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Home Blog Pagina 147

Tre incontri sulla letteratura elettronica a Genova

Di
jan reister
-
11 Marzo 2018
0

Fabrizio Venerandi, autore dell’ebook Poesie Elettroniche coedito da Nazione Indiana, terrà a Genova tre incontri a ingresso libero sul tema della letteratura elettronica. Accorri numeroso! – Jan Reister

PRIMA GIORNATA – Martedì 13 marzo

Presentazione di Poesie Elettroniche di Fabrizio Venerandi (Ed. Quintadicopertina &Nazione Indiana 2016). Un viaggio, assieme all’autore, all’interno del suo ebook di electronic poetry. Quali sono stati i lavori ispiratori, come si scrive (e come si legge) una poesia elettronica, come la si programma, come la si modifica. Con l’Autore dialoga Donald Datti, poeta del gruppo Bib(h)icanti

SECONDA GIORNATA – Mercoledì 28 marzo

Letteratura elettronica: uno sguardo internazionale.

Dai text adventure degli anni Ottanta, alle App di lettura interattiva, dai Multi User Dungeon fino ai catalogi di Electronic Literature di ELO.

TERZA GIORNATA – Mercoledì 11 aprile

Il digitale prima (e fuori) del digitale.

Un viaggio tra i testi di narrativa cartacea non lineare: da Il gioco del mondo di Cortazar a Aurum Tellus di Gavino Ledda, da In balia di una sorte avversa di Johnson a La nave di Teseo di J. J. Abrams e Doug Dorst. Senza dimenticare i librogame.

Gli incontri sono alle ore 17 presso la Biblioteca Universitaria di Genova – ex Hotel Colombia – via Balbi 40 – 16126 Genova. Ingresso libero.

Comunicato stampa

Mutandine

Di
gianni biondillo
-
11 Marzo 2018
2

di Mirfet Piccolo

Era mattina, e lui dal comò afferrò un paio di mutandine della moglie: un tanga di colore nero con pizzo, davanti; dietro, il filo sottile aveva come scopo la nudità delle natiche e, al contempo, lo sfregamento dell’orifizio. Le mise nella borsa in pelle, tra l’agenda e l’ultimo numero della rivista Anesthesiology. Nel fondo della borsa, Sergio intravide una caramella al lampone, residuo della sua più recente sosta fuori casa. Chiuse tutto in fretta per non cedere alla sua naturale propensione a soffermarsi sui dettagli. D’altronde, la richiesta era stata chiara e questa volta non avrebbe ammesso obiezioni: voglio le mutandine di tua moglie e questo è un ordine.

Poi Sergio entrò in bagno, abbassò la tavoletta del water e si sedette ad osservare il corpo nudo di Clara che appariva oltre il vetro smerigliato del box doccia: i tratti confusi e apparentemente inafferrabili avrebbero potuto essere di chiunque. In fondo era andata così, quella mattina all’alba dopo il turno di notte in ospedale, e a quel ricordo Sergio sentì il suo desiderio farsi carne nel pene turgido, e, ancora una volta, provò vergona e piacere e senso di colpa. Quando sua moglie chiuse l’acqua della doccia, Sergio si alzò e uscì dal bagno.

In camera da letto, Sergio accese la televisione: guardò le immagini disturbate, tagliate da scie bianche e nere che nella promiscuità diventavano grigie. Clara entrò in stanza con l‘asciugamano sui capelli bagnati e un sorriso stanco e un po’ triste. Sergio aprì l’anta dell’armadio; celare l’indicibile, ovvero la sua stessa corruzione, rimanere nell’ombra.

– Sei di turno ogni sabato, adesso.

– È solo un periodo, passerà. Hai chiamato il tecnico?

– Oggi la porto in negozio, ma forse dovremmo cambiarla, ci costa di meno. Queste cose si rompono di continuo, ormai.

– Forse non dovremmo tenerla in camera da letto – disse guardandosi allo specchio mentre si abbottonava la camicia -, forse potremmo farne a meno.

– Che differenza farebbe?

La camicia era abbottonata, ma lui rimase allo specchio ad osservare, nel riflesso, sua moglie che si vestiva. Eccola, elegante e fresca, le scarpe rosse con il tacco che lui le aveva regalato e che, una notte, le aveva fatto indossare mentre lei, nuda, in ginocchio e davanti al lungo specchio, con la bocca prendeva il suo sesso. Su e giù; la schiena riflessa, i glutei sodi leggermente dischiusi, i tacchi divenuti scostumati. Ricordò la bocca di lei riempirsi della sua eiaculazione, del suo trionfo. Dopo quella sera, la stesa scena era stata ripetuta qualche altra volta con un entusiasmo ed eccitazione via via decrescenti, fino a scomparire.

Le nove del mattino. Salutò la moglie ricordandole che avrebbe potuto fare tardi anche per cena, di non aspettarlo, e sua moglie, nell’abbraccio e dopo un bacio, non fece domande.

In strada, il calore dell’estate era una maschera che gli avvolgeva il viso dopo averlo schiaffeggiato; era punizione e godimento insieme. Stava per succedere ancora, pensò, e questa volta lui sarebbe stato l’artefice, il regista di un gioco che lui stesso non avrebbe mai immaginato possibile. Controllare il gioco come si controlla la vita e la morte; io so sospenderle, pensò, io so riprenderle e lasciarle andare. Salì sulla sua Audi ma non partì subito. Appurò che tutto fosse in ordine: il libretto di circolazione, la patente, gli specchietti ben posizionati; verificò che non ci fossero chiamate non risposte, messaggi non letti ai quali avrebbe dovuto rispondere con una menzogna e, infine, quando ogni cosa fu controllata, Sergio mise in moto.

La scritta a neon rossa Sex Shop era una prima donna in mezzo ai capannoni industriali di una provincia che il cemento aveva desertificata. C’era già passato davanti altre volte, ma senza mai fermarsi. Perché con Clara non era mai entrato in posto così? Sergio si ripromise che lo avrebbe fatto, certo, e che lui sarebbe tornato un marito non fraudolento, un marito conforme alle aspettative. Spense il motore. Il negozio era aperto da pochi minuti ma molti posti del parcheggio erano già occupati. Una donna, di apparente mezza età, con lo sguardo basso e il passo svelto entrò nell’adiacente Slot Machine Palace; l’insegna recitava: +18, aperto tutti i giorni dalle 10.00 alle 02.00. Sergio non poté fare a meno di pensare che, tutto sommato, se avesse avuto il vizio del gioco sarebbe stato peggio. Più in là, un camion della logistica entrava e usciva da un capannone; carichi e scarichi, vite impacchettate.

L’aria calda e immobile entrava dai finestrini abbassati. Sergio pensò che era ancora in tempo per tonare indietro, per annullare l’appuntamento, per cancellare tutta quella storia inqualificabile. Poteva controllarla.

Il negozio aveva appena aperto e Sergio, al momento, era l’unico cliente. Alla cassa, un uomo stempiato e sovrappeso era intento a compilare dei moduli e a firmare carte; l’uomo alzò lo sguardo verso Sergio: se ha bisogno chieda pure, disse. Il Sex Shop era un drappo di velluto scarlatto; la luce, calda, illuminava gli scaffali senza pretesa di sconvolgere. Era tutto lì, afferrabile da chiunque, misterioso e normale, ordinato, catalogato per genere e dimensione, colore, desideri e fasce di prezzo. Palline di Geisha, vibratori singoli e duo, stimolatori, plug Anal Dream, cuscini gonfiabili con fallo, bende, manette, corde. I best-seller del mese erano due: il Plug Anale Matrioska Prince of Kiev Pink, da una parte; e il Brent Corrigan Butt, dall’altra.

Andò nel settore lingerie e trovò subito le calze a rete con apertura. Erano parte degli ordini ricevuti; e gli ordini erano, per Sergio, la scoperta dell’eccitazione dove non se l’era mai aspettata. Andò alla cassa e pagò le calze a rete in contanti. Vuole che le faccia un pacchettino? No, grazie, va bene così. Chiese se ci fosse un bagno disponibile per i clienti; il negoziante, con un sopracciglio sollevato, rispose con tono pacato che se lì ci fosse stato un bagno a disposizione dei clienti, di certi clienti, sarebbe stato sempre occupato. Sergio si sentì sciocco e in imbarazzo e chiese scusa.

Rientrò in macchina. Il caldo si era impossessato di ogni cosa: della sua auto e dei capannoni e del cielo azzurro terso. L’insegna del negozio era la cosa più anarchica nel raggio di chilometri. Prima di mettere in moto, Sergio immaginò di vedere Clara nella sua Toyota color ambra. Immaginò di vederla entrare nel Sex Shop per fare l’equivalente di ciò che stava per fare lui, e trovò il pensiero sconvolgente ed eccitante. Molti anni fa, quando erano ancora fidanzati, Clara aveva raccontato a Sergio di aver vissuto un’esperienza sessuale estremamente stravagante per il suo carattere: aveva baciato un’altra donna, o meglio, una ragazza. Era accaduto in quarta liceo nei bagni della scuola – “nei bagni delle scuole ogni cosa è possibile”, aveva aggiunto portando la testa indietro con una grande risata -; era stato qualcosa di mai più ripetuto e lasciato andare senza nostalgia, piuttosto raccontato come un evento piacevole, sì, ma eccezionale e, tutto sommato, buffo.

C’era coda, e il bagno dell’autogrill odorava di tutto il piscio del mondo e di vacanze sfatte. Sergio si chiese quanti uomini, di quelli in coda, avessero fatto ciò che Sergio stava per rifare. Forse, pensò, sono in coda come me e loro sono come me; forse anche loro, nei loro borselli a tracolla, nascondono il tradimento. Chi non ha peccato scagli la prima pietra, o il primo borsello o zaino; chi non ha peccato si amputi il rigonfiamento carnoso che emerge dai bermuda a fantasia, il capo d’abbigliamento principe di un’altra (l’ennesima) estate in famiglia.

In bagno, Sergio si tolse i pantaloni e le mutande. Dalla borsa in pelle sfilò le mutandine della moglie e le indossò: dall’alto osservò il pene compresso dal tessuto in pizzo nero e lo accarezzò ma senza esagerare perché, si disse, non era ancora il momento; poi indossò le calze a rete, e infine si rivestì del tutto. Tra le natiche, il filo sottile era teso e, finalmente, poteva sentirlo in tutta la sua impertinente provocazione. Sergio uscì dal bagno con la straordinaria consapevolezza che la sua eccitazione sarebbe stata evidente a chiunque avesse abbassato lo sguardo anche solo di sfuggita, e in quell’istante, cioè quando aprì la porta del bagno e vide la coda essersi fatta ancora più affollata, scoprì che essere guardato nella sua indecenza era ciò che desiderava in quel momento. Non chiedeva altro.

Il Motel era elegante: cinque stelle e parcheggi riservati e discreti; la receptionist in tailleur e le caramelle al lampone in una ciotola color argento, le stesse che gli ospiti avrebbero ritrovato in camera. Sergio consegnò il documento d’identità; la receptionist era la stessa dell’altra volta e Sergio fu tentato di chiederle se Darina fosse il suo vero nome, e quanti anni avesse e se le piacesse quel lavoro e cosa ne pensasse degli uomini come lui. Fu tentato di dirle che sarebbe stata l’ultima volta, che non si sarebbero più rivisti; e, vede, io non sono ciò che crede lei. La numero diciotto, disse la donna, la stanno già aspettando.

Il percorso dalla reception al bungalow numero diciotto fu assai breve. Parcheggiò la sua Audi accanto a quell’atra macchina che conosceva così bene; il parcheggio, in effetti, era riservato, disposto in modo che nessuno degli ospiti degli altri bungalow avrebbe potuto vedere i rispettivi vicini entrare e uscire dagli alloggi e, ciascuno a bordo del proprio veicolo, fuggire di gran lena lontano dal luogo dell’adulterio.

Stava succedendo ancora, pensò, era già in stanza e lo stava aspettando. A motore spento, Sergio pensò anche che era ancora in tempo per andarsene, per tornare a casa da sua moglie e magari andare insieme a comprare un nuovo televisore, poi avrebbero potuto andare a pranzo fuori e sorridersi a vicenda tra i riflessi di un calice di vino, per poi tornare a casa a fare all’amore: il loro amore semplice e costante, il loro desiderio quieto. E nel tempo di quell’amore, Sergio avrebbe potuto, ancora una volta, abolire la sua coscienza e sospendere il battito del suo cuore per il tempo necessario a camuffarlo in un orgasmo senza discrepanze. Avrebbe potuto.

Smise di pensarci e scese dall’auto, bussò alla porta. Oltre la porta poteva sentire i suoi passi, e Sergio li ascoltò avvicinarsi uno dopo l’altro. La porta si aprì e lui era lì, ancora una volta davanti a lui, così osceno e così bello, ad accoglierlo: hai portato le mutandine di tua moglie, vero?

Lo studio di Sciascia

Di
giuseppe schillaci
-
10 Marzo 2018
2

di Giuseppe Schillaci

 

Il brano è stato pubblicato nel numero della rivista francese « Atelier du roman » dedicato a Leonardo Sciascia (autunno 2016, traduzione di Eloisa Del Giudice).

 

LO STUDIO DI SCIASCIA 

 

Per uno scrittore siciliano come me, Leonardo Sciascia rappresenta un maestro. E in tempi in cui i maestri scarseggiano, averne uno è un lusso che devo dimostrare di potermi permettere.

Per farlo, ormai da qualche anno, vado in visita alla Noce, nella casa vicino il paese di Racalmuto, in provincia di Agrigento, dove Leonardo Sciascia scriveva i suoi libri e invitava gli amici più intimi. Ad accogliermi nella casa della Noce è suo nipote Vito Catalano, la moglie polacca e le figlie.

Vito ci tiene a ricordarmi che qui, nella casa della Noce, tutto è rimasto uguale per rispetto alla memoria del nonno. Dopo un pranzo italo-polacco, Vito mi accompagna in pellegrinaggio al piano di sopra, dove c’è lo studio di Sciascia. Già la scala, con le sue mura tappezzate di mappe siciliane, mi fa capire che ci stiamo addentrando in uno spazio particolare, sobrio e magico al contempo. Superata una vecchia libreria traboccante di vecchie edizioni italiani e francesi, sulla destra di uno stretto corridoio, ecco aprirsi lo studio di Sciascia: una piccola camera con lo scrittoio e la macchina da scrivere Olivetti Lettera 22 di quel colore unico, un verde acqua bluastro che potremmo definire « color Lettera 22 ». Lo studio di Sciascia sembra la cella di un monaco emanuense, o anche l’ufficio di un ragioniere di paese : « tutto è come l’ha lasciato il nonno », mi ripete ancora Vito, come se non si vedesse, o come per volersi giustificare da eventuali incaute intrusioni. Certo, essere il nipote di Leonardo Sciascia deve essere una bella responsabilità, una missione che Vito porta avanti con cura filologica delle « cose del nonno ».

