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Il racconto di un quadro e di una mostra

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(La Pietà di Girolamo Troppa. Alatri, Chiesa degli Scolopi, fino al 17 giugno 2018)

di Tarcisio Tarquini

Questo quadro merita un racconto. Raffigura una Pietà, è stato dipinto in un anno imprecisato ma non prima del 1680 e non dopo il 1685, ne è autore Girolamo Troppa, un pittore nato in un piccolissimo borgo della bassa Sabina, Rocchette, che fu per secoli sede di vacanza della curia pontificia, a parecchie decine di chilometri da Castelgandolfo, luogo del riposo estivo del papa, quasi a mettere una distanza, tra questo e quella, sufficiente per assicurare ad entrambi la pausa e la tranquillità che la eccessiva vicinanza avrebbe potuto rendere più contrastate.

Il quadro è stato giudicato dal massimo conoscitore dell’opera di Troppa, il tedesco Erich Schleier, “acerbo”. Non se ne comprende la ragione. All’epoca in cui lo dipinse, il maestro sabino aveva più di quaranta anni, l’acerbità non pare dunque un portato dell’età, lo stigma di una maturità ancora non compiuta. Il severo richiamo del critico tedesco, dunque, sembra piuttosto alludere a una sorta di irresoluzione stilistica che spaccherebbe la grande tela in due parti: su una, quella bassa, la figura del Cristo rigorosa nella sua compostezza classica, sull’altra, quella superiore, la figura della Madre, quietamente appassionata, che non nasconde né esibisce il dolore, ma lo tradisce e lo risolve in un fremito barocco.

Il pregio e l’importanza del quadro, però, stanno proprio in questa sua duplice natura, classica e barocca. Lo scrive Mario Ritarossi, l’appartato storico dell’arte che lo ha scoperto, con la sua cornice d’epoca recante ancora il ricordo dell’originaria sontuosità, su una parete, nascosta allo sguardo indiscreto degli stessi fedeli, della sacrestia della cattedrale di Alatri, chiarendo a tutti che in questa doppiezza si trova enunciata la modernità del dibattito artistico in cui Troppa fu immerso, da protagonista sia pure minore. E che, come afferma Francesco Petrucci, il conservatore del Palazzo Chigi di Ariccia conoscitore assoluto del barocco romano, lo certifica quale pittore di dimensione europea, lui spinto solo dal talento a trasferirsi, nella ricerca di miglior sorte, dalla periferia in cui era nato a Roma, capitale delle opportunità.

Un quadro custodito, o dimenticato, dentro una sacrestia, ma collocato nel suo posto giusto. Chi lo commissionò fu infatti, con ogni probabilità, un vescovo di Alatri colto e potente, Michelangelo Brancavalerio, assai legato al circolo romano dei Barberini e perciò a contatto con gli artisti più in vista della Roma degli ultimi decenni del “gran secolo”, tra cui Troppa era annoverato con ruolo non secondario. Lo volle come quadro “devozionale”, preposto a fungere da richiamo meditativo per il sacerdote in procinto di dire messa, oggetto sacro di devozione per la intima funzione della “praeparatio ad missam”, tuttora vigente ma alla quale, forse, la “Chiesa in uscita” di papa Francesco ha tolto la secolare e suggestiva riservatezza.

Questa firma merita un racconto. Una pennellata persa nella sfilacciatura della tela, un filo d’erba che spunta dal terreno su cui è posto il giaciglio che accoglie il corpo di Cristo. In realtà quei segni sono un nome abbreviato, una firma in latino, invisibile a occhio nudo, nascosta già nell’intenzione e perciò scritta nell’estremità più segreta della tela. Potrebbe sembrare il gioco di un pittore tutt’altro che propenso al gioco, per il carattere impulsivo e facile all’ira che le cronache della vita romana gli attribuiscono. Improbabile che si tratti di un caso, visto che il nostro Girolamo non risultò immune dall’ansia moderna e laica di segnalare con l’opera la sua individuale presenza nel mondo. Se di gioco si tratta, comunque, è stato svelato da Mario Ritarossi, il primo ad aver individuato la firma e ad averla impressa in un scatto fotografico messo a disposizione di tutti. Anche a conforto di quegli studiosi che, a dispetto della frettolosa diagnosi emessa dai funzionari della soprintendenza, si erano opposti a menzionare il quadro come frutto della scuola napoletana del seicento e, per indizi stilistici sapientemente colti nelle foto d’archivio, lo avevano correttamente riferito a Girolamo Troppa, pare per un certo suo modo di disegnare – che so – il risvolto delle maniche delle vesti. Intorno alla firma – si è notato – il pittore aveva ingaggiato una personale e definitiva prova di autorevolezza. Egli si autografa, infatti, con il titolo di “equites” dal momento in cui per volere e riconoscimento del papa Innocenzo XI viene insignito del titolo di “cavaliere”, dopo il 1685 quando aveva già lasciato Roma, o era sul punto di farlo, per tornare alla sua Rocchette. La Pietà di Alatri è allora precedente, appartiene agli anni dell’ascesa, della ricerca del prestigio, ma è già il risultato di una committenza facoltosa, come il costoso lapislazzulo, identificati da Mario Ritarossi con un’accurata analisi dei pigmenti utilizzati nell’impasto che colora d’un azzurro strabiliante il manto della Madonna, starebbe a dichiarare.

Questa mostra merita un racconto che ha un protagonista assoluto e tanti comprimari. L’idea nasce da una emozione germinata nella fantasia di un bambino che, incuriosito di tutto ciò che la polvere nasconde ma non confonde, vede un quadro e lo custodisce dentro la memoria fino al momento in cui, da adulto, decide di rivelarlo al mondo che, dopo tanti anni di attesa, tarda ancora ad accorgersi della sua presenza e del mistero che sembra celare. Quel protagonista ha un nome, si chiama – lo abbiamo già ricordato – Mario Ritarossi, storico, docente di pittura ma soprattutto un artista anche lui che si divide tra ardite sperimentazioni coloristiche, composizioni digitali e un disegno che indulge, compiacendosene, in una provocatoria inattualità. È lui il bambino che osserva ed è lui l’adulto che studia la Pietà di Girolamo Troppa. Con una dedizione che mette a nudo un’ansia autobiografica, quella di aver ritrovato, tre secoli prima, una traccia della sua vocazione e il destino del suo carattere nel lontano maestro della provincia sabina che seppe farsi valere a Roma e i cui quadri e disegni sono esposti oggi perfino nei grandi musei europei ma non godono della giusta fortuna a casa loro.

È una mostra che si è fatta in una cittadina della nostra grande provincia italiana, ricca di idee e povera di eventi, senza contributi pubblici, con i cittadini e le imprese locali che si sono eletti a “azionisti” e testimoni di un’impresa culturale progettata per un risarcimento, per un cenno d’affetto della memoria. E con tante persone che hanno messo a disposizione lavoro, tempo, competenze professionali, attuando un progetto di comunità, che smentisce la maledizione del “familismo amorale”, con il suo orizzonte ristretto di azioni, che da sempre arriva dal meridione più profondo fin quassù a lambire queste terre denominate ciociare.

Può aprire una strada nuova di partecipazione civica, di cordialità umana, di fiducia comunitaria. Anche questa sarebbe poi una storia da raccontare.

“Il Cristo svelato. La Pietà di Girolamo Troppa”. Alatri, Chiesa degli Scolopi, fino al 17 giugno 2018. Un progetto di Associazione Gottifredo realizzato da Coworking Gottifredo.

Curatore: Mario Ritarossi, con la collaborazione di Eugenia Salvadori. Allestimento: Marco Odargi. Paesaggio sonoro: Luca Salvadori. Impianto audio: Marco Canegallo. Video: Angelo Astrei. Traduzione tattile per non vedenti: Paolo CullaAlba Lisa Mazzocchia, con la collaborazione di Leonardo Roma e gli studenti e le studentesse del Liceo Artistico di Frosinone (progetto di alternanza scuola-lavoro).

Catalogo con saggi di Mario Ritarossi, Eugenia Salvadori, Marco Odargi, Alba Lisa Mazzocchia, Francesco Petrucci. Foto del quadro di Marco Ritarossi.

Dal lunedì al venerdì ore 9-13/16-19, sabato e domenica fino alle 22.

Informazioni: +39 3332821579/+39 3923145127

Il 10 dicembre del 2057

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di Antonio Sparzani

Il 10 dicembre del 2057 una strana nave a vela, carena di acciaio lucente e velature bianche del XVIII secolo, solcava l’oceano Atlantico verso le coste francesi, destinazione Bretagna. A bordo un equipaggio di uomini con divise ricucite e messe alla bell’e meglio, una decina di militari armati e pochi altri in abiti comuni, ma che di comune avevano poco.
In una delle cabine, un uomo anziano, visibilmente sofferente, lavorava ad una scrivania: scriveva qualcosa. Era assorto e turbato. Bussarono alla porta.
“Avanti.”
Entrò un militare, sulla cinquantina, magro, testa rasata e occhi di un azzurro trasparente che gli conferivano un aspetto glaciale e inquietante.
“Presidente Orugan.” salutò, richiudendo la porta dietro di sé. Fermo sull’attenti davanti al tavolo traboccante di carte. In attesa.
“Generale Gael. Buongiorno. Novità?”
“Tra due ore saremo in terra bretone”

Eugenio Cambaceres

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Immerso nel suo pessimismo, scavato dai più grandi demolitori meccanici moderni, affondato nel più profondo nulla delle nuove dottrine, trascinava la vita nella più nera solitudine.
Era come morto, chiuso tra le pareti di casa, giorni interi senza voler vedere o parlare con nessuno, portato dalla corrente rovinosa del suo secolo. Pensava a se stesso, agli altri, alla miseria di vivere, all’amore (un maldestro richiamo dei sensi), all’amicizia (un disastroso sfruttamento), al patriottismo (un dovere o un residuo di barbarie), alla generosità, all’abnegazione, al sacrificio (tutte chimere, o

Da “Sinopia” (e dintorni)

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di Luigi Severi

[con una nota finale di Andrea Inglese]

 

mestiere dopo mestiere, ha tracciato

confini con il dito

(storia del bianco, dice,

che è un volo più perfetto,

dove la fiamma danza, a bassitudini

Literaturistan

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di Massimo Rizzante

(Nazione Indiana ha compiuto quindici anni a marzo, da allora molte persone e molte cose sono cambiate; testimonianza molto importante, e talvolta emozionante, di questa lunga storia è il suo archivio, del quale abbiamo deciso di ripubblicare alcuni post, che riteniamo significativi.Oggi proponiamo questo pezzo di Massimo Rizzante apparso il 23 giugno 2003. La redazione)

Noi tutti che viviamo nella “superpotenza mondo” siamo diventati molto sensibili al richiamo delle differenze.
Il Far West planetario della produzione e del consumo rende uniformi tutte le civiltà.

Tuttavia si creano verdi praterie dove si lasciano scorazzare piccoli gruppi di Indiani affinché possano compiere sacrosante razzie e, grazie ad intermittenti ululati, rivendicarne tutto il diritto. La nostra epoca non è poi così stupida: l’adesione entusiastica alle ragioni del mercato è saggiamente compensata da un entusiasmo lirico per le ragioni dei meno “fortunati”: bambini, donne, omosessuali, clochards, minoranze etniche, sadomasochisti: tutti hanno il diritto di conservarsi e di riprodursi. Ma nelle loro riserve.
Il Far West del XXI secolo è la tirannia del mercato ammantata dalla logica falsamente democratica della riserva. Ciò fa sì che tutti si sentano allo stesso tempo cow-boy e indiani, di destra e di sinistra, consumatori ed esclusi: sempre al centro del mondo e sempre eccentrici, pronti a rivendicare la loro differenza.
Cosa che si nota anche nella ex repubblica delle Lettere, nel paese di Literaturistan.
Nessuno scrittore al mondo che non abbia almeno settantacinque anni può rivendicare oggi un grammo di autorità spirituale e letteraria. Ciò che caratterizza, infatti, i sudditi di Literaturistan è la loro “libertà” da ogni autorità e il loro sacrosanto diritto alla letteratura. Di conseguenza, ciascuno scorazza nelle verdi praterie della propria differenza.

Nano-scrittura

I nani non salgono più sulle spalle dei giganti! Essi non arrivano neppure a solleticare loro i coglioni: la nano-atomizzazione della letteratura non produce che marginali senza futuro o specialisti di best-sellers internazionali. Si riproduce qui la dialettica tra la tirannia del mercato e l’enclave falsamente democratica della riserva, dove non c’è spazio per i non-specialisti che tentano di superare le frontiere dei saperi umani per accedere ad una “novità” comune a tutti gli uomini. In altri termini: nel paese di Literaturistan non c’è più posto per gli artisti.
Certo, quando si parla di arte, la quantità non distruggerà mai la qualità. Nel corso del XX secolo ci sono stati eccellenti romanzieri che sono stati in grado di toccare le anime ostili di milioni di persone: Thomas Mann, Ernest Hemingway, Gabriel García Márquez. Ma io non nego, oggi, la possibilità del talento. Io affermo la fine della Repubblica delle Lettere e dell’opera letteraria come luogo di apprendimento per la vita. Io affermo la fine della percezione letteraria del mondo. Io affermo la fine delle élites letterarie – parola fin troppo sacra e fin troppo ricoperta di vergogna – capaci un tempo di assumere, fuori da tutti i protezionismi etnici, una funzione mediatrice tra le culture, le letterature, le opere. Io affermo la grottesca possibilità che i nano-scrittori di oggi diventino nel futuro dei giganti agli occhi dei giovani talenti assunti a tempo pieno dai nano-scrittori-managers nelle loro scuole di scrittura.

Eredi

Ogni dialogo, se aspira ad essere un vero dialogo, ha bisogno di luoghi rappresentativi. Lungo tutto il corso della storia europea questo compito è stato esercitato da uno strumento concreto e imprevedibile, artigianale e spesso clandestino: la rivista. Rivista-manifesto, rivista-passe-partout per il presente, rivista-casa del pensiero…
Oso perfino dire che l’Europa, erede di Atene, di Roma, di Firenze, di Parigi, di Vienna e Praga, fecondatrice della democrazia, ha avuto nella rivista uno dei suoi pilastri. Se un capolavoro può sempre prodursi al di fuori di ogni legame apparente con una società, una rivista letteraria, concepita come polis, forum, atelier, laboratorio di competenze e parlamento di idee, non può nascere né svilupparsi se viene privata di un humus di esperienze storiche e sociali, se essa non rappresenta gli interessi di un gruppo di persone e se, soprattutto, queste persone non accettano la sua funzione mediatrice di tertium necessario tra le aspirazioni individuali e le possibilità immense di aprirsi ad un sapere comune.
Senza riviste non c’è società e, senza riviste letterarie, se ci possono essere ancora dei capolavori, non c’è letteratura, non ci sono vere élites e, di conseguenza, non c’è vero dialogo democratico. E ancora: senza riviste l’arte e la letteratura, benché appartenenti alla “superpotenza-mondo”, dove tutto ci sembra al centro e allo stesso tempo eccentrico, sono condannate a rivendicare la loro esclusione, ad essere dimenticate in aride riserve o in luminosi cataloghi informatici.

Catacombe

Agli inizi di giugno del 2001 ho avuto la fortuna di incontrare Keith Botsford, di passaggio in Italia. Nel 1997, dopo circa cinquant’anni di febbrile attività come scrittore, giornalista, traduttore, storico, professore universitario, e quattro matrimoni, ha fondato a Boston con il suo grande amico Saul Bellow una rivista che si chiama The Republic of Letters. Si tratta di una rivista cosmopolita che, sprovvista di ogni forma di pubblicità e interamente finanziata dai due direttori, esce in modo irregolare (ad oggi, aprile 2003, ne esistono 12 numeri) e che conta qualche migliaio di lettori. Keith Botsford mi spiegava l’anno scorso, quando sono andato a trovarlo a Boston, dove abita, che il loro scopo essenziale è di dare qualche speranza ai giovani scrittori di qualità che non riescono a pubblicare. Saul Bellow, che oggi ha 88 anni, fino a due anni fa consacrava molto del suo tempo a leggere manoscritti inediti e definiva questa sua attività come una missione, “un dovere e un’utopia” in un mondo dove l’attenzione per l’arte diventa sempre più un patrimonio di circoli molto ristretti. Negli Stati Uniti la letteratura di valore è pubblicata quasi esclusivamente dalle case editrici universitarie. Ciò significa che la letteratura tende a diventare un soggetto accademico. E’ per combattere questa deriva che The Republic of Letters è nata. Durante la loro avventura Saul Bellow e Keith Botsford hanno visto confermato ciò che pensavano: negli Stati Uniti esistono eccellenti romanzieri che hanno pochissimi riconoscimenti (Dennis Johnson, Betty Howland).
Di fronte al mio pessimismo di giovane europeo di provincia, questo gigante di settantacinque anni, sorridente, fumatore accanito e pieno di energia americana sbottò: “Ti ricordi i primi cristiani? L’arte oggi vive nelle catacombe ed è nelle catacombe che la fede conserva con più forza la speranza di rivedere la luce. Un giorno di dieci anni fa chiesi a Saul se conoscesse un modo sicuro per formare la nostra sensibilità. Mi rispose di no, a parte forse essere in grado di accogliere dentro di sé alcuni capolavori letterari come se fossero delle ostie consacrate”.

Esegesi e turismo

Sempre nel 2001, due mesi dopo aver incontrato a Venezia Keith Botsford, mi trovavo a Lisbona. Alloggiavo in un piccolo hotel del Chiado, un quartiere storico della città. Era agosto. E non c’erano che turisti. Ero solo e trascorrevo quasi tutto il tempo nella mia camera a leggere. Sfogliavo molte riviste portoghesi dell’inizio del XX secolo. Non c’è niente di più istruttivo e melanconico che sfogliare delle riviste letterarie del secolo passato. Ci si rende conto di come tutte le grandi correnti del pensiero, tutte le rivoluzioni politiche e gli anatemi dell’arte moderna si siano diffusi ed imposti grazie alle riviste. Al punto che la storia culturale dell’Europa potrebbe essere raccontata, come ha detto una volta Milan Kundera, attraverso la storia delle sue riviste. Mi domandavo: perché oggi la rivista letteraria è così snobbata da tutti? Ma ammettiamo che sia sempre stato così. Perché anche la marginalità dell’arte ha oggi perso la sua aura?
Proprio sotto il mio albergo, sulla terrazza della “A Brasileira”, uno dei caffè letterari più celebri della Lisbona modernista e avanguardista, c’è una statua di Fernando Pessoa. Seduto, le gambe accavallate, sembra attendere uno dei suoi amici immaginari. Al suo fianco lo scultore ha collocato una sedia vuota, regolarmente occupata da un turista che sorride al suo fotografo: un parente o un amico. Durante il mio non lungo soggiorno ho visto due, tre persone alla volta prendere posto su quella sedia. Perfino un’intera famiglia: la mamma seduta con il proprio bebé di tre mesi tra le braccia e tre bambini un po’ più grandicelli che, avvinghiati con tutte le loro forze al mito letterario, formavano un commovente grappolo umano. Papà fotografava.
Ecco, mi sono detto, le due forze che cospirano contro l’arte: l’esegesi che trasforma tutto in un monumento e il turismo che trasforma ogni monumento in un parco per l’infanzia. L’arte muore per troppa ammirazione, ma non sopravvive neppure se sottoposta ad un eccesso di innocenza. Tutto ciò che Pessoa ha pubblicato da vivo si trova nelle riviste (“A Renascença, “Eh Real”, “Orpheu”, “Centauro”, “Exilio”, “Contemporanea”, “Athena”, “Presença”), intoccabile per gli esegeti, dimenticato dai turisti. La sua arte non può sopravvivere se non in quanto décor. E’ l’aura di un’arte decorativa che si è sostituita al mistero dell’Eucarestia! “Dei primitivi che non si meravigliano più di fronte a niente”, come aveva detto Saul Bellow.
Il mio stupore raggiunse il suo culmine quando, dopo il solito circo quotidiano, vidi un gruppo di giovani cieche americane accompagnate dai loro assistenti che si avvicinavano brancolando alla statua per consegnarsi anima e corpo all’immancabile rito.

