di forma e parola, così che i suoi due ideali emisferi si compenetrano e si integrano.

A chi segue questa climax comica e corrosiva, si squaderna davanti un descensus Averni dell’insensatezza quotidiana. Ma allo stesso tempo, l’autore di Stive accompagna per mano il suo fruitore lungo un romanzo di de-formazione che è anche guarigione da quella stessa insensatezza. A un primo contatto, taluni giochi verbali del poeta sembreranno eccessivi ed estranei al consorzio del comprensibile. E però già nella prima grande sinderesi poetica dell’Occidente medievale e moderno, il lettore si è trovato davanti ai “papé satan papé satan aleppe” e ai “lamè maì alecche zabì almi” di Pluto e Nembrotte. Nell’antipoema dissacrante della commedia umana troppo umana, nell’epoca in cui il poeta è ormai a-theologus, perché ogni dimensione assiologica si è disgregata e ogni fondamento è stato obnubilato dall’incertezza mediale, il medium linguistico deve per forza di cose, nell’ottica di questa poesia, destrutturare in più modi la sua sensatezza apparente, così da porre le basi di un ri-sensamento dell’esistenza.

La linea del cielo

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di Franco Buffoni

Per gentile concessione dell’autore, anticipiamo alcune poesie del nuovo libro in uscita domani, 10 maggio 2018 (hj).

Zitelle e tricicli

L’Ercole col triciclo consegnava le bombole del gas,
La Ebe era una cugina della mamma,
Allora si diceva l’uomo di fatica e la cugina zita.
Che s’erano sposati lo appresi nell’ora di epica,
Un matrimonio combinato dalla mamma
Celebrato alla Madonna della Ghianda
Nella brughiera di Somma Lombarda,
Lui che arrivava a piedi
Facendo forza su un cancello
Una murella da scavalcare,
Lei persino col bouquet da rilanciare.
E la mamma nell’attesa
Minou Drouet Françoise Sagan
Sfogliava l’Oggi.

Angelo Petrella, Fragile è la notte

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di Guido Caserza

«Denis scartò il pacchetto e infilò una Rothmans in bocca (…).

Si alzò di scatto e aprì la finestra, sputando il fumo in direzione dei pini. La testa gli pulsava dalla mattina, aveva ingoiato due Aulin ma non avevano fatto effetto. Gli enzimi erano alti, il medico gli avva ordinato di darsi una calmata: “Cristo, piantala con quelle schifezze… Scopa di più o fai sport, magari ricomincia a giocare a tennis. Ma smettila col cognac.”

“È Macallan.”

“Quello che è. Mi hai capito.”»

Angelo Petrella, al suo primo cimento nel romanzo seriale, esibisce da subito, in incipit, il materiale narrativo di cui è composto il suo Fragile è la notte, primo episodio dell’ispettore Denis Carbone: altri tre ne seguiranno. Abbiamo, cioè, il tipico repertorio del poliziesco di commercio, con il poliziotto nicotinizzato e ulcerato da diuturne dosi di whisky. La sfrontata esibizione di topoi caratteriali ubbidisce in realtà a una precisa strategia testuale: Petrella mette subito in guardia il lettore; non aspettarti altro, sembra dirgli, in queste pagine non troverai altro che una carrellata dei luoghi comuni di cui sono infarciti i noir o le relative propaggini seriali. Ci sarebbe quanto basta per allontanare quel tipo di lettore-critico per cui il trionfo della trama sullo stile appare come un peccato capitale, anche moralmente connotato. A questo si aggiunga che all’origine della scrittura di Petrella c’è un’ossessione precisa: la conquista del lettore, se si vuole, in termini psicanalitici (ma di una psicanalisi selvaggia), del lettore-padre. Petrella sembra disposto a tutto, pur di blandirlo e conquistarlo. E ci riesce esemplarmente, propinandogli tutto l’armamentario del romanzo d’appendice rivisitato nei modi della narrativa seriale oggi dominante il mercato letterario ed editoriale.

Detto questo, occorre naturalmente aggiungere che Petrella è scrittore troppo scaltrito per soggiacere supinamente alle “normative” del mercato e della letteratura di genere. Egli, piuttosto, le usa come mattoni narrativi coi quali edificare una rappresentazione della realtà tutt’altro che banale. Il problema della rappresentazione è infatti problema capitale per Petrella, e ne diremo dopo.

Ma veniamo alla trama: l’ispettore Denis Carbone, coinvolto in un brutto affare di scommesse, è stato confinato per punizione nel commissariato di Posillipo, il quartiere bene di Napoli. Qui è ora costretto a misurarsi con casi poco significativi, topi d’appartamento e cose del genere, finché una mattina d’agosto il corpo di Ester Fornario, una signora dell’alta società dedita alla pratica del sesso estremo, viene trovato ai piedi della torre che domina la sua villa. A Carbone appare subito evidente che si tratta di omicidio. Il suo sesto senso gli dice anche che quell’omicidio è legato a un affaire che, come scoprirà il lettore, coinvolge i gradi più alti della gerarchia fino a un questore orditore di intrighi. A indagare sull’omicidio viene incaricata anche la squadra Mobile, in collaborazione, ma anche in concorrenza, con Carbone. Il quale scoprirà, celati in uno speccho di una misteriosa casa dirimpetto la villa di Ester, una serie di dischetti in cui sono custoditi segreti che dovrebbero rimanere tali. Va da sé che ai piani alti della gerarchia vorrebbero chiudere l’inchiesta con un colpevole di comodo, ma Carbone è il tipico eroe da poliziesco che non si ferma davanti a nulla, disposto a mettere a repentaglio la propria vita pur di scoprire la verità.

Come si snoda la trama e come si giungerà all’agnizione finale è naturalmente cosa che non può qui essere svelata. Appare comunque evidente, da quanto riassunto, come Petrella abbia giocato con gli stilemi tipici del poliziesco, mettendo in scena l’eroe solitario assetato di giustizia, i superiori corrotti, l’alta borghesia viziosa e il tipico intrigo che dà, verso l’epilogo, sullo spionistico.

È però proprio nel rifarsi al fenomeno estetico (e sociale, naturalmente) della letteratura di appendice, che Petrella marca la propria differenza e la propria arte. Come vuole il genere codificato, non manca nel romanzo anche la componente sentimentale: Carbone è infatti perdutatamente innamorato di Laura, la donna che lo ha lasciato anni prima e che ora è la moglie di Maurizio Albano, un pezzo grosso dell’Anticrimine e che sarà fatalmente l’antagonista del nostro ispettore. Ma la vicenda sentimentale, tipicamente romantica nel suo intrigo, è appena abbozzata, o emerge sporadicamente dai ricordi di Carbone. Ciò nonostante al lettore appare evidente il suo carattere ossessivo, talmente ossessivo da determinare l’andamente subnarrativo del romanzo e l’azione, in generale, del suo carattere principale. Direi che l’impossibilità di dimenticare la donna amata è la soap opera implicita dell’ordito. L’amore, ovvero la sua mancanza, è il vero motivo che spinge Carbone all’azione ed è per questo che la sua indagine si tinge di ineluttabilità. Al contempo è ciò che rende l’io dell’ispettore un io precario. Carbone non ha più io vero, reale, è in uno stato di morte in vita da quando è stato abbandonato dalla donna amata. Quest’uomo, che non ha più un io saldo e coerente, da cosa è spinto all’azione? Più che dalla sete di giustizia o dall’amore della verità, da quella figura dell’ansia che scaturisce tipicamente dal vuoto esistenziale provocato dalla frustrazione dei sentimenti amorosi. È questo vuoto a spingerlo all’azione o, detto in altri termini, alla fuga da sé stesso. Il suo essere non è nulla se Laura non lo prende in considerazione ed è, questa, una prospettiva shakespeariana, ed è in questo modo particolare in cui Petrella intreccia il motivo amoroso con quello investigativo che egli marca la propria differenza dalla narrativa di genere.

Ho parlato di prospettiva shakespeariana. Più su ho fatto cenno a uno specchio in cui Carbone trova dei dischetti. Tale specchio veniva impiegato per indicibili giochi erotici e pratiche estreme da Ester e i suoi accoliti, ed esso è un altro tema ossessivo nel romanzo, su cui l’elucubrazione investigativa di Carbone torna spesso. Mi sono chiesto il motivo per cui lo specchio risulti un tema ossessivo: non è tanto per il fatto che sia ricorsivo, né che sia per sua natura perturbante, ma perché esso funziona come riflesso e autointerrogazione di Carbone. L’ispettore, nel momento in cui ne fa un elemento cardine della propria indagine, ne fa anche, inconsapevolmente, lo strumento di una quête in interiore: chi sono? È la domanda implicita che l’ispettore rivolge allo specchio. Chi sono diventato? Chi ero? L’enigma di Amleto aleggia in quello specchio che, dunque, non è solo un espediente narrativo, ovvero lo strumento per la soluzione dell’inchiesta, ma, più significativamente, il simbolo dell’angoscia esistenziale del nostro eroe.

La capacità di caratterizzazione che contraddistingue Petrella passa attraverso questi dettagli, ed è notevole proprio per il fatto che vi riesce all’interno di un genere codificato ai cui stereotipi egli non rinuncia per precisa strategia testuale. Riesce, così, a rendere vivo e tutto tondo il carattere di Carbone pur non esplicitandone mai il rimosso, ma neppure gli aspetti psicologici poco meno che superficiali.

Alla domanda come Petrella riesca a raggiungere un tale risultato non ho una risposta precisa, ma credo che il ritmo narrativo vi tenga una gran parte. Petrella procede, in generale, per giustapposizione di brevi periodi, con archi sintattici stringati, adottando un ritmo che definirei giambico e che trasmette al lettore un senso di ineluttabilità. È anche per via di questo ritmo che Carbone appare come un eroe segnato da uno stigma che lo sovrasta, trascinato, più che dagli eventi, da sé stesso. Egli è un eroe malinconico, con lo sguardo rivolto al passato, il passato di un poliziotto dalla moralità tutt’altro che specchiata e quello di un amore tormentante: entrambi colorano di un pathos romantico la vicenda e fanno di Carbone un carattere letterario completamente riuscito. Per insistere su Shakespeare, la sua cifra dominante è la malinconia di tipo amletico, malinconia che, durante il procedimento investigativo, si amplifica nei sensi di colpa, poiché un effetto collaterale della sua indagine è stata l’uccisione di amici e colleghi.

Altro problema capitale, per Petrella, è la rappresentazione della realtà. Qui non è in gioco tanto il consueto tentativo di blasonare il genere poliziesco arricchendolo con la critica della società (cosa che è comunque presente nel romanzo, non fosse altro che per la rappresentazione della corruzione dei funzionari e dell’alta borghesia di Posillipo, definito «quartiere refrattario alla verità e alla giustizia»), quanto il problema di rappresentare una città come Napoli su cui si sono stratificati secoli di immagini stereotipate sia dalla letteratura che dalla narrativa turistica. Ovvero, come rappresentare una città che soffre di eccessiva rappresentazione, tanto che è quasi impossibile pensarla al di qua delle rappresentazioni che ne sono state date.

Petrella risolve il problema non affrontandolo di petto: Napoli, infatti, rimane sullo sfondo ed è evocata soltanto per rapidi scorci, anche in questo caso secondo una consuetudine narrativa che è tipica del nostro. Rapidi scorci che danno però al lettore un’immagine torbida della città del sole, qui trasformata in una città accidiosa, dominata, nel segno dell’akedia, da un disgustante demone meridiano.

Procedendo per svelte citazioni, il mare partenopeo appare come un «mare melmoso» (pag. 32 e, poco sotto, « Il mare…sembrava una cloaca»), all’orizzonte si stagliano «alberi flegrei, alti e moribondi» (44), Napoli viene vista, ovvero interpretata, come «una terra di nessuno abbandonata all’oscenità» (62), su cui grava «un’aria venefica» (81). È, detto icasticamente, un paesaggio che sembra «traboccare di malessere» (108), ed è corrispettivo metaforico di una città torbida, oscura, infetta, quasi una Parigi di Rocambole, che rovescia, e parodizza, l’abusato topos mediterraneo, ovvero, detto sbrigativamente, «le stronzate da cartolina» (56).

In conclusione, al lettore per il quale gli effetti di stile e l’originalità del linguaggio sono imprescindibili raccomanderei di fare tara alle proprie predilezioni e considerare che se lo schema narrativo di Fragile è la notte è un palese omaggio alle regole codificate e stereotipate del genere le implicazioni ideologiche e letterarie sono tutt’altro che scontate.

Guido Caserza

 

Angelo Petrella, Fragile è la notte, pagg. 160 – Marsilio Editori, euro 16.50

 

Un luogo di sosta e di pensiero

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di Paolo Morelli

Non tanto nei contenuti quanto nella forma, o forse meglio nella ‘dizione’, la lettura dei libri di Thomas Bernhard ci appare ogni volta come l’incontro con una mente molto simile, e in quell’incontro c’è qualcosa di autorevole. Se, come affermano gli scienziati il divagare è il modo basilare della mente umana, vale a dire l’andamento naturale del pensiero sul quale si innesta o si innerva tutto il resto, dalla concentrazione all’attenzione, dai calcoli ai bei ragionamenti, leggere i libri di Bernhard può somigliare a un allenamento, a dimostrare di fatto come la narrazione non sia tanto l’orpello culturale quanto invece stia lì fin dall’inizio e per necessità.
Per ottenere il risultato però il libro deve contenere una voce, vale a dire quel congegno infallibile che in letteratura ci riporta ogni volta al remoto, al condiviso, alla parte universale della nostra mente. Un piccolo esempio ma mirabile lo troviamo in Camminare (il titolo originale Gehen è ancora più perentorio, tradotto con gusto ed acribia da Giovanna Agabio), un testo del 1971: 125 pagine fluenti con appena tre o quattro capoversi.
“Camminare con Karrer è stato un susseguirsi ininterrotto di processi di pensiero, dice Oehler, che spesso abbiamo sviluppato a lungo l’uno accanto all’altro e poi d’un tratto abbiamo concluso in un qualche luogo di sosta o luogo di pensiero, ma per lo più in un preciso luogo di sosta e di pensiero.” Nel libro, che è a sua volta tale luogo di sosta e di pensiero la vicenda di cui si discute si chiarisce man mano, forse allo stesso autore e sempre traverso le sonorità. C’è un gruppo di amici che sono soliti camminare in una città austriaca, sempre più o meno sugli stessi itinerari, nella nostra provincia si direbbe le stesse ‘vasche’, finché uno di loro impazzisce, anzi è già impazzito prima che il libro si fermasse a raccontare: “Mentre io, prima che Karrer impazzisse, camminavo con Oehler solo di mercoledì, ora, dopo che Karrer è impazzito, cammino con Oehler anche di lunedì”. Questo il decisivo inizio, questa l’accordatura che ci viene proposta. Una volta che gli abbiamo accordato l’orecchio ci viene fornito il resoconto dei fatti occorsi attraverso le voci dei protagonisti, appena appuntate o mediate da quella del narratore sulle varie tonalità, con l’uso dei corsivi ad esempio.

Potrebbe essere una chiacchiera cerimoniale se l’autore, e i suoi personaggi in conseguenza non fossero affetti da un’intelligenza quasi viziosa per come somiglia a un residuo, a un brandello della razionalizzazione cartesiana, vale a dire un apparato da sovrapporre alla propria mente per cercare sempre inutilmente, disperatamente, di tentare di dare un ordine qualsiasi al mondo. Nel groviglio dei discorsi che si intrecciano, nelle attribuzioni dissociate possiamo seguire la meccanica del pensiero che come avvertiva Leopardi coincide con l’azione incessante del desiderio, ed è volontà sempre inefficace. E si scopre allora che è l’incertezza che ci fa cominciare a pensare, ci garantisce ampio terreno e anche la costante presenza dell’errore.