Lo studio di Sciascia è un microcosmo in cui risuona tutta l’opera dello scrittore siciliano. A partire dalla caricatura ottocentesca che campeggia sullo scrittoio, proprio dietro la sedia su cui scriveva: è una parata di scrittori francesi, più o meno noti, da Balzac a Hugo, che avanza baldanzosa sotto la scritta « Le grand chemin de la posterité ». Ecco la sferzante ironia di Sciascia e la passione per la letteratura francese, a cui fa eco, sulla destra, la caricatura di Voltaire, in un disegno dell’epoca, a testimonianza del culto della ragione a cui il maestro di Racalmuto dedicò la sua opera. Un culto sempre messo in crisi, come tutte le fedi profondamente vissute, senza alcuno zelo religioso, ma con una tensione costante per la ricerca e la consapevolezza di una qualche verità.

Ai lumi dei filosofi e dei grandi romanzieri francesi ribatte, sulla parete di fronte, un documento seicentesco in latino, che a ben guardare è una condanna del Tribunale dell’Inquisizione spagnola di Palermo: ecco l’ombra spagnolesca, il lato oscuro dell’uomo, a testimonianza del destino della terra di Sciascia, una Sicilia poco illuminata dalla ragione, ma semmai arsa dalle fiamme del potere e soffocata dal buio dell’oscurantismo. Con questa contrapposizione si spiega la sua passione per la Francia dell’arte e delle scienze, il volgersi alla Ragione come antidoto all’occulto del potere, agli intrighi della corruzione, alle trame dell’ingiustizia, ben sintetizzata anche dalla stampa delle « carceri » di Giovanni Piranesi. Queste due immagini, l’Inquisizione cattolica e le carceri, erano sempre davanti agli occhi dello scrittore, come a sfidarlo, a ricordare un’altra ossessione di Sciascia: lo Stato di diritto e le sue caricature pericolose, orribili.

La Spagna, poi, altro amore e odio di Sciascia, fa capolino anche sul disegno autografato di Picasso dedicato al poeta Antonio Machado. La Spagna cattolica e superstiziosa che ha governato per secoli la Sicilia e a cui sono state addossate le colpe del mancato sviluppo del Meridione d’Italia, dell’origine della Mafia e della corruzione, della miseria e dell’ignoranza borbonica… accusa a cui Sciascia, col suo spirito critico e indagatore, non ha mai creduto. Le cose sono molto più complesse, sosteneva Sciascia, ma vanno analizzate con cura e raccontate con semplicità, per sgarbugliare la matassa dell’impostura, sempre in agguato tra le righe della storia ufficiale. In questo suo atteggiamento non c’era nulla, ovviamente, del complottismo contemporaneo, disinformato e disinformante, ma si trattava di una consapevolezza antica, pervasa dalla passione per gli studi storici, dalla capacità di saper decifrare i codici dell’ideologia e della propaganda.

E infine, sulla parete di sinistra, ecco due piccole fotografie posizionate in uno strano ordine geometrico, come a sorreggere lo scrittoio di Sciascia, due ritratti che raffigurano i maestri siciliani Verga e Pirandello: il verismo di Verga, la necessità di raccontare il reale, la cultura contadina, lo sfruttamento dei più deboli ; e l’amara ironia di Pirandello, il maestro dei maestri, colui che ha fatto filosofia con la letteratura e letteratura con la filosofia, lo scrittore che ha indagato la follia dentro di noi, il teatro lì fuori e le maschere sul volto di ognuno.

Mi attardo sull’immagine di Pirandello, sui bastoni di Sciascia sistemati in un angolo, in basso, su alcuni libri, pochissimi, lasciati lì, nella vetrinetta di fronte. Poi Vito mi esorta a uscire, con garbo, come invitandomi a lasciare in pace il nonno, che sembra lì, alla sua Olivetti « Lettera 22 », felice di aver ricevuto questa visita, ma in attesa che lo si lasci in pace per rimettersi a lavorare.

Scendo le scale e spunta un’altra immagine, quasi nascosta, di cui non mi ero accorto. È un ex-voto popolare che raffigura un uomo elegante e una donna in posa da incantatrice. Vito mi spiega che l’ex-voto apparteneva alla nuora di Sciascia, che lo aveva fatto fare per scongiurare che il figlio si innamorasse di quella donna perversa e malvagia raffigurata sul quadro. Ecco che la sensualità e le credenze popolari, magiche e religiose, spagnolesche se vogliamo, fanno ancora capolino nel mondo di Sciascia, seppur in un sottoscala, come se il maestro di Racalmuto volesse reprimerle per onta o per paradossale superstizione.

Vito prepara il caffé. Lo beviamo fuori, in terrazza, guardando il panorama, mentre le sue figlie di otto e cinque anni suonano il violino; Sciascia avrebbe sicuramente apprezzato la loro grazia. Dalla casa della Noce si vede tutto intorno, a trecentosessanta gradi. Se potessimo definire uno scrittore da ciò che vede dal posto in cui scrive, la vista panoramica di Sciasca potrebbe sovrapporsi perfettamente ai temi e alle figure della sua opera. Sciascia, dalla Noce, vedeva tutto: la villa del barone e quella del mafioso, il paese vicino e le campagne intorno, alberi, colline, e in fondo i Monti Sicani. Sciascia vedeva tutto, tranne il mare, come se fosse prigioniero di questa isola, della sua storia e delle sue contraddizioni, della sua bellezza e della sua arroganza.

Ho scritto che della Noce si vede la villa di un mafioso, ma sarebbe il caso di aggiungere una precisazione : Vito mi spiega che lì ci andava da bambino, col nonno, per assaggiare il formaggio di pecora, quando quel posto era ancora un caseificio di campagna, e cioè prima di essere acquistato dal mafioso di cui sopra, il quale ha ingrandito il vecchio casale, con nuovi muri e orrende finestre d’alluminio. La nuova costruzione è stata innalzata qualche anno dopo la morte di Sciascia, come se il mafioso non osasse farlo finché lo scrittore fosse ancora in vita.

Questa villa sciatta e sgraziata mi sembra il simbolo di un tempo crudele che non riesce a volgersi alla luce della Ragione, ma rinnova meccanismi di oppressione e di bruttezza. Come se, nella Sicilia che fu Magna Grecia, menzogna e bruttezza fossero concetti legati per sempre, in opposizione alla verità e alla bellezza, che Sciascia ha rigorosamente cercato.

« La Sicilia come metafora », recitava il titolo di un libro-intervista di Marcelle Padovani al maestro di Racalmuto, e mi verrebbe d’aggiungere anche « la Sicilia come ossessione ». E infine, per me, « Sciascia come ossessione » : la necessità di illuminare gli intrighi, non per il piacere consolatorio di risolverli, ma per esplorarne la complessità, raccontare il mondo per quello che è, la sua ingiustizia e la sua beffarda bellezza.

L’appuntamento alla Noce, con Vito, è per il prossimo anno, come sempre a ridosso di ferragosto, per discutere dei nostri progetti e ricordare suo nonno: entrare nello studio di Sciascia, per non più di cinque minuti, e restare lì, in silenzio, a scrutare l’Olivetti « Lettera 22 », in questa piccola stanza che era il faro di Sciascia sulla realtà, il suo esilio dalla realtà, al centro di un’isola senza mare.

 

Occhi sul pianeta Terra ( Bagatella dell’invidia)

Di
Giorgio Mascitelli
-
9 Marzo 2018
3

di Giorgio Mascitelli

Qualche volta Guido della Veloira va a trovare il fratello Corrado della Veloira, che ha messo su famiglia senza troppi calcoli. Guido invidia e allo stesso tempo è atterrito dalla vita di Corrado, ma resterebbe sorpreso se sapesse che tale ambivalenza di sentimenti è nutrita anche dal fratello. E invero ci sarebbe da sorprendersi della sua sorpresa perché questa legge, secondo la quale bisogna desiderare tutto se no si fallisce, è legge generale che riguarda coniugati e non coniugati ed è legge costitutiva del pianeta Terra ( in questa fase storica naturalmente). Dunque quasi tutti invidiano quasi tutto, spesso senza potersi permettere di ammetterlo o addirittura senza avvedersene, e l’invidia è la principale manifestazione psicologica di una coscienza acquiescente a quella legge. Quello dell’invidia come vizio o peccato è un falso problema, quasi una trascrizione in termini di morale religiosa di una raccomandazione sanitaria come lo sono certi precetti alimentari, perché in verità liberarsi dall’invidia serve a tutelare quel minimo di libertà interiore senza la quale ogni nostra iniziativa è solo la sclerotica ripetizione di uno schema dettato dall’esterno, anche se perfettamente interiorizzato.

Guido chiede a Corrado come vanno le cose e come sta il nipotino Ferruccio della Veloira che va alle elementari. Ferruccio va bene ed è andato a una festa di compleanno dell’amichetto Devid Trimboliti. La festa si tiene in una ludoteca con grandi gonfiabili a forma di castello e di vascello, del resto anche la festa di Ferruccio si è tenuta in un luogo simile, anche se, come gli ha fatto notare Devid, i gonfiabili di quella ludoteca sono più grandi e colorati di quelli della festa di Ferruccio. Ferruccio o sua madre, questo Corrado non lo sa con certezza, hanno ricordato a Devid o sua madre che lo stesso Ferruccio ha 10 in matematica e scienze a differenza di Devid che ha solo 9. Ma secondo la madre di Devid questo non è importante perché loro vogliono far crescere il bambino in un ambiente sano senza troppe pressioni perché arrivi giustamente carico allo sprint decisivo dell’adolescenza e infatti pratica solo due sport, un corso di inglese e uno di musica. E poi Devid gioca già in una squadretta di pallacanestro, mentre Ferruccio frequenta solo i corsi di minibasket del doposcuola. Nel nuoto eccelle però Ferruccio, mentre Devid a quanto pare annaspa, anche se il suo inglese ha già raggiunto un certo livello di fluency al contrario di Ferruccio, che sta ancora compitando a fatica i colori e i nomi degli animali. Entrambi studiano sintetizzatore elettronico, che Devid sembra suonare meglio, ma Ferruccio segue un metodo più difficile che usano in Conservatorio.  A parere di una selezionata giuria di mamme di compagne di classe dei due, Devid è più bello, ma Ferruccio è più simpatico.

A queste parole Guido, che ha fatto quasi un principio del non pensare mai alla sua infanzia, si ferma e cerca di ricordarsi se anche loro fossero così e poi lo domanda, senza pensarci troppo, a Corrado. Si tratta di una domanda imbarazzante e infatti lo stesso Corrado ribatte, a sua volta troppo spontaneamente, con un “così come?”, ma poi si avvede che un’ulteriore risposta del fratello aumenterebbe il vicendevole imbarazzo, che potrebbe concretarsi in un increscioso incidente verbale e sospirando aggiunge che ai loro tempi i genitori erano meno assidui, meno attenti, non avevano tempo per queste finezze. Anche loro da piccoli avevano delle occupazioni e degli obblighi, subivano delle aspettative, ma la loro tirannia non era sistematica. Ed è probabile che sia così, che la tanto decantata libertà della loro infanzia, il mare assoluto del tempo libero che poteva temere poco oltre alla risacca del tempo scolastico, non fosse altro che un prodotto di un’organizzazione ancora arretrata, ancora non scientifica della giornata, insomma dipendente da un deficit tecnico più che da una diversa impostazione. Guido vorrebbe aggiungere che, però, lui non si ricorda affatto di questa spirale di invidie incrociate, ma si censura per timore di compromettere il bel rapporto con il fratello. Essi sono entrambi senza parole e non per la sorpresa o per l’incapacità di dire, ma perché ogni parola potrebbe uscire dal perimetro dello spazio riservato all’espressione delle proprie idee non suscettibile di scatenare reazioni.

Certo, anche Corrado si rende conto di qualcosa, non di tutto ma di qualcosa sì, e vorrebbe dire che la colpa è della mamma, ma si trattiene perché non c’è nessuna colpa, al contrario si tratta di offrire opportunità alla propria prole. Così le opportunità crescono, ma purtroppo aumentano anche quelle degli altri ed è ovvio allora mettersi a cercare sempre quell’opportunità in più che fa la differenza. In un simile contesto possono venire alla mente immagini balzane, come quella da Vita agra di impiegati che cercando si accaparrarsi gli uffici migliori nella nuova sede dopo il trasloco della ditta, solo che la scena si svolge in una scuola dove i bambini competono per i banchi migliori ( la prima fila in una classe tradizionale, i posti del cerchio meglio visibili dal maestro in una classe rovesciata).

Si è fatto tardi ormai, Guido della Veloira saluta Corrado ed esce. Sulla strada s’imbatte in una pubblicità dove sono rappresentati un bambino e una bambina che sono vestiti, gesticolano e sorridono come adulti.

 

 

MAGDA MINCIOTTI “Considerate che avevo quindici anni “

Di
orsola puecher
-
8 Marzo 2018
1

di Orsola Puecher

Magda Minciotti a quindici anni

Anna Paola Moretti, storica della memoria e della deportazione femminile, nel libro Considerate che avevo quindici anni. Il diario della prigionia di Magda Minciotti tra resistenza e deportazione, [ed. affinità elettive 2017], ricostruisce la storia personale e il contesto storico politico della vicenda della giovane partigiana marchigiana in modo esemplare, con dovizia di documenti, citazioni, raccolta di testimonianze, ricerca sul campo, note accuratissime e riflessioni che ci riportano dal passato al presente. La memoria, il dare spazio alla vicenda della gente comune [pag. 14] è sempre la chiave di volta per comprendere il presente. Oggi 8 marzo, in un paese dove dopo le recenti elezioni politiche il numero delle donne non raggiunge nemmeno un terzo dei deputati eletti, parlare di quanto la vita delle donne è stata a lungo espulsa dalla storiografia e relegata nel privato [pag. 13] ci racconta doverosamente di una emancipazione femminile mai del tutto raggiunta, piena di vuoti e di assenza, e il compito della storia è riempire queste lacune, stabilire una continuità di fatti, reiterpretarne i contorni.

Se la ricerca storica è atto di invenzione interpretativa, ossia vedere tratti finora trascurati, tenere insieme memoria e storia in una diposizione all’accoglienza che sia rievocativa e partecipe di ciò che si racconta, comporta anche una scrittura che varchi i confini dei generi, anche questa tutta da inventare: “nuove parole e nuovi metodi”, come chiedeva Virginia Woolf. [pag. 16]

Da questa scrittura puntuale eppure avvincente, la figura di Magda Minciotti, catturata insieme al fratello Giorgio per rappresaglia, durante un rastrellamento alla ricerca dell’altro fratello partigiano Giacinto, si anima dalla pagina a tutto tondo, innanzitutto nelle pagine del suo diario, che inizia a scrivere detenuta a Ripe, in provincia di Ancona, il 23 luglio 1944, 15 giorni dopo il suo arresto, con una matita copiativa sul retro delle pagine di blocchetti di ricevute scadute 8×12, sottratti di nascosto, con una calligrafia minuscola. Nelle sue peregrinazioni di lavoratrice coatta fra gli “schiavi di Hitler” negli Arbeitlager gestiti dalle grandi industrie germaniche, da Norimberga fino all’aprile del ’45 a Bayreuth, riesce a portarsi appresso il suo diario e, con alcuni momenti di silenzio, non smette mai di scrivere, nelle pause del duro lavoro alla fabbrica Siemens, di sera fino a quando la luce non viene spenta. Quella che per noi oggi è una preziosa documentazione, ha per lei il compito di contrastare la solitudine e di farsi coraggio, di resistere, affidando a un interlocutore immaginario tristezze e dolori, ma anche sogni, segreti, speranze, desideri e volontà di sopravvivere al terribile presente. La naturale curiosità di adolescente, il suono di una campana lontana che la riporta con nostalgia a casa, la bellezza della natura, nonostante tutto, della neve, di una giornata di sole, e, perché no, qualche palpito amoroso, la tengono ancorata alla vita e alla sua dignità di persona.