Vana curiositas e follia

La storia europea che fino a ieri poteva essere raccontata attraverso le sue riviste si è, dunque, per sempre chiusa? Lo ignoro.
Ciò che vedo è che le nuove tecnologie informatiche sono al servizio della memoria, della capacità di conservazione e trasmissione del sapere umano, ma la loro strategia di conoscenza è enciclopedica. Che cos’è una rivista in rete? Nel migliore dei casi un’antologia potenzialmente infinita di articoli, saggi, immagini, suoni che possiamo stoccare nel cervello, ma non veramente scegliere. La curiosità che questo sapere enciclopedico stimola non è critica, non è sottomessa al gioco del tempo interiore. Siamo molto lontani dalla ricerca nel presente e nel passato di ciò che è vivo, che segna la riflessione e quasi la forma della rivista letteraria. Al contrario, si tratta di una curiositas infantile di turista diventato esegeta o di esegeta diventato turista che non tiene in conto – non ne ha materialmente il tempo – delle possibilità e dei limiti individuali, che si fa delle illusioni sul potere essere dovunque a casa sua. La vana curiositas di Agostino, diceva Keith Botsford all’epoca del nostro secondo incontro: la curiosità con la quale l’uomo cerca per cercare al di fuori dei propri temi, fuori di sé. Esegesi sofisticata, turismo, curiosità informatica: tutti i nomi della distrazione contemporanea, cioè dell’eterno desiderio umano di essere sempre altrove credendosi dovunque a casa propria.
Proprio perché non mi faccio alcuna illusione sul fatto di poter essere dovunque a casa mia, ogni volta che apro The Republic of Letters o L’Atelier du Roman sono molto lontano dal paese di Literaturistan, da ogni tirannia minoritaria, da ogni falsa democrazia. In ogni rivista letteraria degna di questo nome (foss’anche come questa, effimera, orale e divina) io ritrovo sempre la stessa aspirazione ad abbracciare la Weltliteratur. Un’aspirazione infinita e che tale deve rimanere. Una “follia”, come Goethe stesso talvolta la definiva. Una follia, e forse una fede: una follia e una fede che si levano dalle catacombe.

Francesco Filia – Parole per la resa

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di Daniele Ventre

L’attività poetica di Francesco Filia, che prende le mosse da un’aurea silloge del 2012, La neve, (Faraeditore), ed è proseguita con la visione etico-politica de La zona rossa (Il laboratorio ed. 2015) tocca con Parole per la resa (CartaCanta 2017) un’ulteriore fase evolutiva.

“Parole per la resa” è un’opera amara e stratificata, che non smentisce la continua tensione innovativa dell’autore, sia sul piano formale, sia sul piano dei contenuti. Nel suo stile scabro e abrupto, questa poesia rivela così un’inesauribile potenzialità di parola creatrice, senza che si ricada mai nel seriale, al di là dell’apparenza ricorsiva di determinate strutture interne al suo dipanarsi.

Sin nel titolo, ambiguo, l’orizzonte poetico dei nuovi versi di Filia si determina all’interno di una rete di parole chiave ominose. Leitwort latore di presagio, la “resa”, che è lo scopo insito della parola, la cui funzione così viene riscoperta, oscilla fra la volontà di “rendere” e articolare il mondo, che nell’atto della sua rinominazione poietica viene così restituito, rettificato, la necessità di trasformare quest’atto di rendere in parole il mondo in una compiuta hermeneia, interpretazione, traduzione, codificazione, stile, e la coazione ad arrendersi al mondo, che la parola deve subire, sia in senso positivo, come resa latrice di refutazione, correzione e futura acquisizione di forza conoscitiva, sia in senso negativo, come accettazione stoica di una sconfitta necessaria (1).

Momento cardine di questo dipanarsi della resa, dopo la sezione introduttiva che all’opera dà il titolo, la seconda sezione della raccolta, Diario di una vacanza, procede essa stessa, nei sub-titoli dei singoli mini-capitoli in versi, fra “l’azzurro cupo di questa stanza”, dove “cupo” è il tono di fondo della realtà locale dell’esistenza, e “l’immenso che ci travolge”, un infinito senza scopo, non rassicurante, ma annientatore, in cui “l’ordine” (che dà il titolo alla terza sezione) è una parentesi breve prima della “memoria del vuoto”, punto d’approdo della chenosi, dello svuotamento dell’essere originario, e de “l’inizio rimasto”, punto d’avvio dell’essere che è anche, nello stesso tempo, fenomeno residuale e terminale. Se, come per Dante, “non è sanza ragion l’andare al cupo”, e se la chenosi è al contempo svuotamento deiettivo dell’esistente, ma anche svuotamento mistico dell’io lanciato verso l’indiamento al culmine della sinderesi, ecco allora che la duplicità intrinseca della resa a cui il titolo allude, finisce per identificarsi compiutamente in un discorso poetico che nelle sue tappe si configura al tempo stesso come inabissamento ed elevazione, in una coincidentia oppositorum debordante e anomala.

Le parole votate alla resa si rivelano così piene e vuote al contempo, in equilibrio drammaticamente precario come il funambolo di nietzscheana memoria. E di questo equilibrio dialettico precario, incerto, incompiuto, senza sintesi superatrice e senza spiraglio di rivoluzione, sono spia anche le dinamiche relazionali dei referenti pronominali in cui l’io autoriale si frammenta, e in cui si rispecchia ed è rispecchiato, riflette ed è riflesso.

Corollario di questo quasi neoleopardiano oscillare fra resa a restituzione, questa stanza e l’immenso, l’abisso e la sinderesi, è l’impiego di verbi come “stridere”, “spezzarsi”, “staccarsi”, “sbriciolarsi”, “scavare”, “implodere”, “amputare”, “divorare”, “spazzare”, “pietrificare”. Sono verbi che toccano il nodo essenziale dello status ambiguo del poeta, delineandolo con ruvidezza, sia nell’impasto fonico dissonante e aspro, sia nel senso, correlato al semantema dello squartamento, ed evocano, com altri hanno già avuto modo di rilevare, il tema della parola dilaniante, di cui alle Lebensschatten di Erich Fried (Ein Dichter/ist einer/den Worte/noch halbwegs/zusammenfügen//wenn er Glück hat /Wenn er Unglück hat/reißen die Worte/ihn auseinander “Un poeta / è uno / che le parole / grosso modo / assemblano / se ha fortuna / Se è sfortunato / le parole / lo squartano”). (2)

Questa ambiguità dilaniata e dilaniante si riflette in modo organico nella forma versale del testo. Per quanto l’ordine ritmico della poesia di Parole per la resa sia di fatto dominato da strutture versolibere, quando non atonali, Filia vi trasfonde in modo originale e autonomo quella tendenza all’emersione nel testo di cripto-endecasillabi. Alla parola che rende e si arrende si imprime così un ritmo sotterraneo, che della sua duplicità è misura.

In tal modo si condensa l’atmosfera di una resa prossima all’abbandono, ma anche, nello stesso tempo, la natura aberrante di chi, facendo poesia, si trova nella condizione duplice di essere lacerato e di fondersi con un assoluto, la cui connotazione resta peraltro da precisare. Fra questo prometeismo del quotidiano e la benedizione della rinuncia, la poesia filosofica di Filia trova così la sua intima consistenza e la ragione ultima del suo impegno ontologico (3)

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(1) Così Maria Anna Curci su Poetarum silva
(2) Così Giulio Mafii su Carteggi Letterari
(3) Così Gianni Montieri su La balena bianca
* * *

Da Parole per la resa, di Francesco Filia, CartaCanta, Napoli, 2017

Intorno alla natura delle cose non diremo parola
di troppo, dimoreremo nelle radici
di un ulivo secolare, nella terra penetrata e madre
nel fruscio verde-matto di questa stagione.
Ci ritroveranno nel silenzio di un frutto
caduto. Il cerchio dei giorni macina limpido olio
e morchia.

*

C’è qualcosa che preme le tempie
le schiaccia, dopo una prima
accennata resistenza, le penetra
come un chiodo che affonda
nel cavo di un mattone e il dolore
si fa preciso, concentrato. Questa,
mi sembra, la chiamino vita.
La pressione dell’aria sul viso
in quest’alba o il freddo contatto
del pavimento sulla guancia, l’infinito
smarrirsi dell’occhio nella fuga
di una mattonella. Diventare
nient’altro che spazio, mera
estensione, variazione minima del male.

*
Dobbiamo consegnare le parole della resa.
È l’ultimo compito rimastoci, nessun
testamento, ma un relitto di carta
lasciato marcire nell’acqua buia
di queste ore. Vederlo sprofondare
l’inchiostro diluirsi, slabbrarsi le parole
macchia informe sul bianco del tempo.

*

La resa alla ruggine dei corrimani
ai nostri respiri concitati, al diluvio
di acqua e tempo nelle strade
allo scandire perfetto delle ore
arrendersi al ritmo elementare della vita
fino alla linea di resistenza di un pugno
che afferra l’aria e insorge,
sudore e nervi tesi, fino
all’attrito dell’adolescenza
che ritorna di colpo, fino
a quegli occhi, sparuti e indomiti.

*

Tornano spellati e avvolti in un’aura di sale e luce
(prede si dibattono nella rete a tracolla ancora vive)
fantasmi nelle tenebre imminenti delle otto di sera
nei loro occhi una gioia feroce, l’adolescenza,
la certezza dei giorni futuri, uno sterminio.

*

VI – L’immenso che ci travolge

Eco – notte – la spiaggia ghiaia e ciottoli
solcano, netti, la pelle. La schiena inarca
il desiderio che ci abita, attende
tra costellazioni e il vortice
di un cielo lontano e adesso sappiamo
che questo contare e ricontare le stelle,
misurarle con le dita a sestante, un gioco non è.
Il gonfiarsi cupo delle onde. L’enorme
abbraccio degli abissi. La vita
primordiale che li abita, noi due lì giù
annegati obliati avvinghiati, cibo
per l’eterno. Il buio abita
il mare, il firmamento oltre le stelle, il solo,
il vero, l’unico buio. La voragine del cielo.
La furia cobalto di questa marea. L’immenso che ci travolge.

*

XIII L’azzurro cupo di questa stanza

Un secondo è durato, abbiamo
provato quel freddo che solo d’agosto
si prova, quel gelo, mentre ti stringevo i polsi e tentavo –
sentivo toccarsi la punta del pollice e del medio,
come un cerchio che si chiude troppo tardi –
disperatamente di amarti,
di nutrirmi della tua luce – da bambino facevo
lo stesso con il polso di mio padre, ma non riuscivo
provavo, tendevo le falangi, ma non riuscivo sentivo solo
gli spigoli delle sue ossa – di nutrirmi,
fame che mi abita la carne,
di ciò che non sarà mio.
Non servirà pregare
non saranno un invocare queste parole,
ma una conseguenza logica, il mostrare, nient’altro, lo sai,
che ogni cosa è se stessa.

*

Ricominciamo da questa sottrazione
di gesti, da una carezza accennata,
dall’odore di resina, dalla lontananza
di due visi che si sfiorano. L’ombra
che ci separa è la giustizia richiesta
la sentenza che ci rende veri, finiti
fissati in una goccia d’ambra.

Un sogno a Rimembranze

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di Giorgio Mascitelli

Tutti dicono che prendo troppa valeriana, ma io non posso farne a meno. E’ un’abitudine, una necessità, un vizio. Una volta ne ho perfino sciolto una pastiglia  nella Coca Cola  per vedere l’effetto che fa. Anche i colleghi d’ufficio mi dicono che esagero e che prendo troppa valeriana. Sì, lo so, è vero, ma quella sera ero stracotto. In ufficio avevo fatto tardi. Già passata l’ora di cena, ma non quella per una buona tazza di valeriana. Quando finalmente arrivò il trentatré, salii, mi sedetti sui sedili di legno, mi allentai il nodo della cravatta, slacciai il bottone del colletto e viaggiai. Non sapevo perché quella sera avessi preso proprio il trentatré. Lavoro all’Isola e abito a Lambrate di solito prendo il metrò che è più comodo e più veloce. Non sapevo davvero perché proprio quella sera, in cui avevo finito eccezionalmente tardi di lavorare, avessi scelto di prendere il lento tram: che fosse una scelta dettata dalla troppa valeriana?

A ogni modo il tram non era pieno, ma quasi tutti i posti a sedere erano occupati. Quando mi rovesciai sul mio posto, la tizia seduta di fronte a me per un istante smise di compulsare il suo smartofono e alzò gli occhi, per poi riabbassarli subito e riprendere le sue consuete attività.

Quando ero salito, non sapevo perché avevo scelto il tram, diciamocelo un mezzo di trasporto un po’ obsoleto, ma pian piano le mie palpebre mi fecero capire: dormire, sì semplicemente dormire. Il procedere sferragliante e gli strappi mi cullavano: logico che gli occhi si chiudessero già dopo pochi metri. Ricordo ancora qualche frammentaria immagine di piazza della Repubblica, poi nulla, il buio, l’oblio, in una parola il sonno.

Non sapevo quanto avevo dormito, ma una mano mi scosse. Per un istante fissai il vuoto nell’attesa che la cimmeria nebbia si diradasse e sorrisi come un ebete, allora riconobbi di essere al capolinea nel piazzale di Rimembranze di Lambrate. Poi chiusi di nuovo gli occhi, insensibile alle numerose scrollate e alle richieste di scendere.  “Lasciatemi dormire, ho sonno, non mi rompete, devo aver preso troppa valeriana”, così andavo mormorando. A un certo punto i due tranvieri smisero di tampinarmi e se ne andarono dicendo semplicemente: “peggio per te, ora te la vedrai con il Grande Controllore”, ma io già dormivo.

Fui svegliato da una luce azzurrina, che riempiva la vettura peraltro vuota, poi mi sembrò di alzarmi in volo, vedevo dai finestrini gli ultimi piani delle case come se fossero i piani terra. Le poche finestre con le tapparelle alzate offrivano soltanto spettri di cose nella penombra: armadi, poltrone, tavoli. Mi girai e lo vidi: un immenso controllore che teneva il tram nel palmo della sua mano. Ma allora esisteva! Avevo sempre pensato che fosse una leggenda metropolitana diffusa per ingannare le attese alle fermate e negli ATM point. Non sembrava severo, però gli dissi lo stesso “ho l’abbonamento”.

  • Sì lo so, ma non basta-. Mi rispose con un velo di malinconia.
  • Perché non basta mai?
  • Perché devi sognare nel tuo letto e stare sveglio sui tram.
  • Ho troppo sonno
  • Io sono il grande controllore e controllo che veglia e sogni non si mescolino mai.
  • Ma perché?
  • Perché, perché …. sempre a volere sapere un perché! Questa è una regola, una procedura, cose tecniche che i profani non possono discutere. A furia di voler sapere perché, guarda come sei finito! a dormire a Rimembranze dentro un tram vuoto.

Non rimembro più nulla di quella notte.  Al mattino mi risvegliai su una panchina del parchetto nel piazzale prima del risveglio del traffico, tant’è vero che feci quattro passi fino al centro esatto del piazzale: ero da solo in un luogo rotondo in compagnia di un piccione. Era probabile che mi fossi sognato tutto, si sa che spesso la valeriana favorisce sogni strani. A ogni modo avevo diritto a una doccia e a un cappuccino prima di tornare al lavoro. Il piccione tubava e mi guardava interrogativo, poi alzò la testa e smettendo di tubare mi disse “tu prendi troppa valeriana”. Poi si allontanò beccando qua e là e continuando a fare quelle cose che i piccioni delle città fanno e li distinguono da noi uomini delle città.

Andrej Arsen’evič e io

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di Fabio Zuffanti

Andrej Arsen’evič Tarkovskij nasce nel piccolo villaggio russo di Zavraž’e nel 1932. E’ figlio del poeta Arsenij Aleksandrovič Tarkovskij, uno che con le parole sapeva costruire paesaggi di pallida malinconia e struggimento ma riusciva anche a usare i suoi componimenti come lame affilate nei confronti delle ingiustizie del potere politico. Un uomo scomodo così come è scomodo il figlio, che trasla l’immaginario paterno in sembianze cinematografiche di parimenti stupore e commozione per ciò che l’uomo custodisce in sé: il suo afflato spirituale, le sue emozioni, la sua piccola esistenza dispersa tra le galassie dell’universo che si fa essa stessa universo di paure, gioie, incertezze e speranze.

Anche in Andrej Arsen’evič è forte l’attrito tra le sue idee pure e la rigida burocrazia del paese natio, che prevede un ferreo controllo delle sceneggiature e dei girati per i suoi film. L’opera del regista viene setacciata fin nei minimi dettagli, a volte criticata, tagliata e discussa allo sfinimento prima di potere essere visionata dal pubblico. Una creatività senza barriere come quella di Andrej Arsen’evič non può non soffrire profondamente questo stato di cose. Ognuno dei suoi cinque film realizzati in Russia si rivela un assurdo calvario, tale che a un certo punto il regista, per potere finalmente assaporare quella completa libertà artistica a cui tanto anela, è costretto a emigrare, prima in Italia e poi in Svezia, per girare le ultime due pellicole della sua vita.

I film di Andrej Arsen’evič sono ognuno uno squarcio nella tela dell’esistenza, sua e dei suoi estimatori. Lavori nei quali le vicende narrate hanno importanza solo fino a un certo punto, quello che più conta è la visione pura, i quadri che il regista costruisce fotogramma dopo fotogramma. In ogni frangente dell’opera di Andrej Arsen’evič vi è la ricerca dell’elevazione dell’essere umano, il costante interfacciarsi con le profondità del proprio io, un costante uso di elementi naturali; l’acqua, l’ambiente, la luce… A volte la raffigurazione di piccole scene casalinghe, una brocca, un vecchio tavolo in legno, diventano commoventi squarci verso l’assoluto. Vi si scorge quella levità alla quale il nostro spirito spesso anela e che con grande difficoltà riusciamo, nella vita di tutti, i giorni ad afferrare.