Il tentativo è quello di fare del camminare e del pensare “un unico processo totale“, un solo esercizio, ovviamente fallimentare. È già il linguaggio la spia di questo fallimento, nel parlare, ci suggerisce Bernhard in tutti i suoi libri, sembra esserci qualcosa come il gesto reattivo di qualcuno che si sente escluso. Eppure dobbiamo continuare a camminare per poter pensare, nei personaggi c’è questa urgenza. Camminare e pensare fanno parte dello stesso esercizio, ma anche scrivere e, a questo punto, leggere. “Camminiamo con le nostre gambe, diciamo, e pensiamo con la nostra mente. Ma potremmo anche dire che camminiamo con la nostra mente” (sarebbe interessante comparare il medesimo esercizio, e ancora più decisivo, in Robert Walser).

Irrequieto, ripetitivo, ossessivo come una mente che deve rispondere in modo obbligato se non compulsivo agli impulsi continuati che le provengono dall’esterno quanto dall’interno, e mostra per questo ostensivamente il suo “stato di sfinimento”, “una tensione nervosa incredibile, quasi intollerabile” che è già pazzia prima che ne assuma le forme ridicole, maniacali, grottesche. Irritabile, vulnerabile, è una partitura che immaginiamo improvvisata ogni volta, e invece non c’è niente di più stabilito secondo leggi ferree: “Se noi ci immaginiamo una condizione mentale, una qualsiasi, siamo in questa condizione mentale e quindi anche nella condizione patologica che immaginiamo, in ogni condizione in cui ci immaginiamo di essere”.

È la mistura di folle e oltraggiosamente comico che forma l’andamento quotidiano delle nostre attività mentali, anche se la nostra presunzione è di estrema serietà e sanità, giacché “l’arte della riflessione consiste nell’arte, dice Oehler, di interrompere il pensiero esattamente prima dell’attimo letale”. E di questo ancora, nell’evoluzione, non siamo stati capaci.

 

sei poesie erotiche

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di G.

 

 

 

 

 

 

 

Hai un acquitrino

 

sotto il pancino

hai un acquitrino

I Vladimir Kozlov

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Adrián N. Bravi

Georg Duperron, l’allenatore di calcio della nazionale russa dell’epoca presovietica, aveva un amico di nome Vladimir Kozlov che faceva parte della dirigenza della Federazione calcio di tutte le Russie e andava sempre a vedere le partite. Gli piaceva il calcio in un modo inaudito per quei tempi e discuteva con tutti su come doveva essere formata la squadra. Se avesse avuto qualche anno di meno, diceva spesso, avrebbe voluto giocare anche lui o si sarebbe candidato. Nel 1912 aveva accompagnato la squadra di Georg Duperron in Svezia, alle Olimpiadi, la prima Olimpiade in cui aveva partecipato la Russia zarista. Era un mondo che stava crescendo, quello del calcio, senza sapere bene verso dove. Si racconta che Vladimir Kozlov, dopo l’ultima partita della Russia, giocata contro una Germania devastante che aveva massacrato i russi con sedici reti, era andato da Georg Duperron e gli aveva detto:

– Stammi a sentire, caro mio allenatore, hai visto quel tedescaccio di Fuchs che da solo ha segnato dieci reti? –

– Ho visto -, disse Georg Duperron.

– Be’, avresti dovuto guardarlo di più e farlo marcare meglio se non volevi prendere tutte quelle reti o pensi che puoi andare avanti così? –

Avevano giocato nello stadio di Tranebergs IP di Stoccolma, inaugurato l’anno prima per le Olimpiadi (oggi al posto dello stadio c’è un parco verde dove qualcuno ancora gioca a pallone) e Vladimir Kozlov, dopo la partita, aveva camminato per un paio di ore, attraversando ponti e strade alberate, fino ad arrivare alla vecchia città. Nel frattempo si fermava a ogni bar a prendere una vodka. Appena la finiva faceva una smorfia e ripartiva alla ricerca del prossimo bar che trovava lungo la strada. In uno di questi, dentro la città vecchia, la Gamla Stam, aveva incontrato un tizio dall’aria sofisticata. Portava una giacca impeccabile color panna, le scarpe tirate a lucido, la cravatta e beveva del cognac. Vladimir Kozlov aveva chiesto una vodka alle erbe, tanto per cambiare, e siccome alle erbe non c’era, aveva detto che andava bene una al coriandolo, ma non ce l’avevano neanche al coriandolo, allora aveva detto, giusto per non uscire a gola secca, che andava bene qualsiasi tipo di vodka, anche secca, purché fosse buona. Poi aveva cercato di spiegare al tizio sofisticato, quello con la cravatta che beveva cognac, che la sua squadra aveva perso di sedici reti contro la Germania del Kaiser e che solo un giocatore della Germania del Kaiser, il maledetto Fuchs, aveva segnato dieci reti. Il tizio sofisticato annuiva con la testa, senza parlare. Vladimir Kozlov continuava la sua lamentela, che non si era mai vista una squadra così scarsa, che se ci fosse stato lui in campo avrebbe saputo fare meglio di quegli undici russi grossolani. Alla fine, quando l’uomo aveva chiesto un altro cognac al barista, in svedese, Vladimir Kozlov si era accorto che aveva parlato in russo per tutto il tempo e quando aveva chiesto al tizio sofisticato se lo capiva, lui, come aveva fatto finora, aveva annuito con la testa, come farebbe uno che conosce molto bene la lingua in cui gli stai parlando e non ha bisogno di dimostrarlo; oppure, il gesto in questo caso coincide, come farebbe chi non ha capito nulla, che molto probabilmente era il caso del tizio sofisticato.

Undici anni dopo si era formata la nazionale dell’Unione Sovietica e nel 1958, per la prima volta, sempre in Svezia, aveva partecipato ai mondiali di calcio (era la sesta volta che si giocava il mondiale ed era un evento unico, memorabile per certi aspetti). Il nipote di Vladimir Kozlov, che si chiamava anche lui Vladimir Kozlov, era un tifoso dello Zenit, cresciuto insieme a suo nonno, perché suo padre lo avevano mandato a lavorare a Mosca, mentre lui era nato e cresciuto a Leningrado. Anche lui era andato in Svezia ad accompagnare la nazionale, come aveva fatto suo nonno quarantasei anni fa. Voleva compiere lo stesso viaggio, perché pare che Vladimir Kozlov, nonno di Vladimir Kozlov, avesse raccontato diverse volte quell’avventura in Svezia al nipote, anche se ripeteva sempre le stesse cose, che la sua squadra aveva perso sempre, che gli svedesi non sanno il russo e che sono tipi misteriosi, perché non ti dicono che non sanno il russo, o non lo vogliono dire perché temono che uno possa rimproverarli. Come il nonno, anche lui era andato alla città vecchia e aveva incontrato pure lui diversi tizi sofisticati che bevevano cognac e non sapevano il russo. E poi, bisogna aggiungere, era felice di vedere in campo il suo giocatore preferito, Aleksandr Ivanovič Ivanov, dello Zenit, che in quel mondiale aveva segnato due bellissime reti.

Anche il nipote di Vladimir Kozlov aveva un nipote che si chiamava Vladimir Kozlov, in onore al nonno, e anche lui, come suo nonno in Svezia e suo trisavolo in Svezia anche lui, 28 anni dopo, era andato a vedere la sua squadra, questa volta al mondiale di calcio in Messico. Era felice come una pasqua quando la Russia di Lobanovsky, nella prima partita, aveva vinto sei a zero contro l’Ungheria nello stadio di Irapuato, la città delle fragole. In quel periodo, Vladimir Kozlov abitava da più di dieci anni a New York, nel quartiere di Brooklyn. Nel 1972 lo avevano espulso dalla Russia con l’accusa di parassitismo. Frequentava l’Università di Leningrado e aveva iniziato a scrivere due trattati, uno sulle bugie che diventano vere, perché alla fine tutti ci credono; l’altro, invece, dove immaginava che in un futuro non lontanissimo gli uomini avrebbero potuto programmare i propri sogni, intesi come produzione onirica, a fini terapeutici. Quest’operazione, secondo la sua teoria, avrebbe aiutato l’umanità a riconciliarsi con il prossimo e con la natura in generale, perché il sogno, sosteneva Valadimir Kozlov, sapendolo guidare attraverso il linguaggio onirico, potrebbe sedare le manie di potere e di egemonia. Aveva sposato una paraguayana che era andata a vivere a Brooklyn anche lei. Si chiamava Concepción, ma lei voleva essere chiamata Panambi, che in lingua guaranì significa farfalla, perché così la chiamava suo padre da piccola. Aveva vissuto fino ai diciotto anni in un piccolo villaggio ai confini con il Mato Grosso. La sua famiglia era stata espulsa dal paese durante la dittatura di Stroessner e dopo una lunga peripezia tra il Brasile e il Venezuela era andata a finire negli Stati Uniti. Ballava la cumbia muovendo il bacino di qua e di là e beveva sempre il mate. Panambi e Vladimir avevano due pappagalli e tre figli, Ramona, Elizabeth e Vladimir Kozlov. Nessuno dei due, né Vladimir padre né Panambi, parlava bene l’inglese, ma era l’unica lingua che avevano a disposizione, perché lui parlava solo russo e francese, e lei solo spagnolo e guaranì. Quando Vladimir Kozlov aveva saputo della vittoria della Russia contro l’Ungheria e poi del pareggio contro la Francia di Platini e poi ancora della seconda vittoria contro il Canada, era andato sulla Cento-ottava Strada a casa di un suo amico russo, esiliato anche lui, e gli aveva detto:

– Dobbiamo stare qua a marcire a New York o vogliamo darci da fare per questi russi? –

– A me, di andare tra i messicani per vedere una partita di calcio, dopo che i russi ci hanno pure mandato via, non va più di tanto. Io stavo bene là, davanti alla Fontanka, vedevo i battelli che attraversavano il canale…, ma se vogliamo andarli a vedere, io ci sto, chiedo ad Andrejkin se mi presta qualche soldo per il viaggio. Quando giocano? –

– Tra cinque giorni -.

Si erano organizzati alla meglio ed erano partiti spendendo le ultime risorse economiche. La Russia era stata la prima classificata del girone e da lì a poco avrebbe giocato contro il Belgio, che si era classificato al terzo posto. Vladimir si era portato il colbacco di suo nonno Vladimir Kozlov, quello che era andato in Svezia nel 1958, nonostante fosse giugno e facesse molto caldo. Quel colbacco era passato di mano in mano, di generazione in generazione, e adesso doveva esibirlo davanti alla sua nazionale, anche se apparteneva al paese che lo aveva espulso. Colbacco e occhiali da sole, cosi si era presentato allo stadio León quel 15 giugno 1986. La partita era finita tre a tre, ma nei tempi supplementari i belgi hanno avuto la meglio.

– Cara Panambi -, aveva detto alla moglie quando le aveva telefonato, – ci hanno rubato la partita con due fuorigioco, colpa di uno svedese, un arbitro di nome Fredriksson, maledetto lui. Fino a quando questi svedesi continueranno a tormentarci? –

Vladimir Kozlov non solo era amareggiato perché la sua squadra aveva perso agli ottavi di finale, ma perché dopo che si era tolto il colbacco per protestare contro l’arbitro, e lo aveva lasciato accanto a sé, non lo aveva trovato più:

– Gerasin, Gerasin -, diceva al suo amico, – qualcuno mi ha fregato il colbacco di mio nonno Vladimir Kozlov che, oltre al nome, è l’unica cosa che mi è rimasta della mia famiglia -.

– Non è possibile -, rispondeva amareggiato Gerasin.

– Invece sì -.

Infine, e per concludere con la storia dei Vladimir Kozlov, raccontiamo solo che anche Vladimir Kozlov aveva un nipote di nome Vladimir Kozlov, figlio del Vladimir Kozlov nato a Brooklyn, che, come avevano fatto quasi tutti i Vladimir Kozlov della famiglia, anche lui era andato a vedere la nazionale russa, ma questa volta in Brasile, insieme al padre, e sembra che adesso l’ultimo Vladimir Kozlov, ormai ventenne, si stia organizzando per tornare in Russia, a vedere qualche partita del mondiale, la tomba e quel che è rimasto del primo Vladimir Kozlov che abitava a San Pietroburgo, che nel 1912 era andato in Svezia a vedere le Olimpiadi.

 

 

*

Da I compagni non perdono mai. Storie di pallone dalla Russia sovietica a oggi, a cura di Daniele Comberiati, Prospero Editore, 2018.

Lighea

4

Mariagiorgia Ulbar

 

(Lighea è la sirena del racconto di Tomasi di Lampedusa. Il rimando al nome è un ricordo di quel personaggio incontrato anni addietro, che era una donna e nello stesso tempo non lo era, e veniva raccontato come emblema dell’amore: incomprensibile, inenarrabile, indimenticabile e presto perduto. Qui Lighea entra in una storia inedita: è trasportata in un luogo montano che non le appartiene, sopravvive ma soffre, anela a tornare al luogo da cui proviene e parla con chi l’ha portata via, qualcuno che la ama ma non la comprende e che soffre di ciò che non capisce. Lighea parla la lingua che riesce a formulare nello sforzo di incontrare l’altro, così tenta di spiegarsi, ma la lacuna resta e, con essa, resta l’incomprensione. In quanto sirena, personaggio intermedio tra bestia e mito, Lighea si salva mentre l’altro, l’umano, per cui l’amore sembra essere un sistema di conquista e di possesso, soccombe alle leggi di natura e in quest’ultima scompare. Tutte le serie di testi che compongono il libro e convergono nel poemetto “Lighea” raccontano la stessa storia di luoghi abitati, spazi rarefatti, indistinzione, semplici e infinite solitudini, amore grandissimo e malcerto, tesori rilucenti o nascosti e cose che non si spiegano e non si possiedono mai.)

*

 

 

 

Sale in montagna la sirena,
lei è abissale è trascinata in alto
dalla mano di qualcuno che è invisibile
che al suo canto da lontano aveva riso.
Era diversa. Era un essere sapiente
e fingente di dimenticare tutto.

 

 

 

[…]

Iniziarono a parlare su uno stagno
dove lei poteva rotolarsi
e respirare
a filo d’acqua di giada ripiegata
e sotto toccava con la coda
il fondo di limaccia
che smagava la sua forza la prendeva come un pianto.

 

 

 

Scopri i denti, Lighea, apri
la bocca e mostrami il destino.
Io ti tengo qui finché mi piace.
Senti il caldo che sale dalla terra
senti il sole che brucia nelle altezze
vanno insieme le farfalle color lilla
verso il giorno che finisce ed è la fine
del loro unico giorno.

 

 

 

Qui tra noi ci sono i cani bianchi
che impazziscono nel tempo
che difendono.
Ti ho presa per amare i tuoi segreti
aprirli nel palmo come noci
nutrirmene affinché diventi innocua.

 

 

 

I tuoi denti mi pungono di notte
sono te e uguale a te io nuoto
vedo il sole dal fondale come luccica
e tutto è freddo, interno, e freddo
e per te giusto perché per me segreto.

Nella veglia, Lighea, io ti odio,
perché i denti ti toccano la bocca
e il tesoro con nessuno non dividi.

 

 

 

Smette di parlare con un soffio
le cicale nel ginepro si interrompono
e si sente sull’argine soltanto
Lighea che rantola in affanno
ma vive dentro il brodo dello stagno.
Le scaglie della coda sono buie
un brivido le sale dalla nuca
si abbassa con il naso sotto il pelo
dell’acqua, ingoia bolle e infine parla.