[Nürnberg 28/8/44]
Comincio a essere meno pessimista. Per arrivare a ciò ho voluto cominciare come facevo a scuola, cioè sognare ad occhi aperti. [pag. 44]

In questa vera e propria strategia di sopravvivenza non parla molto di eventi dolorosi, cerca di mantenere saldi gli ideali mazziniani, risorgimentali e antifascisti a cui la sua famiglia l’aveva educata, l’amore per il prossimo, la giustizia, la Patria con la p maiuscola, che non è certo quella tronfia e autoritaria del fascismo, la solidarietà, l’amore per il prossimo, riuscendo sempre con autoironia e distacco a sdrammatizzare e a superare la durezza del presente, ad affezionarsi alle persone e persino ai luoghi squallidi della prigionia. A mantenere allegria di giorno, con orgoglio, e a piangere di nascosto di notte. Ma nel racconto della disinfezione al campo di Dachau non riesce a non lasciar trasparire i suoi sentimenti di profonda indignazione per il pudore violato e di odio verso i Tedeschi:

[Nürnberg 17/8]
Devo fare un passo indietro per annotare un particolare sfuggitomi. A Dachau ci fecero la disinfezione, Ci mandarono al forno i panni e dopo averci fatto spogliare nude, prima il bagno e poi ungere la testa con la creolina. Tutto questo raccontato così sarebbe una cosa giusta e necessaria… Ma quanta mancanza di pudore in Germania! Nel corso dei secoli il popolo tedesco è rimasto selvaggio. Sono ancora i barbari di Attila questi del secolo 20mo? Per rispondere giustamente bisogna venir qui vedere e giudicare. Solo chi mi ha conosciuto può dire se rimasi indignata avanti ad un simile spettacolo. Non solo ma un odio feroce contro questo popolo devastatore mi fa desiderare sempre più forte che questo tutto finisca per ritornare alla mia cara Patria. [pag. 42]

Questa liceale quindicenne dagli occhi profondi e sensibili, con le lunghe trecce raccolte, che nella sua famiglia di resistenti aveva partecipato a diverse azioni partigiane, come staffetta, sventando l’attentato a un ponte minato dai tedeschi in ritirata, soccorrendo il giovane partigiano ferito Nello Congiu, nei 66 foglietti del suo diario apre una particolare dimensione “letteraria”, che dalla quotidianità si spinge a una scrittura alta, spesso poetica, a tinte pascoliane e carducciane, con grande proprietà di linguaggio e sintassi e vero talento narrativo.
Un secondo supporto del diario è andato perduto, ma Magda, tornata a casa, ricopia le pagine ormai consunte, macchiate e quasi illeggibili, su un quaderno nero quadretti con il bordo rosso, di 36 pagine più un foglio volante. Gli dà l’ironico titolo Le mie prigioni. Nella breve introduzione scrive:

[Chiaravalle, Agosto 1945]
Il mio carattere, i miei pensieri sbattuti dalla tempesta, la nostalgia, le mie lacrime amare e mai sgorgate, i miei dolori assillanti e segreti, potrà comprenderli solo colui che soffrì la prigionia tedesca, solo colui che sa cosa vuol dire essere soli senza risorse, lontani dalla Patria; (…)
Non domando altro: – Siate magnanimi!! Non giudicatemi troppo severamente se anche fra tutte le intemperie siano sbocciate nella mia anima delle illusioni, qualche sogno, qualche speranza.
E se qualche giudizio dato con troppo buon cuore, se qualche osservazione fatta con animo pettegolo sia da biasimare, – oh posteri!!!, non tacete – ma nello stesso considerate… considerate che avevo 15 anni.
[pag. 31]

M.M.

Nel dopoguerra le viene proposto di pubblicare il diario, ma come per molti altri sopravvissuti ai lager, subentra una specie di ritrosia a renderlo pubblico, nel clima post bellico di ottimismo forzato, di desiderio di dimenticare, l’interesse e la comprensione per le vicende dolorose della deportazione è scarso.

Anche il rientro in Italia ebbe tratti comuni per tutti gli uomini e le donne che erano stati deportati: ebrei, oppositori politici, militari internati, lavoratori coatti si trovarono accumunati dalla freddezza e dall’indifferenza con cui furono accolti da una società che usciva dai disastri della guerra, poco disposta ad ascoltare il loro dramma e propensa invece a rimuovere e occultare le responsabilità, la maggior parte di loro si chiuse a lungo nel silenzio. [pag. 267]

Propagada per il lavoro coatto

Così il diario rimane chiuso in un cassetto. Magda tornata in Italia gravemente malata di tubercolosi renale, fatica molto a guarire, difficile trovare antibiotici e cure adeguate allora, cerca di riprendere il liceo senza riuscirvi, si sposa con Vincenzo Castellani un giovane carabiniere lui pure deportato, conosciuto in Germania, e si dedica alla famiglia e ai suoi quattro figli. Non l’abbandona mai il dolore e anche forse il senso di colpa per la morte del fratello Giorgio Minciotti, arrestato con lei, che scelse, nonostante fosse stato scartato alla visita medica per la sua salute cagionevole, di andare in Germania per non lasciarla sola, e mandato a scavare trincee dall’Organizzazione Todt non sopravvive alla durezza del lavoro e agli stenti. Magda Minciotti consegna il suo diario al figlio pochi giorni prima di morire nel 1990. Ad Anna Paola Moretti il merito di averlo riportato alla luce, insieme allo studio approfondito del contesto e soprattutto della questione del lavoro coatto, propagandato ingannevolmente dal regime fascista come opportunità di guadagno e che vide molti partire volontari, con la complicità mai punita delle maggiori fabbriche tedesche dalla Siemens, alla Volkswagen, Mercedes e Bayer. Solo in Italia più di 100.000 persone con il 10% di morti, soprattutto giovani dai 14 anni in su, prestarono la loro manodopera al nazismo, un ambito ancora pochissimo studiato, ingiustamente distinto dalla deportazione nei campi di sterminio, ma non meno crudele e degno di essere ricordato e analizzato.

A Livingston nessuno fa il bagno

Di
daniele ventre
-
7 Marzo 2018
0

di Carmine De Falco

La guida avvisa “A Livingston nessuno fa il bagno”
Cerchi un’atmosfera da cartolina che non c’è
la sabbia senza colore della costa
è coperta tutta da alghe marroni. Uccelli neri
si nutrono e volano. Comandano appolaiati
persino sulla statua del giurista americano
che bianca di marmo emerge dal mare.

Anche qui qualcuno naviga la rete e comunica
al mondo che “la vita non è solo
una questione di pesche e di creme, e chi può dire
d’aver ricomposto tutti i pezzi del puzzle
nell’ordine esatto se ci resta tra le frasi non dette
quelle domande che cominciano con why”
questo post lanciato da questo angolo lontano
ha il sapore dei messaggi in bottiglia
con l’ingenua speranza che qualcuno li colga.

Lungo la strada dall’imbarcadero al villaggio
un vecchio di colore con una lunga
barba grigio chiara e baffi folti,
scuri ed ispidi dread irregolare
miscela di cenere e tabacco che scende
a grappoli da un cappello da pescatore.
È sorprendente la sua idea d’Italia che somiglia
pressappoco a un’immagine di Sardegna dipinta
da un artista mezzo Michelangelo e mezzo Caravaggio
che srotola pensieri tra Macchiavelli e Galileo.
Su quella salita non lo pensi quanto è strano
sentirsi chiamare italiani con accento garifuna
senza il solito pasta pizza mafia che s’ascolta
dalla bocca per bene e bianca di ogni dove.

Bisogna soprattutto rincorrerla l’atmosfera
tra i passi lenti in queste case baracche
alla fine del Paese centramericano, unico bianco
tra gente di colore, naufragata due secoli fa.
Bisognerà immaginarselo lo spirito
di Marcos Sanchez Diaz che attracca
per primo su questo lembo di terra, adesso
che rivive nelle mani e nei pensieri di quest’uomo
in una lingua in estinzione, che diversifica
a volte le parole in base al genere di chi le dice.

Ma se pensi di ritracciare linee e verticali centenarie
tutto traballa fumoso e impreciso
come questi passi tra viali di terriccio fangoso
e lamiere, i capricci del bimbo che vuole andare
a giocare e rifiutare pasta scotta diluita in brodaglia,
come la parete dei riti woodoo e qualcosa d’ancestrale
che suona sinistro alle orecchie, e lungo il percorso
contorto e disorientante. Ma lo so non dirmelo
che non mi sequestrerai me lo sento, ti ricordo
sorrido e doni di nuovo questo piccolo pezzo del mondo.

___________

* * *

Nota del redattore

Il nuovo poemation di Carmine De Falco conferma le linee della sua poetica, legata a una dimensione lato sensu “civile”, ma supera l’usuale maniera breve o la lassa di prosa in prosa, che spesso l’autore frequenta, e riscopre una forma di altro respiro, che richiama alla lontana il Cesare Pavese di Lavorare stanca, per la contiguità di ripresa di certa aura della poesia americana –pavesiani sono per lo meno la chiusa tematicamente “densa”, staccata e sottolineata dal corsivo (come in Fumatori di carta), e l’andamento sintattico, intonazionale e ritmico del verso lungo, talora senz’altro dattilico-anapestico, con occasionali endecasillabi, alla Mari del Sud (“Anche qui qualcuno naviga la réte e comúnica/al mondo che “la vita non è solo/ úna questióne di pésche e di créme, e chi può dire/ d’avér ricomposto tutti i pézzi del púzzle/ nell’órdine esátto se ci résta tra le frási non détte/ quelle domande che cominciano con why”/ questo post lanciato da questo angolo lontano/ ha il sapore dei messággi in bottíglia/con l’ingénua speránza che qualcúno li cólga…// Ma se pensi di ritracciare linee e verticali centenarie/ tutto traballa fumoso e impreciso/ come questi passi tra viali di terriccio fangoso/ e lamiere, i capricci del bimbo che vuole andare/ a giocare e rifiutare pasta scotta diluita in brodaglia,/ come la parete dei riti woodoo e qualcosa d’ancestrale/che suona sinistro alle orecchie, e lungo il percorso/ contorto e disorientante.// Ma lo so non dirmelo/ che non mi sequestrerai me lo sento, ti ricordo/ sorrido e doni di nuovo questo piccolo pezzo del mondo.”) per quanto un simile ritmo sia presente anche nel verso lungo à la Fortini e in molta poesia gemmata dalle neo-avanguardie, e possa essere riemerso per semplice intersezione fra rimando ipogrammatico e tendenze spontanee della lingua –un cliname però lucidamente assecondato dall’autore. Ritornando a tempi più vicini, e forse meno impopolari nella ristretta audience poetica attuale, lo sfondo meso-americano evoca gli influssi della poesia di un Walcott; per converso, di ritorno dal Guatemala alle nostre plaghe, il titolo e il primo verso, con la prescrizione da guida turistica “A Livingston nessuno fa il bagno”, rimandano con ironia al mare che per annamariaortesiana memoria non bagna Napoli. Sembra forse un lavoro ingeneroso di deminutio dell’originalità del poeta, questa ricerca di fonti improvvisa (lasciando stare che dopo svariati millenni di letteratura sarebbe il caso di deporre la superstizione dell’originalità); ingeneroso parrà anche il rimando a coordinate che non si riallacciano al piccolo gotha semi-occulto della poesia americana o francese odierna a cui molta poesia italiana riguarda. In realtà la scelta di ravvisare qui presenze di memorie letterarie quasi scontate, da infanzia del lettore, nasce dalla nostra volontà di sottolineare una precisa cifra del testo, l’intenzione comunicativa di condurre per mano l’eventuale fruitore, tramite chiavi di lettura evidenti e di percezione banale, alla straniamento di un esotismo à rebours, in cui oggetto di vagheggiamento, per il suo effetto alone sullo straniero, è la cultura di provenienza dell’autore. L’io narrante di questo blocco narrativo di versi è portatore in sé di una tendenza che nella sua dimensione nazional-popolare associa la remota esoticità centroamericana a determinati paesaggi e memorie. Il poemation comincia invece a evocare un’“atmosfera da cartolina che non c’è”, di cui si tingono i luoghi esotici, quando fisicamente ci si immerge in essi. La cartolina (postale) è poi simbolo derridiano della presunta catena di assenze e messaggi non pervenuti che si incontrano nella fruizione della scrittura, talché l’incipit si delinea all’istante come momento di rottura del sonno e del sogno esotico, come un brusco risveglio in presa diretta e in presa di coscienza. Nella sequenza di Realien che si presentano alla telecamera del linguaggio un forte peso ha inoltre il cromatismo. L’immaginario di massa associa all’America latina il sentore sinestetico di un tripudio di colori accecanti; il quadro incipitario di questi versi vira al seppia e al bianco e nero: sabbia senza colore, alghe marroni, statua di marmo bianca, nella divina indifferenza, o meglio, insussistenza del diritto, ma soprattutto uccelli neri (come in fuga da inopinate e intempestive gabbie d’Ottocento) a dominare ogni cosa (soprattutto la statua e il simbolo dell’insussistente diritto), con ominosi raffi di corvi necrofagi. In questa sordina cromatica ed esistenziale le lasse del poemetto seguono un movimento alterno: è da notarsi l’opposizione fra il secondo blocco di otto versi, centrato sul post lanciato in internet quasi messaggio in bottiglia come da un’isola persa senza tesori, perché lo scrigno si è scoperto vuoto, dopo un vano navigare virtuale, stante l’appena evocata obliterazione del mare e del navigare concreto, e la chiusa, con il suo ipermoderno sfumare delle “verticali centenarie”, fra lamiere da favela, e sciamanismo woodoo (anch’esso oblato al linguaggio ordinario dell’immaginario ordinario). Le due lasse in opposizione identificano due dimensioni opposte, da verticale urbana terzomondista alla Dos Santos: la rete telematica e la sua seconda navigazione tecnologica contro la baraccopoli animata da ritualismi residuali e residuati. Le due lasse incorniciano il centro tematico della poesia: la figura del vecchio di colore, con il suo immaginario dell’Italia, non più pizza/pasta/mafia, secondo il pregiudizio della “lingua per bene e bianca”, bensì Sardegna dipinta da un artista mezzo Michelangelo mezzo Caravaggio, che srotola pensieri fra Machiavelli e Galileo, il tutto espresso in lingua garifuna, in quel dialetto arawak, patrimonio mondiale di tradizioni orali e linguistico melting pot, che l’immaginario per bene e bianco non conosce e non riconosce. Al centro del testo campeggia un incrocio di immaginazioni riorientate, che l’ironia ha depurato dell’ovvietà dell’immaginario di consumo. “Questo piccolo pezzo di mondo” (l’Italia come il Guatemala), le singole identità depurate dalle scorie dell’orizzonte d’attesa gregario, viene ridonato all’essere evocando, in uno stile dominato da nitido monolinguismo, le risonanze di una parlata borderline ed estrema, intraducibile e irreplicabile e tanto più attigua alla verità della cosa. Si rivela così l’intento pragmatico dei versi che abbiamo sotto gli occhi: la polarità delle forme di esistenza evocate è tramata dall’antitesi fra globalizzazione del rifiuto di ciò che non si omologa e non è omologabile a nessun patto (lingue e culture creolizzate, linguaggi laterali –come la stessa poesia), e ricostituzione del sé nell’incontro come forma aperta che ha bisogno dell’altro da sé per riconoscersi in positivo, pena la conferma del pregiudizio e l’irrigidimento. Siamo perciò di fronte a un testo raro e prezioso, che pone in modo immediato e destabilizzante il problema dell’identità (degli individui, delle culture, dei luoghi, dei mondi) nel contesto di una rete di comando planetaria disgregata, che ha ben provveduto dal canto suo a mescolare nell’assurdo il piattume notturno del pensiero unico, in cui tutti i colori identitari restano grigi, e l’aberrazione delle identità impazzite ma omologate nella loro pazzia, in cui tutte le visioni politiche tornano nere.