I personaggi che Andrej Arsen’evič mette in campo sembrano spesso persi nel mistero di ciò che li circonda. A cominciare dal piccolo Ivan del lungometraggio d’esordio, L’infanzia di Ivan (1962, tratto da un racconto di Vladimir Bogomolov). Orfano dodicenne che si è unito ai partigiani russi nella lotta contro l’esercito tedesco nella seconda guerra mondiale, Ivan si affanna in tutti i modi per portare a termine le sue missioni in mezzo a una serie di adulti le cui certezze, minate dagli orrori del conflitto, barcollano pericolosamente. Solo lui scorge orizzonti più ampi, non ha nulla da perdere e ha una fede assoluta nel suo valore. Dove può si lancia in peripezie al limite dell’umano, sempre freddo e implacabile nella sua visione. La stessa fede incrollabile e impeto al sacrificio che Andrej Arsen’evič conserverà per tutta la sua esistenza. La stessa missione vitale che muove l’esistenza di Andrej Rublev, narrata nel secondo film omonimo (1966). Rublev è stato autore di miracolose opere pittoriche nella Russia del Quattrocento. La pellicola racconta dei travagli e delle umane debolezze che, a differenza della solidità del piccolo Ivan, si aprono tutto campo nelle vicissitudini del protagonista. Rublev sbanda, si avvicina e si allontana da se stesso, perde e recupera la fede nel suo lavoro di artista che dovrebbe invece possedere un costante e sincero afflato mistico per ammantare le icone di sacra armonia. Di incertezza in incertezza più si va avanti nella filmografia di Andrej Arsen’evič più l’uomo si spoglia di tutte le sue sovrastrutture per farsi nudo davanti a tutte le precarietà.

Conobbi Andrej Arsen’evič da bambino, avrò avuto sette/otto anni. Vicino casa c’era un circolo aziendale ove mio padre passava il tempo libero. Il circolo era dotato di un cinema-teatro ove, ogni fine settimana, proiettavano film a disposizione dei soci, gratuitamente. Ricordo un pomeriggio la visione della terza opera di Andrej Arsen’evič, Solaris (1972). Non capii nulla della trama, ma qualcosa di quelle immagini mi si conficcò dritto nel cuore. Tratto da uno straordinario romanzo del polacco Stanislaw Lem, Solaris narra della missione dello scienziato Kris Kelvin, inviato a indagare su strani fenomeni che stanno caratterizzando la vita di una stazione spaziale orbitante intorno al pianeta da cui prende nome il film. I componenti che vivono nella stazione sembrano in preda a una misteriosa tensione che tentano invano di arginare. Al suo arrivo Kelvin capisce in breve il motivo di ciò trovandosi a fronteggiare assurde apparizioni che stanno facendo vacillare la sanità mentale dei suoi compagni. Anche Kris è messo innanzi a una di questa presenze, che nel suo caso prendono le forme della moglie Hari, morta suicida alcuni anni prima.

Negli anni non dimenticai le scene quel film, in particolare le lunghe sequenze iniziali di Kelvin nel giardino della casa paterna e alcuni frangenti con Hari. Mi portai dietro questi fotogrammi a lungo, fino a quando, molto tempo dopo, il film passò in televisione e io riuscì di rivederlo. Da quel momento mi innamorai perdutamente del regista, del quale presto andai a ricercare l’intera filmografia e tutte le informazioni possibili. Nel periodo del cinema al circolo aziendale vidi una marea di film ma di questi ne ricordo pochissimi, solo uno si è così impresso nel mio ricordo: Solaris. E quando lo rividi capii che non avrei più potuto farne a meno, di quello e degli altri lavori di Andrej Arsen’evič, perché dentro quelle pellicole c’era un mondo che mi apparteneva e che io ritrovavo ogni volta che le immagini apparivano. E ancora adesso così, è una sorta di ritorno a qualcosa di intimamente mio che avevo perso, un’epifania. Per quanto ci provi non riuscirò mai a spiegare tutto questo come vorrei, e forse è anche giusto sia così, che tali sensazioni rimangano indistinte e misteriose. So solo che l’opera di Andrej Arsen’evič è anche un po’ la mia casa.

Una casa dalle pareti di legno, ricoperta dalla verdeggiante vegetazione della campagna russa. Quella dell’Andrej Arsen’evič bambino ne Lo specchio (1974), il capolavoro che seguì Solaris. L’ambientazione fantascientifica del film precedente cede il posto a una serie di flash, slegati da ogni tentativo evidente di trama, che riguardano l’esistenza dell’artista, con tutte le sue insicurezze e contraddizioni. In realtà la pellicola è dotata di una sua intrinseca sequenza narrativa che però non fa altro che specchiarsi continuamente in un gioco di rimandi tra fanciullezza e maturità, madre e moglie, padre (protagonista delle toccanti poesie narrate nel corso del film) e figlio, società del passato e del presente. Lo specchio è l’opera più intima e personale di Andrej Arsen’evič, la più onirica e metafisica, la più concreta e astratta allo stesso tempo. Fondamentale per conoscere e penetrare a fondo l’animo del poeta visivo. Un animo che a volte gioca a nascondere i significati. Ciò che però conta non è cosa Andrej Arsen’evič celi al mondo, quali metafore e quanti significati più o meno reconditi dovremmo sviscerare dai suoi film. E’ ciò che la pura visione delle sue opere evoca istintivamente a essere fondamentale, le emozioni slegate da pretese razionali a tutti i costi. Egli lo ha sempre ripetuto, non cercate significati nei miei film, piuttosto cercate voi stessi.

Poi Stalker (1979), la vetta assoluta di Andrej Arsen’evič, ancora tratto da un romanzo fantascientifico, Picnic sul ciglio della strada dei fratelli Arkadij e Boris Strugackij. Una fantascienza livida e concentrata sull’esplorazione degli abissi dell’anima, più che quelli di un spazio alieno. Tre individui – uno scienziato, uno scrittore e una guida – si incamminano in un paesaggio devastato, detto La zona. In tale territorio, visitato tempo prima da esseri giunti da regioni sconosciute del cosmo, i tre si muovono in cerca di una stanza che può esaudire ogni desiderio. Sulla soglia del traguardo decidono però di non entrare. Il luogo sembra infatti rendere vive non le volontà consce bensì quelle maggiormente celate negli anfratti della coscienza. I tre rinunciano quindi ai propri desideri per paura di scoprirli. L’uomo, per Andrej Arsen’evič, ha un animo così confuso e malato da fuggire dal confronto con le profondità del proprio sé. Guardarsi dentro sarebbe insostenibile.

Nei primissimi anni Ottanta, stanco delle continue problematiche legate al suo lavoro, Andrej Arsen’evič abbandona la Russia per non farvi mai più ritorno. Con sé porta l’abbozzo di sceneggiatura di un nuovo film e la visione di un personaggio, un poeta di nome Gorčakov che viaggia in Italia alla ricerca di notizie su un musicista di cui ha intenzione di scrivere la biografia. Nelle lande italiche però Gorčakov si perde. Si ammala di nostalgia, di uno struggimento che non gli concede requie. Lo struggimento di chi ha perso la bussola e non capisce più quale sia il senso della sua missione, artistica e umana. Nostalghia (1983), la cui sceneggiatura viene messa a punto con l’ausilio con Tonino Guerra, è ancora una volta lo specchio degli affanni di Andrej Arsen’evič. Lo struggimento di Gorčakov – il ritrovarsi in una terra così colma di bellezza, l’Italia, e non poterne veramente godere, non saperla penetrare in tutta la sua magnificenza come egli, poeta, avrebbe anelato – è lo stesso che prova Andrej Arsen’evič. Egli è lontano, in tutti i sensi, dal suo paese, dai suoi cari, dalla sua poesia, da se stesso.

Le prime immagini dell’uomo Andrej Arsen’evič le vidi nel documentario Tempo di viaggio (1983), diario filmico della ricerca delle locations per Nostalghia. Ogni volta che rivedo questo piccolo film rimango turbato, Andrej Arsen’evič sembra così a disagio da trasmettere una concreta inquietudine. Il suo sguardo, le sue mani in tasca, la sua postura, una certa noncuranza mentre lo portano a visitare le bellezze d’Italia, il suo ascoltare con fosca serietà le poesie del suo sodale… tutto di lui comunica assenza, un vagare altrove. Probabilmente verso quella Russia che aveva con tristezza abbandonato, finalmente libero da tutte le enormi difficoltà che in patria aveva sempre dovuto affrontare. Ma questa libertà contribuì a lacerare le radici che lo tenevano legato ai suoi cari e alla sua terra natia. Tale dramma esistenziale viene estrinsecato dal personaggio di Gorčakov che non riesce a commuoversi davanti a nulla; la grande arte italiana lo lascia indifferente, le lusinghe di Eugenia, la sua assistente/traduttrice, non lo toccano. Si muove come un alieno tra le stupende colline toscane. Sembra costantemente disinteressato a ogni cosa. Solo l’apparizione di Domenico – uno strambo personaggio che aveva segregato in casa la sua famiglia per sette anni, sicuro dell’imminente fine del mondo – sembra risvegliarlo dal suo torpore. Nel folle Domenico Gorčakov scorge una scintilla di salvezza che gli scrolla di dosso l’apatia. Domenico è l’uomo saggio proprio perché pazzo, è libero di essere se stesso, libero di essere ciò che vuole. La pazzia lo eleva, in qualche modo lo salva perché egli può ergersi al di sopra del pensiero comune e avvertire gli uomini della triste deriva che l’umanità ha preso.

Mi aggiro nella campagna toscana. Il cielo è ampio, enorme, sembra che le nuvole stiano per precipitare, per precipitarmi addosso. La luce è bassa, crepuscolare. La pioggia cadrà tra poco, si sente nell’aria. Mentre io continuo a girare per piccoli paesi, senza guardare in faccia le poche persone che incontro. Loro invece mi osservano incuriosite, insospettite. C’è profumo di legna bruciata, le strade sono in salita, ci sono piccole porte molto malandate, angoli colmi di mattoni e pietre. Non riesco a capire dove si trovi la cima del paese, la piazza, la chiesa. Si sente il rumore lontano delle pecore al pascolo. L’aria è molto fredda, il cinguettio degli uccelli, una fontana, una piccola campana arrugginita. E questo profumo di legna bruciata.

Andrej Arsen’evič è passato da qui mentre visitava i luoghi dove poi avrebbe girato Nostalghia. Forse il cielo era plumbeo e opprimente come oggi, ed egli ha avvertito una morsa molto forte nel petto. Posso quasi sentire questa stretta, questa lacerazione tra sé e la sua terra così lontana, la moglie e il figlio che non potevano raggiungerlo. Andrej Arsen’evič non sapeva quanto tempo sarebbe passato prima di poterli rivedere, non sapeva ancora che non sarebbe mai più tornato a casa. Lo immagino qui, in un pomeriggio come questo, vagare con la sguardo verso i vecchi paesi arroccati sulle colline, queste chiese meravigliose, tutta questa arte, e non godere di nulla. Ed è qui che probabilmente ha cominciato a svilupparsi il personaggio di Gorčakov.

Visito l’incantevole Bagno Vignoni (SI), di sera. Qui Andrej Arsen’evič ha girato alcune scene basilari di Nostalghia. Nessun passante, e le luci che il vapore della piscina di Santa Caterina rende fioche. Percorro l’acciottolato sulla sinistra della piscina, guardo il muretto dove era seduto Domenico. “Tu sei quella che non è, Io sono quello che è”, ha detto Dio a Santa Caterina, e Domenico rivolge queste parole a Eugenia, mentre essa sembra non capire. Perché lui è il pazzo e il pazzo va lasciato fare il pazzo. Ma il pazzo ha capito, anche il profondo malessere di Eugenia che, innamoratasi di Gorčakov, sta cercando di comprendere l’immobile e impenetrabile modo di essere dell’uomo e in questo tentativo sta mettendo in dubbio ogni certezza. Domenico sa tutto quello che lei non sa di sapere. Questi ciottoli sono stati calpestati da Andrej Arsen’evič. Mi chino, li tocco, li accarezzo, porto la mano all’acqua calda, la bagno e la passo sul viso. Il tempo scompare.

Infine l’abbazia scoperchiata di San Galgano, ancora nella provincia di Siena, a Chiusdino. Qui dimora l’elegiaco finale di Nostalghia. Il freddo perenne. L’abbazia, l’uomo seduto al suo interno, tra le colonne della cattedrale senza tetto. Gorčakov, lo spazio che finalmente ha riunito la casa natale e il luogo della morte. Gorčakov, per sempre in terra toscana con la Russia nel cuore. Alla fine in qualche modo egli riesce a venire a patti con se stesso e con la sua inquietudine. Porta a termine il compito di cui Domenico lo ha investito. Attraversa la piscina di Santa Caterina con un mozzicone di candela, che ogni volta una folata di vento spegne e che lui caparbio riaccende, fino a compiere tutto il percorso con la fiammella accesa e poi spirare. Il nostro viaggio in questo mondo è simile al tratto che Gorčakov compie nella piscina. Ogni volta tutto quello che siamo rischia di venire meno, ma se la condotta del nostro spirito è forte torneremo sempre indietro, riaccenderemo il mozzicone di candela a ripeteremo il percorso. Fino a che il tragitto non sarà completato.

Andrej Arsen’evič Tarkovskij fa ancora in tempo a girare il suo film definitivo, Sacrificio (1986), non il migliore ma sicuramente il più centrato nell’esplicare ciò che l’artista ha in mente in un momento come questo, a pochi passi dal baratro. Come Domenico, anche il protagonista di Sacrificio, Alexander (non a caso interpretato dallo stesso attore, Erland Josephson) sceglie di deragliare dai binari della normalità, di cedere al nonsenso e alla pazzia. Questo per salvare l’intera razza umana, minacciata dall’avvio di una guerra nucleare. Alexander compie un atto di estrema irrazionalità, si rivolge a una sorta di fattucchiera che sembra avere la possibilità di salvare il mondo se Alexander deciderà di sacrificare tutto quello che ha di più caro: i suoi affetti, la sua casa, se stesso. La pazzia alla fine libera il pianeta dal pericolo, affrancato dalle sue autoimposte catene Alexander compirà l’atto definitivo per concedere alla razza umana ancora una possibilità. Come Il sacrificio di Domenico, che alla fine di Nostalghia si da fuoco per le strade di Roma, anche Alexander rinuncia a se stesso, questo lo salva e redime il genere umano.

L’infanzia di Ivan si apriva con la ripresa di un albero che dalla base si alzava fino alla sommità. Sacrificio si chiude con la stessa scena, la telecamera che dai piedi dell’albero punta verso il cielo. Il cerchio si chiude per Andrej Arsen’evič che muore a Parigi il 28 dicembre 1986 a seguito di complicanze causate da un tumore al polmone, lontano dalla sua patria ma fortunatamente circondato dall’affetto dei suoi cari, la moglie Larisa e il figlio Andrej.

Philip Roth. Uno scrittore e i suoi libri

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(Il 22 maggio 2018 è morto Philip Roth. Lo ricordiamo ripubblicando dal nostro archivio questo articolo, uscito il 28 febbraio 2015)
di Giovanni Dozzini
Philip RRoth

Dio ci salvi dalle biografie di scrittori. Tutto ciò che abbiamo amato, odiato, capito, frainteso, tutto ciò su cui abbiamo rimuginato, speculato, ciò su cui ci siamo illusi, ciò in cui abbiamo trovato ragioni sufficienti per continuare a vivere, ciò che ci ha reso inequivocabilmente felici, o spaventati, o disperati, tutto ciò capitatoci nel momento di leggere un qualsiasi romanzo di un qualsiasi scrittore non ha nessun legame con la vita condotta da qualsiasi scrittore del pianeta in qualsiasi momento della storia. Né nessuna necessità di averne. La letteratura ha bisogno solo di se stessa, e di occhi e cervelli per essere letta.

Nuova edizione dei Manoscritti economico-filosofici di Marx

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di Enrico Donaggio e Peter Kammerer

[Il 24 maggio esce in libreria per Feltrinelli una nuova edizione italiana dei Manoscritti. Diversamente dalle traduzioni italiane oggi ancora in commercio, risalenti a molti decenni fa, questa si basa sulla versione più recente e scientificamente verificata degli originali di Marx (MEGA 2). Aggiunge inoltre un nuovo quaderno – le Note su James Mill -, dove Marx descrive con grande chiarezza cosa significa produrre in modo umano. Pubblichiamo qui le ultime pagine della postfazione dei curatori.]

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Attacco frontale

 L’ampiezza, l’intelligenza e la violenza dell’attacco frontale che i Manoscritti sferrano all’economia politica sono tali da mozzare spesso il fiato. Sviluppatasi tra Seicento e Ottocento per abbattere l’economia feudale e la sua civiltà, questa nuova scienza ha presto rinnegato il suo passato rivoluzionario, i presupposti e la passione critica che l’hanno messa al mondo.

Atarassia, o l’età dello scioglimento (letteratura e ambiente)

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di Benny Nonasky

«Sewage surfer», © Justin Hofman/SeaLegacy

In fin dei conti un mondo senza di noi rappresenterebbe l’ideale. Sarebbe un finale sconvolgente, forse lieto per qualcuno o qualcosa, ma è un’infondata conclusione. Se ci soffermiamo sulle singole azioni o su determinate situazioni, effettivamente siamo degli esseri sgradevoli: noi uccidiamo, noi deprediamo, noi costruiamo delle dinamiche che comportano ecocidi e dolore, sia per il genere umano sia per tutto quello che intorno ci abita e ci compone.

Provo a fare degli esempi partendo dall’infinitesimo. Tutti noi conosciamo la Leontopodium alpinum (Piede di leone), più comunemente denominata Stella alpina. È un fiore che cresce nelle fessure rocciose o nei prati sassosi, e arriva sulle Alpi italiane durante le ultime glaciazioni; più o meno diecimila anni fa. L. alpinum non è un fiore autoctono delle nostre montagne: le origini di questa pianta sono le zone montuose aride dell’Asia Minore, da dove – con la formazione di varie specie alpine oloartiche (regione biogeografica che comprende parte dell’emisfero boreale), evolute dai rilievi montuosi originati nel Miocene – sono giunte fino a noi. Questa pianta, dal 1878, è protetta. È salvaguardata da una legge per via dell’indiscriminata raccolta da parte di collezionisti innamorati della sua eleganza, per il semplice desiderio di averla incorniciata in casa. Oggi, anche se coltivata nei giardini per decoro e nei campi a sfruttamento intensivo per le caramelle, il suo habitat naturale è minacciato dal cambiamento climatico.

L’aumento delle temperature spinge verso limiti prima fin troppo rigidi piante e arbusti adatti a climi più caldi che nel lungo periodo rischiano di soppiantare le piante autoctone, portandole all’estinzione. Il rapporto Biodiversità e cambiamenti climatici presentato dal WWF nel 2015 in vista della COP21 a Parigi, specifica: «le specie tropicali e subtropicali guadagnano territorio verso nord (nel nostro emisfero) e sempre più in alto risalendo le montagne, togliendo spazio alle specie animali e vegetali tipiche dei climi secchi»0.