 

 

 

Bastare mai niente può te mai
pago di minuscolo tu devi
ascendi non timore questo abisso
sprofonda tu sempre al cielo alto.
Io so tutto di me di sempre braccia
e mente scendente a fondo in coda
mente veloce tanto e gambe niente
.

 

 

 

[…]

Io non so un motivo apre in testa
prende canta sempre prende e spegne
poi tutto spegne tutto zitto tutto niente
e sale luce di me sola
la voglia non vedere poi un sole
io sono quando tutto posso fare
poi spegne e buio e non posso niente
.

 

 

 

[…]

 

*

Da Mariagiorgia Ulbar, Lighea (elliot 2011)

 

 

Notturno salentino

1

di Federica de Paolis

Una masseria in Salento, una festa, estate. Una Puglia arsa dal sole, meravigliosa e impenetrabile,
colonizzata da ricchi milanesi e romani e dalle loro case di villeggiatura, abitata da personaggi astuti e
imprevedibili.
Appena edito da Mondadori, “Notturno salentino”, il nuovo romanzo di Federica De Paolis. Di seguito un estratto.

Ero ferma sotto al patio, il sole filtrava tra gli ulivi, e nonostante l’estate incandescente del Salento tra le foglie frusciava un’aria azzurra. La mano mi tremava. Per quanto non si trattasse di un vero e proprio furto, se Antonio Locandido mi avesse visto intascarmi il suo cellulare sarei morta di vergogna. Immobile, osservavo la porta chiusa della camera di Cynthia, la nostra tata nigeriana che da due anni viveva con noi a Roma, stipata in una stanza di sei metri quadri nella quale snocciolava le sue ore libere guardando il soffitto. Ora era chiusa nella sua camera con Antonio: aveva cominciato a flirtare con il ragazzo salentino da qualche settimana; lui era il fabbro che stava costruendo il cancelletto della nostra casa, un bamboccio di una trentina d’anni, un metro e ottanta di testosterone che girava con un pastore tedesco, osservando il mondo femminile come se potesse succhiarlo e sputarlo in un solo colpo. Ero ferma davanti alla porta, e come un cecchino guardavo il cellulare di lui poggiato sul tavolo nel patio: bastava fare due passi, allungare la mano e appropriarmene; per scherzo, per vendetta.

Quinto di Smirne – Posthomerica, Incipit libro I.

2

trad. isometra di Daniele Ventre

Dopo che sotto il Pelide cadde Ettore simile a un dio
e lo corrose la pira e terra coprì le sue ossa,
se ne restavano sopra la rocca di Priamo, i Troiani,
trepidi al valido ardore d’Eàcide d’animo audace;
come di mezzo alle selve le vacche non vogliono uscire
ad affrontare un feroce leone, anzi sono atterrite
e se ne stanno acquattate in massa tra i fitti cespugli;
essi così nella rocca temevano il truce guerriero,
nel ricordare di quanti già prima recise le teste,
quando per le correntie dell’Ideo Scamandro infuriava,
e quanti ancora abbatté fuggitivi sotto il gran muro,
come prevalse su Ettore e intorno alla rocca lo trasse,
e tutti gli altri che ancora stroncò per il mare mai stanco,
sin dal principio, da quando portava ai Troiani rovina.
Nel ricordarsi di loro, restavano dentro la rocca:
e nel frattempo d’intorno un amaro lutto aleggiava,
quasi che Troia nel fuoco piangevole già divampasse.
Ecco che Pentesilea sin dal corso del Termodonte
vasto di guadi arrivò, vestendo bellezza di dee:
doppia ragione, di guerra piangevole c’era in lei brama,
ed evitava del tutto un’odiosa e ignobile taccia,
che con accuse nessuno fra il popolo la bersagliasse
per la sorella di sangue, per cui il pentimento in lei crebbe,
per quell’Ippolita che trucidò con lancia crudele,
ma non di sua volontà, tendendo il suo colpo a una cerva:
per tali cause raggiunse la terra di Troia gloriosa.
Anche oltre a ciò meditava il suo animo valoroso
d’essere infine mondata da lugubri macchie d’eccidio
e racquietare così con offerte le fiere Erinni
che la seguirono occulte, in collera per la sorella,
sin dall’inizio: da sempre intorno alle tracce dei rei
vagolano, né è possibile al reo evitare le dee.
Anche con lei altre dodici andavano, tutte stupende,
tutte covavano brama di guerra e terribile ardore.
Erano sue servitrici, per quanto superbe di gloria:
ma sopra tutte spiccò di gran lunga Pentesilea.
Come nel cielo spazioso fra gli astri la splendida luna
quando rifulge e si mostra perciò luminosa fra tutte,
dopo che l’etere è rotto da nuvole grevi di tuoni,
solo che dorma aspra forza di vènti dal soffio impetuoso:
sì, così quella fra tutte brillò, mentre andavano in fretta.
Clonia era lì, Polemusa con lei e Derínoe non meno,
quindi anche Evandre nonché Antandre, e splendente Bremusa
e così Ippòtoe e al suo fianco Armòtoe occhi-cerulei,
quindi anche Alcíbia, nonché Antíbrote e Derimachea,
e Termodossa con loro, gloriandosi assai della lancia:
tante seguivano lei, l’animosa Pentesilea.
Quale s’avanza calando da sopra l’Olimpo mai stanco,
fiera com’è per i suoi fulgenti cavalli, l’Aurora,
l’Ore seguendola, belle di trecce, e fra tutte costoro,
anche se prive di pecche, rifulge il suo splendido lume:
tale alla rocca troiana era giunta Pentesilea,
prima com’era fra tutte le Amazzoni. Corsero intorno,
per ogni dove, i Troiani, con grande stupore, a vederla,
lei figlia d’Ares mai stanco, fanciulla dagli alti schinieri,
lei somigliante ai beati, poiché tutt’intorno al suo volto
doppia beltà, formidabile e splendida, si diffondeva
con un soave sorriso, amabili sotto le ciglia
le rifulgevano gli occhi, eguali a bagliori di sole,
ma le arrossò pudicizia le guance, e su entrambe le guance
le discendeva, vestita di forza, una grazia divina.
Erano liete le genti, benché da principio angosciate;
come allorché i contadini hanno visto dalla montagna
Iride che si solleva sul mare dai vasti cammini,
quando la pioggia divina si attendono, mentre le vigne
sono oramai disseccate e bramano pioggia da Zeus,
tardi il gran cielo si viene oscurando ed essi al vedere
segno felice del vento e dell’acqua che s’avvicina
giubilano –da principio piangevano sulle campagne:
sì, così i figli troiani, vedendosi giungere in patria
Pentesilea valorosa, con impeto tesa alla guerra,
n’ebbero gioia: ove scenda in animo d’uomo speranza
per alcun bene, addolcisce la pur lamentosa sciagura.
Solo per lei anche il cuore di Priamo, che molto gemeva,
anche fra grandi afflizioni ebbe infine lieve conforto.
Simile un uomo se molto per gli occhi malati soffriva
nel desiderio di scorgere il sacro lucore o morire,
per mano d’un guaritore impeccabile o anche di un dio
che gli dischiudono gli occhi, rivede il brillio mattutino,
certo non più come prima, e comunque ha un po’ di conforto
dopo la grande sciagura, e ancora ha gravame di pena
truce annidatosi sotto le palpebre: tale sembrava
Pentesilea valorosa al figlio di Laomedonte:
questi gioì, pur di poco, e ancora era molto angosciato
per i suoi figli caduti. In casa guidò la regina,
e le accordò grande onore, benevolo, come a una figlia
che da una landa lontana al ventesimo anno ritorni,
le apparecchiò d’ogni cibo una cena, quale i gloriosi
principi sogliono darne, se mai, sopraffatta un’armata,
offrano in festa un banchetto, gloriandosi della vittoria.
Doni stupendi le offrì, magnifici, molti promise
che ne darebbe, se offrisse difesa agli afflitti Troiani.
Ella promise un’impresa che mai spererebbe un mortale,
di sopraffare anche Achille, straziare l’armata d’Argivi,
vasta com’era, e dall’alto appiccare il fuoco alle navi:
stolta, né certo sapeva di Achille di valida lancia,
quanto spiccasse supremo in mezzo alla lotta omicida.
Ma non appena la udì, la nobile figlia d’Eezione,
sì, lei, Andromaca, allora pensò dentro l’animo suo:
“Misera te, perché parli così, la superbia nel cuore?
Per contrastare il Pelide impavido no, tu non hai
forza, egli in breve su te vibrerà l’eccidio e la strage.
Quale follia, sciagurata, hai in cuore? Ah, senz’altro ti sono
prossimi il cerchio di Morte e la volontà del Destino.
Ettore fu di gran lunga più forte di te con la lancia:
pure, anche saldo qual era, morì, troppo afflisse i Troiani
tutti, che nella città guardavano a lui come a un dio;
nobile gloria a me dava e ai parenti eguali agli dèi,
quando era vivo. Una tomba m’avesse ingoiata sotterra,
prima che fosse caduto anche lui di lancia alla gola!
Ora assistei con dolore a un inconsolabile lutto,
quando d’intorno alla rocca lo trassero svelti cavalli
del doloroso Pelide, che d’uomo legittimo rese
vedova me, quest’atroce angoscia è con me tutti i giorni”.
Disse così nel suo cuore l’Eeziona di bella caviglia
nel ricordare lo sposo, poiché gran dolore s’accresce
nelle consorti pudiche, ove mai lo sposo perisca.
Ma nel frattempo, volgendosi in orbite rapide, il Sole
scese nel corso profondo d’Oceano: il giorno finiva.

Le assaggiatrici

3

di Francesco Staffa

Le assaggiatrici, dieci giovani donne che ogni giorno entrano nella tana del lupo per assicurare che il grande dittatore non muoia avvelenato. Dieci cavie che attraverso il loro corpo garantiscono la salvaguardia del corpo del lupo e con esso quello del corpo sociale che lui rappresenta e ha creato. Dieci donne che ingerendo cibo permettono la vita.

È tutto qui? Ovviamente no! Questo è solo uno dei livelli del romanzo di Rosella Postorino, ispirato alla vicenda di Margot Wölk, ultima sopravvissuta delle assaggiatrici di Hitler. L’autrice l’ha scoperta leggendo un trafiletto e quando è riuscita a trovare il suo indirizzo, intenzionata a incontrarla, ha avuto la triste notizia che nel frattempo la novantaseienne era deceduta. E probabilmente, non me ne voglia la povera Wölk, proprio questa è stata la fortuna del romanzo poiché Rosella ha potuto creare una narrazione di pura fantasia che le ha permesso di andare oltre la vicenda umana e scandagliare temi ben più profondi a partire da quello del corpo. Un corpo declinato in diverse sfumature: quello femminile, prima di tutto.

La prima volta di Europa, a Creta

0

di

Gigi Spina

Non si deve per forza essere stati rapiti da un dio in forma di toro – ed essere magari una graziosa ragazza fenicia, di nome Europa -, né ci si deve credere un Minotauro che ha smarrito la strada per rientrare nel labirinto e vuole tornare a casa.

A Creta si può andare, con più profitto, se si hanno amici archeologi.

Io ci sono andato, nei primi anni 2000, con un archeologo straordinario, Enzo Lippolis, e la sua famiglia: Isabella, archeologa anche lei, Anna Sofia ed Elena.

Enzo è morto nel pieno della sua appassionata attività, qualche mese fa, dopo una apparizione televisiva che tutti ricorderanno per la capacità di testimoniare con semplicità e misura come sia appagante fare bene il proprio lavoro. ( qui l’intervista )

A Creta aveva scelto di vivere le sue vacanze, ma forse qualcosa di più, Antonio Aloni, con Chiara e Sofia. Antonio era un filologo classico ‘dal volto umano’. Due anni fa l’abbiamo salutato per l’ultima volta a Milano. Mi chiedo ora se Enzo e Antonio si conoscessero: un Cretese del sud e un Cretese del nord.

Ora, che ho appena finito di leggere un giallo affascinante, Operazione Mercurio, Società Editrice Milanese 2018 , una sorpresa che Antonio ha lasciato come eredità significativa del suo ‘volto umano’; un romanzo scritto insieme a Paolo Colonnello, responsabile della redazione milanese de La Stampa, sassofonista (la notizia ci tornerà utile alla fine).

Creta, scriveva Aristotele (Politica 2.1272b 17) a proposito della costituzione politica dell’isola, gode di una posizione geografica favorevole, lontana da altri centri greci, che la rende meno esposta ad aggressioni, a invasioni di ‘stranieri’ (cioè di altri Greci ostili).

La natura, insomma, rendeva inutile, per i Cretesi, quello che gli Spartani era abituati a fare senza batter ciglio: cacciare gli stranieri, difendersi dagli immigrati.

Eppure, oggi, a Creta, gli stranieri abbondano, conoscono ogni angolo delle meravigliose spiagge, scavano in ogni luogo significativo dell’isola con prestigiose scuole di Archeologia.

E dunque, non sembri strano che molti archeologi compaiano nelle pagine del romanzo, di cui non dirò nulla che possa far pensare a una recensione, se non che è stato un piacere intenso leggerlo, avendo in mente Enzo e Antonio, gli scavi di Festo e Il ritorno di Tornatore, una brillante lettura che Antonio fece di Nuovo Cinema Paradiso, in un volume collettivo di studi sul ‘nostro’ Omero [E. Cavallini, (cur.), Omero mediatico. Aspetti della ricezione omerica nella civiltà contemporanea, Bologna:  d.u.press, 2007], con il recupero di tutti i possibili richiami all’Odissea.

Un amore per la cultura greca, antica e moderna, che Antonio portava scritto sul volto.

A Creta sono sempre accadute cose strane, da quando si vide arrivare un toro che galoppava sulle acque portando in groppa una ragazza scarmigliata  (L. Spina, Il ratto di Europa), a quando, in una piccola polis che potremmo chiamare Spennata (Aptera), le Sirene sfidarono le Muse a una gara di canto. Le Muse accettarono – anche se forse una di loro era addirittura la madre delle Sirene – e non ebbero problemi a vincere. E per punizione della loro tracotanza le spennarono: sì, perché ai tempi della sfida le Sirene erano donne-uccello, mica donne-pesci, come le abbiamo conosciute qualche secolo dopo (M. Bettini, L. Spina, Il mito delle Sirene, Einaudi 2007, pp. 62-64).

E dunque a Creta, invasa nel corso dei secoli da eserciti nemici e difesa da eserciti partigiani e resistenti, possono operare, in un romanzo, poliziotti e spie, divinità reincarnate, personaggi che portano nei loro nomi un destino epico. E un simpatico commissario può chiamarsi come un inventore di commissari e poliziotti: Markaris.

E a Creta può essere smentito clamorosamente un motto romano famoso, che invertiva il rapporto fra vinto e vincitore: Graecia capta ferum victorem cepit (Orazio, Epistole 2.1.156); non è detto che a conquistare (capere) le ricchezze greche non siano stati, alla fine, proprio i Romani.

E poi, a Creta, si pescano i polipi: li pesca il commissario e sono sicuro che li pescasse, con gran gusto, anche Antonio. I polipi, coi loro tentacoli e col modo di gestire la propria ‘identità’ nel mondo che li circonda, suggeriscono metafore a tutto campo. E di una ‘norma del polipo’ parlava (e scriveva) uno dei riferimenti sicuri di filologi dal volto umano, Bruno Gentili (Poesia e pubblico nella Grecia antica, ormai un classico Laterza del 1984 giunto alla terza edizione e più volte ristampato). I poeti greci, fin dai più arcaici, erano affezionati a questa metafora: adattare il proprio animo a quello degli altri come fa il polipo con la pietra, rendendosi quasi irriconoscibile, una sorta di polipo-Zelig. Una chiave per frequentare il mondo.