D. V.

Quaderno Azzurro – Poesie 2012-2016

Di
mariasole ariot
-
6 Marzo 2018
3

Pubblico qui alcune poesie tratte da Quaderno Azzurro, Poesie 2012-2016 di Pierino Gallo (Campanotto Editore). Un libro intenso e denso, in cui la parola e gli spazi bianchi che l’accompagnano portano il lettore a una completa immersione nella poetica dell’autore. I ricordi si intrecciano al presente, in un incedere elegante, privo di esibizione ma piuttosto di un’esposizione a tratti commovente, a tratti duro, ma sempre delicato nella sua compostezza.

 

Tengono altari chiusi,
altari sacri,
corsetti di madonne,

e scapolari di lana.
Sottrazioni,
dietro i mattoni
bianchi,

sottrazioni.

Il candore di un abbaglio
apre la notte
e gli inguini.

***

Si è come rotto il cerchio
dell’erranza
ed io Caino col marchio sopra il petto
mi divoro.

Il mio mese è d’inverno,
ché addosso ho le catene
della neve.

Vengono steli di ghiaccio
sul dubbio se lasciare

la terra.

***

È inverno di bocche schiuse e neve ferma.
Dopo la breve sosta, è gelo tenue e stanco,
scarnificato sui fili delle radio.
Dall’alto, le mie dita impertinenti
segnano il tempo.
È il tuo turno,
stavolta,
di vegliare su me.

 

Genoma

Di
andrea inglese
-
5 Marzo 2018
0

di Carlo Bordini

 

Questa è una poesia dedicata a mio nonno

 

Lui aveva la stessa testa come la mia. Piena di cose. E anche di cose

troppo numerose, che cozzano tra loro, e che a volte

non riescono a

trovare l’armonia.

Continua

10 marzo, Ancona – Assemblea nazionale unitaria di movimento

Di
renata morresi
-
4 Marzo 2018
0

Sono passati pochi giorni da quando la mano armata di un neo-fascista ha sparato all’impazzata nelle vie di una nostra città alla ricerca delle sue vittime “di razza”. Sono passati pochi giorni da quando migliaia di persone hanno deciso che ad ogni costo il silenzio e le ritualità andavano frantumati, che il clima di complicità con quel gesto infame e l’arroganza di un potere convinto di poter imporre i suoi diktat andavano rovesciati.

E’ passato poco tempo. Eppure nel volgere di pochi giorni è nata una storia, una grande storia, che sembra impossibile possa essere contenuta nel suo breve involucro temporale. Una storia che ha restituito ai movimenti una capacità di protagonismo fino a qualche settimana fa inimmaginabile, che ha reso le piazze di tante città impraticabili per i neofascisti, che ha dissestato la già miserabile campagna elettorale, che ha trasformato un intero contesto culturale e comunicativo in cui si era ad arte costruita la percezione dell’assenza di opzioni, della cultura razzista e della propaganda xenofoba come sfondo dominante, della sicurezza come negazione delle libertà.

Qualcuno ha detto che questa storia è magica. Ma non c’è niente di magico o di trascendentale, non è una fortunata ed occasionale combinazione di elementi. Molto più semplicemente la realtà materiale, le sue contraddizioni ed il bisogno sempre più pressante di reagire, di non subire oltre, ha trovato una credibile possibilità di espressione, costruita sull’affermazione radicale dell’indipendenza dei movimenti, sull’insubordinazione, anziché sulla mediazione, verso tutti i tentativi di scipparne la rappresentanza, di limitarne la presa di parola o di farne terreno di campagna elettorale. Ciò che ci appare straordinario è, in realtà, la potenza naturale che i movimenti esprimono quando sono reali e protagonisti dei propri percorsi. Un lungo periodo di difficoltà, di divisioni e sottrazioni, di riduzione drastica degli spazi di agibilità, di disarticolazione dei soggetti sociali di riferimento, ha attenuato la consapevolezza della reale intensità  di tale potenza, nella quale si radica l’unica realistica prospettiva di cambiamento generale. Ma le mobilitazioni di questi giorni, la loro incisività e la loro forza incredibilmente ricompositiva ci hanno bruscamente rimesso difronte a quella potenza, alla sua importanza, al desiderio ed alla speranza di tornare a viverla, di vederla nuovamente espandersi, travalicare, debordare. Tutte e tutti siamo tornati a saggiare la materia viva della modificazione del reale, puntuale, immediata, di cui i movimenti sono capaci.

Sono stati sufficienti pochi giorni per ridare significato e concretezza alla parola “antifascismo”: una declinazione nuova che attualizza l’antifascismo storico ed immette una produzione di senso che tiene insieme il rifiuto di ogni discriminazione etnica o razziale, la lotta contro il sessismo e la violenza del patriarcato, la battaglia per le libertà nel tempo della fine dello stato di diritto. Tutte direttrici di contenuto che le migliaia di persone che si sono mobilitate hanno scelto di porre all’ordine del giorno e che, a loro volta, si radicano nella problematica generale del sistema economico e politico in cui razzismo, sessismo, neo-fascismo, negazione delle libertà e della giustizia sociale proliferano.

Mentre i 30.000 sfilavano per le vie di Macerata, più di una volta ci siamo imbattuti in persone che parlavano di “una boccata d’aria”, alcuni azzardavano che stesse “cambiando l’aria”. Con le grandi mobilitazioni antifasciste e antirazziste dei giorni successivi abbiamo letto che era “l’aria di Macerata” a soffiare nelle strade e nelle piazze. Ma l’aria, lo sappiamo, quando inizia a muoversi è strana, cambia di direzione e senso, si muove attraversando luoghi e acquisisce forma e forza dei movimenti che incontra. Più strade percorre più diventa vento collettivo e si esprime in forme diverse a seconda delle barriere che urta e della morfologia che incontra.

Così quel vento partito dalla provincia non è più uguale a come è cominciato ma è già sostanza di tutte e tutti, andando ben oltre la grande giornata del 10 febbraio.

I venti nascono dalla differenza di pressione, nascono dal conflitto. E in questi anni nonostante una feroce repressione, nonostante un’informazione mainstream sempre più veicolo del decadimento culturale e politico, nonostante il clima mefitico che noi tutti respiriamo nelle nostre città, nonostante le mille differenze che i movimenti hanno sedimentato al loro interno negli anni, nonostante tutto questo e molto altro c’è stato sempre chi ha continuato a metterci cuore, polmoni e fiato.

Dalle montagne della Valsusa fino alle spiagge del Salento, passando per piccoli e grandi conflitti il vento ha continuato a soffiare, impercettibile, quasi un sospiro, anche nei momenti più bui della nostra storia. Ora improvvisamente sembra riemersa una capacità di trasformazione della realtà che si è determinata direttamente come evento e come processo: la diffusione molecolare della mobilitazione, la costruzione collettiva della potenza dell’avvenimento, l’energia generata che ha determinato la concatenazione e moltiplicazione di ulteriori accadimenti.

Dopo la manifestazione del 10 febbraio in molte/i ci hanno chiesto quali sarebbero stati i passaggi successivi, a quali proposte stavamo pensando per dare continuità al percorso aperto con la mobilitazione di Macerata. Non avremmo potuto dare   altra risposta a queste domande se non quella semplice, trasparente, forse ovvia, della nostra insufficienza, del fatto che i passaggi successivi possono essere solo il prodotto di una riflessione collettiva, condivisa, articolata tra tutte e tutti coloro che hanno fatto proprio questo percorso, generalizzandolo e diffondendolo nei territori.
Quale altra risposta potrebbe darsi se non che i passaggi successivi possono essere solo il prodotto di un’assunzione di “responsabilità” comune, quella responsabilità “rivoluzionaria”, che è capace di anteporre ai particolarismi, alle sclerotizzazioni, alla tentazione di “autocentrare” i ragionamenti, le necessità di crescita, riaggregazione e ricomposizione dei movimenti? Che il patrimonio restituitoci da queste settimane di mobilitazione è un bene prezioso, da curare e tutelare, forse anche da noi stessi, dal rischio di semplificazioni o di sovrascritture che peserebbero come macigni su percorsi che sono appena all’inizio?

Per tutto questo pensiamo che la grande ricchezza che si è espressa in queste settimane debba prima di tutto trovare un momento di confronto collettivo dove sia possibile provare a darci insieme delle risposte, a condividere l’entusiasmo con cui immaginare i passaggi successivi e la geografia di un agire in grado di riaprire spazi credibili di espressione della conflittualità sociale.

E’ da queste considerazioni che nasce la proposta di realizzare nelle Marche un’assemblea unitaria di movimento per SABATO 10 MARZO, dalle 10 alle 18,30, alla Mole Vanvitelliana di Ancona.

I movimenti hanno la forza di trasformare perché essi sono già cambiamento in atto, fuori e dentro se stessi. I movimenti cambieranno il futuro perché hanno la forza, qui ed ora, di cambiare il presente.

CSA Sisma
Centri Sociali delle Marche
Ambasciata dei Diritti Marche

*

Il testo integrale dell’appello

L’evento su Facebook

Prove d’ascolto #23 – Michele Zaffarano

Di
renata morresi
-
4 Marzo 2018
0

(SETTE) PICCOLE ESTINZIONI QUOTIDIANE

C’est l’ennui qui trépasse

 

1

Non viaggiamo frequentiamo molta gente poi non ne frequentiamo più. Le solite ore di solitudine. Così torniamo e ricominciamo a vivere da soli. Altri rispetto alle altre cose. E le virtù con parole tanto aspre. Hai detto questo. Almeno lui come se veramente potesse portarsela via. Insomma si sente agitata da vibrazioni sottili. È un dato di fatto. È semplice la vita con tutte le sue iniziali.

 

 

 

 

2

Va via e: non ci restano nemmeno due giorni. Te l’assicuro. Pura esperienza virtuale. Mediata dal linguaggio. Ho promesso che non sarei più andato in chiesa ma mentre uscivo di chiesa l’ho sentita e non ci potevo credere. Probabilmente loro sì è il loro bene che è il paradiso: oh ce l’abbiamo fatta. Il riferimento è costante al luogo e al momento della giornata alle condizioni atmosferiche e ambientali in cui avvengono i rapporti. È il primo senso che gli amanti usano per conoscersi la vista. Poi viene sicuramente il tatto. Lei l’ha detto: adesso mi giro la prendi giù e poi ci fai quello che ti pare. Quando si gira lo tiro fuori e ci faccio un po’ quello che mi pare. È così che ha detto. Guarda non ne vedo l’utilità stiamo tutti per uscire nel giro di dieci minuti. Lo faccio perché cerco di dire quello che penso veramente e credo che da quel momento mi hai impressionato in modo sostanziale. E continuavamo a dirglielo di non aprire la porta: chiedi solo chi è. Invece il piacere che provava era il piacere di essere osservata. Esibizionismo. Quando l’ho aperta sembrava una specie di palude. Pensa di assaporare la pienezza del piacere solo se sa da quando lui è già sulle scale. E un giorno per strada sotto la pioggia di novembre mi raccoglie. Vorrebbe soddisfarsi le sue fantasie ma non può farlo in realtà per motivi culturali e di educazione.

 

 

 

 

3

Nascosti in parte da una coperta si accarezzavano la mano destra che era bloccata all’altezza della vita dentro di lei. Per favore fottimi. Il ventre inghiotte valori negativi e simboleggia la caduta nel microcosmo del peccato. È priva di gusto è solo una scocciatrice che racconta oscenità tutte le volte che in casa sua uno alza i tacchi. Ci si potrebbe addirittura immaginare un lettore disposto o predisposto a considerare qualsiasi cosa legga come uno spettacolare eccesso narrativo. Pornografico. Pallide non sono pallide oh che paradosso nemmeno le sue ore di trasparenza nemmeno questo. Non vuole annoiarsi ma non vuole dirglielo. Dispotica e tenera insieme desiderosa che sia lui. A.

 

 

 

 

4

Prima di tutto piace perché ci sono tutti quegli oh e perché le abituali categorie si trasformano in follia pura. Il linguaggio poetico non è la lingua comune un gatto non è un gatto e questa non è una pippa. Fin da quando sono nato ho fatto errori ma tu lo sai sempre in un modo che era autentico.

 

 

 

 

5

Certo il talento per il disegno una passione saggissima. Ma qui lei sorride tranquillamente. La morte sta nella ripetizione. E quindi la vita è condizione della morte e viceversa. Adesso vai a casa. Che cosa pensi di fare vestendoti così. In fin dei conti ti stai facendo la tua bohème. Il corpo e l’intreccio dei corpi diventa allo stesso tempo il mondo e i personaggi che lo abitano. E poi c’è l’uccello. Si sa che l’uccello è il simbolo dell’eros sublimato. La fantasticheria dell’ala del volo l’esperienza dell’aria della materia celeste. Fermate questa confusione: mi sta uccidendo. Forse faccio la cosa giusta se non ne facciamo niente. Nella narrazione a queste immagini si alterna sempre una descrizione che sarà meglio trattata in seguito. Si traccia una specie di percorso iniziatico con lamentazioni che si intrecciano a sprazzi luminosi. E poi davanti a tutti ha detto: ooh si può avere una busta grande. Ma poi ha deciso: non è grande abbastanza. Hai mai visto qualcosa di più perfetto. Adesso però vogliamo fumare. A dodici anni si lamentava del congenito spleen e adesso rovescia dubbi con l’aria di chi ti prende in giro. Vedi te l’ho detto sono tutti strani hanno tutti nomi strani e anche il resto è tutto strano.