Anche se sembrerà atipico, un esempio è l’olivo: fino a qualche decennio addietro l’Olea europaea si trovava unicamente a ridosso della fascia mediterranea: essendo una pianta termofila richiede clima caldi e secchi, senza troppa ombreggiature (eliofilia). Quindi è molto sensibile alle basse temperature. Un anno fa ho potuto constatare che da diversi anni, a ridosso del Lago di Garda, vengono coltivati terreni a uliveti, grandi dimensioni, con un areale agricolo in crescita. Sappiamo, da reperti archeologici, che già nell’età del bronzo era praticata l’olivicoltura a ridosso del Lago di Garda. L’olivo cresce sui versanti a esposizione favorevole delle colline moreniche che, dal punto di vista climatico, subiscono l’influenza benefica del Lago e, per secoli, furono la coltura d’olivi alla latitudine più a nord del mondo. Oggi non è più così1. Sono stati coltivati olivi oltre il 46esimo parallelo, addirittura in Galles. In provincia di Sondrio, secondo i dati forniti dalla Coldiretti, negli ultimi dieci anni la coltivazione dell’olivo sui costoni più soleggiati della montagna valtellinese è passata da zero a quasi trentamila metri quadrati di terreno. Questa tendenza si riscontra anche in Piemonte2 e in Valle d’Aosta3 a ridosso delle Alpi.

L’aumento delle temperature muta le fasce climatiche spostando sempre più in alto piante e arbusti che, visto la rapidità degli eventi estremi, non riescono ad adattarsi o a riprodursi in un numero sufficiente alla generazione di un nuovo climax. Di conseguenza, in breve tempo scompaiono.

Da questi piccoli esempi passiamo ad uno più grande. Gli Antozoi sono minuscoli polipi (anche migliaia in un singolo elemento) che vivono radunati in grandissime colonie, che formano trottoir, atolli e le più conosciute barriere coralline. I coralli sono tra gli animali più longevi sulla terra. Non si conosce la loro età, ma parliamo di centinaia se non di migliaia di anni. Si trovano in luoghi caldi, come l’Australia, ma alcune colonie si localizzano nel Mediterraneo e al largo delle coste inglesi. Le barriere coralline sono degli ecosistemi, cioè un insieme di organismi viventi che interagiscono fra loro e con l’ambiente che li circonda (biodiversità). I coralli mantengono un habitat naturale utile alla riproduzione e al sostentamento di altri animali marini (supportano un quarto di tutta la vita marina). Ma negli ultimi anni sono diventati anche lo specchio – per non dire un indicatore – dei mutamenti climatici.

Tra il 2015 e il 2017 è avvenuto il terzo evento di sbiancamento di massa, detto coral bleaching4. Lo sbiancamento è un fenomeno distruttivo che colpisce i coralli quando la temperatura supera per un lungo periodo la soglia utile alla sopravvivenza della specie. E gli anni tra il 2015 e il 2017 sono stati i più caldi mai registrati da quando sono partite le prime rilevazioni climatiche nel 18505. Per svilupparsi gli Antozoi hanno bisogno delle seguenti condizioni climatiche: la temperatura media dell’acqua durante l’inverno deve essere sempre maggiore di 20°C, la salinità deve rimanere costante e deve essere assicurata la presenza di molta luce. I coralli vivono in simbiosi con alghe unicellulari fotosintetiche, le zooxanthellae, responsabili dei colori brillanti delle barriere. Le zooxanthellae sono fondamentali per la sopravvivenza dei coralli in quanto forniscono a questi animali il 90% del fabbisogno energetico richiesto per la calcificazione, la crescita e la riproduzione. Quando le temperature dell’acqua aumentano eccessivamente in condizioni di alta irradiazione luminosa, però, le alghe iniziano a produrre radicali liberi che sono tossici per le cellule che le ospitano. In risposta, i coralli le espellono e rimangono completamente bianchi, da cui il termine coral bleaching. Questi stress ambientali derivano dell’emissioni di CO2 nell’aria e delle anomalie termiche portate da El Niño (tranne per l’anno 2017) in uno dei suoi cicli più intensi, che ha apportato forte siccità e un aumento di oltre i 2°C delle temperature marine. Circa un quarto dell’anidride carbonica di origine antropica prodotta ogni anno, infatti, viene assorbita dagli oceani. Questo causa un abbassamento del pH dell’acqua e un calo degli ioni carbonato (CO3) in essa disciolti, acidificando il mare. Inoltre, la salinità delle acque – sempre per via dell’aumento delle temperature – è salita oltre il trentacinque percento (la frazione massica)6.

Questo generale e continuo innalzamento provoca molti danni sia sulla terra – minore approvvigionamento idrico, improvvisi eventi catastrofici, morti premature e gravi disagi alimentari nelle fasce di popolazioni più povere – che nel mare. Negli ultimi decenni si sono perse oltre la metà delle barriere coralline7. Il continuo sfruttamento delle acque, l’inquinamento, la temperatura elevata per fattori antropici e, in minor misura, naturali hanno generato un mix di fenomeni distruttivi ormai non più riparabili. Molti scienziati stimano che entro trentacinque anni non esisteranno più atolli e barriere coralline anche se da domani smettessimo di utilizzare combustibili fossili8. Questo ci fa comprendere che il veloce deperimento dei coralli è dipeso unicamente dall’azione umana. Sono esseri fragili, ancorati alla terra marina, base di una biodiversità unica e fondamentale per il mondo; principalmente perché il mondo è composto dal 97 per cento di acqua, dalla quale pesca in media 175 miliardi di tonnellate di pesce all’anno (25 kg a persona)9.

Eventi preannunciati come il sovrasfruttamento degli stock ittici e l’innalzamento dei mari non sono delle ipotesi. Queste ultime hanno cominciato ad evidenziarsi con improvvise inondazioni ed erosioni perpetue della costa; come quelle che avvengono sull’East Coast americana o nel Sud-Est asiatico. Tutte queste situazioni possono procurare gravosi danni agli Stati colpiti, con costi molto elevati di vite e bilancio statale. Inoltre, come abbiamo visto negli scorsi anni, i problemi non riguardano solo i paesi colpiti, ma anche quelli limitrofi e lontani. Il Norwegian Refugee Council (NRC) afferma che nel 2010 più di 42 milioni di persone nel mondo sono state forzate a spostarsi a causa di disastri ambientali. Secondo il Programma delle Nazioni Unite sull’ambiente (UNEP) nel 2060 in Africa ci saranno circa 50 milioni di profughi climatici. Nel documento Groundswell – Preparing of internal climate migration, la Banca Mondiale stima che nel 2050 ci saranno oltre 143 milioni di profughi ambientali. Oggi il numero dei profughi ambientali ha superato quello dei profughi di guerra10.

Questi esempi creano reti tra di loro, come se un evento ne tirasse dietro un altro, intersecandosi alle nostre esistenze. Come ho già anticipato all’inizio del testo, trovo infondato il pensiero di un mondo senza di noi, perché siamo noi, attraverso il linguaggio, ad avergli dato un nome, ad identificare ogni singolo elemento, dandogli un valore e una struttura. Abbiamo edificato dal nulla paesaggi e opere d’arte che rappresentano la terra sulla quale viviamo. Noi siamo parte anche del non umano. Ma al contempo abbiamo generato sangue e violenza; e, molto spesso impunemente, continuiamo a farlo. Veniamo da un retaggio che si nutre della filosofia del potere. Noi siamo padroni, imperialisti, colonialisti; e su una scala di valore, sull’ultimo gradino abbiamo sempre messo il pianeta.

Prendete il lago Aral, nell’Asia Centrale: da oltre quarant’anni le acque dei fiumi che lo alimentano vengono deviate per irrigare i campi di cotone e riso delle regioni circostanti dell’ex Unione Sovietica. Potremmo affermare che è stato necessario, la popolazione ha bisogno di riso per mangiare e cotone per vestirsi. Ma questo ragionamento non funziona nel lungo periodo perché il quasi prosciugamento del lago per via dell’incanalamento dei vari immissari che lo ha ridotto dell’oltre novanta percento, ha originato due dinamiche: la prima riguarda la scomparsa di quasi tutte le specie ittiche che popolavano il lago, dove la pesca rappresentava la principale fonte di guadagno degli abitanti della zona; e la seconda che concerne la salinità delle acque: l’aridità crea alti tassi di evaporazione che, di conseguenza, genera salinità. Il lago è passato da un dieci percento ad un ventitré percento di salinità nell’arco di cinquant’anni. Il suolo delle coste e il suo alveo, ormai esposti all’aria, si mescolano con le particelle di sale e i residui dei pesticidi usati nell’agricoltura, generando pericolose tempeste di polvere e sabbia, aumentando l’incidenza dei problemi respiratori sulla salute delle popolazioni locali. Inoltre, la salinità del lago, ha ridotto la produttività dei campi coltivati. Questa situazione evidenzia il rapporto tra uomo e natura. L’uomo può dipendere da essa, ma la natura non può rispondere positivamente agli stress ambientali portati dall’uomo. In poche parole l’ambiente non può aiutare o redimere l’incuranza umana. Questa è una cosa molto importante da capire. Noi dipendiamo per qualunque cosa dall’ambiente che ci circonda e ogni nostra azione può avere una conseguenza positiva o negativa. È positiva quando decidiamo di mangiare meno carne o non gettiamo le carte a terra; è negativa quando prolunghiamo le nostre trivellazioni e le nostre emissioni di anidride carbonica. La bilancia pende solo da una parte.

Da alcuni anni, quando in estate torno nel mio paese natìo, in Calabria, ho potuto constatare come il cambiamento climatico abbia iniziato ad essere sempre più incidente. Partiamo dalla desertificazione. Possiamo dire che negli ultimi decenni ha piovuto poco, molto poco. Ciò ha portato ad un degrado del suolo, ad un impoverimento delle falde acquifere, ad una siccità costante e pericolosa per la selvicoltura e per gli abitanti della regione. Come afferma l’IRPI (Istituto di Ricerca per la Protezione Idrologica) in un suo studio insieme al CNR e al MIUR, «La diminuzione delle precipitazioni ha un impatto sulla siccità. Negli ultimi decenni, in Calabria sono stati registrati eventi di siccità anche di lunga durata più frequenti e più intensi che in passato. I tempi di ritorno dei periodi siccitosi nel trentennio 1981-2010 sono stati fino alla metà di quelli registrati nel trentennio precedente 1951-1980. La frequenza degli eventi siccitosi è quindi aumentata. I nostri studi evidenziano un aumento della suscettibilità alla desertificazione dei suoli, già in atto in alcune aree del versante ionico della Calabria».

Questo disagio, oltre ai problemi idrologici, ha già causato un mutamento della flora locale. Quando si percorreva la statale 106, ai cigli delle strade capitava spesso di imbattersi in piccoli oleandri o nei pini marittimi. Da diversi anni queste piante sono state soppiantate dall’Agave Americana Bloom Spike, una sottospecie di quella classica, alta anche tre metri. Questa pianta è originaria del Messico, di un clima puramente tropicale. Perciò possiamo affermare che la Calabria è passata da un clima mediterraneo a uno tropicale11? Acquazzoni improvvisi, venti molto forti, umidità intensa, grandine, piccoli tornado, lunghi periodi di siccità: sono tutti elementi che indicano un cambiamento radicale nel clima della regione.

Un altro esempio di come la fascia tropicale abbia raggiunto i confini del Sud Italia è la pianta Persea Americana, o avocado, che mia madre ha coltivato in giardino. Sicuramente è una arbusto molto elegante, ricco di foglie verde scuro simili all’alloro. È stata piantata in giardino quasi cinque anni fa e in pochissimo tempo ha superato i tre metri di altezza, producendo centinaia di frutti ogni anno. La sua coltivazione e commercializzazione è radicata nel suo habitat naturale, cioè in Messico, Guatemala, Perù e Colombia. Ma da alcuni anni in Calabria, Sicilia e Sardegna sta aumentando la coltivazione di questa pianta12. Può essere un nuovo indirizzo economico per la popolazione locale, sennonché le foglie, la corteccia, i frutti e i semi dell’avocado sono nocivi per vari animali: gatti, cani, bovini, capre, conigli, uccelli, pesci e cavalli possono subire gravi danni (e addirittura morire) se li consumano. In un territorio meridionale che sopravvive di pascolo e derivati, ciò può far scaturire conflitti tra coltivatori e pastori locali. Conflitti che possono derivare anche dalla desertificazione dei suoli, fondamentali per il pascolo e l’agricoltura. L’aridità, insieme al consumo di suolo per via della costante cementificazione, ha ridotto la capacità di ritenzione idrica dei terreni creando seri rischi anche quando cade la pioggia: avendo una tessitura impermeabilizzata, come asfalto, l’acqua scivola via, provocando frane e inondazioni.

Le intense piogge avvenute nei primi giorni del novembre 2015 sono state un evento catastrofico per il mio paese, Caulonia. La forte pioggia, oltre settanta centimetri di acqua caduta in quarantotto ore, che si è abbattuta in quei giorni ha ingrossato la fiumara Allaro che è esondata in diversi punti, causando frane e distruggendo parte del ponte che collegava Caulonia ai paese vicini. Per diversi giorni i collegamenti sono rimasti bloccati. Ancora oggi il ponte è danneggiato (la carreggiata si è ridotta ad un’unica corsia). Queste devastanti piogge non sono più eventi atmosferici causali, ma stanno diventando una condizione fisica costante (si sono ripetuti nel 2016 e nel 2018)13.

Un altro segnale del cambiamento climatico lo possiamo riscontrare nell’erosione della costa. Nelle foto degli anni settanta e ottanta che mio padre è solito mostrare a chiunque entri in casa nostra, si possono vedere spiagge immense, quasi alienanti come le distese di ghiaccio dell’Antartide. Ma come il ghiaccio artico, anche le spiagge del mio paese hanno perso il loro volume e la loro grandezza. Il mare, negli ultimi trent’anni ha divorato la spiaggia. Se un tempo mio padre doveva buttarla a pari e dispari per decidere chi doveva andare al bar a prendere da bere per tutti visto la lontananza del lido dalla battigia, oggi la spiaggia ha un diametro di pochi metri e i lidi sono a ridosso del mare. Quest’erosione non ha solo un aspetto ambientale, per via dell’innalzamento dei mari, ma anche uno antropico. Negli anni si è ridotto il perimetro tra il mare e il cemento delle case. Molta gente ha scelto arbitrariamente di costruire vicino alla spiaggia, portando a un ulteriore abbassamento della fascia costiera (subsidenza). Nel mio paese si era costruito una muro di cemento armato, convinti che sarebbe bastato a proteggere le nuove costruzioni e il passeggio del lungomare. Ma non è andata così. Il mare continua a elevarsi oltre di esso distruggendo quel che trova al suo passaggio, compresa la barriera stessa, rendendo inagibile per giorni il lungomare e isolando gli abitanti speranzosi di svegliarsi ogni giorno vista mare – e, beffardamente, potremmo dire che va più o meno sempre così. Tutti questi incidenti provocano grosse spese economiche al Comune e allo Stato, gravando sui portafogli dei cittadini. Allontanano il turista e spingono le persone ad emigrare.

Le nostre esigenze, sia legali che illegali, cresciute a dismisura nel tempo, sono entrate in eterno conflitto con l’ambiente che ci sovrasta. Ogni nostra azione, oggi, è contro natura. Il petrolio è in ogni oggetto che possediamo: dai vinili, alle auto, alla penna con la quale scrivo. Il monouso è diventato simbolo del nostro status quo. Non dura più nulla; ogni cosa dura in eterno dispersa e inquinante nell’ambiente14. Gli eventi sopra descritti sono solo alcuni che col tempo ho prima metabolizzato e successivamente analizzato. Questa mia attenzione è arrivata piano col tempo, con l’accumulo di dati, domande e situazioni che mi hanno coinvolto sia fisicamente che sentimentalmente. Posso dire con certezza l’anno nel quale ho cominciato ad interessarmi alla questione ambientale: il 2009. Due anni dopo ho scritto la poesia La ballata di Michelle, poi inserita nel libro Imàgenes Trasmundo (Albeggi Edizioni, 2012; l’intera poesia la si può leggere scaricando il libro gratuitamente dal mio sito internet, nella pagina bio&books). Il tema scaturisce dall’iniziativa di Michelle Obama, nel 2009, di coltivare un orto nel giardino della Casa Bianca15. Quell’orto era mirato all’alimentazione sana contrapposta a quella industriale tipica negli Stati Uniti. Ma qualcosa mi ha fatto collegare quel semplice gesto al disordine mondiale relativo al clima e all’ambiente. Un po’ come lo stomaco in preda alla gastrite (alleviamo i nostri dolori / con un po’ di Maalox / e fugaci segni a croce).

Penso che il collegamento sia scaturito dalle parole di Gilles Clément, nel libro Breve storia del giardino, quando scopre nella foresta gabonese, in un accampamento pigmeo, cosa per loro è un giardino: «In mezzo alla foresta africana, in una radura devastata, si erge un sommario recinto di bambù destinato a proteggere l’esigua produzione, le tre piante di arachide, le cinque piante di manioca, il banano, i taro e un albero troppo giovane per essere identificato. Qui accade il futuro, l’organizzazione di un pensiero, il primo giardino». Gilles scopre che il giardino non ha fiori né vasi, ma è puramente un piccolo orto, con finalità di sussistenza delle persone: «Il primo giardino è quello dell’uomo che ha scelto di interrompere le proprie peregrinazioni. […] Il primo giardino è alimentare. L’orto è il primo giardino. […] Il primo giardino è un recinto. Conviene proteggere il bene prezioso del giardino; la verdura, la frutta, e i pochi fiori, gli animali, l’arte di vivere, quello che col passare del tempo continuerà a sembrarci il “meglio”. […] La scenografia destinata a valorizzare il meglio si adegua al cambiamento dei fondamenti del giardino, ma il principio del giardino rimane costante: avvicinarsi il più possibile al paradiso».

La ricerca della bellezza è una nostra fase costante. L’uomo vuole il paradiso perché non esiste altro oltre la felicità e la meraviglia. Ma il Paradiso, col tempo, ha preso strade puramente edoniste e incentrate sul mero guadagno personale; e spesso si è cercato di raggiungerlo con la crudeltà e l’indifferenza. La Ballata di Michelle ha un inizio e una conclusione in chiave religiosa: Verrà il giorno che quell’uomo si alzerà […] ben vestito, col fallo mozzato – e / urlerà: // «Basta!» // e sarà il giorno. Non essendo credente, il Dio di cui parlo è un essere che puoi trovare appena esci di casa o dall’auto, cioè la Natura. È un qualcosa di presente ovunque, a cui devi fare caso se vuoi definirti un essere vivente.