Insomma, per chi è stato almeno una volta a Creta, la lettura di Operazione Mercurio aprirà ricordi di nomi suggestivi di località dell’interno o della costa; per chi ha studiato un po’ di greco, nomi di divinità e di eroi, portati da cretesi moderni, faranno riaffiorare magari righi di versioni complicate; gli appassionati di archeologia e di decifrazioni di lingue e oggetti ancora difficili da interpretare troveranno citati uomini e luoghi protagonisti di una stagione pionieristica di studi sul mondo greco antico (e non solo) e potranno riflettere sul fatto che scavi e guerra si sono spesso intrecciati con esiti non sempre felici; e, naturalmente, gli appassionati del giallo troveranno pane per i loro denti, fino all’ultima pagina.

E poi, a un certo punto – a pagina 194, per la precisione – il commissario Markaris riaccende il motore. E cosa fa, certo su suggerimento di Paolo Colonnello? Mette una cassetta di John Coltrane (siamo a metà degli anni ’80, e i CD muovevano i primi passi) su cui ha registrato A Love Supreme, il capolavoro del sassofonista. E come l’adattabilità del polipo, la musica del sax ‘impazzito’ di Coltrane, nel preludio di Acknowledgement (che è il primo movimento), si offre come una metafora dei suoi pensieri ingarbugliati di fronte ai misteri di Creta. Bastava “scoprire che tutto, in fondo, si riduceva in una sola, ostinata, frase di tre note in Fa, lo stesso mantra su cui poggiava la sua inchiesta”.

Il mondo greco, che Antonio ed Enzo hanno voluto conoscere meglio, per farlo conoscere come è giusto a centinaia di giovani, scavando nella profondità della cultura antica, ha bisogno spesso anche di voci moderne, di colonne sonore inedite, per affermare e mettere a disposizione di tutti la sua ricchezza umana.

 

 

Progetti di società ed energie alternative nell’Ottocento

1

di Antonio Sparzani

Non son bravo a scrivere recensioni di libri e anche questa non sarà certo una recensione come si deve. Però quando in un libro si trova qualcosa di molto inaspettato, direi in questo caso straordinario, vale la pena di farlo sapere ad altri. Il libro di cui parlo è Quatre-vingt treize, in italiano Novantatrè, di Victor Hugo (Besançon, 26 febbraio 1802 – Parigi, 22 maggio 1885) che lo scrisse nell’ultima parte della sua vita, nel 1872 (pubblicato nel 1873). L’argomento è ovviamente l’anno terribile della rivoluzione francese, il 1793, l’anno del terrore, cui Hugo dedica un’analisi per nulla scontata, nella quale mette in luce con notevole lucidità le ragioni della Repubblica e le ragioni dei ribelli realisti della Vandea e di qualche altra regione circostante. L’intero romanzo è una lettura affascinante e spesso sorprendente, tanto da arrivare spesso al suspense. Ma, come dicevo, quello di cui intendo parlare è un solo passo del romanzo, nel quale, siamo alle ultime pagine, vi è un serrato dialogo fra i due protagonisti principali della storia. Uno è Cimourdain, alfiere e portavoce ufficiale della Repubblica, plenipotenziario del Direttorio, dunque della Rivoluzione e di tutte le sue precise caratteristiche e ordinanze, mentre l’altro è Gauvain, anch’egli fino a quel momento strenuo difensore della Repubblica, tanto da aver guidato per mesi l’esercito repubblicano contro la ribellione vandeana. E allora qual è il contesto del dialogo che vi voglio far leggere? E’ questo: Gauvain ha salvato dalla ghigliottina il capo dei vandeani, il marchese di Lantenac, perché costui è stato protagonista di un gesto di straordinaria umanità: ha salvato da un incendio in cui sarebbero certamente morti tre bimbi affidati alle truppe della Repubblica, consegnando così se stesso nelle mani del nemico.
Gauvain, dopo riflessioni attentissime, cui Hugo dedica un intero capitolo, decide di liberarlo – permettendogli così di fuggire e di tornare a riorganizzare il suo esercito – e di mettersi lui in cella al suo posto, danneggiando così gravemente la causa repubblicana.
Cimourdain è legato a Gauvain da un rapporto molto forte che risale ai tempi in cui il primo era stato precettore del secondo, di lui più giovane, ed è quindi straziato dalla prospettiva di dover condannare il suo antico allievo alla ghigliottina, per alto tradimento, aver cioè liberato non solo un nemico, ma il vero capo dei nemici.
Per cui l’antico precettore va a trovare di notte l’antico pupillo nella sua cella e sollecita un dialogo nel quale Gauvain ha modo non solo di spiegare le ragioni del suo gesto, ma offre, per la penna di Hugo, una sua visione del mondo, o meglio un suo progetto di umanità futura. Qui ve ne voglio offrire un frammento, in una traduzione italiana che ho trovato in rete, senza sapere chi sia il/la traduttore/trice. Ecco qua, comincia Cimourdain:

– Vorrei l’uomo fatto da Euclide.
– E io, – disse Gauvain, – lo preferirei fatto da Omero.
Il severo sorriso di Cimourdain si fermò su Gauvain, come per tenere a freno quell’anima.
– Poesia. Diffida dei poeti.
– Sì, lo conosco questo detto. Diffida degli zefiri, diffida dei raggi, diffida dei profumi, diffida dei fiori, diffida delle costellazioni.
– Nulla di tutto questo dà da mangiare.
– Che ne sapete voi? Anche l’idea è un nutrimento. Pensare è mangiare.
– Niente astrazioni. La repubblica è due e due fanno quattro. Dato che io abbia a ciascuno quanto gli spetta…
– Vi rimane da dare a ciascuno ciò che non gli spetta.
– Che intendi con questo?
– Intendo l’immensa concessione reciproca che ciascuno deve a tutti e che tutti debbono a ciascuno, e che è tutta la vita sociale.
– Non c’è nulla, all’infuori dello stretto diritto.
– C’è tutto, invece.
– Io non vedo che la giustizia.
– Guardo più in alto, io.
– E che c’è, dunque, al di sopra della giustizia?
– L’equità.
Tratto tratto, facevano delle pause, come se passassero dei lampi.
Cimourdain riprese:
– Ti sfido a precisare.
– Sia. Voi volete il servizio militare obbligatorio. Contro chi?
contro altri uomini. Io, invece, di servizio militare non ne voglio.
Voglio la pace, io. Voi volete che i poveri siano aiutati, io voglio che sia soppressa la miseria. Voi volete l’imposta proporzionale. Io di imposte non ne voglio affatto. Voglio la spesa comune ridotta alla sua più semplice espressione e pagata dal plus-valore sociale.
– Che intendi con questo?
– Questo. Sopprimete innanzitutto il parassitismo; il parassitismo del prete, il parassitismo del giudice, il parassitismo del soldato.
Cavate poi un profitto dalle vostre ricchezze; voi gettate il concime nelle fogne, gettatelo nel solco. I tre quarti del suolo nazionale sono incolti; bonificate la Francia, sopprimete i pascoli inutili; dividete le terre comunali. Che ogni uomo abbia un pezzo di terra, e che ogni pezzo di terra abbia un uomo. Centuplicate la produzione sociale. La Francia, in questo momento, non dà ai suoi contadini che quattro giorni di carne all’anno; coltivata a dovere, nutrirebbe trecento milioni d’uomini, tutta l’Europa. Utilizzate la natura, immensa ausiliaria disprezzata. Fate lavorare per voi ogni soffio di vento, ogni cascata d’acqua, ogni effluvio magnetico. Il globo ha una rete di vene sotterranee, dentro questa rete c’è una circolazione prodigiosa di acqua, di olio, di fuoco; bucate le vene del globo, e fatene zampillare quell’acqua per le vostre fontane, quell’olio per le vostre lampade, quel fuoco per i vostri focolari. Riflettete al movimento delle onde, al flusso e riflusso, all’andirivieni delle maree. Che cos’è l’oceano? una enorme forza perduta. Come è stupida la terra, a non valersi dell’oceano!
– Eccoti in pieno sogno.
– Che è quanto dire in piena realtà.
Gauvain riprese:
– E della donna, che cosa ne fate?
Cimourdain rispose:
– Quello che è. La serva dell’uomo.
– Sì, a una condizione.
– Quale?
– Che l’uomo sia il servitore della donna.
– Ci credi tu? – esclamò Cimourdain. – L’uomo servitore! Mai. L’uomo è padrone. Non ammetto che una regalità, quella del focolare. L’uomo, in casa sua, è re.
– Sì, a una condizione.
– Quale?
– Che la donna vi sarà regina.
– Sarebbe come dire che tu vuoi per l’uomo e per la donna…
– L’uguaglianza.
– L’uguaglianza! ci pensi? sono due esseri diversi.
– Ho detto l’uguaglianza, non l’identità.
Ci fu un’altra pausa; una specie di tregua tra quei due cervelli che si scambiavano lampi. La ruppe Cimourdain.
– E il figlio, a chi lo dai, tu?
– Dapprima al padre che lo genera, poi alla madre che lo mette al mondo, poi al maestro che lo educa, poi alla città che lo virilizza, poi alla patria, che è la madre suprema, poi all’umanità, che è la grande avola.

Non credo siano necessari tanti commenti; ricordo che si tratta non di una contrapposizione tra realisti e repubblicani, ma, all’interno del campo repubblicano, di una opposizione tra diversi modi di progettare la società futura; e osservo che, oltre ad una visione sociale certamente assai avanzata per quei tempi, c’è una chiara preveggenza della possibilità di energie alternative, senz’altro quella eolica, quella idroelettrica e quella che proviene dal movimento delle onde e delle maree dell’oceano. Non è poco.

Interférences # 18 / Noi europei

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di Andrea Inglese

[Questo testo d’occasione, mi è stato commissionato dalla rivista “PO&SIE”, che ha dedicato i suoi ultimi tre numeri al tema dell’Europa: Trans Europe Éclairs, n° 160-161, e Trans Europe Éclairs 2, n° 162. Nous les européens è apparsa in francese in quest’ultimo numero. Ne propongo qui la versione italiana. Io non credevo si potesse scrivere una poesia sull’Europa, invece – bene o male – è successo. Il numero 162 include anche testi poetici di Michel Deguy, Michael Battala, Jacques Demarcq, Benoit Gréan, Sophie Loizeau, Valerio Magrelli, Jacques Roubaud e Martin Rueff. Tra i personaggi evocati dai diversi interventi saggistici: Walter Benjamin, Thomas Mann, Paul Valéry, Herman Melville, la poesia modernista, György Kurtág, Beatrice Cenci e Artemisia Gentileschi. A. I.]

Performative arts today – parte seconda

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di Giorgiomaria Cornelio

Seconda parte

PERFORMATIVE ARTS TODAY: Like the Grave of a Stone, Like the Cradle of a Star”
Trinity College Dublin – 2 Febbraio 2018.
Direttori: Dr Giuliana Adamo (Professor in Italian, School od Languages, Literatures
and Cultural Studies, Trinity College Dublin) / Bianca Battilocchi (Ph.D. candidate).
Direttori Artistici: Giorgiomaria Cornelio e Lucamatteo Rossi

 
Il 2 febbraio si è tenuto, presso il Trinity College di Dublino, l’evento “Performative Arts Today: Like the Grave of a Stone, Like the Cradle of a Star”, luogo eletto a raccolta di “vicinanze, avvicinamenti, concatenazioni, carteggi, disgiunzioni, proposte d’etimo, corrispondenze tra l’Italia e l’Irlanda ordite nel segno del sasso e della stella, del labirinto e del tappeto.” Trovate la prima parte del compendio qui.
 
Un momento della lezione su Carmelo Bene

 
Un secondo momento della giornata è stato dedicato al teatro come studio della polifonia scientifica e come passe-partout a rimedio delle mortificazioni settoriali. L’incontro, tenuto dal regista e direttore del Minimo Teatro Maurizio Boldrini a partire dalla sua “Lezione su Carmelo Bene” (Nazione Indiana si era già occupata di questo volume), è stato introdotto da un intervento di Gianluca Pulsoni (ricercatore e giornalista del Manifesto) indirizzato a restituire il timbro degenere di Carmelo Bene oltre le demarcazioni geografiche. L’opera di Bene è pressoché ignorata nei paesi anglofoni dove pure il suo studio sulle partiture shakespeariane andrebbe a costituire un’indicazione fondamentale per superare la rivisitazione consolatoria e mortifera di testi oramai sepolti nel repertorio delle rappresentazioni storiche (perdipiù spesso diluite in riletture sociali del tutto incoscienti della scrittura di scena). Proprio sulla necessità di una orchestrazione dello studio riflette Maurizio Boldrini, rivolgendosi così agli ascoltatori della sua “lezione”:

“[…]Spero che anche i “teatranti” possano ricavarne qualche indicazione utile a interrogare il loro personale fare. Mi appello principalmente ai “sarti finiti” in ambito medico, antropologico, matematico, fisico, architettonico, politico, ingegneristico affinché si trovino a convegno e inizino finalmente ad orchestrarsi. Ciò che ha indicato Carmelo Bene è troppo importante perché sia esiliato nell’ambito artistico o peggio sia ricoverato nelle teche asettiche dei capolavori. Al termine di questa lezione spero rimanga appunto almeno questo: il complesso operativo di Carmelo Bene non può essere ridotto al solo ambito teatrale. È lunghissimo l’elenco di coloro che insistendo su un ‘genere’ hanno indicato, più o meno coscientemente, nuove possibilità di lettura e di edificazione umanistica e scientifica, anzi, proprio loro, con la sapienza dell’arte, hanno mostrato, tra l’altro, che è necessario farla finita con questa distinzione categorica tra l’umanistico e lo scientifico.”

Nella sua introduzione, Gianluca Pulsoni ha fatto riferimento ad una sua conversazione con l’antropologo Piergiorgio Giacchè (a dieci anni dalla morte dell’autore di Nostra Signora dei Turchi), di cui di seguito pubblichiamo un frammento a proposito della “morte dell’attore”, anche come attestazione di un altro modo di guardare all’opera di Bene (marcando così il timbro di questo dialogo monologante tra Boldrini e Giacchè/ Pulsoni):
 
Sono dieci anni che Carmelo è morto. Ma la morte non c’entra con la fine, che è invece assoluta. La morte fa subito pensare alla memoria, all’eredità, a ciò che resta di qualcosa o di qualcuno che invece è finito e – in qualche caso raro e per così dire fortunato – “ha finito”.
Io preferisco festeggiare il suo compleanno, il natale o la sorgente di qualcuno che tutto sommato ha appena compiuto settantacinque anni, anche se “ha finito” di vivere e di operare. Il natale però vale ancora per gli altri come apertura, curiosità, interesse che in ogni senso è ancora lontano dalla “fine”.
Di Bene ci sono ancora molte sue opere (film e video e dischi e libri…) che, viste dalla parte della nascita e non della morte, non sono un lascito o un deposito ma un regalo da scoprire e riscoprire. Non sono resti da conservare ma tracce da inseguire, finché sembrano spingerci “oltre” a dove noi siamo. La commemorazione in mortem spenge queste tracce invece di valorizzarle; la morte è più consolatoria della fine ma molto meno rispettosa. Infine, consegna – alla terra e non alle persone, alla memoria e non alla fruizione – opere che sono ancora in vita; la morte seppellisce nel tempo e nel luogo tutto quello che è nato ed è finito in Carmelo e per Carmelo, che ancora ci riguarda ma non ci appartiene.
Le tracce di CB ci portano molto più avanti di noi stessi e del nostro tempo. Quando guardo o ascolto le tracce di visioni e suoni, di parole e pensieri di CB, non posso negare che la sua fine è al di là del mio sguardo e perfino del mio stesso fine.
Più concretamente e semplicemente: il suo teatro resta senza classificazione e ancora è di là da venire, il suo cinema dà la sensazione di qualcosa di ancora inattuale. La sua voce “eidetica”, il suo canto “poetico”, il suo gesto “mancato” sono intuizioni ancora da interrogare e inseguire.
Non ha avuto maestri né allievi Carmelo Bene, non ha fatto metodo ma soltanto merito. C’è qualcosa nella sua arte di vivere e vita dell’arte che pare coniugarsi soltanto al “futuro anteriore”, un sarà stato che è difficile da tradurre negli altri tempi presenti e passati, tutti imperfetti; e – per proseguire con la grammatica, lo stesso modo verbale di Bene è ancora più imperativo e ottativo che congiuntivo (il modo verbale del teatro, secondo Victor Turner, legato al “come se” del teatro della rappresentazione, da Bene odiato con ostinazione ma anche evitato con cura).
Il suo teatro – come lui ha detto – non è più tolemaico ma copernicano: la rappresentazione è morta davvero da tempo e non ha più né senso né un fine. Il suo è il teatro dell’irrappresentabile, com’è a suo avviso, il solo vero teatro.
La sua rivoluzione copernicana è ancora di là da venire eppure c’è stata? In verità si può dire solo usando il futuro anteriore: “sarà stata!” e molti sono in grado di testimoniare questo passaggio nel futuro di una volta.
 