 

 

 

 

6

È così che si reagisce in prima linea e non so perché. La vocazione non spartisce il mondo in coppie di nozioni soltanto per la smania di muoversi. Scendesse nel corpo come può. Si conoscesse diversa. Io voglio morire così. Consacrato all’arte. Prenderei un po’ di peso. Mi pianterei con eroica fermezza mi lascerei crescere. Ma forse la poesia non contesta potentemente il principio di realtà.

 

 

 

 

7

Che impressione che faceva. Quando l’ho vista sembrava una cosa così preziosa aveva intorno tutta quell’atmosfera misteriosa. All’inizio ero ancora disposto ad accettare tutto anche se riconoscevo gli eccessi fantastici. Per esempio l’abito a righe bianche e nere. Per esempio quando si agita mentre respira. I capelli neri fino alle labbra. Basta poco. Ma non hai mai dormito più di due o tre ore per notte per tutta la vita. Adesso vuoi vedermelo fare di nuovo. Va bene. Rimango appeso a un filo: vuoi vedermi fare il mio numero speciale. Prendiamo l’occorrente. Prendi tutto e porta qua. Faremo di tutto. Dovrò spazzare questo posto. Mi dovete proprio scusare.

 

 

*

 

Prove d’ascolto è un progetto di Simona Menicocci e Fabio Teti 

 

La crozza col cappellino e l’ombrellino

Di
daniele ventre
-
3 Marzo 2018
2

Monologo di Nadia Cavalera

Democrazia? Democrazia…E che cos’è?
Secondo la definizione corrente è «la forma di governo basata sulla sovranità popolare, in grado di garantire a ogni cittadino pari libertà e i medesimi diritti civili, politici e sociali, oltre alla partecipazione in piena uguaglianza dell’esercizio del potere pubblico». Una seppur parziale realizzazione della isonomia propugnata da Hannah Arendt?
Pari libertà per tutti…pari uguaglianza per tutti, nella gestione del pubblico potere.
Alexander Dubcek incalza: «La democrazia non è solamente la possibilità ed il diritto di esprimere la propria opinione, ma è anche la garanzia che tale opinione venga presa in considerazione da parte del potere, la possibilità per ciascuno di avere una parte reale nelle decisioni».
Che belle parole, che possono essere smentite punto per punto per mio sommo disappunto.
Parole dunque. E nei fatti?
Forse aveva ragione Lenin quando diceva che
«la democrazia è uno stato che legittima la sottomissione della minoranza alla maggioranza, ed è paragonabile ad un’organizzazione istituita per l’uso sistematico della forza di una classe contro l’altra, di una parte della popolazione contro l’altra».
Però a ben pensarci questo poteva andare bene un secolo fa. Quando comunque la maggioranza aveva sempre ragione e la minoranza non aveva la forza di reagire e subiva soltanto.
Ma ora, che le nebbie si stanno definitivamente diradando, vediamo che quella maggioranza di cittadini non esiste, non conta niente ed è stata assorbita in un gruppo di potere, che decide secondo i propri piani, per i quali non c’è bisogno neppure di voti di approvazione.
Se proprio di maggioranza vogliamo parlare indichiamo quel gregge di spettatori passivi che segue, tra mance varie, il capetto di turno, e la minoranza una massa di topi decerebrati che rosicchiano le briciole, volendone altre ed altre ancora.
Tutti soggetti passivi. Come mai? Lavaggio del cervello ad opera della pubblicità, che non è solo quella classica ma è quella che si esercita in tanti altri modi occulti. Ha ragione Noam Chomsky: «La propaganda è in democrazia quello che il randello è in uno stato totalitario». Tutti randellati dunque.
Un popolo stordito manipolato, sradicato da quei sani valori che ancora potrebbero servire da leva per una ripresa. Un popolo orientato solo a perseguire un qualche beneficio personale (in rapporto alla capacità di ogni singolo di appropriarsi indebitamente di quanto più possibile), potrebbe essere redento da giuste leggi, è vero. Ma come muoversi, quando sono proprio queste leggi che prendono le debite distanze dai soggetti, volendoli tenere in quello stato, sottovuoto mentale?
Le leggi sono lontane dal popolo, lontane dalla sua coscienza, reperto obnubilato. Così che, in maniera evidente ormai, senza neppure sotterfugi, le leggi vengono imposte dall’alto.
Per mantenere l’illusione della libertà, si spendono milioni per indire i referendum popolari, che vengono sistematicamente ignorati. E per meglio domare il popolo ribelle lo si priva del lavoro, gli si toglie in parole povere la base della dignità, l’unica condizione che gli permetterebbe di pensare ad una qualche generale uguaglianza.
E la disoccupazione e il precariato, nella salsa perenne dell’aleatorietà, impazzano.
Questa è la democrazia? Forse sarebbe più corretto chiamarla oligarchia
Democrazia è una parola simile a poesia. Di essa si dice di tutto e di più senza conclusione alcuna. Per puro indottrinamento sciorinato in ogni qualsivoglia intrattenimento.
Per me?… è un reperto archeologico dei greci più creativi (i produttori di logos, circolanti nel bios politikos – ah la polis che grande fregatura!), che, a caccia di personale eccellenza, già allora vollero manipolare l’opinione pubblica, facendo passare per “popolo intero” ciò che era solo una parziale realtà, l’indicazione di un ceto, la modificazione della fratria per scalare il potere e entrare nella bulè.
Non indicava certo il popolo tutto. E le donne dov’erano? e i meteci? e gli schiavi?
Va bene, ammettono i capoccioni, non erano tutti tutti, ma almeno hanno cominciato l’autodeterminazione. Ah deo gratias! E gli uomini autodeterminandosi, autodeterminandosi continuamente, nei secoli dei secoli, sono finiti dove? sotto i piedi del capitalismo, che elargisce falsa libertà, quel tanto per poter essere ligi consumatori e permettere alla piovra di sopravvivere alla grande.
Conoscevano bene i Greci il potere del linguaggio e giù a coniare quella parola, che poteva andare bene allora, ma coccolarsela ancora dopo due millenni e mezzo è il colmo. Fa vomitare. Tra tanti filosofi e politici nessuno riesce a pensare di meglio? Nessuno riesce a definire una forma nuova di governo? Se proprio siete antiquari rispolverate il comunismo, che sempre più giovane è. Certo con ritocchi, ok, ma sempre meglio di questo sconcio corrente.
Democrazia…una crozza col cappellino e l’ombrellino, che ancora i filosofi si pettinano, scartando proprio il comunismo che ben altre soluzioni porterebbe.
Non credo sbagliasse Andrzej Majewski quando ha detto che «Il più grande e geniale truffatore di tutti i tempi è stato l’inventore della democrazia». Truffatore sì.
E giocate, giocate ancora con questo fantoccio senza anima, accontentatevi di scrivere migliaia di libri per pochi e senza tanta immaginazione, con la conseguenza del trionfo tronfio del capitalismo.
«Niente e nessuno, neanche la democrazia, può proteggere l’umanità dalla sua propria follia» ha scritto qualcuno.
E lo credo bene.
Primo: l’umanità non è folle. Folle è solo quel gruppetto di maschi che dominano imponendo le loro scelte economiche di puro mercato al resto di quella che andrebbe chiamata finalmente, nel rispetto della componente femminile, umafeminità (neologismo per uomini e donne insieme, n.d.r.).
Se ne fregano di qualsiasi possibile ostacolo. Lo aggirano con le parole quindi lo annientano.
Secondo: non può un fantasma verminoso, vuoto e roso fermare alcunché, anzi è stato creato apposta per permettere al gruppetto di folli violenti di fare quello che vogliono.
La democrazia non esiste. Solo apparenza. Anzi la flatulenza di putrefatta effervescenza.
E già lo sapeva bene, nel secolo breve, Mussolini: «I Regimi democratici – diceva – possono essere definiti quelli nei quali, di tanto in tanto, si dà al popolo l’illusione di essere sovrano.»
E Gore Vidal: «La democrazia dà la sensazione di poter scegliere».
Illusione dunque, sensazione come impressione.
Certo qualcuno potrebbe obiettare che stiamo meglio che nei Paesi Islamici.
Ma questo non mi consola proprio.
A parte il fatto che una parodia di democrazia può essere anche più pericolosa di una chiara dittatura perché anestetizza i cittadini, toglie loro la volontà di agire, di difendersi, a me come vivano altre culture non interessa. E comunque bisogna vedere i punti partenza.
Se consideriamo i nostri e i loro, i risultati, credetemi, sono identici.
Immobili loro e immobili noi. Loro sulla teocrazia, che almeno si capisce cos’è, e noi a cincischiare con ‘sto straccio di parola.
Democrazia… Tra i composti con -crazia, per indicare una forma politica, è l’unica parola insulsa. Infatti se teocrazia, aristocrazia hanno ancora un senso: potere gestito dalla religione l’uno, e potere in mano ai migliori l’altro (si fa per dire, più spesso sono i peggiori moralmente, capaci delle più obbrobriose nefandezze). E persino ginecocrazia, potere in mano alle donne. Ma …democrazia..per carità!
Anche Monarchia o Oligarchia hanno ancora un senso valido, per una forma di stato.
Oligarchia sarebbe poi la condizione attuale con ‘sta mascherata democratica.
Viviamo in una società oligarchica, gestita dal potere finanziario, che non può permettere libertà reali ma solo virtuali.
Permesso ribellarsi, ma senza speranza alcuna di cambiamento. Uno sfogo saltuario per mantenere tutto come prima. E di questo sono testimonianza svariati movimenti, valvole di sfogo controllate, preventivate, programmate. Non certo prova della forza degli ideali democratici. Che se così fosse stato, un miglioramento avremmo dovuto vederlo. Invece niente di nuovo, tutto rientrato (come nel ’68), dopo il movimento di “Occupy Wall Street”, dopo la “primavera araba”, dopo la “rivoluzione degli ombrelli” dei ragazzi di Hong Kong.
Si può discutere il carattere centrale dell’economia, ma non certo osare pensare di cambiarlo, è questo il monito. Più che dimostrazione della forza eversiva dell’autonomia e dei suoi ideali democratici, sono sfoghi previsti e castrati in tempi rapidi.
In democrazia il popolo è bastonato su mandato del popolo. È la pratica certosina dell’autoinganno, direbbe Carmelo Bene.
Siamo in pieno neo-liberismo: il potere dei cittadini trasloca sempre più nelle mani dei privati, di pochi privati.
La sovranità popolare è stata confiscata dalle lobby economiche che usano i partiti burocratizzati, fantocciati. Siamo in postdemocrazia. Per taluni. Che non hanno neppure la fantasia di trovare un altro nome. Eppure trovarlo è ineludibile se veramente si vuole creare un’altra realtà. Il nome la determina.
Che fare dunque davanti a questa che per Georges Bernanos è un’invenzione degli intellettuali, e per Leonardo Sciascia una presa per i fondelli? «Il popolo, la democrazia […] sono belle invenzioni: cose inventate a tavolino, da gente che sa mettere una parola in culo all’altra e tutte le parole nel culo dell’umanità » .
Che bella soddisfazione!
Ma il culo dell’umanità è colmo. Eliminare la parola democrazia è d’obbligo. Così come quella di “politica”. La polis oggi è inconcepibile. Se proprio si vuole mantenere la terminologia greca, rifacciamoci all’astu, la piazza e location dei lavoratori.
Basta con questa falsa crazia del popolo, ma che politici accorti, quali per me potrebbero essere solo gli astutici (gli operatori pubblici che vengono dall’astu e si muovono per l’astu) puntino su programmi che privilegino il lavoro, che è l’unico modo per dare dignità all’umafeminità.
Da decenni io auspico una nuova forma di governo. Le ho dato anche un nome: ERGOCRAZIA: Potere al lavoro (ergon in greco, n.d.r.)
Ai sopravvissuti alle manipolazioni e ai possibili loro degni rappresentanti il compito arduo ma inderogabile di realizzarla.

 Il doppio sguardo. Su Parlarne tra amici e Lealtà  

Di
francesca fiorletta
-
2 Marzo 2018
3

di Eloisa Morra                                                     

Ci sono tanti tipi di lettori quanti tipi di romanzi; tra questi ultimi preferisco quelli che chiamo tra me e me “romanzi-gazzella”: testi brevi il cui fascino è racchiuso nella brillantezza dei dialoghi e in una voce narrante capace di rendere interessante il paesaggio o il tipo umano più noto. Certi romanzi di Maugham, tutto Lernet-Holenia, il primo Roth… Leggo questi libri con lentezza esasperante, maledicendo gli autori per non aver scritto un tomo. Poi però mi dico che se li venero è proprio per la brevitas, e che i romanzi “obesi” non sono davvero nelle mie corde: di David Foster Wallace mi divertono i saggi, ma ho ripreso tre volte in mano Infinite Jest senza mai riuscire a finirlo (per Zadie Smith il discorso è diverso, ma forse lei è l’eccezione che conferma la regola). Come mai mi trovo più a mio agio nella Firenze volutamente cliché di Maugham o nella felix Austria di Lernet-Holenia che in quelle pagine ribollenti di attualità?

Continua

Essendo il dentro un fuori infinito #14

Di
mariasole ariot
-
1 Marzo 2018
1

di Mariasole Ariot

Gaia si muove respirando faticosamente, il dolore lancinante come punte di spillo sotto i piedi, l’asfalto rimasto da quando si è gettata, l’orribile dentro le scarpe, l’orribile nelle caviglie, al posto dei tutori. La carrozzina si sposta voltandosi come un corpo muto, una protesi di acciaio sotto il suo, prima così delicato, ora in piena.
Gaia ride, si è dipinta gli occhi di azzurro, Gaia parla a perdifiato bevendo spremute d’arancio, Gaia si traveste da cervo o cerbiatto, Gaia sa parlare tre lingue.

Di quel giorno ricordo il flacone di tachipirina, la gola arsa, lo svenimento. Poi mi hanno portata in coma nell’ala ovest, so solo questo. So che quando mi sono svegliata volevano prendermi, portarmi nel reparto “giusto”, e io mi sono tuffata. Tre piani, sono caduta in piedi, i talloni scoppiati, le fratture,i corpo schizzato in mille pezzi d’ossa : sono viva per miracolo.

Di questo miracolo porta il segno negli occhi e nella bocca : un miscuglio di donna e di rossetti, di figli e di amanti, di imprecazioni e di risate, di desiderio e vergogna. Porta i miracoli nelle dita che giocano a scacchi a tutte le ore, porta i miracoli nella sala del fumo, porta i miracoli a cena, quando le ragazzine si distendono per evitare di mangiare e lei le riprende con parole secche.