La questione religiosa ci riconduce alla Lettera Enciclica Laudato Si’ di Papa Francesco16. Ho apprezzato quest’opera fondamentalmente perché, nella prima parte, non tratta la questione come se stessimo parlando di un’entità divina, invisibile ai più, comune solo a chi crede a quel determinato credo religioso. No: Papa Francesco parla agli uomini di una realtà connaturata alla Terra, specifica e intrinseca a noi, vivente e sofferente. La Laudato Si’ prende le distanze da quel tipo di retorica “verde” a cui ci hanno condotto in questi anni, e insiste sul fatto che «un vero approccio ecologico diventa sempre un approccio sociale, che deve integrare la giustizia nelle discussioni sull’ambiente, per ascoltare tanto il grido della terra quanto il grido dei poveri»17. Inoltre, esprime il malessere del mondo con dati scientifici e solo successivamente in chiave biblica. Ma in fin dei conti, ogni poeta non ha un po’ di narrazione aulica in sé? Alla fin fine non tutti ci troviamo nelle parole di Francesco quando dice: «L’ambiente è un bene collettivo, patrimonio di tutta l’umanità e responsabilità di tutti. Chi ne possiede una parte è solo per amministrarla a beneficio di tutti. Se non lo facciamo, ci carichiamo sulla coscienza il peso di negare l’esistenza degli altri»18?

Mi allineo alle parole di Amitav Ghosh quando afferma: «Lo sviluppo più promettente è il sempre maggiore coinvolgimento di gruppi e leader religiosi nella politica del cambiamento climatico. Papa Francesco ne è l’esempio. È sempre più evidente che da sole le istituzioni politiche del nostro tempo sono incapaci di affrontare questa crisi. Il motivo è semplice: il pilastro di queste strutture è lo stato-nazione, che per propria natura è tenuto a tutelare gli interessi di un unico gruppo di persone. Bisogna che in prima fila ci siano comunità e organizzazioni di massa già esistenti. E quelle in grado di mobilitare più persone sono le organizzazioni religiose»19. Il messaggio a questo punto è semplice: la politica ha fallito: osservate come si concludono i vari summit mondiali sull’ambiente: un continuo procrastinare delle politiche funzionali alla salvaguardia e alla riduzione dei gas serra. Ormai non stiamo parlando di un improbabile dopo, ma del domani nel qui oggi, per un futuro sicuro e potabile da lasciare ai posteri. E per far questo serve il maggior numero di persone, anche con casacche e divinità diverse dalla nostra.

Sempre Ghosh scrive: «L’insostituibile ruolo della finzione narrativa è far immaginare altre possibilità. E la crisi climatica ci sfida proprio a immaginare altre forme di esistenza umana, perché se c’è una cosa che il surriscaldamento climatico ha perfettamente chiarito è che pensare al mondo solo così com’è equivale a un suicidio collettivo»20. Il libro nasce dalla domanda: quale linguaggio usare e/o utilizzare per comunicare e parlare alla gente del cambiamento climatico? Non è una domanda scontata. Se dialogare oralmente pretende una corrispondenza diretta tra chi parla e chi ascolta, la scrittura è al contempo uni e pluripersonale, perché abbiamo lo scrivente e, successivamente, un numero variabile di lettori. «Secondo Latour, ogni progetto di divisione è sempre sostenuto da un’impresa collaterale, da lui definita “depurazione”, che mira ad assicurarsi che la Natura sia consegnata alle scienze e rimanga preclusa alla Cultura»21. In effetti, per molto tempo, i due linguaggi – quello narrativo e quello scientifico – si sono osservati da lontano, senza mescolarsi mai. Quindi, se la narrazione della Natura è puramente una questione scientifica, «ciò implica la marcatura e la soppressione degli ibridi – e la fantascienza è esattamente questo, un genere separato dalla tradizione letteraria. Esiste un nuovo genere di fantascienza, la “climate fiction” (“cli-fi”) o la fantaecologia, che però racconta soprattutto storie catastrofiche ambientate in un futuro lontano»22. Cioè vivere la catastrofe come un evento remoto, un qualcosa di “fantascientifico”, improbabile per i più. Oggi questo futuro degenerato si sta traducendo nel presente e, a riguardo, di letteratura ne abbiamo davvero poca.

Forse ci si potrebbe accontentare della cosiddetta ecologia culturale. Questa rappresenta il quadro epistemico per l’autocritica, secondo cui la dimensione culturale è parte indispensabile dei contemporanei paesaggi ecologici conoscitivi. Ciò che caratterizza l’ecologia culturale della letteratura è l’interazione e l’interdipendenza tra cultura e natura come dimensione fondamentale della produzione e della creatività letteraria. Fin dal principio ci troviamo dinnanzi a testi dove la simbiosi tra umani e animali, figure ibride e metamorfosi tra natura, uomo e cultura hanno creato un immaginario letterario sempre più autoreferenziale e antropocentrico. Esempi come i grandi poemi di Walt Whitman, Canto di me stesso o Foglie d’erba (Lascio me stesso alla terra per nascere dall’erba che amo. / Se ancora mi vuoi cercami sotto le suole delle scarpe), esprimono un Io-naturale, dove l’uomo si fa ambiente – viceversa è impossibile -, narrando e descrivendo una natura pre-civilizzata e mai attuale. Questo vale anche per il capolavoro di Neruda Canto General, nel quale elogia la sua terra nei primordi, nell’andamento storico e politico, coi verbi al passato remoto – tende uno sguardo al presente nelle sue Odi. Questo vale anche per Zanzotto e il suo definire paesaggio Deus vivente nella natura, e probabilmente al di là di essa, portando l’ambiente in una visione puramente metafisica.

Con questo non voglio dire che l’ecologia culturale della letteratura sia un abbaglio o una distorsione del reale. Quello che intendo esprimere è la necessità di andare oltre questo, di soffermarci sul presente, parlando al futuro e non solo del passato, che prima si stava meglio, eccetera. Per di più è da considerare anche un’allontanamento dalla visione umanocentrica “Io-natura” perché «l’Antropocene ci mette sotto accusa per la nostra passata arroganza e ci relega a categoria di creature zoppicanti e tentennanti i cui programmi falliscono a causa della scarsa capacità di comprendere: in altre parole, una categoria di creature naturali catturate da forze che superano i limiti dell’umana comprensione. Percezione, quest’ultima, che ci fa ritornare alla natura» [Kerridge, 2017].

Un’altra questione importante è l’uso specifico delle parole: «Si pensi al vocabolario associato a tali sostanze: nafta, bitume, petrolio, catrame, combustibili fossili. Nessun poeta o cantante potrebbe porgere con leggerezza simili sillabe al nostro orecchio. E pensate a queste materie in sé: al carbone e alle scorie fuligginose che deposita ovunque; e al petrolio, viscoso, acre, ripugnante per tutt’e cinque i sensi»23. L’uso dei termini scientifici mi ha sempre affascinato. Trovo incredibilmente melodica la parola plastiglomerato, per non parlare del surge piroplastico. E non mi dispiace affatto la parola Aphoon-Zham. Credo che sia semplicemente una questione di abitudine. Faccio un esempio: molti avranno letto i racconti e i romanzi di Lovecraft e, quindi, molti conosceranno Aphoon-Zham, la Fredda Fiamma, il Signore del Polo. Certo, stiamo parlando del sovrannaturale, di un qualcosa di irreale. Ma concentriamoci sulla parola: per quanto sia insensata, ha un significato concreto nella storia. Leggendo il racconto, accettiamo il suo significato, addirittura sentiamo la sua presenza intorno a noi. E più la utilizziamo, più tenderà ad avere un posto nel nostro vocabolario, nei nostri discorsi e nei nostri esempi. Non è un collegamento banale. La parola plastiglomerato è impiegata dagli scienziati per definire quel nuovo tipo di roccia, un misto di pietra vulcanica (come il surge plastico), sabbia e plastica, nata nel 2014 all’Hawaii per le alte temperature e l’accumulo di elementi plastici. Questo termine ha un significato specifico, esattamente come l’Aphoon-Zham nel racconto. Anzi, il plastiglomerato è – e lo sarà sempre di più – un elemento visibile a tutti. Allora perché non inserirlo nel nostro vocabolario? Perché non adoperarlo nei nostri racconti e nelle nostre poesie? Alcune volte, trovo più sensato usare la parola Stella madre al posto della parola Sole; lo trovo più poetico e più scientifico. Poesie e romanzi devono cominciare ad allargare il loro linguaggio verso nuovi termini che devono, e dovranno, descrivere una nuova visione del mondo, quella del mutamento climatico o, più poeticamente, della distruzione climatica. Il pianeta vivente ha bisogno di una narrazione che si mescoli con la scienza, che trovi nuove strade per raccontarsi, che sperimenti nuovi termini (ad esempio meraviglie naturali al posto di aree protette) che disturbino, e alla lunga catturino, il pubblico, senza timore di cadere nell’obsolescenza perché siamo noi a generare la Storia.

Non ci si dimentica del mare. Il mare. Possiamo definire il mare come la fonte battesimale della nostra presenza sulla terra. Dove tutto è iniziato e dove tutto pare volersi concludere. Io discendo dal mare, ci sono nato accanto. Per anni ho convissuto col suo odore, con la sua rabbia, con la sua delicata poesia. Il mare può essere un padre gentile quando la solitudine uccide ogni desiderio e tutto pare inchiostro nero sui colori infiniti del paesaggio. Ho passato lunghi pomeriggi sul lungomare di Caulonia a scrivere, a dialogare con Lui, a porgli domande su domande. Ma il mare può essere anche un cattivo padre. Può elevarsi diversi metri e distruggere le forme antropiche poste ingiustamente ai suoi confini. Può buttare giù una barca carica di disperazione, sputare a riva i corpi in segno di spregio verso l’umanità. Ma questa violenza non è connaturata all’acqua: entrambi gli esempi hanno comunque una matrice umana: il cemento sulla battigia e il pattume in mare li abbiamo seminati noi; i disperati che fuggono sulle onde li abbiamo spinti noi. Il mare risponde all’orrore con orrore. E prova dolore. Sì: l’ho sentito urlare di dolore in quelle notti che gettava a riva quegli uomini, mentre noi li raccoglievamo come germogli bruciati dal gelo. Il mare risponde dolore con dolore. Se il presente di mio padre furono le spadare di notte e un’acqua limpida ricca di fauna e turisti, il mio presente è ricco di morti in mare e un’acqua logorata dagli scarichi di varia natura, pesca a strascico e plastica.

Se il Mediterraneo fu per secoli e secoli luogo di incontri, battaglie, unione e sopravvivenza alimentare per molte regioni costiere, oggi il Mediterraneo mostra un volto ferito, insanabile per giochi di potere a livello politico e commerciale. Quando ero ragazzino, insieme ad alcuni miei amici o con mio padre, si andava a largo a pescare col fucile subacqueo e la fiocina. Maschera e tubo e diversi minuti in apnea a cercare di sparare a qualche polpo, seppia, sogliola, a volte cuccioli di pesce spada o cernie dalla faccia oscena. Difficilmente la nostra rete appesa alla cinta usciva dall’acqua vuota. Non eravamo granché come cacciatori, ma era così pieno di pesci che era impossibile non catturarne qualcuno. Una volta abbiamo intravisto tra gli scogli un grosso polipo. Siamo stati lì tre ore: ci si immergeva in coppia: uno, con un bastone di ferro, lo stuzzicava cercando di spostarlo dal pertugio dove aveva trovato riparo, mentre l’altro aspettava pronto col fucile. Non ricordo quante persone avevamo reclutato per quella caccia, ma alla fine, dopo interminabili ore, ce l’abbiamo fatta – uscendo dall’acqua affannando e tenendo il polpo con le mani in alto come fosse un trofeo. Da tempo non è più così.

Dopo la costruzione del porto nel paese limitrofo, dopo anni di pesca intensiva a strascico, dopo decenni di scarico delle fogne direttamente a mare e con l’aumento delle temperature, si è potuto constatare un continuo e intenso impoverimento della fauna locale. Quando rientro al paese per le vacanze estive trovo raramente pescherecci in acqua. Ancora più rara la gente che pesca dalla riva. Se da un lato c’è stato un lento e graduale depauperamento della fauna marina, dall’altra si è visto un aumento di materiale plastico sia sul fondo che sulla superficie del mare. Lo scorso anno, insieme ad un mio amico, ci trovavamo a nuotare con la Gopro accesa non molto distanti dalla riva. Inseguivamo una Rhizostoma pulmo (o Polmone di mare), una splendida medusa di colore viola, lunga anche un metro, con un magnifico cappello trasparente di forma semisferica. Nuotava quasi rasando il fondo sabbioso. Eravamo affascinati dalla sua sinuosità e dal suo muoversi come una fisarmonica. Questa splendida visione era però rovinata dai seguenti oggetti non-naturali presenti intorno a noi e alla medusa: bicchieri di plastica, bottiglie di birra, lattine di Coca Cola, buste di plastica, gomme di automobile, reti da pesca, cerotti, assorbenti sporchi, eccetera. Ne sono consapevole.

Secondo un rapporto del 2015 dell’Unep (United Nations Environment Programme, Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente) nel Mediterraneo finiscono ogni anno oltre 731 tonnellate di rifiuti plastici24. Il novanta percento di essa è più piccola di cinque millimetri (microplastica). Nel Mediterraneo si trovano 250 miliardi di frammenti e, ogni anno, ne arrivano altre 677 tonnellate. Secondo uno studio pubblicato su Nature, The Mediterranean Plastic Soup, «Nel Mediterraneo abbiamo una media di 1,25 milioni di frammenti di plastica a chilometro quadrato, contro i 335mila del Pacifico». Quindi, il nostro mare (Mare Nostrum) ha un numero di componenti microplastici maggiore di quelle nel Pacifico, di dimensione relativamente più grande. Oltre che inquinare le acque, le microplastiche vengono ingerite sia dagli uccelli che dai pesci. Molti uccelli, dopo aver ingurgitato diversi tipi di materiale plastico (ad esempio, frammenti o tappi di bottiglia), muoiono di avvelenamento o per un conseguente blocco intestinale.

Se ci chiediamo perché gli uccelli mangiano plastica, la risposta ce la offre un recente studio pubblicato dalla rivista Science Advances, che in breve afferma che la plastica ha lo stesso odore del cibo: «Il krill, ossia l’insieme di piccoli crostacei che rappresentano la primaria fonte di cibo per molti uccelli marini, si nutre di alghe. Quando queste muoiono e si decompongono, emettono un penetrante odore di zolfo dovuto a una sostanza di nome solfuro dimetile (DMS). Gli uccelli marini hanno imparato che quest’odore li guiderà dove possono trovare il krill. Dalla nuova ricerca emerge che i rifiuti plastici sono una piattaforma perfetta per la crescita delle alghe. Quando queste muoiono e si decompongono, emettendo l’odore di DMS, gli uccelli marini che usano l’olfatto per procurarsi il cibo cadono in “trappole olfattive” che li portano alla plastica invece che al krill».

Questa trappola olfattiva uccide molte specie migratorie che come unica fonte alimentare nella loro lunga traversata hanno il mare sotto di essi. Per i pesci, la dinamica è simile: ingurgitano microplastica scambiandola per krill o plancton. Ma il pesce è uno degli alimenti base della nostra dieta. Secondo il rapporto di Greenpeace Plastic in seafood, sono almeno 170 gli organismi marini che sicuramente ingeriscono i frammenti. Fra di loro ci sono pesci che poi finiscono nei nostri piatti come il tonno, il pesce spada, la spigola, i granchi o gli scampi. Per queste specie, l’ingestione avviene attraverso la bocca. Mentre per le cozze, le vongole o altri molluschi, la contaminazione c’è nel momento in cui questi filtrano l’acqua di cui si nutrono, senza riuscire a eliminare le microplastiche. Questo evidenzia un circolo vizioso: io butto una bottiglia di plastica in mare. Questa col sole, il sale e il moto del mare inizia a decomporsi. Qualche uccello ingurgiterà qualcosa di quei frammenti che si sono divisi. Qualche pesce farà altrettanto. Un peschereccio pesca quel pesce, che verrà venduto al mercato e che qualche ristoratore acquisterà e che mi venderà a un prezzo carissimo, servito al cartoccio o spezzettato dentro un risotto. La plastica e i vari rifiuti che dai fiumi (o dalle imbarcazioni) arrivano a mare, sono un problema vasto e reale che sta soffocando l’intero sistema marino. Oltre che nel Mediterraneo, conosciamo altre isole di plastica come quella più famosa detta Pacific Trash Vox25, o grande chiazza d’immondizia del Pacifico, grande tre volte la Francia, o quella nell’Oceano Atlantico, a ridosso del Mar del Sargassi. Questi enormi campi di concentramento di plastica sono tutti manufatti umani, musei dell’orrore del monouso e di uno stile superiore alla capacità umana di regolare e smaltire i rifiuti che produce.

Come conclusione mi pongo una domanda: perché condurre la mia produzione letteraria verso la direzione socio-ambientale? Oltre alle esperienze personali – vedere i mutamenti del mio mare e della mia terra d’origine – e alle dinamiche su scala globale, c’è una fotografia che mi ha segnato profondamente. Questa è di Justin Hofman ed è intitolata Sewage Surfer. Finalista del pregiato Wildlife Photographer of the Year (anno 2017), ritrae un Hippocampus Herectus (cavalluccio marino) che tiene per la coda un cotton fioc. Ho dato diverse interpretazioni a quest’immagine: brandisce l’arnese come un’arma, forse fa parte di un esercito di cavallucci marini, tutti col loro cotton fioc, pronti a dare battaglia. Oppure ha dei conti in sospeso con qualcuno – la sua faccia truce rimanda a dei risentimenti, se non addirittura al puro odio. Oppure sta costruendo una tana, come fanno gli uccelli. Magari, invece, è un netturbino del mare. Anzi, tutti i pesci sono dei netturbini del mare. Raccolgono la spazzatura che trovano in giro e la spingono verso un determinato punto. Ci faranno un camposanto dell’immondizia o un museo per i posteri. Queste sono solo supposizioni, a tratti divertenti, di un Homo Sapiens Sapiens in preda alla disperazione.

Quel cotton fioc deve avere un peso eccezionale per quel cavalluccio. Porta il peso di una sconfitta. I suoi occhi sono assenti. Io non so per cosa ha scambiato quel cotton fioc, non lo so perché lo tiene per la coda. So solo che mi provoca rabbia e tenerezza e mi fa sentire ebete e disarmato dinnanzi alla sua tranquillità. Forse dovrei essere più forte, dire che in fin dei conti ogni covata fa nascere mille cuccioli di cavalluccio marino e che sicuramente si adatteranno allo schifo che trovano sul fondo marino. Forse dovrei accettare il mio destino di uomo e buttare le carte dal finestrino dell’auto; oppure non riciclare (perché in rete ti insegnano che nessun Ente fa realmente la raccolta differenziata; e c’è sempre qualcuno che ha visto un camion dell’immondizia gettare tutti i diversi sacchi nel medesimo rimorchio). Ma io non sono così forte. Io sono innamorato della terra e non posso essere così forte da non provare rimorsi o dolore. Anche per questo scrivo poesie – quasi come una difesa. Io non ho risposte, posso solo descrivere e domandare.