Glendalough. Un fotogramma dal film “Nell’insonnia di avere in sorte la luce”

 
Alla lezione su Carmelo Bene ha fatto seguito la presentazione del film “Nell’insonnia di avere in sorte la luce” di Giorgiomaria Cornelio e Lucamatteo Rossi, secondo capitolo di una ipotetica “trilogia dei viandanti” inaugurata nel 2016 da “Ogni roveto un dio che arde” come proposta di cinema che s’apre in immagini proprio laddove decide di disabitare i luoghi certi della sua circoscrizione, tra attrito, inviluppo e divagazione. Cos’altro resta da fare, per il cineasta e per lo spettatore, se non rifiutare le galere del finito, che guardano al cinema come a un’ora d’aria dello sguardo? Cos’altro, se non proporre un voto di stupefazione e “d’incredulità verso l’onnipotenza del visibile”? (come quando, nel 1732, fuori dal cimitero di Saint-Médard la folla in rivolta pose un cartello alle porte in sfregio alla tirannia del sultano che aveva bandito l’accesso ai Convulsionari: “Per ordine del re si vieta a Dio di compiere miracoli in questi luoghi.”)
 
Di seguito, pubblichiamo tre tavole dall’atlante di preparazione del film, in continuo dialogo con i materiali della mostra parallela all’evento e congiunta al progetto Mnemosyne di Aby Warburg.
 
L’esposizione ha incluso annotazioni e opere originali di: Corrado Costa, Silvio Craia, Mario Diacono, Franco Ferrara,Osvaldo Licini, Magdalo Mussio, Nuvolo, Remo Pagnanelli, Pinuccio Sciola, Stefano Scodanibbio, Aldo Tagliaferri, Emilio Villa, Andrea Balietti, Bianca Battilocchi, Giuditta Chiaraluce, Vincenzo Consalvi, Simone Doria, Valentina Lauducci, Elisabetta Moriconi, Mariano Prosperi.
 
Tavola di preparazione n.5

 
Tavola di preparazione n.7

 
Tavola di preparazione n.10

 
A conclusione della giornata, un concerto del maestro Cosimo Colazzo e del soprano Patrizia Zanardi ha sigillato la riflessione sul continuo slittamento delle discipline, come se la poesia fosse quanto persiste a volersi nel bordo delle cose. Solo in questo ventilare di innesti è possibile finalmente perdere il filo del discorso, dimenticando a memoria i rispettivi campi d’appartenenza e tornando a nutrire quello che Didi-Huberman ha chiamato una volta “il funzionamento epidemico delle immagini”:
 
«La grande domanda è quella che vuole conoscere come avviene il trapasso, nel caos dei dati giunti fino a noi, come una risacca, in un amalgama fonetico baluginante ma senza luce ferma e fisso riverbero, il trapasso, in diagonale, da mito a concezione cosmologica, da mito a teologia, da mito a leggenda, e da storia a mito o da mito a storia; o non forse trapasso mai, ma come si determina il flusso degli incroci e degli attriti: una peripezia di cicli, di parabole, di invenzioni, di aperture, di inclinazioni» (Emilio Villa)
 
Il manifesto del concerto

 

What’s in a name? Romeo, Giulietta, Proust e l’insurrezione dei nomi

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di Jamila Mascat

Nella famosa “scena del balcone”, quella in cui Giulietta supplica Romeo di rinnegare per amore i propri natali, l’appassionata protagonista della tragedia di Shakespeare, interroga il valore dei nomi: “Oh Romeo Romeo, perché sei tu Romeo!? Rinnega tuo padre, rifiuta il tuo nome, o se non vuoi, giura che mi ami e non sarò più una Capuleti. Solo il tuo nome è mio nemico: tu sei tu”. Del resto, prosegue fiduciosa Giulietta, “Che vuol dire ‘Montecchi’? – “Non è una mano, né un piede, né un braccio, né un viso, nulla di ciò che forma un corpo”. E “Che cos’è un nome?” se in fondo “quella che chiamiamo ‘rosa’ anche con un altro nome avrebbe il suo profumo”? Da cui l’implorazione reiterata all’amato: “Rinuncia al tuo nome, Romeo, e per quel nome che non è parte di te, prendi me stessa”.

Artificio, convenzione, costrutto fonetico evanescente, “designatore rigido” privo di senso secondo il logico Saul Kripke – e contrariamente a quel che sostengono Frege, Russell e i paladini delle teorie descrittiviste – il nome per la romantica eroina di Shakespeare non intacca né significa ciò che nomina. Nomen non est omen, direbbe dunque Giulietta, d’accordo con John Stuart Mill – il cui System of Logic (1843) fu per Kripke fonte d’ispirazione – nell’affermare che i nomi propri non sono connotativi, cioè non dipendono dagli attributi dei soggetti/oggetti a cui si riferiscono. Infatti, quand’anche fosse necessario ammettere, con Mill, che “dobbiamo aver avuto qualche ragione per dare […] questi nomi invece di altri”, sarebbe altrettanto necessario riconoscere che “il nome, una volta dato, è indipendente dalla ragione” e che “un uomo può essere chiamato ‘John’ perché quello era il nome di suo padre; una città può essere chiamata ‘Dartmouth’ perché è situata alla foce del fiume Dart”, ma al tempo stesso “non è parte del significato della parola ‘John’ che il padre della persona così chiamata aveva lo stesso nome; né che la parola ‘Dartmouth’ sia situata alla foce del Dart”.

Tuttavia, se accettiamo l’ipotesi di Giulietta, secondo cui il nome denomina ma non determina, che cosa resta della valenza biblica della nominazione o, per dirla con Hélène Cixous, di quella “sovradeterminazione significante” implicita nell’atto di nominare che fa del nome “una forma di lavoro segreto” e accomuna battesimo e rivoluzione?

Non è un caso che le rivoluzioni di tutti i tempi, dalla Rivoluzione francese a quella d’Ottobre passando per Haiti, abbiano ribattezzato con nomi propri lo spazio e il tempo, reinventando mappe e calendari. A conferma della pregnanza creatrice e insurrezionale del nome, di cui si tratta di smentire la valenza puramente metafisico-derivativa, con buona pace di Dante per cui (Vita Nova, XIII, 4) “li nomi seguitino le cose nominate, sì come è scritto ‘Nomina sunt consequentia rerum’”, per coglierne invece l’esuberanza visionaria.

Proust, inventore nella Recherche di memorabili toponimi, uno per tutti quello dell’inesistente cittadina di Balbec, la cui altrettanto finta etimologia viene illustrata lungamente nelle pagine di Sodoma e Gomorra, ci aiuta in questa impresa. Nell’ultimo capitolo del primo dei sette volumi che compongono la sua opera – Du côté de chez Swann – il giovane Marcel discetta del potere evocativo dei nomi propri di città, città sognate, agognate e mai viste. Per risvegliare quei sogni, spiega Proust, “bastava pronunciare quei nomi: Balbec, Venezia, Firenze, dentro i quali aveva finito per accumularsi il destino ch’essi designavano”. Balbec, ancora una volta, non richiama soltanto la visione di spiagge normanne battute dall’acqua e dal vento, ma ridesta il desiderio vivo di architetture gotiche e tempeste sul mare. Il suo nome – per Marcel un composto di “sillabe eteroclite” – è desiderio.

Ma cosa direbbe Proust della toponomastica coloniale che popola la sua Parigi, di quei toponimi che non desiderano né sognano e piuttosto perpetuano il passato che fu, celebrando i carnefici – ministri e avventurieri, intellettuali e imprenditori, banchieri e militari – dell’impero francese? Sono oltre duecento le rues, places, e avenues della capitale e dintorni battezzate in memoria della grandeur coloniale che vengono rintracciate e raccontate nel volume curato da Didier Epsztajn et Patrick Silberstein, Guide du Paris colonial et des banlieuespubblicato recentemente in Francia da Syllepse. Gli autori hanno deciso di “far parlare i muri”, e in particolare le inconfondibili plaques de rue in bianco e in blu ovunque inchiodate al muro, perché confessassero i crimini celati nei nomi dei criminali a cui rendono omaggio. Come già Roma negata (Ediesse, 2014), il libro scritto da Igiaba Scego e illustrato dalle fotografie di Rino Bianchi, la guida parigina nomina, e dunque evoca, i tormenti malsopiti della memoria coloniale. Ribattezzare quei luoghi segnati, proprio nel nome, da trascorsi secolari di torture, eccidi e massacri, di certo non servirebbe a riparare né riscattare la storia: Roma non potrebbe cavarsela come Romeo onorando gli auspici di Giulietta. Ma se invece, ribaltando Dante, i nomi non fossero consequentia bensì causa rerum, una piazza Omar Al-Mukhtar, dedicata al “leone del deserto”, il guerrigliero che fu per quasi un ventennio alla guida della resistenza libica contro la dominazione italiana, risveglierebbe tra le sillabe eteroclite del nome, come suggerisce Proust, il desiderio di tutt’altra storia. Ai nomi, finalmente, il compito di insorgere per dire storie interdette e nominare passioni impensate.

[Questo articolo è stato pubblicato sul supplemento di aprile dell’Indice dei Libri del Mese dedicato al Festival delle donne e dei saperi di genere di Bari con il titolo “Far parlare i muri”]

Dannazione per delega

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di Antonella Falco

Un racconto fatto di suggestioni letterarie. Un lucido delirio che chiama a raccolta gli eroi di un mondo di carta tenebroso e inquietante ma proprio per questo denso di misterioso fascino. Monologo interiore (più che racconto reale) che a tratti si fa vero e proprio flusso di coscienza – quella coscienza che rimuove la memoria dei misfatti perché ‹‹non ne vuol sapere d’essere sporca›› – Dannazione per delega è una raffinata plaquette uscita per i tipi di Babbomorto editore. La stessa casa editrice è frutto di un arguto esperimento di microeditoria scaturito dalla mente geniale di Antonio Castronuovo, scrittore e saggista, che in tal modo ha voluto produrre opuscoli caratterizzati da un’estrema cura grafica e dalla preziosità di testi brevi dal tono ironico o satirico o surreale, stampati in un numero limitato di copie e numerati a mano: insomma operette che si traducano in piccole rarità per appassionati bibliofili.

L’autore, Edoardo Fontana, colto, estetizzante, decadente quanto basta per circondarsi almeno sulla carta, dell’aura di scapigliato maudit, chiama a raccolta in questo racconto le sue ossessioni letterarie dando vita ad un caleidoscopio di immagini che sembrano nascere l’una dall’altra in un gioco potenzialmente infinito. È un ‹‹inabissarsi in spirali di parole››, cedere all’incanto di un ‹‹mondo ricreato di nuovo››, nel quale gli elementi di realtà sono destinati a perdersi ‹‹durante il transito da un altrove››.

Non resta che unirsi ‹‹al circo della notte››, prendere ‹‹la via delle tenebre›› di cui l’autore sembra essere un bizzarro e tuttavia sapiente conoscitore. E anche la notte, che può essere lunga e solitaria, sembra sapere tutto di lui e a tratti pare avvolgerlo amorevolmente e ricoprire col suo manto brumoso la coscienza in cerco d’oblio: ‹‹la dannazione esiste solo per chi la vuole››. Le ombre che si aggregano nel buio possono anche rivelarsi figure amiche per quanto inquietanti, non stupisce dunque l’avvicendarsi nel testo del Grillo Parlante, di mister Hyde, del suo creatore Robert Louis Stevenson e della di lui consorte Fanny Osbourne, di un misterioso scorpione che potrebbe pungere ma non lo fa e di un Dorian Gray adombrato nell’immagine di ‹‹una giovinezza infinita senza rughe e carne che si decompone››.

D’altra parte ‹‹senz’anima non si può morire›› e si può anche essere disposti a venderlo, questo ‹‹inutile›› fardello. Quelle citate sono solo alcune delle figure presenti nel testo, non veri e propri personaggi quanto, il più delle volte, fugaci apparizioni, icastici fantasmi di una ‹‹città irreale›› che è tanto vera quanto lo sono i labirinti dell’inconscio da cui scaturiscono i sogni. Sogni o più propriamente incubi? Il discrimine è vago come quello che nell’amante separa la felicità dalla disperazione. C’è dunque una donna amata, e attesa, in questa storia, una ‹‹lei che non arriva mai››. Spettro che ammalia con la sua assenza; essenza stessa, forse, dell’amore come arma a doppio taglio, come la mitologica lancia di Achille dotata del potere di curare, essa sola, le ferite che infligge. Del resto Rudyard Kipling scrive dell’amore in termini non dissimili: ‹‹Se qualcuno non mi avesse detto cosa è l’amore/ avrei creduto fosse una spada nuda››.

Verrebbe da chiedersi se vi sia una morale in questa favola di ispirazione gotica e decadente, in questo delirio affabulatorio che sembra figlio dell’assenzio, o se non sia meglio abbandonarsi all’inquieta vividezza delle immagini e all’oscura marea delle parole che seducono, senza farsi troppe domande, senza cercare significati reconditi, tanto ognuno ne troverebbe di diversi, né d’altronde andrebbe dimenticato quanto Oscar Wilde insegna, ossia che ‹‹la vita morale dell’uomo è il materiale dell’artista, ma la moralità dell’arte consiste nell’uso perfetto di uno strumento imperfetto››. E se è vero che art for art’s sake, se fondamentalmente l’arte è fine a se stessa, allora è l’autore di questo racconto ad imitare l’arte di cui è imbevuto, in un esercizio calligrafico che eleva l’estetica (della parola) ad etica.

Il buonuomo Lenin

1

di Gianni Biondillo

Curzio Malaparte, Il buonuomo Lenin, Adelphi, 2018, 311 pagine

Sembra non si riesca a fare a meno di Curzio Malaparte. Come un fiume carsico, non ostante ostracismi e amnesie, la sua opera torna, riaffiora, si mostra nella sua pienezza. Scrittura, diciamolo subito, di qualità indiscussa. “La miglior penna del regime” ebbe a dire di lui l’amico/avversario Piero Gobetti.

Malaparte, l’individualista, l’arcitaliano, fascista della prima ora, anarchico e liberale, comunista convertito al cattolicesimo sul letto di morte, strapaesano e stracittadino, l’esteta e il popolano, il realista e l’espressionista. Tutto e il contrario di tutto. Più amato all’estero, scevro da pregiudizi ideologici, autore di almeno due romanzi che lo pongono al centro della letteratura nazionale del novecento. E di quel secolo è, a modo suo, esemplare irrinunciabile e inimitabile.