Gaia è quello che rimane di un salto nel vuoto, il molto che non ci si aspettiamo, Gaia scherza anche quando piange, Gaia ha parole dolci per i neonati, per la vecchia fuggita in tram, Gaia galleggia sulla città, Gaia non cede, Gaia non tace.
Il letto è stato affumicato dall’ultima sigaretta, Gaia si sporge dalla sedia a rotelle e lo innaffia con vasi di mare, traffica con le parole dette e con quelle chiuse dentro la stanza dei ricostruttori. I piedi non le danno tregua.
Non li sento e continuo a sentirli. E’ come un arto amputato che continua a piangere, un temporale di acquavite sulla vita, un sole che brucia a mezzogiorno mentre non ho niente addosso, i cinquanta gradi a sud del mio corpo. Viva per miracolo non significa niente, significa esistere senza giustificazione. Non c’è bisogno di una giustificazione all’esistenza, bambina: sono qui perché dovevo essere qui. Perché ho due figli e un uomo che mi corica a letto e m’innaffia di seme buono, perché ho le gambe morte ma ancora aperte, perché dalle cosce in su io sento tutto, perché il tutto non è niente se non è travestito, perché ho una lingua potente, che batte sulle cose, che striscia sui tetti e sulle finestre, perché sono una finestra. 
 
Gaia ha infilato il cuore in una scatola quadrata che ricopre di piccole conchiglie, la sera prima di addormentarsi lo sfila, lo mangia tutto fino all’ultimo boccone, Gaia lo sente battere per la notte, Gaia ha i sogni nel battito cardiaco, Gaia ha un rumore di fondo che la perseguita e le dice di avanzare. Gaia avanza, non può inginocchiarsi di fronte al mare, può solo berlo. Le abbiamo visto il seno protruso in una gigantesca montata lattea, accudisce i bambini del corridoio, li mette uno a uno sotto lo sterno e comincia ad allattare. E’ umore buono, l’umore delle madri salve, delle donne salvate, delle armi depositate.
Gaia ride come sempre, con un rivolo di sangue sulla bocca per essersi morsicata un labbro mentre decideva cosa farsene dei piedi, Gaia cambia le scarpe con scarpe nuove, il pungente è sempre allenato, Gaia lo reprime cantando una canzone per i passati andati a male. Gaia è protesa al futuro :
 
“Non, rien de rien, non, je ne regrette rien
Ni le bien qu’on m’a fait, ni le mal
Tout ça m’est bien égal
Non, rien de rien, non, je ne regrette rien
C’est payé, balayé, oublié, je me fous du passé”
Ho lasciato ai miei occhi quello che è stato, resta sotto le ciglia, quando divento una soluzione per un movente, quando divento la donna che sono – sempre stata e mai stata. Mi sono gettata dal terzo piano, ma ho un piano per risalire : il suono della ruggine capita perché mi sono piovuta addosso. Un ramo mi dice di non fuggire, e non fuggire nemmeno tu, bambina dagli occhi grandi: non c’è passato che non passi, non c’è futuro che non resti, non c’è che questa sala in cui voi vi dimenate e io sono immobile ma ho una bocca abile a parlare la voce degli altri. Ora tu segui la mia voce : segui il mio canto : segui il rifugio : sei tra i rifugiati ma non sei perduta. Mi sono sfracellata, sono caduta, non sono fuggita. Dalla bottiglia da cui ti parlo ti mando luci di incendi e stellate, ti mando mani aperte alle verità più crude, ti apro la verità con un soffio. I trafficanti non hanno tempo di scusarsi, ma tu svegliati, bambina: il sonno non è una cura. 
 
* le foto sono state scattate alla mostra di DOGUKAN BELOZOGLU

La vita lontana

Di
francesca fiorletta
-
28 Febbraio 2018
0

Domani 1 marzo esce il romanzo di Paolo Pecere, filosofo e ricercatore, “La vita lontana”, edito da LiberAria, nella collana Meduse curata da Alessandra Minervini.
Di seguito, l’incipit in anteprima. Buona lettura.

di Paolo Pecere

Il giorno d’agosto in cui Livio e Marzio sono nati ci alzammo presto e scendemmo a vagare per le vie deserte, come una coppia di palombari nello scafandro dell’auto, sonnolenti e senza direzione. Elio guidava piano, rideva fuori sincrono, mi sfiorava dolcemente il braccio. Nella pancia sentivo un solletico elettrico. Forme di vita cominciavano a uscire di casa per procurarsi cibo e giornali, il vento palpitava sotto i panni appesi, i filamenti delle nuvole si aprivano. Dai tetti delle palazzine scese una scala musicale: l’esercizio di un musicista al flauto, appena distinto tra gli sbuffi dei motori, o un miraggio uditivo di cui una voce bisbigliante in me giurava l’esistenza. Un giorno sei stata felice.
– Mare? – disse Elio, e poi silenzio. Comunicavamo col pensiero, seguendo una traccia invisibile, centrifuga, per un istinto migratorio che portava via dalla calotta della città, oltre l’agro romano, verso un’altra vita.

Continua

Brasilia: il doppio sogno di Franz Krauspenhaar (no spoiler)

Di
daniele ventre
-
28 Febbraio 2018
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di Domenico Lombardini

Accingendomi a scrivere alcune ipotesi di lavoro intorno all’ultimo lavoro di Franz Krauspenhaar (Brasilia, Castelvecchi) emerge evidente la natura proteiforme dell’opera. Romanzo distopico, è stato detto; scrittura in cui si risentono, chiare, le letture “preferite” del nostro: Kafka, Lovecraft, Houellebecq, tra gli altri. Tutto vero ma parziale. C’è di più. Il protagonista, Ernesto, chiamato dal padre in Brasile per l’ultimo saluto (al padre rimane poco da vivere), apprende una verità terribile sul conto del genitore, un segreto che getta retrospettivamente un’ombra malefica su tutta la sua vita, perché sui figli cadrà sempre la colpa dei padri. Ma qual è la colpa del padre, quale il suo terribile segreto?

Si parla, nel romanzo, di un’organizzazione occulta, un Grande Oriente dedito al traviamento delle masse attraverso l’uso di messaggi subliminali. Si parla di esperimenti, ma poco si dice sulla loro intima natura, gli effetti, la verità ultima. A differenza dei romanzi distopici, tuttavia, in cui il protagonista si scopre catapultato e immerso in un mondo altro e alieno ma ben delineato e definito nella narrazione, in Brasilia non si ha mai reale contezza se ciò che l’autore sta descrivendo sia cosa reale o onirica, esperienza o figurazione, fatto o reminiscenza, e il mondo che fa da sfondo al racconto non è mai a fuoco ma piuttosto immerso in una spessa caligine. Qui è la natura proteiforme, cangiante dell’opera: la realtà dei personaggi è continuamente decentrata, infondata, sfumata, sempre a cavallo tra la realtà e qualcosa che sta di là da questa, che non è finzione ma piuttosto sogno, mimesi di una realtà di cui si intuisce la natura ma della quale non si ha vera esperienza ma, appunto, intuizione.

Si sta quindi in uno stato di sospensione narrativa: il racconto prosegue, la prosa continua, ma non se ne capisce la direzione, l’approdo. Anche il tratteggio caratteriale ed emotivo dei personaggi appare talvolta scontornato, talaltra troppo netto. L’amore di Ernesto per la madre morta suicida durante la sua infanzia appare a un tempo sincero e naïf, l’attrazione sessuale per una giovane donna, Denise, ricalca gli stilemi forse un po’ triti della classica infatuazione maschile per un bel corpo, il rapporto col padre improntato alla abituale, difficile e nevrotica relazione edipica. Eppure, nonostante quel tanto di abbozzato e digrossato, il racconto mantiene imperturbabile la sua tenuta narrativa: tout se tient. Questo è il piccolo miracolo di Brasilia.

La storia è sempre sul punto di rivelare finalmente qualcosa di definitivo, ma ciò non accade mai, neppure alla fine. È un sogno che non si scioglie mai nella veglia e una veglia che non cede definitivamente al sogno. Si sta tra i due mondi in uno stato di continua esitazione, non optando definitivamente né per uno né per l’altro. È come se l’autore volesse suggerirci che nulla ci fonda né che possiamo trovare requie al dolore in un accesso di coscienza ipertrofica o, al contrario, di sogno o deliquio. Forse proprio questo vuole suggerirci Franz Krauspenhaar: come in Doppio sogno di Arthur Schnitzler, ma meglio in Eyes wide shut di Stanley Kubrick, il defatigante sforzo di razionalizzare o, al contrario, di perdersi definitivamente nel sogno non approda a nulla, piuttosto siamo chiamati a farci abitatori mai stanziali di entrambi i mondi, perché, come scrisse Edgar Allan Poe, “All that we see or seem / Is but a dream within a dream”.

Elegia

Di
davide orecchio
-
27 Febbraio 2018
0

di Davide Franchetto

La vide affacciarsi in cortile dalla porta della cucina. Aveva già addosso il cappotto e l’ombrello in mano, le scarpe buone ai piedi, quelle nere con un po’ di tacco che la facevano brontolare per le caviglie gonfie e rimpiangere le ciabatte e la cucina. Lui tirò un ultimo calcio al pallone che rimbalzò contro la rete di cinta e ricadde nella gigantesca pozzanghera che da poche ore s’era allargata dal centro del cortile fino ai suoi confini. Dal pollaio le anatre spingevano il becco tra le maglie delle gabbie e starnazzavano di desiderio.

“Ti prenderai un accidente!” Gli urlò.

Succedeva che la nonna lo chiamasse ad accompagnarla nelle sere in cui sua madre restava assopita sul divano e il nonno brillo davanti al televisore. Non erano molte le occasioni per le quali si prendesse un pensiero dopo che s’era fatto buio: passare la notte accanto a un malato, portare le condoglianze alla famiglia di un defunto, una messa di trigesima.

“Lavati le mani, guarda come sei sporco”. Gli disse.

S’infilò la giacca e fuori casa lei lo prese sottobraccio per condividere l’ombrello. Camminarono lungo le vie scure e gialle della luce che dai lampioni sgocciolava sull’asfalto. Più giù, alle cascine, era buio e a fare strada era la memoria, era il fosso pieno d’acqua che s’affacciava sullo sterrato, sbordava sulla ghiaia dei vialetti e gonfiava il legno dei portoni.

Dentro non c’era più posto e uno sciame si stringeva sull’uscio, contro i muri, tutt’intorno al perimetro del cortile: si scontravano le stecche degli ombrelli, si sussurravano scuse, uno, distratto, aveva scalciato un vaso di gerani lasciato a prendere pioggia: ora i petali viola spuntavano come vecchie promesse tra i cocci e le zolle. Lui e la nonna avevano conquistato una spanna di muro sul fondo, al riparo sotto uno spiovente di coppi centenari e ora lei lo teneva stretto a sé, lo cingeva al petto stringendolo contro il suo. Lui riconosceva l’odore di muffa del cappotto, affondava la faccia nella manica coprendosi fin sopra il naso. Quando erano arrivati qualcuno s’era girato a guardarli e nessuno per salutare. Una donna gli era venuta incontro, una vecchia alta e dal passo deciso con certi occhi grifagni che avevano artigliato sua nonna.

“Sei matta!” Le aveva detto. E per quanto sottovoce dopo tutti avevano bisbigliato qualcosa.

Lei non aveva risposto. Lui aveva guardato la donna e morso la manica del cappotto.

Cominciò la preghiera.

“Metti bene le mani, come ti hanno insegnato”. Lui giunse le mani all’altezza del petto e chiuse gli occhi godendosi il tepore della stretta di lei. Li riaprì subito immaginandosi che tutti lo stessero guardando, ma le rare occhiate non erano per lui, e chi le lanciava inciampava nelle orazioni per spettegolare con la vicina che annuiva e non guardava.

“Credo!” Non conosceva quella preghiera, faceva eco alle beghine che gracchiavano per prime e comandavano tutti gli altri. Lo rassicurava che anche la nonna la borbottasse, come un ricordo che si dice ma non si è sicuri di avere.

“Padre!” Si fecero più forti le voci di tutti e la sua con le altre. Scandiva bene le lodi e si guardava intorno. Sentì l’abbaiare dei cani e lo schiocco delle catene sul cemento arrivare dal lato opposto della cascina; vide sbucare in cortile un bastardino basso e grasso, un pezzato dalle zampe curve che prese ad annusare i piedi dei fedeli uno ad uno. Quando fu il suo turno disobbedì e allungò una mano verso il muso, quello l’annusò accompagnando un lento scodinzolio, lui sorrise sentendosi inumidire le dita.

“Angela”. Alzò la testa seguendo una voce poco più in alto, di fianco a sua nonna e vicina al suo orecchio. Continuando a sussurrare l’Ave Maria lei voltò lo sguardo verso la donna.

“Angela”, ripeté l’altra. Aveva un tono dolce e più che chiamare pareva stupirsi per qualcosa che le fosse apparso lì in mezzo al cortile: le ali stese sul cappotto bagnato.

“Teresa”

“Ma perché sei venuta?”

“A pregare”. Rispose Angela.

Teresa rimase al loro fianco a rimandare indietro le occhiatacce che ancora osavano. Lui appoggiò la testa al petto della nonna, continuò ad andare dietro alle preghiere, sbadigliò, seguì con lo sguardo il cane che dopo aver annusato tutti i presenti si era affacciato sulla porta di casa, era stato scacciato ed era tornato nel cortile ad annusare la terra e i ciuffi d’erba che sbocciavano dalle crepe del calcestruzzo. A torturare i vermi che la pioggia chiamava fuori.

“Amen”.

La folla si distese, si riaprirono gli ombrelli, ci furono nuovi saluti e i crocchi delle beghine e le voci ora alte degli uomini. In molti si misero in coda per le condoglianze e sua nonna e lui dietro tutti gli altri.

“Angela, vai a casa”. La supplicò Teresa.

Ma lei niente, un passo dietro il nipote e la mano sulla sua spalla. Avvicinandosi all’ingresso si cominciava a vedere il buio dentro e si sentivano i sospiri che lo attraversavano.

“Angela, andiamo a casa”.

Lui si fermò, si voltò verso la nonna.

“Torniamo a casa”. Le disse e cercò di sembrare annoiato, di non mostrare paura. Lei gli diede un’altra carezza.

“Salutiamo e poi torniamo a casa”

“Non vorrai mica”, sbottò Teresa.

“E’ grande”.

Superarono la soglia e fecero due passi in corridoio. C’erano persone che andavano e venivano da una stanza sul fondo, e qualcuno che entrava in un’altra stanza lì vicino. Si sentivano le giaculatorie sommesse di chi credeva di non aver pregato abbastanza, e gli uomini dalle donne si distinguevano dall’odore: La calce, la terra e la canfora.

Si avvicinò a loro una donna, quella di prima o un’altra con la stessa faccia. La nonna lo strinse più forte sulle spalle e lo spostò di due passi avanti, che quella si piantasse lì e non si permettesse oltre.

“Non credere eh!” Gracchiò la donna, e le sfuggì un gesto col braccio, uno schiaffo all’aria nera. L’indice indicava la stanza sul fondo. “Con tuo nipote. Senza cognizione!” E di nuovo sottovoce abbastanza da farsi sentire.

“Basta!” Saltò su Teresa.