L’Antropocene è un concetto introdotto dai chimici Paul J. Crutzen e Eugene F. Stoermer nel 2000 «per mettere l’accento sul ruolo centrale che il genere umano ha in geologia ed ecologia». Secondo una nota tesi di Bill McKibben, tutte le manipolazioni umane come la globalizzazione del capitalismo industriale, la crescita demografica, l’accumulo di CO2, comportano «una fine della natura», e ad ogni cambiamento climatico «rendiamo ogni angolo della Terra un prodotto dell’uomo, pertanto artificiale. Abbiamo privato la natura della sua indipendenza, circostanza letale per il suo essere. L’indipendenza della natura è il suo stesso senso: senza non esisterebbe null’altro che noi». Non sono d’accordo completamente con questa tesi. Sicuramente, ogni nostra modifica al paesaggio, determina un prodotto definito dall’uomo, e quindi artificiale (città, dighe, agricoltura intensiva). Ma l’indipendenza della natura non è direttamente correlata alla nostra presenza, e senza natura noi non esisteremmo. Tra le altre cose, eventi naturali hanno flussi materiali, scambi e interazioni di sostanze, habitat, luoghi e ambienti anche senza il nostro intervento. Importante è comprendere che, anche se alteriamo in modo sconsiderato le dinamiche naturali, la Terra concluderà un ciclo e potrà andare avanti anche senza la nostra esistenza. Quindi, per sopravvivere siamo costretti a difendere e trovare rimedi per il mondo.

Richard Kerridge nel recente Environmental Humanities: Voices from the Anthropocene asserisce: «Siamo evidentemente collocati in un ecosistema abitato e costituito da numerose creature non umane, alcune delle quali vivono dentro i nostri corpi. Se danneggiamo il sistema, queste creature soffriranno con noi. […] La potenzialità di noi umani è umiliata di fronte alla pura e semplice dimensione delle conseguenze che non abbiamo saputo prevedere». Oggi ci troviamo in un momento storico difficile da gestire, da un lato troviamo la superficialità di alcuni mezzi antropici come la televisione o internet che distorcono la realtà umana in un continuum vortice di informazioni e video e immagini che riducono l’attenzione e stancano l’azione (con brevi accenni di sentimento momentaneo; da qui l’atarassia); dall’altro lato troviamo la lentezza e l’invisibilità dei cambiamenti del nostro pianeta (da qui l’età dello scioglimento). Tutte queste relazioni contrastanti spingono molte persone a non curarsi del prossimo futuro umano e non umano. Trump, la destra e altre fazioni socio-politiche ed economiche, aderiscono all’ideologia negazionista: se non esiste la parola, non esiste nemmeno la cosa. Le parole definiscono le cose.

Bisogna dire come stanno le cose, non evadere nei sogni; mai come ora è stato il momento dell’uomo. Come afferma George Monbitor sul Guardian: «Gli ecologisti dovrebbero assoldare poeti, linguisti, amanti della natura per farsi aiutare a trovare parole più adatte per proteggere ciò che hanno a cuore». Che si usino termini tecnici o che sia il semplice linguaggio, questo è «il terreno di gioco dove fare esperimenti» [Hans-Peter Durr, in Grober 2012]. E su questo terreno ci siamo sempre e solo noi.

Abbiamo distrutto i boschi
con folli motoseghe, riversato nei mari
il petrolio, bruciato le nuvole,
turbato il mondo naturale.
[…]
Idealisti della lentezza
di contemplare distese di ghiaccio nuovamente solido,
foreste pluviali tornare rigogliose,
gli oceani di nuovo al loro posto;

sabbia e stelle, cieli blu,
acqua limpida, distese luminose.

(dalla poesia Omaggio a Gaia di Derek Mahon)

NOTE

0 http://awsassets.wwfit.panda.org/downloads/report_biodiversita_cambiamenti_climatici6_11_def.pdf

1 http://www.ruralpini.it/Inforegioni18.02.10.htm

2 http://www.lastampa.it/2016/01/04/edizioni/asti/asti-e-il-piemonte-si-confermano-terre-da-oliveti-nprNLPz9XhnX3nfOrUy1HI/pagina.html

3 http://www.teatronaturale.it/tracce/italia/3704-mentre-l-olivo-si-coltiva-anche-in-valle-d-aosta-la-puglia-da-il-via-libera-alla-tutela-dei-suoi-alberi-secolari.htm

4 http://www.noaa.gov/media-release/global-coral-bleaching-event-likely-ending%20

5 https://www.unric.org/it/attualita/32229-lorganizzazione-metereologica-mondiale-conferma-che-il-2017-e-uno-dei-tre-anno-piu-caldi-mai-registrati

6 https://www.cnr.it/it/comunicato-stampa/7611/mediterraneo-specchio-dei-cambiamenti-climatici

7 https://www.aims.gov.au/cumulative-impacts

8 http://www.nationalgeographic.it/ambiente/2016/09/06/news/se_gli_oceani_non_ce_la_fanno_piu_-3225172/

9 http://pescesostenibile.wwf.it/hard-facts/

10 https://www.legambiente.it/sites/default/files/docs/dossierprofughi_ambientali.pdf

11 https://it.climate-data.org/location/177950/

12 http://www.repubblica.it/cronaca/2017/06/14/news/non_solo_pizza_ora_il_sud_e_diventato_il_tropico_itlaiano_tra_avocado_e_mango_made_in_italy-168060326/

13 https://www.corrieredellacalabria.it/cronaca/item/39596-maltempo-come-un-bollettino-di-guerra/

14 http://reteambientale.minambiente.it/sites/default/files/Report-GdL-Rete-Vulnerabilita-al-cambiamento-climatico-Regioni-Convergenza.pdf

15 http://www.repubblica.it/2009/03/sezioni/esteri/obama-presidenza-5/obama-alimentazione/obama-alimentazione.html

16/17/18/19 http://m.vatican.va/content/francescomobile/it/encyclicals/documents/papa-francesco_20150524_enciclica-laudato-si.html

20/21/22/23 Amitav Ghosh, “La grande cecità. Il cambiamento climatico e l’impensabile

24 https://wedocs.unep.org/rest/bitstreams/9739/retrieve

25 https://edition.cnn.com/2018/03/23/world/plastic-great-pacific-garbage-patch-intl/index.html

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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(2017) La grande cecità. Il cambiamento climatico e l’impensabile – Neri Pozza

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(2005) Manifesto del Terzo Paesaggio – Quodlibet

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(2004) Canto General – Sugarco Ed.

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(2017) Tutte le poesie – Mondadori

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(2005) Foglie d’erba – Einaudi

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(2008) Il mondo senza di noi – Einaudi

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(2017) L’uomo e il clima – Il Mulino

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(1989) L’anello di Re Salomone – Adelphi

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(2013) Storia globale dell’ambiente – il Mulino

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(2014) La sesta estinzione – Neri Pozza

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(2016) Dark Ecology – Columbia University Press

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(2009) Isole – Adelphi

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(2017) Letteratura e ecologia, Carocci

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(2017) Ingiustizia globale, LUISS

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(2018) Addio ai ghiacci – Bollati Boringhieri

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(2013) Storia culturale del clima – Bollati Boringhieri

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(2016) Environmental Humanities: Voices from the Anthropocene – Rowman & Littlefield

H.P. Lovecraft
(1997) Tutti i racconti (5 volumi) – Mondadori

Papa Francesco
(2015) Laudato Si’ – Editrice Vaticana

Mesa e Di Ruscio: dittico degli insubordinati

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[Questo testo è apparso per la prima volta in Ákusma. Forme della poesia contemporanea, a cura di Andrea Inglese, Salvatore Jemma, Fabrizio Lombardo, Giuliano Mesa, Gian Paolo Renello e Massimo Rizzante, Fossombrone, Metauro 2000, pp. 211-217. Poi su puntocritico2 il 15 settembre 2011.]

di Andrea Inglese

Nel 1997, per Anterem Edizioni (collezione del premio Lorenzo Montano), è uscito Improvviso e dopo (poesie 1992-1995) di Giuliano Mesa. Nel 1999, per la PeQuod di Ancona è uscito Firmum (1953-1999) di Luigi Di Ruscio. Improvviso e dopo costituisce la terza raccolta personale di Mesa, Firmum si presenta invece come un’autoantologia personale di Luigi Di Ruscio. Lascio al lettore il compito di approfondire le ragioni di un tale accostamento. I due autori possiedono voci molto diverse eppure sono accomunati da una rara intransigenza che rende i loro testi pochissimo sensibili alle necessità endoletterarie di posizionamento e visibilità. Lontani da poteri e contropoteri, questi due poeti vanno solitari, tenacemente insubordinati.

Scrivere sul fronte occidentale

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(Nazione Indiana ha compiuto quindici anni a marzo, da allora molte persone e molte cose sono cambiate; testimonianza molto importante, e talvolta emozionante, di questa lunga storia è il suo archivio, del quale abbiamo deciso di ripubblicare alcuni post, che riteniamo significativi. Oggi cominciamo con l’articolo iniziale di uno dei principali fondatori, Antonio Moresco, che da tempo non fa più parte del blog, avendone fondato un altro, Il Primo Amore. La redazione)

Dopo l’attentato dell’11 settembre che ha colpito le “Torri Gemelle” a New York e il Pentagono a Washington, scrittori e uomini di cultura italiani si sono confrontati in un convegno a Milano, il 24 novembre 2001, discutendo su che cosa significa scrivere e operare “in tempo di guerra”.Da quel convegno deriva questo libro, curato da Antonio Moresco e Dario Voltolini, che raccoglie riflessioni, interrogativi, testimonianze presentate a Milano, ma anche scritte dopo quell’incontro (nei sette mesi successivi all’11 settembre).

Sentimi

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di Francesco Staffa

Sentimi, un appello, un’esortazione, un imperativo.

Sentimi è l’invocazione liturgica di un rituale celebrato nel tempo extra-ordinario della notte, in cui le “manifestazioni oniriche” si fanno “vita” perché sono esse stesse vita. È un tempo “che era diverso da quello dell’orologio. Un tempo senza minuti e senza ore, con l’andare e il venire delle epoche una dentro l’altra. Il tempo senza tempo delle storie […] in cui tutto può coincidere e sovrapporsi”. Il tempo del mito e quindi del rito che lo ripropone. Ed è un vero e proprio rito quello che si realizza nel romanzo, dove le anime si raccontano per ricostruire la propria identità, per ottenere il proprio riscatto e rappacificarsi con la collettività di appartenenza. 

Sul mandato sociale degli scrittori

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di Giorgio Mascitelli

La progressiva sparizione delle istituzioni della società letteraria, il trionfo del mercato e la proliferazione delle forme di autopubblicazione in rete hanno messo in crisi il prestigio simbolico dello scrittore ingenerando talvolta una nostalgia per un’epoca in cui gli scrittori avevano un mandato sociale. Tale nostalgia rischia però di essere molto pericolosa non solo perché ogni nostalgia lo è, quando cessa di essere dato privato e diventa categoria culturale aspirante a un’oggettività storica, ma perché la stessa nozione di mandato sociale è un concetto ambiguo e non privo di astuzie metafisiche.

La metafora del mandato sociale degli scrittori è per  sua natura semantica molto ingannevole e sfuggente perché tende a suggerire tramite il termine ‘mandato’ che sia esistita una delega precisa della società o di sue parti al mondo letterario come ‘organo della coscienza universale’ e che questa delega abbia una dimensione istituzionale stabile in termini di ruoli, scopi e durata. Per esempio quando Fortini, parlando della seconda metà dell’Ottocento, scrive che ‘la borghesia non toglie nel complesso agli scrittori il mandato sociale che aveva loro attribuito nei secoli precedenti’ ( Verifica di poteri, Milano,1965 ora 2017, p.123), sintetizza in una formula un fenomeno sociale di complessa decifrazione e tutt’altro che universale così da indurre l’impressione fallace  che si sia effettivamente avuta una delega precisa da qualche parte in qualche momento storico. Questa sintesi proietta nel passato mentalità e idee di una fase storica determinando  una serie di aspettative fuori luogo per il presente, cosa che accade tanto più se si usa questa metafora fuori dal contesto di un’analisi di classe marxista, come quella entro cui opera Fortini.

Ciò di storicamente concreto a cui rimanda questa metafora è una fase ben precisa dell’illuminismo settecentesco in cui un gruppo di autori riesce in effetti a incarnare e a rappresentare bisogni, valori sociali e scelte simboliche della borghesia in ascesa, per cui anche attraverso il dibattito su tematiche prettamente letterarie si discutevano nuovi modelli sociali e si sperimentava la critica del principio d’autorità presso il pubblico. La diffusione dei club letterari in Francia dà una dimensione di massa presso la borghesia al fenomeno e si connette con la nascita di un’opinione pubblica, ma esso è un fenomeno tipicamente francese con qualche propaggine tedesca e italiana, sensibilmente più circoscritte, visto che già in Inghilterra è difficile individuare un movimento analogo. Inoltre sotto il termine letteratura vengono rubricate questioni attinenti all’economia, alla politica, all’igiene, alla storia e alla pubblica amministrazione. Nel romanticismo, specie nei paesi in cui la borghesia non ha ancora preso il controllo dello stato o in cui si pone una questione nazionale, viene postulato sulla scorta dell’episodio francese l’esistenza di un rapporto profondo tra poeta e popolo, ma esso resta tutt’al più una petizione di principio o un’abile ricostruzione ex post, come nel caso italiano in cui sarà al massimo qualche opera lirica del solo Verdi a poter riflettere qualcosa di vagamente simile a un mandato sociale, in questo caso di tipo patriottico. Analogamente nell’Ottocento si possono osservare singoli casi di scrittori che raggiungono una posizione simbolicamente alta più per effetto del loro ruolo pubblico che per le loro opere, come Victor Hugo in quanto oppositore di Napoleone III (e varrà forse la pena di ricordare che la borghesia  francese, di cui Hugo dovrebbe essere il mandatario, nella sua parte maggioritaria è saldamente schierata con l’imperatore e riscoprirà i valori rappresentati da Hugo soltanto all’indomani del disastro militare della guerra franco-prussiana ). Nel Novecento il mandato sociale degli scrittori è legato alla questione del comunismo e si profila quasi sempre come un rapporto, ora di adesione ora di critica, alla politica culturale del partito  perché il comunismo è l’unico movimento politico novecentesco che attribuisce una grande importanza alla letteratura e più in generale alla cultura, sia in positivo sia in negativo, come dimostra la persecuzione di tanti scrittori apolitici da parte delle burocrazie comuniste dei paesi del socialismo reale, che in altri regimi sarebbero stati ignorati o classificati come non pericolosi. Il lavoro degli scrittori per i comunisti è connesso con la lotta per l’egemonia culturale nell’ambito della lotta di classe: qui effettivamente lo scrittore ha un mandato di classe, che talvolta però rischia di confondersi con quello del partito. Finiti i partiti comunisti, tuttavia, è finita anche la possibilità concreta di richiamarsi all’idea stessa di un mandato sociale degli scrittori.

Al di là di questo ambito circoscritto e di quello molto classico di aperta subordinazione al potere politico di una letteratura di propaganda e di celebrazione dell’esistente ( una situazione ormai storica, visto che oggi simili funzioni sono passate alla cinematografia, alle serie televisive e all’estetizzazione dell’informazione), l’unica pratica di istituzionalizzazione di un rapporto con la letteratura, tipica di alcune società moderne democratiche e liberali, è stata la canonizzazione di alcuni singoli scrittori che sono sembrati incarnare determinati valori civili o patriottici. Ciò però è avvenuto in forma episodica e tendenzialmente postuma (peraltro anche il conseguimento del più prestigioso premio letterario internazionale ossia il Nobel non è condizione sufficiente per essere canonizzati come dimostrano le fortune di Nelly Sachs, di Vincente Aleixandre, di Quasimodo e della maggioranza dei premiati). Proprio la natura di questa canonizzazione spiega bene che lo sguardo della società o delle sue classi dirigenti è uno sguardo postumo, che sceglie e coglie a posteriori solo determinati valori simbolici ed eventi, spesso neanche quelli riconosciuti dalla comunità letteraria come i più significativi. Per esempio ciò che nella storia italiana è stato il più chiaro esempio di canonizzazione, la traslazione dall’Inghilterra alla basilica di Santa Croce delle ceneri di Foscolo il 24 giugno 1871, non fu dovuto al fatto che circa sessant’anni prima il poeta si sentì investito della missione di poeta vate della causa nazionale, ma che dopo il XX Settembre occorreva creare un ideale pantheon di ghibellini fuggiaschi per celebrare la natura laica dello stato liberale contro l’opposizione cattolica.

Questa breve carrellata pur nella sua sommarietà evidenzia che il concetto di mandato sociale tende a presentare come stabile e continuo ciò che è transitorio e raro e come regola sociale sistematica particolari operazioni culturali e politiche sulla letteratura o meglio su alcuni singoli autori.  Così perfino un evento meramente interno alla società letteraria come l’inclusione nel canone scolastico di un autore rischia di essere scambiata come il prodotto di tendenze sociali  o storiche oggettive. Nella situazione attuale il ricorso a questa metafora finisce per suggerire l’idea dell’esistenza di una sorta di età dell’oro della letteratura, di solito improvvidamente collocata nel romanticismo (data la abbondanza di fonti disponibili che smentiscono questa credenza), in cui la società pendeva dalle labbra dei poeti. Tale mito dell’età dell’oro finisce con il favorire due atteggiamenti opposti, ma complementari: da un lato la ricerca della visibilità mediatica come succedaneo del mandato sociale che non c’è più, dall’altro una sorta di nichilismo apocalittico in cui nulla conta più e tutto è amaro e fango nel mondo.

Da questo punto di vista, l’istanza tipica delle avanguardie di superamento dei confini tra arte e vita rivela un’analisi ben più realistica dello statuto effettivo della letteratura nella società. La lotta per il superamento della barriera riflette la consapevolezza, per quanto spesso in forma megalomane e soggettivistica, che nella società capitalistica ogni forma di legittimazione per tutta l’arte è precaria. In questo senso i più coerenti saranno i situazionisti, che, portando il discorso alle sue estreme conseguenze, propugneranno il superamento dell’arte verso la politica. Naturalmente per formulare un programma del genere bisogna avere una concezione unilaterale dell’arte come se fosse significativo solo il suo polo progettuale e utopico e non anche quello sensuale, immediato e quotidiano, per così dire; ma la sconfitta dell’avanguardia sia nella forma della sua istituzionalizzazione sia in quella politica, come i situazionisti nel maggio parigino, ha comportato  la perdita della consapevolezza dello statuto precario dell’arte.

Nella situazione attuale la trasformazione più significativa è il lento ma progressivo imporsi di un’estetica del profitto in opposizione al canone dell’originalità di origine romantica, che domina ancora largamente nel Novecento. Con questo termine non indico il fatto che la grande editoria privilegi il successo commerciale rispetto ai valori culturali perché ciò è sempre accaduto da quando è nata l’editoria moderna ( il che non ha impedito che talvolta venissero pubblicati testi scelti per il loro pregio letterario né lo impedirà nel futuro), ma la crescente convinzione, assolutamente spontanea presso il pubblico e presso molti addetti ai lavori,  che il successo di mercato di un’opera ne rifletta il valore estetico. Quanto all’effetto di appiattimento e banalizzazione prodotto dalla rete, dove chiunque può immettere i propri testi indipendentemente dal loro valore, esso può assumere un significato così drammatico per molti autori, in particolare poeti, solo in ragione del tramonto del canone dell’originalità, avvenuto non certo a causa di internet.