Giornalista e viaggiatore, a pochi anni dalla morte del più famoso rivoluzionario dei suoi anni, con il corpo imbalsamato già parte della mitologia e del culto comunista, Malaparte, dopo il fortunato Technique du coup d’etat, decide di scrivere per Grasset, direttamente in francese, questo Il buonuomo Lenin che vedrà luce in italiano solo dopo la sua morte.

Cos’è questo libro? Saggio storico, romanzo, pamphlet, biografia, reportage giornalistico? Tutto questo assieme? È, inutile dirlo, un libro di Malaparte. Un libro, cioè, che nasce da una intuizione, da una provocazione che si dipana inesorabile lungo il corso dell’intera scrittura. Il ritratto imperante di Lenin in quegli anni, e siamo negli anni trenta, visto dalla parte delle democrazie avanzate europee lo raffigura come un uomo violento, brutale. Un Gengis Khan del proletariato, sbucato dal cuore dell’Asia, al di là del mondo razionale dell’Occidente, vissuto oltre il confine della ragionevolezza, un mongolo pronto a portare il caos nel mondo civile.

Ma per Malaparte Lenin è tutto il contrario di questa ideologica iconografia. Ai suoi occhi, ecco la profonda provocazione, Lenin è semmai l’emblema, quasi didascalico, del buon piccolo borghese europeo, capace, nella sua grigia esistenza, di costruire teorie slegate dalla realtà, ma con l’ordine e la disciplina del travet che, giorno dopo giorno, si occupa della ragioneria della rivoluzione a venire.

La Storia non lo vede mai anticipatore o condottiero. A questo ci pensando ribelli romantici, altrettanto denigrati da Malaparte, come Lev Trotsky. Compito del piccolo borghese Lenin, talmente vile che durante i giorni dell’insurrezione si tiene sempre da parte, nascosto, o ridicolmente travestito, è essere pronto quanto gli eventi, inesorabili, gli si porranno di fronte. Eliminando i nemici interni, facendo del partito il suo campo di battaglia, superando Karl Marx per, in realtà, esautorarlo.

[1938-1940] ILIO BARONTINI “vice-imperatore” dell’Abissinia

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Cartolina "ricordo" dell'Impero coloniale
Cartolina “ricordo” dell’Impero Coloniale

di Orsola Puecher

In questo 25 aprile 2018, che ancora pervicacemente mi sento in dovere di “commemorare” contro il rigurgito di tutti i fascismi e razzismi, manifesti o striscianti che siano, nel raccontare l’avventurosa e straordinaria missione di sostegno alla resistenza etiope compiuta dal 1938 al 1940 da Ilio Barontini [Cecina, 28 settembre 1890 – Scandicci, 22 gennaio 1951] forse sta la sola speranza di rimediare, almeno in minima parte, alla vergogna dell’avventura coloniale in Abissinia del 1935, una delle macchie più infamanti e meno conosciute del regime mussoliniano, fra armi chimiche e stragi di civili degli italiani brava gente. Barontini antifascista della prima ora di matrice anarchica, poi socialista e in seguito comunista, combatté nella Guerra di Spagna, in Etiopia, in Francia e in Italia, con quello spirito internazionalista di aiuto ai popoli oppressi, oggi di difficile comprensione, considerato un po’ romantico e obsoleto, ma che fu una componente decisiva per la sconfitta del nazifascismo in Europa.
Parlare di antifascismo essendo dalla parte giusta, pur scavando in dolorose memorie, in un dolore che si trasmette di generazione in generazione, porta prima o poi sempre a una sorta di pacificazione, a un senso compiuto del sacrificio delle vittime, in cui l’anello si chiude nel giudizio del tempo e della storia. Avere invece nella propria famiglia chi combattè dalla parte sbagliata, trova più difficilmente una cura alla vergogna, alla colpa, spesso al desiderio di nasconderla, di seppellirla. Cosa che successe fino agli ’90 anche alla stessa nazione italiana, quando si scopersero interi dossier taciuti e sepolti nell’archivio del Foreign and Commonwealth Office inglese sulle atrocità commesse in Abissinia e nei Balcani. I criminali di guerra italiani riconosciuti colpevoli, circa 750, dal ⇨ “Registro Centrale per i Criminali di Guerra e i Sospettati per la Sicurezza” dell’ ONU, in Jugoslavia, in Etiopia, non furono mai estradati e processati nei paesi dove li avevano commessi, non furono mai puniti, bensì dimenticati, nascosti sotto il tappeto. Il paese dei misteri non si smentisce mai.
Qualche anno fa nei commenti di un post per il Giorno della Memoria pubblicai il link a un documentario della BBC del 1985, acquistato dalla RAI ma poi mai trasmesso, ⇨ Fascist Legacy, l’eredità del fascismo, che parla di questo crimini e del loro insabbiamento. Mi colpì molto il commento di ⇨ Antonio Sparzani:


sparz il 29 gennaio 2011 alle 12:37
ho guardato con crescente dolore e rabbia i documentari linkati da Orsola, che ancora ringrazio, memore, con crescente raccapriccio, dei racconti gloriosamente guerreschi che mi faceva mio padre, mitragliere reduce appunto dalla guerra di Libia, e in particolare in Cirenaica. Non c’è limite alla vergogna che ogni tanto dovrebbe sommergerci. Lo ripeto con un dolore smisurato.

 
Alla festa di Nazione Indiana dello scorso settembre durante il dibattito ⇨ Scrivere la Storia, ⇨ Anna Tellini ha fatto un intervento su questo tema, che egualmente mi ha molto colpito:

Orecchini “souvenir” coloniale
Sono venuta sfoggiando, si fa per dire, questi orecchini, che vengono dall’Africa, dalle colonie africane, perché mio nonno, mio nonno materno, di indefessa fede sabauda, si era ben turato il naso rispetto a Mussolini e al fascismo e, militare di carriera era andato a fare il governatore nelle colonie africane. Allora il fatto è che io e mia sorella morta non abbiamo mai parlato di questo nonno, a nessuno e non credo che sia un caso. Per noi era una specie di macchia, questo nonno che era andato a governare e chissà cosa aveva fatto e di cosa s’era reso complice, già con la sua stessa formazione militare. Adesso che praticamente sono rimasta solo io della mia famiglia, mi è scattato un qualcosa per cui o mi libero da sola, o non ho più nessuna speranza. Quindi ecco vi dico che questo è un prodotto del colonialismo. E due anni fa ho avuto un raptus incontenibile e ho dovuto fare un viaggio in Etiopia. Dove mio nonno, appunto, faceva… e sono andata quasi quasi all’inizio in Etiopia sperando che qualche etiope di passaggio mi sputasse in un occhio: “Tu sei la nipote di… il mio prozio ha sofferto per…” Invece, forse sono stata molto molto fortunata, ma mi sono imbattuta in persone sorridenti molto pacificate, loro, beate loro rispetto agli italiani, perché io avevo delle remore, una coda di paglia. Non gliene poteva importare di meno e non solo, durante un viaggio scomodissimo, lunghissimo, per strade dissestate a un certo punto abbiamo fatto una sosta nel nulla, perché in quel nulla c’era un piccolo cimitero di soldati italiani, appunto, quindi immaginate di vedere un piccolo cimitero circondato dal nulla per chilometri e chilometri e chilometri, che nessuno aveva mai desiderato devastare, anzi tenuto alla perfezione proprio, come in Italia non potremmo mai vederne. Ed era un cimitero di soldati italiani di quell’epoca e quindi adesso io nell’ingresso di casa mia, ho appeso incorniciati i due diplomi militari di mio nonno, ma questa è un’altra storia… voglio dire che io non credo che potrei mai scrivere, anche se fossi una scrittrice, cosa che non sono, non potrei mai scrivere un romanzo storico, su una storia del colonialismo italiano, avendo avuto questo nonno.
 
Cimitero militare italiano di Adigrat

 
Perché non restino solo un senso di dolore profondo, irrimediabile, un paio di pregevoli orecchini di avorio con due aspidi impressi e un faticoso percorso di pacificazione individuale, bisogna di nuovo interrogare questa storia lontana, quasi dimenticata e i suoi protagonisti.
 
Mezzo milioni di uomini, l’intera flotta aerea, carri armati, artiglieria pesante fino a sguarnire le riserve della madrepatria furono mandate in Etiopia da Mussolini nel ’35 alla conquista dell’Impero Coloniale Italiano. Una via di mezzo fra il voler rinverdire i fasti dell’Impero Romano e una “campagna di civilizzazione” che avrebbe dovuto portare benessere, trasferendo milioni di italiani nei nuovi territori, servì solo a nascondere le difficoltà, la disoccupazione e la pesante situazione economica interna.

   
   

Una campagna che si pensava di risolvere in poche settimane, dovette fare i conti la strenua resistenza etiope, con ingenti perdite di uomini da entrambe le parti, fino ad arrivare, con l’illusione di velocizzare la conquista, all’uso di armi chimiche, fosgene e iprite, vietate dal Protocollo di Ginevra del 1926, che anche l’Italia aveva sottoscritto.
Le usò dapprima il Comandante Supremo Generale Badoglio, poi sostituito, perché non abbastanza efficiente, dal Maresciallo Graziani, che compì l’opera, il tutto con ordini diretti del Duce, come si evidenzia dal fitto scambio di dispacci :


 

MINISTERO DELLE COLONIE
TELEGRAMMA IN PARTENZA

 

Roma, li 27 ottobre 1935   

 
Segreto
 
S.E. GRAZIANI
MOGADISCIO
 
12409 – Sta bene per azione giorno 29 stop Autorizzato impiego gas come ultima ratio per sopraffare resistenza nemico et in caso di contrattacco.
 
Mussolini

MINISTERO DELLE COLONIE
TELEGRAMMA IN PARTENZA

 

Roma, li 28 dicembre 1935-XIV   

 
Segreto M.P.A.
 
S. E. Maresciallo BADOGLIO
MACALLE’
 
15081 – Dati sistemi nemico di cui a suo dispaccio n. 630 autorizzo V. E. all’impiego anche su vasta scala di qualunque gas et dei lanciafiamme (.)
 
Mussolini

MINISTERO DELLE COLONIE
TELEGRAMMA IN PARTENZA

 

Roma, li 19 gennaio 1936-XIV   

 
M.P.A. su tutte le MM. PP. AA.
 
Maresciallo BADOGLIO
MACALLE’
 
790 – Manovra est ben ideata et riuscirà sicuramente stop Autorizzo V. E. a impiegare tutti i mezzi di guerra – dico tutti – sia dall’alto come da terra stop. Massima decisione (.)
 
Mussolini

MINISTERO DELLE COLONIE
TELEGRAMMA IN PARTENZA

 

Roma, li 29 marzo 1936-XIV   

 
Segreto
 
M.P.A. su tutte le MM. PP. AA.
 
S. E. BADOGLIO
MACALLE’
 
3652 Segreto. Dati metodi guerra nemico le rinnovo autorizzazione impiego gas qualunque specie et su qualunque scala.
 
Mussolini

L’iprite contenuta in bombe C.500T, che esplodevano ad un’altezza di 250 metri, si spargeva in minute goccioline in un’ellisse di 500 metri per 100, depositandosi sulla pelle di uomini e animali, provocando profonde ed estese ustioni, che gli Etiopi, non sapendo bene da cosa fossero provocate, non capivano nemmeno come poter curare adeguatamente.

   
   

Ignobilmente anche gli ospedali da campo della Croce Rossa internazionale venivano attaccati e bombardati, per tema che fossero covi di spie inglesi.

   

La campagna di propaganda raggiunge vertici inauditi di sessismo, con la malsana idea di una donna indigena faccetta nera disponibile a qualsiasi sopruso. Viene attuata una capillare distribuzione di confezioni di preservativi alle truppe, vietati e riprovati in patria per altro, perché potessero fare tranquillamente i loro comodi di virili conquistatori.
 
Colonialismo razzista e sessista

 
Con il radicarsi di un razzismo profondo, di cui ancora patiamo le conseguenze, ma allegro e condito da canzoncine goliardiche, tali da far passare la missione per una divertente scampagnata erotico/esotica, una fra le campagne coloniali più feroci della storia procedette nell’entusiasmo generale.
Persino Topolino di Walt Disney viene arruolato in Topolino va in Abissinia [1935], che diventa uno dei maggiori successi del momento, atroce scenetta musicale comica di tal Fernando Crivelli, in arte Crivel, cantante e autore di hit molto in voga come Maramao perché sei morto.

Tra le tante nefandezze del testo, con la sua tipica vocetta stridula da cartoon, fra le oscene risate dei commilitoni Topolino, valente soldato volontario coloniale, impaziente di combattere, sciorina il vero spirito della missione:
 

Mi sono armato da solo. Ho la spada, il fucile, una mitragliatrice sulle spalle e mezzo litro di gas asfissiante nella borraccia.
Appena vedo il Negus lo servo a dovere. Se è nero lo faccio diventare bianco dallo spavento.
Ho molto premura. Ho promesso alla mia mamma di mandarle una pelle di un moro per farci un paio di scarpe.
A mio padre manderò tre o quattro pelli per fare i cuscini della sua Balilla.
A mio zio un vagone di pelli, perché fa il guantaio.

 
Ilio Barontini in esilio in Francia dal ’31, per sfuggire alla polizia fascista, dopo aver valorosamente combattuto nella Guerra di Spagna, assumendo il comando delle brigate internazionali durante la vittoriosa battaglia di Guadalajara, è tornato in Francia dal 21 giugno del ’37.
 

Ilio Barontini, foto segnaletica del Casellario Politico Fascista

 
Nel libro di memorie Dario Ilio Barontini scritto insieme a Vittorio Marchi [Editrice Nuova Fortezza Livorno, 1988], la figlia Era delinea la complessa figura di un uomo contemporaneamente portato verso ogni esperienza di resistenza, di lotta politica e partigiana, ma anche modesto, schivo e obbediente alle direttive del Partito. Un piccolo imprenditore borghese che avrebbe potuto starsene tranquillo a Livorno a occuparsi della fabbrica di pipe di radica di famiglia, ma che invece per 16 anni della sua vita abbandona affetti e famiglia per la causa:
 

Anche in Africa Barontini va perché ce lo comandano, quindi niente arditismo o avventurismo. [Pag, 197]

 
Con la valutazione che una sconfitta di Mussolini in Etiopia avrebbe potuto essere l’inizio della fine della dittatura, dopo l’iniziale intenzione di aprire un nuovo fronte con l’invio di brigate internazionali come in Spagna, si decise invece di aiutare la resistenza etiope insieme a inglesi e francesi.
Barontini è tornato a Parigi dove organizza i volontari spagnoli, quando gli viene affidato il compito di occuparsi della missione in Abissinia. Francia e Inghilterra decidono di aiutare i patrioti etiopi. Armi e aiuti passano attraverso il Sudan sotto controllo britannico.
 

 
Ilio Barontini parte per l’Africa Orientale nel dicembre del ’38. La missione era stata preceduta da contatti con Di Vittorio, Grieco, Berti, la segreteria del Negus e le autorità francesi. Ha il compito di organizzare la guerriglia contro gli invasori e la propaganda antifascista fra militari e coloni italiani.
Mussolini ha conquistato tutti i villaggi e le città più importanti, la ferrovia Addis Abeba-Gibuti e controlla le principali vie di comunicazione, ma i ¾ del territorio etiope sono ancora governati dagli indigeni in nome di Hailé Selassié. In molti fortini italiani i rifornimenti devono essere paracadutai, perché certe zone non possono essere attraversate.
 