“Non la faccio mica andare”

“Solo un momento”, disse Angela “E andiamo via”.

Lui si girò verso la nonna. La voce non era la solita ma di preghiera. Vera, non come prima. La donna imprecò, sollevò lo sguardo al soffitto o al cielo che erano ormai la stessa notte. A quel dio che aveva fatto buio.

“Vieni”. Disse Angela passando avanti.

Aspettarono che una coppia finisse l’ultima Ave Maria e consegnasse un bacio dalla punta delle dita sulla sponda della bara. Angela chinò il viso accanto a quello del nipote.

“Pensa che sta dormendo”. Gli disse all’orecchio.

Teresa entrò per prima, si fece il segno della croce, farfugliò la preghiera e come gli altri consegnò il bacio. Poi tornò sulla porta e rimase di guardia. La camera era illuminata da due grandi candele che spiccavano dai candelabri sistemati ai lati della bara, lì accanto una sedia per sostenere la notte di veglia. La luce delle fiammelle svelava la tinta porpora delle tende, sbuffava contro la vecchia credenza grande una parete. Dalle vetrine sbirciavano le statuette in gesso: una Madonna, gli angeli paffuti, un vecchio abbracciato a una damigiana, la fotografia incorniciata di una coppia d’anziani, quella di due giovani in bianco e nero.

“Non fa paura, sta dormendo”. Ripeté Angela.

Lui strusciò una caviglia contro l’altra, serrò cosce e ginocchia e s’ingobbì un poco per trattenere una scoreggia. Si fece coraggio, pensò agli amici: -Ho visto un morto. Dal vero. – Avrebbe raccontato.

Angela s’accostò alla bara, appoggiò entrambe le mani sulla sponda come per tenersi su: le caviglie gonfie, le scarpe.

“Vuoi vedere?” Gli chiese.

S’avvicinò alla nonna. A passi pesanti e attenti, sulla graniglia che i passi di tutti gli altri prima avevano reso scivolosa. Un paciocco di terra e pioggia.

Un morto vero.

Angela gli strinse la mano.

“Non fa mica paura”.

Lui si sporse oltre il bordo della cassa e guardò: era sdraiato un uomo in giacca e cravatta. Quasi calvo come tutti i vecchi, con la faccia di una cera grigiastra e le rughe stirate che lo facevano dieci anni più giovane di quanto fosse stato. Gli ricordava certi zii al Barbera conosciuti di scorcio alle cerimonie di famiglia. Uomini sottili come steli e sempre in silenzio, che ci fosse da far festa o stare abbottonati.

Non gli faceva paura.

Angela diede una carezza alla salma e si sedette sulla sedia.

“Diciamone ancora una”. Disse, e attaccò con un Ave Maria quando lui aveva già cominciato con un Padre.

Poi Angela rimase seduta a guardarsi le mani grosse, lentigginose, le unghie grigie. Teresa si scostò dalla soglia e le andò vicino.

“Andiamo Angela, dai”

“Un minuto”

“Ti guardano già male”

“Anche prima”.

Teresa rimase in piedi, in silenzio per dovere e rigida d’impazienza.

“Non ti fa nemmeno più piangere”. Disse.

“Gli somiglia”

“Chi?” Chiese Teresa.

Angela sollevò una mano verso il nipote.

“Shhht”. La riprese Teresa come prima coi pettegoli.

Lui stava ancora osservando il morto, fiero di non avere paura, quando aveva colto quel gesto con la mano: dal grembo a lui. E più d’averla vista l’aveva sentita. E Teresa che l’aveva zittita allo stesso modo di sua nonna quando lui si permetteva: col sibilo tra i denti e lo sguardo che minacciava se l’avessi fatta vergognare ancora.

“Andiamo su”, Teresa si chinò su Angela, allungò le braccia come volesse sollevarla.

“E’ abbastanza”. Disse.

Lui spiò sua nonna: aveva mezza faccia tirata da una smorfia, l’altra metà nascosta dal palmo della mano.

“L’ha fatto ancora una volta”. La sentì piangere.

Gli prese di nuovo il mal di pancia, di nuovo dovette serrare le gambe per paura di farsela addosso. A chi somigliava? A quella faccia lucida, gelida di sicuro, che per farla sembrare meno morta l’avevano fatta di cera? Angela si alzò dalla sedia, poggiò ancora la mano sul bordo della cassa ma non ci furono più preghiere e nemmeno un bacio. Guardò la salma e disse qualcosa: tre parole, non di più, che nessuno riuscì a sentire. Gli si avvicinò e lo prese per mano. Lui continuava ad osservare il vecchio: quel naso un po’ a becco, le orecchie piccole, le labbra, pallide ora, e sottili, le mani in pace sul ventre ma con le dita d’ossa storte da anni di vanga o piccone. Il vestito buono per tutte le occasioni di un paio di misure più largo. Era suo nonno o suo padre, o uno zio, un cugino dimenticato. Era tutte le generazioni di uomini ingobbiti sulla terra di Fruttuaria. Era lui. Teresa si affacciò sull’uscio e guardò in corridoio. Non c’erano altri ad aspettare. Si voltò ancora una volta verso la bara, si segnò e fece strada verso l’uscita. Angela dovette strattonarlo per portarlo via. Dalla stanza a margine del corridoio si affacciarono due cornacchie, una voce di donna da dentro sbraitò: “Sciò, sciò!”. Gli ultimi arrivati a portare le condoglianze si scostarono di un poco al loro passaggio.

In cortile i fedeli si accomiatavano, scuotevano il capo fingendo stupore per quella morte inattesa, chiedevano a dio pace per l’estinto e l’eternità che gli toccava davanti e quaggiù per gli anni, sempre pochi avrebbero giurato, che restavano loro. Si davano la buonanotte. Aveva smesso di piovere. Teresa si fermò accanto al muro sul fondo, fece per dire qualcosa, sbuffò, sollevò una mano e diede una carezza sulla guancia di Angela. Lui sentì il tocco della mano di Teresa nella mano di sua nonna che piano s’apriva e lo liberava. Fece due passi indietro e guardò verso la casa: s’era accesa una luce dietro le tende della finestra al piano di sopra, oltre la porta ancora aperta sul cortile e in fondo al corridoio lo tentavano i fuochi fatui delle candele. Si accorse di qualcosa che puntava contro la sua caviglia, abbassò gli occhi e vide il cane che lo annusava attento come se tra le pieghe dei suoi pantaloni potesse nascondersi chissà quale tesoro. Il cane sollevò il muso e scodinzolò. Come prima lui allungò la mano per sentire il naso freddo contro le nocche, poi batté i palmi sulle cosce e il cane si mise su due zampe. La coda a mulinello. Lui fece un salto all’indietro e lo chiamò di nuovo battendo le mani e il cane saltò in avanti e abbaiò.

“Shhhhtt!” Fece lui preoccupato ma lo richiamò a sé e presero a rincorrersi e a fermarsi di colpo, una carezza una grattata sotto il collo, quando qualcuno gli passava accanto. Guardò verso sua nonna che rimaneva accanto a Teresa: le parole che forse si dicevano, i gesti lenti che le accompagnavano. Sembravano due ragazze goffe e grasse cacciate dalla festa. O due streghe. Corse fino al cancello e si fermò, il cane lo seguì. Lo chiamò ancora e insieme superarono il vialetto d’ingresso e si fermarono a margine dello sterrato. Era buio da non vedersi i piedi un metro più in basso, la via un pantano, il fosso che ruggiva, minacciava di disastrare i campi. Il cane puntò il naso verso la notte, le orecchie dritte, il corpo teso in un’eccitazione tutta diversa da quella del gioco.

“Che c’è? Che hai visto?”

E il cane già s’anneriva verso la boscaglia.

“Vieni qui, torna qui!” Voleva convincerlo e non si permetteva di gridare.

“Vieni qui!”

Lo rincorse nel prato e a ogni passo si voltava verso la cascina.

“Torna qui”. Piagnucolava e si spingeva verso gli bosco e il buio dove faceva più spavento.

“Ehi quiiiii!“ E batteva le mani sulle ginocchia.

Si rannicchiò. Le mani che reggevano la testa, coprivano le orecchie.

“Vieni qui”. Pregava convinto adesso.

Sentì un abbaio, alzò il capo, scorse una sagoma, chiazze di pelo bianco, un muso, uno scodinzolio venirgli incontro.

“Qui, qui”. Quando il cane gli fu vicino gli accarezzò la testa, la schiena, si impiastrò le mani di pioggia fango e foglie. Il cane ansava, la lingua pendeva da un lato, sollevò le zampe si appoggiò alle sue ginocchia e gli leccò la faccia.

“Bravo, stai bravo”, gli disse ridendo e intanto lo stringeva a sé con entrambe le braccia.

“Non so nemmeno come ti chiami”.

Il cane smise di colpo di leccarlo, voltò il muso e puntò di nuovo verso il sottobosco. Lui lo strinse più forte.

“Che c’è? Cosa vedi? Stai qui eh. Stai qui”.

Ma intanto fissava verso lo stesso punto dove il buio avanzava avvolgendo i fusti gobbi dei castagni: i rami scheletrici sulle cime e quelli ancora vigorosi più in basso; copriva lo strepito degli insetti e il gorgogliare sazio della terra. Guardò verso la cascina: due sagome, di donne certo, erano ferme sul vialetto. Poi guardò di nuovo verso il buio e gli sembrò più vicino.

“Andiamo”. Disse.

A prescindere dai numeri – note a margine della violenza

Di
mariasole ariot
-
26 Febbraio 2018
4

di Mariasole Ariot

In de Jouvenel si legge: “un uomo si sente più uomo quando riesce a imporre se stesso e a fare degli altri strumenti della sua volontà”, cosa che gli procura un “piacere senza confronti”.

L’8 gennaio 2018, a 40 anni di distanza dall’uccisione di tre militanti di Fronte della Gioventù, Casa Pound organizza una manifestazione a Roma. Lo striscione aperto, Onore ai camerati caduti. Sfilano lungo le vie in silenzio rigoroso, assoluto, il silenzio che serve a non far parlare troppo di sé ma abbastanza da arrivare negli occhi e nelle bocche di chi vede. Saluti romani, teste dritte, petti impettiti. Il corteo si ferma e si dichiara PRESENTE.

In quell’occasione, in molti sottolineano l’esasperazione delle cifre: la foto del corteo passa di mano in mano, di bocca in bocca, vorticando tra chi si dice preoccupato e chi viveziona la realtà per risalire alla “vera verità” della grandezza del corteo, una verità numerica.

Io dico: a prescindere dai numeri.

A prescindere dalla possibilità di una foto ritoccata: conta che sia stato quel che è stato – che il violento abbia spazio, trovi territorio, confini per sconfinare.

E nel silenzio, in questo cortocircuito di silenzio, la violenza – detta e agita – prolifera.

Non abbiamo voluto vedere il troppo che già c’era, ma il nostro compito è di vedere prima: si diceva in fondo dicono solo al lupo al lupo.

Ma il lupo c’è, morde anche quando ulula.

Nel giorno immediatamente successivo alla morte di Pamela Mastropietro, in tv comincia lo sciacallaggio emotivo: gli intervistati non perdono l’occasione del pretesto per ricordare che quanto è accaduto era prevedibile. Prevedibile perché la presunta mano che ha fatto a pezzi il corpo non è una mano qualunque, nemmeno quella di un folle criminale, è una mano che sulla mano porta mani di altri, degli altri che un certo estremismo vuole ridurre a cenere.

Le parole di uno psichiatra molto presente nei media, Alessandro Meluzzi:

“questa ragazza non era un’eroinomane cronica […] , era una ragazza con delle fragilità, con dei comportamenti tossicofilici […] e che per una drammatica circostanza della sorte, incontra quanto di più mostruoso oggi stia calpestando il suolo italiano.

Nessuno poteva immaginare che sulla sua strada non trovasse un normale spacciatore di eroina ma trovasse una situazione di mostruosa ritualità – perché di questo si tratta – che purtroppo popola oggi il mondo della mafia nigeriana che sta progressivamente controllando il meracato degli stupefacenti in Italia. Rivolgerei anche un appello anche a coloro che oggi si ritrovano nella drammatica situazione di dipendere dal mercato: sappiate che il mercato a cui vi rivolgete è un mercato che potrebbe offrivi oltre alla droga , che è un mostro, un mostro ancora più terribile della droga“.

Non stiamo tornando indietro: stiamo andando avanti malissimo, velocizzati da quel che viene detto e da quello che non viene detto : il problema più rilevante.

Non si parla di fascismo, non si parla di razzismo, non si parla di violenza, di odio razziale, di xenofobia. Quando lo si fa, la parola è in sordina.

E il popolo va mantenuto in una condizione di sordità, come andasse scaraventato fuori dalla storia, tenuto ai margini, ammaestrato da chi racconta narrazioni che pacifichino l’esistenza.

“Estrema fonte di potere è tutti contro uno, estrema forma di violenza è uno contro tutti. E quest’ultima non è mai possibile senza strumenti” – scriveva la Arendt.

Ma non stanno forse dando i media, le parole che scorrono nelle testate dei giornali, questi stessi strumenti di cui la violenza ha bisogno? Non hanno forse dato i media quegli strumenti di cui Traini aveva bisogno?

Se la violenza compare “dove il potere è scosso”, significa che siamo in una situazione in cui il potere è muto ma per sottrazione, un potere muto e sordo, che cede di fronte al reale. Esiste un potere che si scuote e che scuote, che omette non per proteggere ma per non creare allarmismo.

L’allarme invece va detto, va urlato.

Noi abbiamo il dovere di allarmare, il dovere di dire ciò che non si vuole dire, di aprire le maglie della storia e infilarci la testa, il corpo, mettere le mani dove non si vorrebbe venissero affondate. Abbiamo il dovere di dire, di dichiarare, di non sottrarci, di non fare passi indietro: abbiamo il dovere di avanzare in direzione contraria, denunciare il denunciabile, estrarre le parole che non vengono dette, farlo non solo nella dimensione dell’anti, ma nel respiro dell’adesso, del cosa fare, del possibile. A prescindere dai numeri, a prescindere dalla quantità.

Interférences # 16 / Jean-Patrice Courtois: da “Imballaggi”

Di
andrea inglese
-
26 Febbraio 2018
0

[Dal sito alfabeta2,  rubrica Interférences : interventi di taglio e tema variabilissimi, ma accomunati da interazioni (anche inattuali) con fenomeni francofoni e francesi di società, arti e scritture.]

Traduzione di Gabriele Stera

Nota di Andrea Inglese

 

 

Ogni sorta di cose fanno le cose che arrivano a una sorta d’esistenza. L’infinito si muove per l’opaco centrale, dove gli adulti, appena lo sono, e i bambini per primi si tuffano tutti vestiti formando insieme il menù del giorno. Vivono al centro d’innumerevoli dormizioni di firme accumulate senza repertorio che valga.