Così oggi, se dovesse esistere un mandato sociale verso gli scrittori, sarebbe quello di cercare il successo di vendita in ogni modo. Naturalmente, però, non esiste nessun mandato sociale, non solo per la sua natura storicamente mitica, ma perché nell’ideologia dominante attuale, come è noto, non esiste nessuna società, ma solo individui che compiono libere scelte sulla base di una razionale aspettativa di successo. Insomma, riassorbita l’esperienza delle avanguardie e sconfitto il comunismo, non c’è nessuno spazio per una validazione sociale dell’attività di scrittura, ma c’è solo il riconoscimento tributato al successo commerciale di singoli individui e di singoli libri.

Questa prospettiva per la letteratura in sé, per quanto poco esaltante, non è che la prosecuzione di una tendenza già presente nella modernità,  come dimostra la considerazione di Paul Valery ( morto nel 1945) che il problema di ogni libro innovativo è  quello di costruirsi il suo pubblico senza potersi avvalere di circuiti di ricezione predeterminati. Naturalmente il nostro tempo porta dei fattori negativi specifici quali l’accelerazione dei tempi di vita, che rende più labile l’esperienza della lettura, oppure il processo di subordinazione della scuola alle esigenze del mercato, che avrà come effetti collaterali un abbassamento del livello culturale che si ripercuoterà sulla pratica della lettura. Forse potranno esserci perfino difficoltà nella circolazione dei testi rispetto ad altre fasi della modernità, ma anche queste non insormontabili in una società ipertecnologica come la nostra. Insomma gli scrittori senza mandato dovranno cercare nuove forma di organizzazione culturale.

Per tutto il resto, bisogna rassegnarsi all’idea che la scrittura letteraria sia un’attività senza garanzie come lo è sempre stata e quel passato che sembra indicarci un percorso lineare e chiaro è soltanto l’illusione prospettica di un occhio troppo angosciato dal futuro.

 

 

Dialogo su “Le buone maniere” di Marco Simonelli

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di Gianluca Garrapa

 

Una recensione-intervista a Marco Simonelli sul suo nuovo libro, Le buone maniere, edito da Valigie Rosse, 2018.

(In corsivo, alcune poesie dell’autore tratte dalla raccolta.)

 

DALLA FINESTRA

 

Sul fornello la pentola che bolle,

le una meno cinque all’orologio.

Piegare e stirare versi: il blues di Eugenio Lucrezi e la disciplina del bucato

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di Giulia Niccolai

La nuova raccolta di poesie di Eugenio Lucrezi, edita da Nottetempo, ha titolo Bamboo Blues, in omaggio alla grande Pina Bausch e  al suo omonimo spettacolo. Così, come in una sezione del volume  – una serie di testi dedicati tutti a quei personaggi che, con la loro bravura e la loro arte, hanno profondamente emozionato l’autore – vi è una poesia dallo stesso titolo, con dedica  “a Pina Bausch, in mortem”.  Due versi di chiusura ci lasciano meravigliati e grati: sanno rivelarci, in pura semplicità, l’essenza della sua magia: «…a Pina in un istante, / e sei tutta abbraccio intorno al nulla, concentrata.»

Ma Bamboo Blues, per il piacere uditivo dell’assonanza, è anche il doveroso segnale del fatto che, amando Eugenio le parole del quotidiano e il come finiscano con l’intrecciarsi, combinarsi e giocare tra loro, anche visivamente assurte a materia, (non solo suono e fiato), esse abbiano, per lui, qualcosa di meravigliosamente trasparente, luccicante e guizzante come biglie che si inseguono dentro e fuori  le gallerie di un castello di sabbia: «… il sospirato bip del tuo segnale / sanbernardo cordiale» (L’arte della conversazione); «Pensiero, non posso / esimermi dal pensarti» (Pomaia, in Dittico toscano del vuoto); «Sei nata numerosa / nessuna delle dita si riposa» (Illustrando la Divina Commedia); mentre «un gran soffione d’aria nel vestito» ci fa vedere un Angelo del Pontormo. Due versi, in un testo di infinita ammirazione per Maria Callas e la sua voce intitolato Giardino (M. C.), sono, come quelli dedicati a Pina Bausch, assolutamente magistrali: «Voce della corrente, pieghi e stiri / la disciplina nei pozzi della mente». Così, per contrasto (?), quando ho letto Parola cuscino, quale titolo di una sua poesia, e in conseguenza di ciò, mi è capitato di vedere subito, nell’occhio della mente, l’immagine di un bambino che abbraccia con amore il proprio orsacchiotto, mi sono sentita in dovere di scrivergli che doveva essere uno degli uomini più felici della terra, dato che provava una tale gratitudine per il suono e la morbidezza di un oggetto al quale nessuno pensa mai, perché lo diamo tutti per scontato. Ha avuto la faccia tosta di rifiutarsi di ammettere la propria felicità!

Eppure, secondo me, solo una persona aperta, e ripeto, tanto  a p e r t a alla vita, da sapersi ancora meravigliare, a sessanta e passa anni, per la parola “cuscino”, può riuscire a scrivere “pieghi e stiri la disciplina…” a proposito della Callas. Per quanto mi concerne, se io poi faccio l’esempio del cuscino, in relazione al “pieghi e stiri la disciplina” e aggiungo: “si tratta sempre di bucato”… questo mio umorismo vuole solo “abbracciarli” entrambi, con gratitudine e complicità. Nei confronti della poesia di Eugenio, della vita stessa. Perché la vita è proprio “quella cosa lì…”.

Così, a proposito del suo rifiuto di venire da me definito “felice”, mi sono vendicata, scrivendogli, che l’illustrazione più corretta per la sua raccolta sarebbe stata il logo delle edizioni Nottetempo, quel signore sdraiato per terra, scalzo, con un Borsalino in testa, che fa pensare agli anni Cinquanta e a Cary Grant in Costa Azzurra, tanto è  sicuro di sé. Ecco, da vecchi (lo sono, 83), si può avere, a volte,  l’impressione di portarsi dentro un carico eccessivo di memoria, conoscenze, immagini ecc., una sorta di Big Mac di storia, mitologia, film, libri ecc. che, in certi momenti di scrittura e concentrazione, si fanno tutti vivi, per farsi avanti e macchiarti la camicia.

Lui, invece, zitto, anche ‘sta volta.

Poi, c’è anche da tener presente il ritmo di certi suoi versi, la  prorompente energia, come in Dietrofront, dove tutti i termini della parte centrale del testo, privi di articoli, ci fanno accelerare la lettura fin quando, arrivati alla fine della poesia, dobbiamo ricominciare tutto da capo, compitando, per poter anche capire. Questo, per spiegare l’abilità della sua tecnica, perché ovviamente, il contenuto stesso del poemetto esige proprio questo da noi: un galoppo sfrenato che ci costringa poi a tornare sui nostri passi.

I trabocchetti che Eugenio semina in continuazione danno rigore ai suoi testi “lirici” che non sono mai consolatori, piuttosto ci costringono a meditare.   Un suo verso della poesia intitolata Paradiso mi ha fatto capire per la prima volta che ci sono le “mani”  nella parola “anima”.

Vorrei citare, in chiusura, due blocchetti di versi dal poemetto Gran Paradiso, dalla Mole Antonelliana (beh, sì, pensa anche in grande), per avere l’ultima parola a proposito della sua personale felicità e della sua capacità di trasmetterla ad altri: «…del bacio che ci demmo come tanti / in un chiostro d’aprile in mezzo ai teschi». Proprio questo tipo di contrasti (nonché il suono di chiostro/teschi), rendono vivissimo il testo e felice il lettore, costretto a ridere, a essere grato all’autore, perché appunto l’antitesi è l’essenza e la beffa della vita che noi tutti conosciamo.

Dopodiché: «… qualche cosa / trova forte radice, ed una mano/ fa presa sulla roccia. Docilmente/ seguo i chiodi e le funi». Ah, la bellezza di quel “Docilmente”!

 


Poesie da Bamboo Blues

a Pina Bausch, in mortem

 

Bamboo Blues

Non credo a quel che vedo, la fotografia

scattata quasi a caso, di pomeriggio,

a te che prendi il vento negli ariosi

capelli, e ad Agropoli muovi un impercettibile

passo di danza, torcendo

appena un poco il busto mentre alzi

le braccia all’altezza del viso che si profila

di spalle nel cielo caricato

di sole e di calante azzurrità commossa

e respirante fiati e fiati di vite

diffuse e riposanti nei filacci

d’estate, ad occhi chiusi a fresco,

in memoria del mare,

con le ascelle che bevono luce

moderata alla fine, che accoglie

la grazia del tuo passo, e di tuo figlio

che ti guarda da presso,

dice l’amore incredulo che piangi

a Pina in un istante, e sei tutta

abbraccio intorno al nulla, concentrata.

 

L’arte della conversazione

E sì che l’arte della conversazione

mi vede sempre in bilico su lame

taglienti e scivolose dalle quali

precipite soccombe l’asserzione

nelle valanghe del non so dove.

 

Tramortito, rinasco se ritrovo

a fondo valle, nelle morene,

il sospirato bip del tuo segnale,

sanbernardo cordiale; e se considero

l’inservibile arnese della voce.

 

 

Pomaia

Arti nel sonno,

punti di rosso

pungono il bianco

come chele di granchio.

Punto su punto

tesse rime.

Pensiero, non posso

esimermi dal pensarti.

 

 

Illustrando la Divina Commedia                                                                          

Il tuo pregio consiste

− parlo di te che pitti, mulier faber,

nell’aprire una luce al suo destino.

 

L’apparenza persiste, la sai fare

cattura inveterata della retina.

 

Trama miracolosa

che raccatta, dimentica, rispolvera,

l’epifania di care cose morte.

 

Sei nata numerosa,

nessuna delle dita si riposa.

 

Amo da pesca, lenza

che lanci con perizia al pesce-cuore

 

Smarrimento perenne,

ricorri al fissativo se ristretta

in lacrima trabocchi

dal marmo raggelato di acquasanta.

 

 

Angelo del Pontormo

Nube. Nubesco. Potenza delle ali.

Testa rivolta ai venti della volta.

Un gran soffione d’aria nel vestito.

Sono nube di guerra. Non sorrido.

Vento che ti schiaffeggia. Non mi vedi.

Arrivo nel gran peso delle ossa.

Non c’è buco che tenga la caduta.

Angelo dell’intonaco, sono orma

della grazia sul ponte, sono inchino

di veleggi rigonfi al paradiso

chiuso nella navata.

 

 

Nel giardino ( Maria Callas )

E dunque non era questo possibile,

che durasse nell’aria l’espressivo

ricorso delle onde che ci tengono

in contatto a distanza, e in qualche caso

ci spingono, nonostante noi stessi,

nel non creduto giardino dove suonano,

se ti conservi attenta, quanti

di grazia che si spende in levità

e in moto di accoglienza, e pure suonano

infinitesime particelle tristi,

fuori frequenza, che per tanto stonano

impercettibilmente, rincorrendo,

con aria d’immanenza, l’immortale

morte, qui nell’adesso insopportabile

che gioca di posticipo un delay

che non finisce mai.

E’ inutile perciò cercare le ragioni

tra i fogli degli appunti, o nel respiro

costellato di spume dell’Egeo.

Si tratta di ridare fiato al vento,

gli studi e le fatiche alla navale

prora elegante, proprio mentre affonda.

Tu non ti eserciti, dopo che hai provato

a stare dalla parte delle scale.

C’è un loggione che freme, che si chiede

dove ti affondi quando te ne vai.

Voce nella corrente, pieghi e stiri

la disciplina nei pozzi della mente.

Smetti e subito parli del silenzio,

ne parli quieta, come fosse niente

deporre l’ardimento nella terra,

l’aria delle frequenze nel giardino.

 

 

Parola cuscino

Non c’è sussurro, il fiato
si libra liberando nessun suono,
s’inanella voluta su voluta,
ad astra sale su fino al soffitto.

Accanto è lontanissimo, se vuoi
starmi molto vicino.
Gli occhi di chi, che siano aperti o chiusi,
sconfinando si superano?

Notti così, è pieno l’Universo.
Tienimi sul cuscino, non disperdere
i fondali stellati, non cadere,
in preda alla vertigine, oltre il bordo

nebulare del letto.

 

 

Dietrofron

Può darsi che l’esattezza

dei versi, che molti degli scivoli

ben oliati che rapide consegnano

le parole all’opaco

sentore dell’eterno,

in una valle di suoni e vividezze,

mentre ripetono magnetici indistinti

clamori ripetenti, misti di

voci viventi e sogni mal finiti

dai passati remoti,

tutto ciò che si leviga può prendersi

vacanze inusitate, e consegnare

brevi volumi al giorno che riprende

la breve luce e la voce solista

di un evento caduco, rigirando

il carro sui binari, e riportando

l’infinito al finito, e l’eufonia

raggelata del senso al batticuore.

 

 

Paradiso

Il gran ristoro di cui parli, vuoi,

senza che veda il vento lanciasassi

di ghiaccio, punteruoli che trapassano

angeli inconsistenti che trattengono

bave di carne, se la neve sfrangia

bandiere di nazione paradiso.

Desolazione di cui parli, vuoi,

in questa notte di buio abbagliante.

Inizia la visione dove cessa,

per eccesso ipotermico di luce,

la febbre figurale del racconto.

Non sai che farne, sconfino dello sguardo.

Sai che non puoi tentare una ventura

con animo di volpe che leggera

lascia sul manto passi inapparenti.

Fuggono ad una ad una, le figure,

anche quelle viziate dalla luce

in una posa illogica, di affanno.

Anima su due zampe che saltella,

t’inoltri, bianca lepre senza manto,

sulle coltri sottili.

In fondo, dove

non c’è niente da fingere, ti aspetta,

mite, la dedizione ad una carne

di quelle che non mangi per rifiuto

di chi non ti appartiene, e che non vuoi.

 

Gran Paradiso, dalla Mole Antonelliana

Così fa bellavista dell’eterno

lo scorcio appena schiuso, ridente,

della tua chiostra dentaria, bianca

come velo di suore, e tuttavia

afflitta da appuntamenti mancati,

per fretta e distrazione, col dentista,

e pure con la gioia inusitata

del bacio che ci demmo, come tanti,

in un chiostro d’aprile, in mezzo ai teschi.

La vista è reversibile, ambidestra,

siamo inabili e lievi, mentre il velo

dell’apparenza s’inerpica.

Non so quando, se ieri,

se alla fine dei tempi, se forse

nel freddo siderale. Qualche cosa

trova forte radice, ed una mano

fa presa sulla roccia. Docilmente

seguo i chiodi, e le funi.

 


Eugenio Lucrezi, Bamboo Blues, Nottetempo, Milano, pp.96, € 10.

Les nouveaux réalistes: Luigi Calafiori

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Lettera 22

di

Luigi Calafiori

 

Ti vedo, che sei distante. Ogni tanto volto lo sguardo verso di te, con la scusa di aver visto una formica che continua a muoversi sull’uscio di casa tua, come a rincorrere l’unico riflesso di sole che si rifrange sul ballatoio. Alla terza volta, ho smesso anche di giustificarmi. Alla quinta, di nascondermi. Passo un’interminabile serie di minuti a guardarti, senza avere paura che tu possa scoprirmi, perché tanto lo sai benissimo che lo faccio. E lo vedo, che ti piace.

Lo vedo perché hai la mascella tutta in avanti, che copre la mandibola, a rivelare la tua natura di primate. Ma se è vero che l’amore è un sentimento primitivo, il tuo è un gesto primitivo. E ci ritroviamo, insieme, a sostenere questo gioco che però non va oltre il contatto, e rimane come increspato sulla superficie di tutti momenti che trascorriamo insieme.

Quello che immagino di noi è solo il riflesso dei miei desideri che svanisce, nel momento in cui tu poi non mi parli. Leggo nei tuoi occhi che non te ne frega proprio niente di me. Soprattutto adesso.

Allora, cerco di distrarmi, e penso a tutte le tipologie di protesi parziali rimovibili. Mi viene in mente il caso di Marianna – nome di cortesia – che ha avuto delle complicanze, dopo che le hanno tolto una ciste radicolare. Chissà qual è la storia dei tuoi denti. Mi piacerebbe scoprirla.

Appena ti guardo, però, penso solo che vorrei arrivare a scalfirti lo smalto, e devo ammettere che mi piace l’idea che possa lasciare qualcosa di me nella tua bocca. Esattamente come tu fai con la mia, tutte le volte che volevo baciarti e non ho potuto. Tutte le volte che avrei voluto conoscerti, e mi hai mandato via.

Abbiamo festeggiato tre anniversari, da quando hai traslocato nell’appartamento affianco al mio.

Il 7 aprile di ogni anno, ci ritroviamo l’uno vicino all’altro, sul ballatoio dove ci siamo conosciuti.

Ricordo ancora il giorno in cui sei arrivato. Mi hai chiesto una mano per trasportare il resto della roba che avevi in macchina. La sera, per ringraziarmi, mi hai invitato a bere un calice di vino a casa tua. Abbiamo parlato delle nostre vite. Mi hai raccontato della tua passione per la scrittura, mi hai fatto leggere i tuoi racconti. E io ti sono stato ad ascoltare, per ore.

Poi mi hai mostrato la tua macchina da scrivere, una Lettera 22 prima edizione. Apparteneva a mio padre, mi hai detto. È stato uno dei designer che l’hanno progettata. La stai conservando per un’occasione importante. Non ti serve a scrivere i racconti, per quelli c’è il computer. Mi hai detto che l’avresti usata, per la prima volta, se mai avessi incontrato una persona a cui dedicare le tue parole.

Quella sera l’abbiamo passata a riderci nelle bocche. A vicenda. Le tue braccia s’incrociavano ripetutamente sulle tue gambe. Immaginai che stessi cercando di nascondere l’erezione sotto i pantaloni, e il desiderio che la mia mano svelasse la tua voglia di avermi.

Mi piaceva il tuo pudore nel cercarmi. Quando mi beccavi a guardarti, non riuscivi più a continuare i tuoi monologhi, e ti fermavi. Con una scusa cercavi di farmi guardare da un’altra parte – io lo capivo e ti assecondavo. Tutte le volte.

Quando ci siamo salutati, quella sera, mi hai detto che non avresti mai immaginato un benvenuto migliore. Ti avevano detto che Torino era una città fredda, ma io ti avevo dato prova del contrario. Ero stato gentile con te. Forse volevi portarmi a letto, ma non ho voluto. Ho avuto paura che fosse come su Grindr. Scambiamo qualche messaggio in chat, impariamo a conoscere l’uno le lenzuola dell’altro e ci salutiamo con una debole stretta di mano e un caffè amaro, bevuto d’un colpo e per cortesia.

Invece, c’è voluto del tempo prima che mi fidassi di te. Dovevo studiarti, come si fa con le cose complesse.

Un anno dopo il nostro primo incontro, ti ho detto che avevo capito dei tuoi sentimenti da come articolavi il tuo silenzio. A riposo, i tuoi canini inferiori scorrevano in avanti andando a toccare quelli superiori. Mi hai detto che stavi passando un brutto periodo, che non riuscivi a capirci più niente. E quando ti ho chiesto di definirmi questo niente che ti preoccupava, non sei riuscito a trovare le parole. Ma come fai a scrivere senza parole? Ti ho chiesto.