Gli Arbegnuoc, patrioti etiopi

 
La rivolta non è localizzata in un punto, ma su tutto il territorio. Gli Arbegnuoc, i patrioti etiopi, si procurano armi togliendole agli italiani, spesso arrivano fino alle porte della capitale e alle loro azioni corrispondono ritorsioni e rappresaglie violentissime da parte di militari e polizia fascista.
La missione di Barontini è molto difficile,
 

… per decisione del nostro partito, in accordo con il governo repubblicano spagnolo, mi fu proposto di recarmi in Abissinia per condurvi e meglio organizzare il movimento partigiano, ciò come diversivo militare contro il fascismo e come politica nazionale rispetto ai popoli coloniali.
Accettai e partii alla fine del 38; organizzai in Abissinia un vasto movimento partigiano, organizzai un governo provvisorio di patrioti, diffusi in due lingue un giornale ebdomadario – La voce degli Abissini- Feci ritorno dall’Abissinia ai primi del 1940…

 
Nell’estate del ’39 viene raggiunto da Anton Ukmar ex ferroviere sloveno di Gorizia conosciuto in Spagna, da Bruno Rolla, comunista di La Spezia, dal colonnello francese Paul Rober Mounier e dal segretario del Negus Lorenzo Talzar.
Barontini arriva attraverso Egitto e Sudan con le credenziali di Hailé Selassié trascritte su fazzoletti di seta per sfuggire al controllo nemico.
La prima tappa della missione è Kartum in Sudan, dove contatta le autorità abissine in esilio. La seconda tappa Gadareff, città distante dal confine etiope 80 chilometri. Da lì a piedi entra in territorio etiope.
Barontini si fa chiamare Paolus, Ukmar è Iohannes, Rolla è Petrus, nomi presi dagli apostoli per avvicinarsi meglio al religiosissimo popolo etiope, sul quale i preti copti avevano un ascendente fortissimo.
Barontini addestra e organizza battaglioni e formazioni mobili di oltre mille uomini. Fa propaganda fra la popolazione e mobilita in poco tempo un esercito di 250.000 combattenti e un governo provvisorio di 9 ministri.
Esercito, polizia e bande fasciste gli danno la caccia, hanno messo una taglia sulla sua testa, ormai la sua fama si è sparsa ovunque, abituato alla lotta clandestina non si ferma mai nello stesso posto e fa continue riunioni con i capi della guerriglia.
 


Hailè Selassiè nel 1941 con il capo della chiesa copta Gabre Guirguis

 
I Ras delle varie tribù sono in lotta per la successione al trono del Negus e dicono che l’imperatore, che è Londra in esilio, mentre loro rischiano la vita ogni giorno e il popolo muore di fame, ha rubato le riserve auree del paese.
Barontini intuisce che deve informare il Negus e così Hailé Selassié lo nomina vice-imperatore di Abissinia e gli affida il compito di dirimere le lotte interne alla resistenza. Quando si diffonde la notizia, la gioia è generale, il prestigio che Barontini si era conquistato sul campo era enorme, quasi mitico, i Ras cessano le lotte interne. Barontini riesce perfino a pubblicare un giornale in due lingue “La voce degli Abissini” che gli etiopi spargono clandestinamente ovunque si trovino gli italiani, in accampamenti e caserme, fra i coloni, e fra la popolazione.
Il ricordo di Paulus, della sua capacità organizzativa miltare e politica, ma anche della sua ironia e sagacia toscana, è ancora oggi molto vivo fra i veterani etiopi:
 

ADDIS ABEBA – «Sì… c’era un italiano che ci insegnava a sfottere i fascisti… in italiano». A riparlarne gli vien da ridere, al veterano etiope in divisa kaki. «Lui stava col nostro esercito, Paolo si chiamava. Me lo ricordo perché c’era la taglia col suo nome». Che faceva? «Ci mandava di notte sotto le mura dei fortini, a gridare a squarciagola». Cosa urlavate? «Le vostre mogli se la spassano con i gerarchiiii!». E poi? «Gridavamo in eritreo, agli ascari collaborazionisti: le vostre se le fanno gli italianiiii!». Abboccavano? «In cinque minuti scoppiava il pandemonio. I fascisti aprivano le porte e uscivano per farci la pelle. Noi scappavamo come lepri in una gola tra i monti. E lì c’ era l’ imboscata».
da ⇨ La Repubblica, Paolo Rumiz “I guerrieri rasta e l’impero di latta” 4/30/2006

 
La missione dura fino al giugno 1940 nel Gondar e nel Goggian, dove Barontini ha costituito il nucleo principale dell’esercito di liberazione, riuscendo pienamente nell’intento di mantenere un altro fronte aperto, che impegnasse e sfiancasse truppe e milizie fasciste. Termina poco dopo lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale. Aiutati dagli inglesi gli etiopi riprenderanno tutto il loro territorio. Gli italiani saranno costretti a ritirarsi e a rimpatriare. Nel ’41 il Negus ritorna in patria.
 


 
Il ritorno di Barontini e dei compagni è drammatico, gli altri due sono gravemente malati. Raggiungono il Sudan fra mille difficoltà, si perdono per 10 giorni nella giungla senza viveri, sono attaccati da bande che ritengono trasporti un tesoro. Raggiungono il confine dove a riceverli c’è il comandante Alexander. Dal Cairo, si imbarcano su di una nave della Croce Rossa per Marsiglia. Barontini torna in contatto con il partito, gli altri invece vengono arrestati e internati nel campo di Vernet, dove si confondono con gli altri fuoriusciti italiani. Solo pochi giorni dopo Parigi sarà in mano ai tedeschi.
 
Barontini con Walter Audisio

 
Dalla Francia Barontini riuscirà a tornare in Italia clandestinamente dopo l’8 settembre, dove, assumendo il nome di battaglia di Dario, organizzerà e dirigerà la resistenza in Emilia Romagna fino alla Liberazione, portando avanti l’intuizione che la lotta partigiana dovesse diventare una lotta di popolo, dalle isolate azioni gappiste nelle città, alla guerriglia in montagna, unendo soldati sbandati, reduci dalla Spagna in una larga compagine ideologica.
Insegna a gappisti e sappisti le tecniche militari perfezionate sui numerosi fronti di guerra, dalla costruzione di bombe a mano, bombe a scoppio ritardato, a come far deragliare un treno. Con il lungo impermebile sgualcito porta sempre con sé una vecchia borsa, dove fra i pochi oggetti personali della sua vita vagabonda non mancano dei candelotti di dinamite. Decorato con la Bronze Star dal generale Alexander, gli fu conferita la cittadinaza onoraria della città di Bologna. L’Unione Sovietica gli attribuisce il prestigioso Ordine della Stella Rossa. Nel dopo guerra continuerà la sua carriera politica nel Partito Comunista, con modestia e dedizione. Non ebbe e non cercò troppi riconoscimenti alle sue straordinarie imprese. Ma è motivo d’orgoglio e di consolazione sapere dell’esistenza di uomini come lui, che si contrapposero alla vergogna estrema del fascismo italiano in ogni luogo e con ogni mezzo. Nel ’51, quando è senatore, Barontini disgraziatamente muore a soli 61 anni in un incidente stradale causato dalla nebbia con altri due compagni di partito. Il suo funerale sarà seguito da una folla enorme.
 


 
 

Hamburger

1

di Giancarlo Maria Costa

E mentre me ne andavo – e me ne andavo col treno perché la famiglia di B. stava diventando una specie di famiglia povera e povera stava diventando la mia che era una famiglia come quella di B – mentre, dicevo, andavamo via da Gela, io e B., avevamo le parole dei nostri papà nelle orecchie, parole dette ogni sera prima di andare a dormire. Le parole venivano pronunciate dopo Indietro Tutta ed erano: tu da qua devi andartene.

Fu trasportando le valige pesantissime da un sedile all’altro di un bus per la Germania che B. che era un gigante alto quasi due metri mi disse ma che cazzo c’hai messo dentro le tue valigie i cadaveri ? E solo dopo diversi anni, tornando a quella partenza, dentro le valigie io pensai che si, c’erano i cadaveri, c’era la mia città e c’ero io che avevo respirato e dovevo avere addosso l’odore insopportabile della decomposizione anche se allora credevo di avere la vita in ebrezza – una vita di appena diciott’anni – la decomposizione era la luce della mia ebrezza

Io B. e gli altri avevamo diciotto anni nel 1993. Nel 1993 c’erano un sacco di bancarelle di vestiti al mercato di Gela e i vestiti per i ragazzi della sala giochi Nevada le madri li compravamo al mercato del martedì. Invece all’ospedale io e papà c’andavamo l’indomani e c’erano un sacco di metastasi, metastasi che sembrano tramonti, pensavo, tramonti di persone che non sarebbero risorte come mia madre che era già malata da prima che nascessi tant’è che come un cagnolino chiamavo mamma le cose rimaste al suo posto e cos’era rimasto al posto di mia madre?

Al posto di mia madre erano rimaste un un mucchio di cose che erano male – cose come le pistole sparachiodi o le ciminiere del Petrolchimico – e in mezzo, mi dissi, in mezzo c’era stato il nascere nella carne e adesso carne ero io, carne macinata con le ossa e il sangue, perché io ero figlio della città di petrolio che era sangue e di rovine come ossa.

Mia madre era distratta come distratto è il ventre della terra, ma lucente e oscura come un velluto nero. Era la madre di un sacco di assassini e niente era più semplice che capire gli assassini fratelli miei, ragazzi che indossavano vestiti El Charro e guardavano Beverly Hills 90120 e solo dovevano salire su una moto Enduro e uccidere altri ragazzi per continuare a guardare.

Nel mentre la terra sotto il bus scorreva come un fiume e giuravo che non sarei più tornato a Gela e il Nord era la terra promessa e la terra promessa era la giovinezza e indietro restava un mare sensuale, un mare profondo e ostile dove i cani nella notte come sospesi a mezz’aria abbaiavano dietro al bus.

Credono di poter fermare il bus e dissi a B.: ti rendi conto quanto sono coglioni i cani che abbaiano al bus? B. a quel punto disse che il bus prima o poi si sarebbe fermato e i cani sarebbero stati convinti di aver cambiato il mondo. Allora guardai B. e gli chiesi se aveva portato una cassetta con i Modern Talking. B. mi mostrò la cassetta e mi chiese se in Baviera avremmo mangiato i migliori hamburger della nostra vita, dopo mi raccontò che una volta in Germania c’era stato da suo cugino e aveva mangiato hamburger molto alti, hamburger alti almeno tre dita, disse, e lui era più che altro per quel tipo di panini e mi chiese se secondo me c’erano hamburger più grandi di quelli e io gli dissi che c’erano hamburger molto più alti di quelli McDonald, che sono piccoli, e ne servono sette o otto per saziare la fame di un ragazzo di Gela.

– anche se di quelli del Burger King, di quelli ne basterebbero cinque – mi disse – però se mi dici che a Baden Baden invece con due hamburger ti sazi ti credo. Sarà un viaggio lungo ma ne varrà la pena, l’importante è che dormiamo. –

Io sugli hamburger non mentivo, veramente avevo pensato di non mentire mai agli amici e che mentire agli amici fosse sbagliato. Questa era la regola dei ragazzi della sala giochi Nevada. Non rubare la donna a un amico. Non mentire. Prestare le sigarette. Farsi i fatti propri. Non rullare a bigliardino.

Quasi ogni mattina Io B. e gli altri giocavamo al videgioco Golden Axe oppure a Extreme Soccer mentre il pomeriggio giocavamo a biliardo e fumavamo erba fino a sera, io ero al quinto livello di Golden Axe, il livello in cui Ax Battler può salire su un dinosauro, quando B. disse vado a fumare mezza canna e torno e quando tornò le moto Enduro erano ferme davanti l’ingresso e i due ragazzi con i rayban erano saliti sopra il tavolo del biliardo e il gestore della sala giochi Nevada, un pedofilo di nome Nenè Connery, disse che buttana miseria fate su quei tavoli? ma nessuno potè sentirlo perché la musica era troppo alta e i ragazzi con i rayban uscirono il fucile a canne e una pistola revolver, una pistola di quelle che io e B., durante ricreazione all’Istituto Chimico, dicevamo: cazzo sarebbe bello averla.
Era autunno e c’erano tutti i miei amici: Jason Cosenza che si è preso le pallottole nelle budella sopra i coglioni e Brandon Lauretta, e Dylan Scicolone con buco nello sterno. Poi c’era Marylin Di Dio con il ferro nella pancia e nelle cosce ed era quella più viva, ma viva come una marionetta, come una marionetta era quando nella sala giochi colava la carne dei miei amici dalle pareti e io strisciavo fra i tavoli e i vetri rotti e sussurrano: amore mio sei vivo? E Marylin era viva ma si muoveva a scatti ma non capiva più d’essere Marylin Di Dio, né una ragazza di Gela, e io stesso non riuscivo a capire cos’era lei e cos’ero diventato anch’io.

Poi vennero i poliziotti. Mi afferrano per il collo come un gatto mentre fissavo le pareti. Nella stanza del commissariato ( una stanza che per me adesso è sospesa nella notte accanto alla luna) mi domandarono cosa avessi visto. Io rimasi zitto e alla fine dissi che avevo visto proprio un cazzo. Loro dissero ragazzino è importante, non avere paura, ti mandiamo lontano, però dicci cosa hai visto. E io dissi un super minchia ho visto, un grande cazzo di nessuno e niente. Allora il poliziotto X diede un calcio al cestino dell’immondizia e il cestino si rovesciò per terra. Dentro il cestino c’era un poster dell’attrice porno Fili Houtman tutto accartocciato e io dissi allo sbirro: c’hai ancora da farecon quello? E loro dissero va bene basta più per ora fallo riposare al ragazzo ma quando stavano per uscire io, non so perché, chiamai lo sbirro e dissi :Io non ho visto però ho sentito dissi. Allora loro si voltarono perplessi e mi vennero vicini, si misero in ginocchio alla mia altezza e chiesero: cosa hai sentito?

E io dissi: ho sentito così… you’re my fire, the one desire..belive when i say, i want it that way. …

Dopo rimasi solo. Ero solo e continuavo a cantare.

Solo nella stanza continuavo a cantare. Cantavo un sacco di pezzi inventando le parole. L’ultimo pezzo che ho cantato: Memories dei Netzwerk. Le parole dicevano : you know my world, this is my right, you can take my love but not my life. Non conoscevo l’inglese e non avevo idea di cosa volessero dire. Io, B., Marylin Di Dio, Jason avevamo ballato questa canzone in una discoteca che si chiama Pasta Club. Scoppiai a piangere. Ripensavo ai pezzi di carne dei miei amici sulla parete della sala giochi Nevada. Prima o poi, pensai, avrei dimenticato e pregavo chiunque di fare in fretta, perché mentre dimenticavo, c’era da vivere ed ero come inseguito, sentivo che presto sarebbe toccato a me, che sarei scomparso e sarebbero scomparsi i bare i lidi in riva al mare, gli amici come B. e i bus verso la Germania, il Petrolchimico deserto l’avrebbe spazzato via il vento come erba secca.

B. sul bus si era messo a dormire e russava. Io ogni tanto gli davo un gran calcio alla caviglia, allora lui su svegliava e si addormentava subito con la bava alla bocca . Sul treno per il nord ascoltammo, Be my lover dei La Bouche, Rythm of the Night di Corona, Around the World (la la la la la) degli ATC. Via via che il Bus avanzava sentivo un po’ di fastidio allo stomaco, non saprei dire se dovevo cacare, rimasi a lungo con questo dubbio e poi compresi che doveva essere la separazione, il modo in cui avveniva di separarsi dalle cose e il modo in cui le cose erano state assorbite.

Poi arrivò The Colors Inside dei Ti.Pi.Cal. B. agitava il capo segnando il ritmo. Il testo parlava di un colore che hai dentro, un colore nascosto come un cielo segreto

Poi arrivò la mia piccola Marylin, gli ultimi gironi di liceo e le passeggiate a ridosso delle rovine, davanti al mare e al Petrolchimico.