Tu mi hai mandato via da casa, e non hai più parlato con me.

Quando ti salutavo sulla tromba delle scale, non rispondevi neanche ai miei sguardi. Hai comprato uno stendibiancheria su Amazon pur di non incrociarmi sul ballatoio – ho visto il corriere che ti consegnava il pacco, dalla finestra della mia camera da letto.

Una volta ti son cadute le chiavi di casa dalla tasca dei jeans. Ti ho chiamato perché volevo restituirtele, ma hai fatto finta di non sentirmi. Avevi bisogno di allontanarti da me.

Per questo, quando l’altro giorno mi hai rivolto la parola, non potevo crederci. Ho pensato che finalmente avessi ritrovato il coraggio, che è una cosa che entrambi abbiamo perso da tempo, forse non abbiamo mai avuto.

Mi hai guardato di sfuggita e mi hai detto: ciao Achille, ho trovato lavoro a Siena, domani trasloco, stasera vieni da me? Volevo risponderti di no, ma mi sono ritrovato con la faccia sotto al tuo cuscino, perché a te non piace che qualcuno ti guardi.

Subito dopo, mi hai offerto un caffè. E abbiamo iniziato a scrivere su un foglio di carta una lista interminabile dei coraggi-di.

Il-coraggio-di-partire.

Il-coraggio-di-non-pulire-la-scatoletta-del-tonno-prima-di-gettarla-nella-spazzatura.

Il-coraggio-di-rifiutare-un-voto-basso-all’-Università.

Il-coraggio-di-litigare-col-proprio-migliore-amico.

Il-coraggio-di-non-usare-google-maps-quando-si-deve-raggiungere-un-posto-che-non-si-conosce.

Il-coraggio-di-comprare-dell’-erba-dal-nero-sotto-casa.

Il-coraggio-di-dire-ai-tuoi-genitori-che-hai-sbagliato-corso-di-studi.

Il-coraggio-di-avere-un-lavoro.

Il-coraggio-di-andare-con-uno-sconosciuto.

Il-coraggio-di-lasciare-tutto-e-andare-via.

Ma quando ti ho detto che volevo inserire il-coraggio-di-restare, hai sbuffato e mi hai detto che è una debolezza. Allora io ti ho chiesto come fosse possibile che un semplice medico e futuro dentista fosse interessato all’amore più di un aspirante scrittore.

Tu mi hai risposto che oggi l’amore non interessa più a nessuno, perché nessuno ha più voglia di approfondire un caffè preso al volo e di fretta. E c’è chi, come gli inglesi e i tedeschi, neanche lo beve il caffè. Noi italiani siamo un po’ nostalgici, invece, ma le cose stanno cambiando. Anche per noi. E io, per un attimo, ho capito questa cosa delle emozioni forti e amare che si bruciano subito.

Mentre ti scrivo questa lettera, e tu non lo sai, continuo a guardare la linea del tuo sorriso, che corre parallela al labbro superiore.

Allora, prendo la penna e aggiungo un altro elemento alla lista che abbiamo scritto durante la notte.

Il-coraggio-di-dirti-le-cose-che-non-mi-piacciono-di-te.

Tu leggi e mi sorridi. Finalmente, mi mostri i tuoi denti, di nuovo. Non mi piace come sorridi, ti dico. Allora prendi la custodia della tua Lettera 22 e la metti sul tavolo: Te la regalo. Serve più a te che a me, mi dici.

E non mi piace il movimento che fai, quando ti pieghi a raccogliere la spazzatura, facendo attenzione a non confondere la busta della plastica con l’indifferenziata. Non mi piace come riponi i tuoi vestiti nella valigia che stai riempiendo. Le maglie prima dei pantaloni, inserite in verticale e non in orizzontale, per occupare meno spazio. Non mi piace come ti lavi i capelli, sotto la doccia, svuotando mezzo tubetto di Shampoo per lasciarli lisci e profumati. Non mi piace il panino che ti sei preparato, la mortadella è tutta colesterolo.

Ancora, non mi piace l’eccessiva premura che hai nel controllare, ogni volta, se hai chiuso bene la porta di casa. Non mi piace la precisione esatta con cui misuri i tuoi movimenti – il numero di passi che fai, sempre gli stessi, cinquantatré, dal nostro ballatoio fino al portone del palazzo. Dieci in meno, rispetto ai miei. Ma son quelli che ci metto io per arrivare a casa tua.

Non mi piace come non mi guardi mentre te ne vai. E proprio non mi piace che te ne vai.

Mentre concludo questa lettera, tu non ci sei già più. Non mi hai neanche dato la possibilità di chiederti se volevi un altro caffè prima di partire.

Ogni tanto volto lo sguardo verso l’uscio della porta, con la scusa di controllare se la formica di prima ci sia ancora. Si muove avanti e indietro, sempre a rincorrere quell’unico bagliore di luce che si rifrange sul ballatoio. Forse, anche lei sta inseguendo chissà quali desideri. Forse anche lei non ha più il coraggio di restare.

 

 

 

 

 

Perdersi a Teheran

1

 

di Gianni Biondillo

Quando dico che voglio farmela a piedi vedo Kamran impallidire. Siamo alla fiera internazionale del libro di Teheran, seduti uno affianco all’altro. Il paese ospite del 2017 è l’Italia. Sono qui insomma nella mia forma anfibia di scrittore e architetto a parlare della mia città, Milano. Kamran è un architetto dai modi gentili e dall’italiano impeccabile. Mi ci sto abituando. La gentilezza sembra una caratteristica innata negli iraniani. Ovunque sia stato in queste terre ho ricevuto un’accoglienza festosa ai limiti dell’imbarazzo. Il concetto della sacralità dell’ospite qui è incarnato nella sua forma più pura. Ho girato a Shiraz, Yadz, Esfahan, assieme a Guido Scarabottolo e Marco Belpoliti. Non c’era volta che qualcuno ci fermasse, volesse chiacchierare con noi, oppure volesse offrirci qualcosa da bere o da mangiare. I pregiudizi occidentali si frantumano appena si mette piede in Iran. Sembra impossibile farci una guerra con questo popolo. Ripenso a quando raccontai all’amico col passaporto statunitense che sarei andato in Iran. Sgranò gli occhi, terrorizzato. Stavo andando nel cuore dell’impero del male, a suo dire.

Sono due i modi che ho di capire una città, spiego ai presenti. Una è girarci in metropolitana. La rete della mobilità pubblica racconta molte cose dell’economia, la vivibilità, l’urbanistica di una metropoli. A Teheran la metropolitana è arrivata tardi, meno di venti anni fa. Una città di queste dimensioni avrebbe bisogno del doppio delle linee realizzate. I vagoni sono sempre pieni di gente, le distanze da coprire impressionanti. Nei primi giorni mi sono mosso così, uscendo dalla pancia della città puntualmente là dove occorreva. Sopratutto in centro, anche se parlare di centro è una piccola forzatura. Teheran è capitale da soli due secoli. I suoi monumenti insigni sono rari e relativamente moderni, rispetto la millenaria storia di queste terre. Da buon turista ho visitato il Palazzo Golenstan, il museo nazionale, persino le residenze dello Scià, costruite con quel gusto nobiliare e “occidentalista” al limite fra il sublime e il kitsch. Molto più interessante il Bazar. Smisurato, eppure ordinato, efficiente, come sono gli iraniani. Nulla a che vedere con i suk del Cairo o del resto del mondo arabo, affascinanti e caotici.

D’altronde gli abitanti di Teheran non sono arabi. Sembra una banalità ribadirlo, ma per chi ha una visione monodimensionale del mondo, l’Iran è una continua messa alla prova dei propri pregiudizi. Quando scendi dall’aeroplano le scritte in arabo ti ingannano. Poi appena li senti parlare capisci che la loro lingua non ha nulla a che vedere con le lingue semite. Sai che sono musulmani, ma da buon occidentale ignorante, non distingui la differenza che c’è fra sunniti – il resto del mondo – e sciiti. Loro. Che, alla fin fine, sono persiani. È quello che mi dicono di continuo. Veniamo da lontano, abbiamo migliaia di anni di storia sulle spalle. Siamo un popolo di costruttori, di architetti. E di ingegneri, aggiungo. La più alta presenza di laureati in ingegneria procapite al mondo, dopo la Cina.

Un popolo colto. E vanesio. L’obbligo del velo, per dire, ha infinite declinazioni in città. Ognuna di queste esprime una posizione politica, culturale, generazionale. Dal classico chador nero, conservatore e passatista, agli infiniti e coloratissimi foulard che, di ragazza in ragazza, scoprono sempre più il capo e la nuca, mostrando acconciature e make up impeccabili. E nasi rifatti. L’Iran è il paradiso della rinoplastica. L’esibizione dei cerotti al naso postoperatori è costante. Sia da parte delle donne che degli uomini.

Insomma, la Teheran postrivoluzione, cupa e in bianco e nero raccontata magistralmente da Marjane Satrapi è molto differente da questa swinging Teheran, fatta di locali notturni, ristoranti, gallerie d’arte, feste private, cantanti di strada. I ritratti dei martiri che tempestano i muri della città sembrano non fare colpo sui suoi giovani abitanti. L’età media degli iraniani è 27 anni. La maggior parte della popolazione non ha vissuto gli anni bui e strazianti della guerra contro l’Iraq. Sembrano tutti affamati di vita, di novità, di leggerezza.

A piedi, ribadisco. Kamran scuote il capo. “Credo sia impossibile attraversare Teheran a piedi” mi dice, infine, quasi scusandosi per avermi contraddetto. In realtà ha ragione lui. Non ho molto tempo per visitare tutte le architetture contemporanee che sono state costruite in questi anni. Il dopoguerra ha fatto esplodere il settore edilizio, dando l’opportunità ai giovani talenti di sperimentare forme, spazi, materiali. Un’intera generazione di architetti che ha studiato in Europa, in America, in Giappone, che naviga su internet, che studia e che ora costruisce senza complessi d’inferiorità o timori provincialistici. Sono i progettisti di una nuova borghesia, ricca e colta, antipauperista. Gaudente. Teheran ha dimensioni spaventose. Otto milioni di abitanti che raddoppiano contando l’area metropolitana. Quasi ottocento chilometri quadrati di edifici che premono dall’altopiano sulle pendici dei monti Elburz. Le distanze e le differenze altimentriche da sud a nord della metropoli sono tali che potrebbe nevicare in una parte della città mentre nell’altra splendere il sole. Ci vorrebbe una macchina per poter visitare le ville borghesi, i grattacieli residenziali, i complessi sportivi, gli alberghi, gli spazi espositivi che stanno facendo Teheran una capitale dell’architettura contemporanea in Asia (e non solo).

Ma io la macchina non ce l’ho. E neppure la patente. E poi l’altro metodo, spiego ai pochi rimasti ad ascoltarci, è proprio quello di camminare. Solo così capisco com’è fatta una metropoli. Comprendo il suo livello di sostenibilità e di sviluppo potenziale. Una città non è fatta solo di monumenti. Una città non è un poema, e semmai un romanzo, pieno di pagine di prosa farraginosa, pesante, compilativa. Il mood di una città non lo fa la singola emergenza ma l’anonimo tessuto connettivo.

La mattina appresso mi muovo di buon’ora. Mi lascio alle spalle il khaniano Museo d’arte contemporanea di Kamran Diba (bello e con una collezione che toglie il fiato) e mi inoltro nel parco Laleh, una delle poche emergenze verdi in una metropoli soffocata dal traffico e dal cemento. E pensare che “paradiso” è una parola persiana che significa “giardino”. Per quello che fu un popolo di abitanti del deserto un giardino è il paradiso in terra. Il mio errore è che mi immetto subito dopo nell’arteria di Doctor Fatemi street. Qui il traffico è senza posa. Tutta Teheran è una griglia di strade a più corsie, una rete che intrappola le macchine, piuttosto che farle scorrere. Anche solo pensare di attraversare la strada è un atto di fede. Nessuno si ferma, occorre gettarsi nel fiume di lamiere augurandoci di sopravvivere ogni volta. L’aria è sporca di polveri sottili e smog. Neppure a Città del Messico ho avuto questa sensazione di soffocamento. Tutti si muovono in automobile. Tutti. I ragazzi che mi hanno accompagnato in questi giorni mi hanno confessato, candidi, di non aver mai preso la metropolitana in vita loro. L’automobile è il mezzo di espressione più evidente della loro emancipazione di classe. Fra una generazione la rinoplastica verrà sostituita dalla pneumatologia nei loro studi universitari. In fondo alla strada vedo emergere l’affasciante mole del ministero degli interni, variazione iraniana di un brutalismo d’altri tempi. Io però preferisco infilarmi in una strada secondaria. Evito il traffico, muovendomi in isolati più compatti, lasciandomi andare alla deriva, con l’unica regola di evitare le grandi arterie.

Da qui in poi, muovendomi generalmente verso nord est, mi perdo in una architettura minore, a metà fra residui di eredità razionalista, speculazione di bassa qualità e nuovo edificato che tenta di imitare improbabili stili internazionali, vernacolari, pseudo-classici, para-decò. Un desiderio di rinnovamento caotico, spurio, spesso solo di facciata. Trash. Tipico, a pensarci, di ogni metropoli contemporanea. Non esiste un progetto di arredo urbano coerente, ogni edificio privato rifà il suo pezzo di marciapiede, chi in pietra, chi in mattoni, chi in cemento. Cammino così in un incongruente spazio pubblico, residuale per i suoi abitanti, che lo vivono con indifferenza. Attraverso le strade a otto corsie grazie a cavalcavia pedonali che mi permettono una visione dall’alto del traffico, poi mi ributto nel chiuso dei quartieri residenziali. Così, per chilometri.

La densità dell’incasato è impressionante. Teheran ha cambiato faccia più e più volte, in un’orgia edificatoria senza regole. La devastazione del terremoto del 1990 a qualche centinaio di chilometri dalla capitale – oltre 40 mila morti – sembra non abbia lasciato memoria. A detta di molti sismologi iraniani la verità è che si dovrebbe spostare la capitale da qualche altra parte. Il prossimo movimento tellurico potrebbe radere al suolo buona parte della città, causando un numero di vittime di gran lunga più esorbitante. Giunto al Saiei Park faccio una pausa. Osservo i grattacieli in vetro e acciaio di Valiasr Street, così prevedibili nel loro linguaggio internazionalista. Come puoi far transumare quindici milioni di persone?, penso. È chiaro che il primo dei problemi è adeguare l’intero edificato – non solo quello di nuova fattura – a norme più severe. Sarebbe uno sforzo economico enorme, chiaro. Ma alla distanza il più redditizio.

La camminata si fa faticosa, andare verso nord significa cambiare di quota. Svincoli e hight way urbane consumano ogni possibile spazio pubblico. La profezia di Kamran sembra realizzarsi. Poi finalmente arrivo al Ports park. Gente, ovunque. Che passeggia, staziona, si sdraia sui prati, mangia qualcosa. Fra la voragine creata dalla Modares hightway, che la divide dal Taleghani park, svetta il nuovo simbolo di Teheran, il Tabiaat bridge. Tutte le persone che lo frequentano, e sono migliaia, sembrano smentire ogni funesta profezia. Il ponte è per tutti un punto di sosta, di scambio simbolico, di incontro fra una sponda e l’altra, sotto un fiume caotico di macchine. Un luogo da vivere, proprio come m’era capitato di osservare a Esfahan, dove i ponti storici sul fiume Zaiandè vengono utilizzati come piazze urbane dove discutere, cantare, camminare mano nella mano. Non è vero che a Teheran ci si possa muovere solo in macchina. I suoi abitanti, anzi, vorrebbero tornare a vivere e occupare lo spazio pubblico. E in un mondo dove si costruiscono sempre più muri, l’idea di un ponte come simbolo di una città non può che essere una buona notizia.

(pubblicato in forma più breve su Abitare, numero 569, novembre 2017. Le pessime foto fatte col cellulare scrauso sono mie)

 

Cometa

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di Gabriele Merlini

  1. Non lavorare.
  2. Non aspettare.
  3. Non invecchiare.

Questi «i tre comandamenti dell’ebrezza» in cui ci imbattiamo a circa un decimo della lettura: fidandomi abbastanza dell’autore, li prendo per buoni.
Però l’ebrezza sembra che sia uno stadio più o meno passeggero ed è complicato esimersi dall’avere una professione, evitare ogni forma di attesa o assicurarsi l’eterna giovinezza. Allora meglio affrontare il naturale corso delle cose utilizzando altre modalità tra quelle proposte al lettore dai personaggi di Cometa, seconda prova narrativa di Gregorio Magini per NEO edizioni: ironia, disincanto, una strana forma di passione e slancio verso faccende più o meno assurde. Talvolta sobri, mediamente imprigionati nelle proprie ossessioni, riflessivi.

SalTo in Giù – la diretta dai libri

2

Tra un giorno e l’altro questa la chronica  a cura del Furlèn dei primi due giorni al SalTo in Giù, per Nazione Indiana e Focus-in.

Giovedì 10, prima giornata

Abbiamo tentato di catturare il profumo, l’aroma, il sentore generale di questa 31esima edizione del Salone Internazionale del Libro di Torino. Ecco le prime e seconde immagini satellitari.

 

 

 

 

 

 

 

Se non ti esplode dentro
a dispetto di tutto,
non farlo
a meno che non ti venga dritto
dal cuore e dalla mente e dalla bocca
e dalle viscere,
non farlo.
 
se devi startene seduto per ore
a fissare lo schermo del computer
o curvo sulla macchina da scrivere
alla ricerca delle parole,
non farlo.
 
se lo fai solo per soldi o per fama,
non farlo
se lo fai perchè vuoi
delle donne nel letto,
non farlo.
 
Se devi startene lì a
scrivere e riscrivere,
non farlo.
se è già una fatica il solo pensiero di farlo,
non farlo.
se stai cercando di scrivere come qualcun altro,
lascia perdere.
 
se devi aspettare che ti esca come un ruggito,
allora aspetta pazientemente.
se non ti esce mai come un ruggito,
fai qualcos’altro
se prima devi leggerlo a tua moglie
o alla tua ragazza o al tuo ragazzo
o ai tuoi genitori o comunque a qualcuno,
non sei pronto.
 
non essere come tanti scrittori,
non essere come tutte quelle migliaia di
persone che si definiscono scrittori,
non essere monotono o noioso e
pretenzioso, non farti consumare dall’autocompiacimento
 
le biblioteche del mondo
hanno sbadigliato
fino ad addormentarsi per tipi come te
non aggiungerti a loro
non farlo
a meno che non ti esca
dall’anima come un razzo,
a meno che lo star fermo
non ti porti alla follia o
al suicidio o all’omicidio,
non farlo
a meno che il sole dentro di te stia
bruciandoti le viscere,
non farlo.
quando sarà veramente il momento,
e se sei predestinato,
si farà da sè e continuerà finchè tu morirai o morirà in te.
 
non c’è altro modo
e non c’è mai stato.
 
da Così vorresti fare lo scrittore? in uscita per Guanda. Traduzione di Simona Viciani Campani
aggiornamento giornata del Venerdì ore 13