Sono nata nel posto sbagliato disse Marylin.
Il posto era il posto che l’avrebbe ammazzata presto, una discoteca chiamata Pasta Club, il liceo, un lungomare, il pomeriggio a casa dei genitori di Marylin con Super Vicky su un tv color da dieci pollici, la casa dove aveva aperto le gambe mentre sua madre pregava Padre Pio spolverando l’atrio miserabile con incredibile dedizione.

Me ne andavo dalla città senza vedere ed essere visto. A B. lo dissi. Dissi mi mancava Marylin. e B. mi disse di non pensarci.
– e come faccio a non pensarci?come si fa a dimenticare le cose successe? – chiesi
– Per esempio devi pensare che ora ti scopi un’altra, che andiamo in una città diversa, fai così fratè, pensa che ora vengono le cose belle, la vita è fatta di cose belle e cose brutte e quindi le cose belle devono succedere tutte adesso…

Nostalgia del mal di mare

1

di Gian Piero Fiorillo

e poi che m’importa, scopriranno che sono comunista, non m’importa se lo scoprono, non gl’importa di scoprirlo, ho settant’anni cosa vuoi che mi accada, al massimo mi catturano, catturano forse la mia anima? invaderò i social media di germi del comunismo, scriverò che uno spettro si aggira per il mondo, farò proseliti sul web – virtuali, direte, ma non sarebbe già una buona cosa se la linea fosse attraversata da questi germi, nembi di virus «avanti popolo alla riscossa» «proletari di tutto il mondo unitevi» – non esistono forse ancora i proletari? ci hanno detto che la lotta di classe era finita e adesso che l’hanno vinta gridano con orgoglio: la lotta di classe esiste e noi stiamo trionfando! ci hanno fregati, ma io no, ho continuato a ripeterlo, a gridarlo, mi sono preso  gli insulti di tutti i soloni che sanno e mi dicevano di smetterla con l’ideologia, troppo semplice dividere il mondo in ricchi e poveri, ti sfugge la complessità – ora i ricchi se ne fanno un vanto, ora che non possono più perdere, che hanno conquistato la terra e l’hanno riempita di cannoni e scorie atomiche, ora che del bel paese hanno fatto una piattaforma militare nel Mediterraneo, un portamissili, un grande magazzino sputafuoco e presto inizieranno ad evacuare la popolazione civile uccidendo tutti i resistenti – a me che me ne importa, morirò, bisogna pur farlo una volta «meglio morire che vivere servi» «morire morirò morir bisogna» sono avanti negli anni e non possono rubarmi più molto – disseminare la rete di memi capaci di replicarsi mille e mille volte quando tenti di cancellarli «non è che un inizio riprendiamo la lotta» voglio invadere il mondo virtuale «se non abbiamo il pane prendiamoci le rose» «rose rosse del web» allestiamo una bomba di idee, una fortezza mobile, un carrarmato virtuale, proiettili a espansione e mandiamoli in giro per le autostrade immateriali così che tutti sappiano: esistiamo!  c’è una nuova generazione da formare, ribelle, perduta per il capitale, refrattaria alla riduzione economica e schiavistica degli esseri, una generazione combattente «grande è la confusione sotto il cielo la situazione è eccellente»

 

non dovete stancarvi, disse l’infermiera

voglio riempire il web con le mie parole virus

quali parole?

comunismo per esempio

comunismo, e che vorrebbe dire?

voglio mettere sul web tutto il pensiero di Karl Marx

karl marx, è straniero?

no, lui non è mai straniero, è planetario

adesso datemi il braccio che vi devo mettere la flebo

le mie parole virus non l’appassionano, non è così, infermiera?

ancora virus? non vi bastano quelli che avete in corpo?

ne ho molti?

tutti ce l’avete, quasi tutti

non è così, ne ho solamente due

davvero, e quali?

la vecchiaia e la malinconia

non ve la prendete, non siete sconfitto, scegliere è già vincere

 

no, non sono sconfitto, posso ancora seminare nel web l’idea che un tempo pochi uomini abbandonarono la pelle di serpente o di tigre o di avvoltoio e indossarono vestiti nuovi, aderenti, così aderenti da sembrare costrittivi ma che regalavano possibilità di movimento, agilità, indipendenza dell’intelletto e capacità di vedere oltre l’inganno – esistevano, gli uomini, ve lo giuro, non è una fantasia di vecchio né delirio di malattia o frutto velenoso del rimpianto – erano dappertutto e parlavano e discutevano e distribuivano foglietti con parole di transito «corri coniglio il mondo ti sta stretto» «apriamo le porte dei manicomi delle galere delle scuole dei nidi d’infanzia» «nelle gabbie dello zoo mettiamoci i maiali» erano slogan forti, lanciandoli nel mondo virtuale acquisterebbero nuova forza, melius est abbondare che deficere «vivere è un urlo se lo soffochi crepi asfissiato» vede infermiera, morirò senza sollevarmi più da questo sudario sporco della mia parte immonda – ma c’è altro, non lo vede lei, infermiera? sì, gli affetti, sì, le emozioni, sì, la casa e il mutuo che non finirò di pagare, sì, ma c’è altro, non lo vede, infermiera? è così difficile diventare Alice, cadere dal letto, sprofondare oltre il pavimento, dieci piani d’ospedale, raggiungere la terraferma e scoprire che oltre quella ci sono altri mille piani inesplorati, andare, proseguire, continuare con l’ostinazione di una perforatrice, scendere scendere scendere avvitarsi su se stessi e scendere ancora fino a trovare

 

là sotto c’è l’inferno perché volete trovare l’inferno?

il centro del mondo, arrivare al centro del mondo dove tutto è possibile

le fiamme dell’inferno

anche quelle perché tutto è energia laggiù, energia purissima, nient’altro

dovete pensare a riposarvi

voglio dare l’assalto al cielo

quanto siete presuntuoso, il centro della terra, l’assalto al cielo, vi pensate Dante Alighieri?

sono modi di dire

ah, ecco

eppure bisogna andare al centro della terra e da lì dare l’assalto al cielo

ne dovete fare di strada

ne ho fatta tanta ma non è bastata

avete visto? riposatevi

mi basterebbe andare al centro di me stesso, capire

che cosa?

come fa questo corpo, questa carcassa addolorata, ad avere ancora un desiderio

e qual è questo desiderio?

il comunismo, no, di più, la comunione

siete religioso?

 

essere una cosa sola, una grande cosa cosciente che si muove nell’universo, una sola anima collettiva, fatta di tutto e del contrario di tutto, delle parole del capitalista e delle parole virus che sapremo opporre, ci diranno folli sabotatori terroristi, ce lo diranno e non sarà l’ultima volta, ma questi attacchi insensati, queste manganellate, queste serrate e serrande virtuali abbassate, questa paura, ecco, saranno testimoni del nostro essere vivi, proprio quando la lotta era data per defunta, hanno commesso l’imprudenza di sentirsi al sicuro, burlarsi di noialtri «comunisti ora e sempre» come dicemmo assaltando il cielo pieno della loro spazzatura, velenoso come le spire della mandragora, potente come quelle dell’anaconda, noi avevamo solo peli urticanti di processionaria, ci muovevamo in fila o in gruppo incollati l’uno all’altro – cosa speravamo? irritare chi ci attaccava o diventare farfalla, una sola gigantesca farfalla grande tutto il gruppo delle processionarie – ci colpirono, uccisero, sterminarono – quelli che sopravvissero diventarono farfalle senza gruppo, ciascuno volò per sé – gli altri kaputt in un modo o nell’altro – kaputt mundi, fine, zero tagliato e molte illusioni, liberazione delle donne nirvana droghe sintetiche viaggi, in qualche modo, in mondi ultrasensibili perché il mondo sensibile faceva troppo male, lo vedo anche adesso, lo vedi anche tu infermiera, non è vero?

 

dormite adesso non vi agitate

dormire? è l’ultima cosa che vorrei

solo chi dorme sogna

sognare da svegli invece

voi siete bravo, ma non li avete saputi realizzare i vostri sogni da sveglio

ha ragione infermiera

perché?

è stato il dolore a fermarci

 

la nostra paura di aggiungere dolore al dolore, paura che quello che andavamo cercando e predicando invece di renderci liberi ci avrebbe legati ancora di più, condannando chi ci seguiva a lunghe traversie – non l’avevano già fatta la Rivoluzione? non l’avevano già fatta la Resistenza? e cos’era rimasto di tanto dolore, di tutte le pene che avevano sopportato i nostri mitici riferimenti? mondi senza respiro, morti atomiche da ogni parte, l’atollo di Bikini e Chernobyl facce di una sola medaglia, forse proprio la stessa faccia mentre l’altra parte rimaneva oscura e sconosciuta – si pensa solo a morire quand’è così, liberaci dal male amen, e però morendo vorremmo lasciare qualcosa, colonizziamo la rete che ci ha colonizzati, inondiamola di parole virus, miliardi e miliardi, un residuo d’anima resterà vagante frantumata atomizzata ma reale immateriale immortale andrà ad intasare i loro computer come uno zoccolo negli ingranaggi un bastone fra le ruote – incespicano, cadono, si riprendono ma dovranno ancora fare i conti con la massa di informazioni distruttive, dovranno inventare un’altra rete, un terzo mondo virtuale e poi un’ altro ancora fino a che di quello reale sarà scomparsa ogni traccia, finito tutto, morto, funzionano solo le particelle subatomiche e quel momento realizzerà l’utopia dell’abolizione del dolore e del bisogno – pura trasformazione dell’energia, informazione zero

 

volete un sedativo?

troppo dolore stroppia

con chi ce l’avete, che v’hanno fatto?

sono contro l’algoritmo del capitale

ma perché volete morire?

non esisto, l’altro mondo è la mia sola casa ormai

di dove venite? non ce l’avete dei figli?

tutti, sono tutti miei figli e miei fratelli

vostri vostri, dico, che vi accolgono, non ce l’avete un’itaca dove tornare?

no, è troppo tardi, da Itaca sono scappato tanti anni fa

siete ancora in tempo

no, è tutto deciso, ho toccato la boa tanto tempo fa e ho virato, un lungo percorso è compiuto

raccontate, vi ascolto

 

Nausea, vomito, nient’altro. Itaca l’ho raggiunta ma non so che farmene. Guardo il paesaggio, il tramonto laggiù, oltre l’orizzonte marino, è bello ma ho il mal di terra, male dei pensionati. Itaca è la morte. Spegne volontà entusiasmo movimento passione paura coraggio. Chiuso. Fatto. Deciso. Non ci sono altre decisioni da prendere, ho i piedi per terra io. Un tempo mi mancava la terra sotto i piedi ed ero felice, ubriaco di felicità. Presto sarò sotto un piede di terra. Che cosa mi manca per vivere ancora? denaro? Pensavo: il mondo è un immenso sacco pieno di denaro, bisogna svuotarlo e vivere solo di mondo. Sbagliavo, è il denaro un sacco pieno di mondo. Il mondo soffoca sotto una spessa coltre di denaro. Invisibile. Impalpabile. C’è. Il denaro c’è ma non si vede. Alcuni lo vedono di più, altri meno, altri mai. Ma in fondo anche quelli che ne vedono molto vedono solo carta moneta, che è per il denaro quello che i pigmenti sono per il colore. Il denaro è impalpabile? anche il mondo lo è. La prima volta che sono salito su una nave ho vomitato l’anima, che deve trovarsi fra lo stomaco e la gola, in qualche punto da quelle parti, altrimenti non avrei potuto sputarla e poi ringoiarla. Ma non potevo scendere, la nave era partita. Mi sono dovuto adattare, non avevo scelta, e sono stato meglio. Se ce la fai una volta ce l’hai fatta per sempre. Ho nostalgia del mal di mare, di quella ventata di perdizione che mi aprì le porte del fascino. Del futuro che allora avevo e adesso non ho più. Guardo le colline della mia Itaca: un parco in città. Che farsene? Camera con vista, beh? La cercammo tanto, io e lei. Immaginata, scelta con cura. Dipinta, arredata. Sedemmo in camera a guardare la vista. Molte sere e molte notti, quando la luna rischiarava gli alberi e le alture del circondario, verso Sud. Il muraglione di pietra che chiamavamo la falesia. Poi ci siamo abituati. Lei s’è stancata ed è partita per un’Itaca definitiva. Non poteva accettare una busta con dentro i soldi della pensione, come ho fatto io. Invidio il suo coraggio. Nessuno l’ha rimpiazzata, nessuno avrebbe potuto darmi il mal di mare che solo lei. Ho nostalgia del mare aperto. Cavalloni, fracasso, pericolo. Ho nostalgia del vento contro le vele, sul viso e sulle braccia. Le mani ghiacciate che si sforzano di tenere le cime. Nostalgia della tempesta. Del respiro della Balena. Della fiocina. Del timone e della spada. Della frustata d’acqua, della sconfitta e della vittoria. Della calma, infine, che ti trova spossato e felice. Sarcastico e colto: Demoni e meraviglie, venti e maree, chi siete voi per sfidare il Navigante? Guardo il parco, le collinette, la falesia: le vedo persino da questo fondo di letto ospedaliero. Mi giro ed ecco la città, tutta davanti a me. La guardo e torna il pensiero ossessivo: denaro. Il denaro per imbastire una nuova partenza. Non ho più l’età per fare il mozzo, non posso ricominciare da zero. Ma ci vuole denaro. L’imbarcazione l’ho venduta per due soldi, per pagare le ultime rate del mutuo. Ora non ho più niente, una pensione piccola piccola, bastante per sopravvivere e stop. Guardo la città, tre milioni di abitanti davanti a me. Quante case? Quanto denaro c’è in quelle case? Qualcuno lo cuce ancora nel materasso? Qualche vecchio o vecchia, forse. Lasciamo perdere, non è tempo di Raskolnikov. Assurdo. Ho sempre odiato il denaro e ora che sto per morire vorrei essere una pompa aspirante, immensa, capace di succhiare denaro dalle casseforti, dai depositi, dagli scrigni chiusi e aperti di tutte le persone che hanno denaro e lo accumulano. Denaro morto. Avventura zero. Tre milioni e mezzo di persone, se potessi scucire ad ognuno un solo misero pietoso merdosissimo dollaro potrei mettere insieme adventures finché campo. Ma è inutile pensarci, non ho l’animo del mendicante e non sono una sanguisuga. Inutile pensarci. E comunque troppo tardi. Meglio pensare al cielo, le nuvole rosse come il grande capo. Arie del Giudizio Universale. Buonarroti parlava con Dio. Lo vedeva prender forma e diventare materia davanti ai suoi occhi. La mia epoca è ben più meschina, se pensa a una resurrezione pensa agli zombie. Variazioni marcescenti del conte Dracula. Agli appunti di meccanica celeste il presente millennio ha contrapposto spremiture d’ossa e intestini. È l’epoca del frullatore. Della disintegrazione. Dell’Esposizione del Cadavere. Uno sporco dollaro spillato a ogni rappresentante del cadavere in divenire e sono a posto. Ma nessuno mi darà mai un dollaro, nemmeno un cent, perché non starò lì a chiederlo. Preferisco la sconfitta, una ritirata indegna piuttosto che chiedere un dollaro. Odio il denaro, tiene la vita in ostaggio. Morirò al tramonto. Non ho paura della morte. Di morire, forse. Come sarà il trapasso? Vorrei sapermi quando sarò cenere leggera sollevata dalle onde, spazzata dal vento, un fuscello nelle aule aperte e severe della perditudine e il mondo sarà inutile, non vedo Noè all’orizzonte

 

dormite adesso, riposatevi, la flebo sta facendo il suo dovere