Continua

Per Giulia Niccolai e per Tonino Taiuti: due pezzi di teatro

Di
daniele ventre
-
25 Febbraio 2018
2

di Eugenio Lucrezi

Teatro di scena, come quello de “Il fiato delle branchie”, monologo chiestomi da Tonino Taiuti per “Verso il mare”, vertiginosa prova d’artista da lui stesso diretta e interpretata che ha esordito lo scorso ottobre a Caserta, in una produzione del Teatro Civico 14. Nello spettacolo il nostro suona, rumoreggia, danza, dipinge, canta e recita versi e pezzi di teatro di Shakespeare e Dylan Thomas, di Francesco Cangiullo e Achille Campanile, di Igor Esposito e del sottoscritto. Taiuti, attore premiatissimo che tuttavia non vediamo sulle scene quanto vorremmo, è un campione del teatro napoletano più interessante, quello che si tiene audacemente in bilico tra tradizione e avanguardia.

Teatro della mente cosmica, come quello dello ”Sgambetto del lama”, che è resoconto di una narrazione divertita sì, ma serissima, resa da Giulia Niccolai dopo che è intervenuta ferita e acciaccata per una caduta accidentale, ma non troppo, all’ultima edizione milanese della rassegna “Tu se sai dire dillo”, organizzata da Biagio Cepollaro in onore di Giuliano Mesa. La poeta, che è monaca buddista, ha raccontato che il suo Lama si diverte, sì, a farle dei tiri mancini quando ritiene, il più delle volte imperscrutabilmente, che se lo meriti: ma che tutte le volte, benevolmente, la salva dalle peggiori conseguenze.

Niccolai e Taiuti sono due cascatori sicuri: ciascuno sulla propria, incertissima, scena.

Il fiato delle branchie

Io so’ caduto a mare e me so’ fatt’…
pesce, pe’ non murì.
Non mi ricordo, ad essere sincero,
si m’hann’ spinto, si so’ scivolato…
forse sono inciampato, o forse, invece,
mi sono – dio non voglia! – suicidato.
Ad ogni modo, è stato quel che è stato:
il risultato è che mi son trovato
nel pelago profondo, consegnato
ad una tomba oscura, separato
dall’aria trasparente che respirano
i miei polmoni da quando sono nato.
In quei momenti gelidi, annaspando,
non ho avuto la calma di pensare,
di ripercorrere le tappe evolutive
che in un battibaleno hanno portato
il pesce che già fui, e poi l’anfibio,
e il mammifero acquatico che a fatica,
ma in tempi – a dire il breve – brevi assai,
riuscì alla fine a conquistare il suolo;
… tuttavia conservando, com’è noto,
la potestà di respirare in acqua
per tutto il tempo della gestazione:
periodo decisivo, lo sappiamo,
ai fini della crescita, e pertanto,
dello sviluppo della personalità:
tanto che invece del cristiano detto,
che ci rammenta come ciascheduno,
nato da polvere, polvere ritorna,
sarebbe ben più saggio ricordare
che pesci fummo e pesci ancora siamo.
Ma torno all’incidente: non ho tempo,
mentre sprofondo e mi sento soffocare,
di divagare, pensando: mare! mare!
addò o sole, a’a staggione, côce ò ssale
‘e ppucchiacchelle ‘e mare acopp’a réna…
Sprofondo. Tengo il fiato. Ma pe’ quanto?
Già vedo, laggiù in fondo, preoccupati,
ll’uocchie, a decine, de’ purpe poverielle,
scamazzate int’a rena, bumbardate,
na notte appress’ a’n ata, da ‘e llampare…
… scacciate al buio dall’ uocchie d’o ciclope…
Spauràto, ‘i vveco, spauràti pure lloro.
Me ‘uardano ch’affogo e ‘i ssento dìcere:
povero mézo’ purp, sbrindellato…
chissà qua’ pescecane l’ha strazzato
tutte ‘e rranfe mancante…
Ormai sto in agonia. Provo a nuotare,
ma na mano pesante, aret’ e rin’,
mi spinge inesorabile all’ingiù.
Annanz’all’uocchie se para nu delfino.
Fratello – dice – ma te sì scurdato?
Comm’è ca sì rimasto senza fiato?
Io m’attaccava, tale e quale a te,
a’a zezzenella… te vo’ dà na mossa?
Nuota! Saglimm’! … e ghiamm’a respirà!
Fràte, ‘n ci ‘a faccio … ‘o dico scunsulato.
‘A fera se ne va. Véne nu scuorfano
serafico e assai brutto, accussì gruosso
ca si tenesse famme me staccasse
‘a capa cu ‘nu muorzo, e bonanotte.
Ma nun têne appetito, e mi sorride.
Sono oramai sul fondo limaccioso.
Scappano ‘e purpe, in lacrime per me.
Mi lascio andare, mi dico: sono andato.
Ma sorride lo scorfano, e mi dice:
Frate cugino, vott’ o mare a dint’!
Fà nu bell’ respiro! Nun sì muorto.
Ma non ti accorgi che sei appena nato?
Eseguo e subito … il cuore si fa calmo.
Incredulo, resuscito dal fango.
Nuoto tra i purpi, che fanno carosello.
Il fiato delle branchie è ritornato,
o scuorfano me dà nu colp’e coda.
Ghiamm’! – mi dice l’amico per le squame,
viene! te porto add’o’ ll’acqua è fina,
ccà stamm’ ‘int’ e lliquame, dint’ o puorto,
post inadatto per te che sei risorto!
Lo seguo incuriosito e già mi chiedo
come potrei cavarmela se un giorno
dovessi ricadere in su, nell’aria,
per una spinta, chessò, per un inciampo,
o in conseguenza di un malsano gesto…
Ma sono appena nato, è da coglione
affliggermi in pensieri così cupi…
nun ce voglio penzà. Nuoto felice.

* * *

Lo sgambetto del Lama

Non ti sei rotto il naso
(Che pure era presente),
Il pavimento è un cielo,
Un soffitto speciale.
Sangui che in te s’insanguano,
Non ti sei rotto un dente,
Per non chiedere niente,
Ti porti sulla soglia
Di un tuo viaggio spaziale.

Solo una piroetta,
Una spinta gentile,
L’amore cattivissimo,
Da un Altrove sottile,
Comanda al tuo bastone,
che è una piuma flessibile,
di farti lo sgambetto.

Il balletto che segue,
Arabesco nell’aria,
Dura soltanto un attimo.

Meticolosamente,
Nell’ordine perfetto
Di molecole sveglie
Guidate attentamente,
Tu atterri sul tuo duro
Marmo, arrendevolmente.

È la dura lezione
Che il tuo Lama birbone
T’impartisce ridendo.

La impari a perfezione,
Tu, plurima esistente,
Tu, morta ripetente,
Angiolo senza inganni,
Sorvegliata speciale,
Vaso di molti affetti
Rigorosi e imperfetti.

Ammaccata, tu ridi,
grata per l’attenzione.
Ma forse volentieri
Tireresti l’orecchio
Al tuo Lama birbone.

Tre risposte allo specchio (quand’è storto)

Di
jamila mascat
-
24 Febbraio 2018
0

di Danilo Laccetti

Foto di Suzanne Saroff
 

Però, suonare così bene e nello stesso tempo sapere 

che non hai nessuno intorno capace di apprezzarti 

Čechov, Tre sorelle

 

Postilla pacifica e necessaria

Diritta, coerente, rispettosa vorremmo l’immagine di noi che negli altri si riflette, così come l’abbiamo vista riflessa nei nostri occhi per tanto tempo. Ciononostante a un dato momento, per impreviste, maligne occorrenze, l’immagine si fa storta né si dà verso di mutarle postura; eccola curva, non lineare, deforme, perciò sbagliata, non corrispondente alla costruzione, alla perseverata pianificazione del nostro io (in verità di tutti gli io che stratificano silenziosi; ignari, noi, di imprendibili sovrapposizioni, dissolvenze così capricciose). L’aspettativa, spesso le ripetute aspettative, mancate più volte, dapprima cercano giustificazione. Ma se gli specchi perdurano storti, la frustrazione così conglomerata, quanto più s’agglutina intensa sull’oggetto desiderato che procura dolore, tanto più accresce la sua massa critica; la sofferta mancanza ha bisogno di sfogare gli umori costipati da questa insistente sordità dell’immagine, cerca riscatto. L’immagine storta, non più forzatamente emendabile, viene fatta innocua, rimossa, esiliata; se questo oscuramento non basta, l’immagine va distrutta e tale distruzione può concretizzarsi contro il suo proprietario, reo confesso d’impotentia generandi, conclamanta incapacità d’aver prodotto l’io desiderato, ovvero l’ostilità trova degno avversario nell’oscuro manovratore di quell’immagine, qualcuno che, nascosto dietro il nostro specchio, quello specchio avrebbe deturpato, procurandoci la disfatta: un usurpatore, infiltrato strisciante nella nostra vita, ne ha fatto scempio.

Gli infiniti modi di oscurare l’immagine storta, facendo nebbia attorno ad essa, precario e labile proponimento a volte, talvolta superlativa capacità di intrappolarsi a vita in quelle medesime nebbie, pertengono al teatro del grottesco, la comicità trasuda malinconie drammatiche; quelle esemplari di un monsieur Jourdain di molieriana memoria, per citarne una: pur di diventare ciò che solo la nascita gli avrebbe consentito, cioè nobile, calpesta patrimonio e affetti, tanto che la messinscena finale lo saluta soddisfatto e ingannato, cieco e felice, assolutamente non rinsavito a petto dei suoi “fratelli” Orgon e Argan, salvati dalle loro manie. Eloquentissima rappresentazione, quanto mai contemporanea, di un’ambizione scomposta e frenetica: voler essere a tutti costi ciò che non sei stato “capace” di diventare.

Ma la supponente autodeterminazione di quella stessa voce interiore, che si pronuncia non convocata, cerca sovente il teatro del tragico come palcoscenico acconcio per il riscatto: vendicarsi contro il proprietario o contro l’usurpatore, due modalità piuttosto complementari per attestare il proprio ego, sebbene in articulo mortis.

Rimane una terza, assai faticosa risposta per l’io ferito a morte, desideroso di vendetta; impone l’esercizio dell’adattamento, del radicale, progressivo, spesso repentino, cambio di prospettiva.

Prima: cette Psyché qui palpitait des ailes

Alla metà del secolo decimonono il biancore della mussolina incantesimò le dame del bel mondo parigino: così Manet ritrae Suzanne, sua moglie, nel dipinto La lettura, abbracciata dalla vaporosa purezza di questa stoffa, bianco nel bianco del divano, dei tendaggi. Anni dopo il pittore collocò alle spalle della donna, in un oscuro che tanto richiama i famosi suoi neri, il figlio, intento a leggere qualcosa da un libro; figurazione di un perturbante chiaroscuro, antitetico alla luce di quella stoffa, che tutto di sé irradia.

In Avatar di Gautier, quando ha luogo la sfortunata confessione d’amore di Octave de Saville,  la bella contessa lituana Praskovie Labinska viene rappresentata sola, stesa sul canapé di giunco: una ninfa marina immersa dans l’éclume blanche d’un ample peignoir de mussoline des Indes; la candida vestaglia di mussolina, bianca immagine ritagliata dentro la cornice esotica, lussureggiante del giglio rosso di Firenze (più tardi teatro di un’altra passione amorosa romanzata da Anatole France).

Per Octave il mancato ottenimento del suo desiderio si trasforma in ossessione maniacale; lo spinge ad accettare la proposta del dottor Balthazar Cherbonneau: per virtù magiche trasmigra nel corpo del suo “rivale”, legittimo marito della contessa. La traslatio animae non sortisce effetto; gli occhi, gli occhi infuocati d’amore di Octave sono troppo distanti dal sereno, sicuro amore del conte Olaf; nel duello fra i due, Octave ha la possibilità di uccidere il “nemico”, carcerato in quel corpo, il suo, che tanto oramai odia, un odio che travalica l’ostilità verso il marito della contessa. Non lo fa; anzi chiede al dottore di ripristinare l’ordine delle cose. Al momento di migrare di nuovo nel suo corpo, è proprio un’esitazione di questo moderno alchimista, pris de pitié, a decidere la sua fuga; l’anima, una “Psiche dalle ali che palpitano”, sale sempre più in alto, nulla oramai potendo il severo richiamo del suo incantatore; petite lueur tremblotante, piccola tremante luce, sguscia dalla finestra, svanisce. L’evasione dalla prigione di quel corpo, contenitore d’un io che ha fallito il suo desiderio, fa coincidere la libertà con la morte, l’affermazione di sé si dà per annullamento, l’ego svaporando si determina. Tale il disprezzo per questa immagine storta, tanto lontana da quella auspicata; nemica saldata alla propria pelle, quasi calamita funesta, fatale compagna, sicaria congenita. Che il dottor Cherbonneau, commosso e forse anche spaventato, si reincarni in Octave, donandogli una seconda vita, non esprime una vera speranza di rinascita; è sostituzione di intelligenze, supremazia di ingegno che si perpetua: esercizio portentoso di chi domina le altrui vite. Quella, la vita di Octave, ha creduto di mancare il suo destino, disperando di riformularlo in qualche modo; la coscienza distorta d’essere una vittima innocente ha causato il resto.

Seconda: Malek-adel redivivo

Nel 1872 sono trascorsi dieci anni da Padri e figli, romanzo che segna per Turgenev l’interruzione provvisoria della sua carriera letteraria, di sicuro il punto apicale della felicità narrativa, avviata anni prima con le Memorie di un cacciatore; le feroci critiche dei giovani, la rottura dei rapporti con illustri intellettuali dell’epoca gettano l’autore in uno stato di profondo scoramento, spegnendo i suoi ultimi anni in una produzione spesso fiacca e tendenziosa. In un contesto simile decide di aggiungere nuovi racconti alla sua raccolta d’esordio, per l’appunto quelle Memorie, il cui clamore ai tempi lo consacrò un maestro del realismo russo. I pezzi passano da ventidue a venticinque e tra quelli aggiunti ce n’è uno: La fine di Čertopchanov.

Il personaggio spicca per una certa fattura donchisciottesca: s’aggira, fra i boschi e le forre, la sua malinconica figura con accanto l’immancabile “Sancho”: un delizioso cliens della steppa, Nedopjusckin, ritratto dall’autore con pregnante empatia. Lui, Čertopchanov, rientra nella galleria dei padroni oramai decaduti, ma severamente nostalgici del bel tempo che fu; la servitù della gleba sarà abolita pochi anni dopo e Turgenev tratteggia con nettezza, talvolta impietosa, questi feudatari al tramonto. Nel racconto aggiunto assistiamo alla sua progressiva rovina, non tanto economica quanto morale: prima la giovane sposa, una zingara, lo abbandona, agìta dalle sue furie nomadiche, poi muore Nedopjusckin. Solo e sempre più amareggiato Čertopchanov, in virtù del bel gesto di salvare un ebreo da un pogrom, riceve da lui, a un prezzo irrisorio, un meraviglioso purosangue: un grigio pomellato chiamato Malek-Adel.

Questo esemplare magnifico per il protagonista diventa motivo di riscatto, proiezione rigenerata di sé. Una notte, però, il cavallo viene rubato; Čertopchanov non si rassegna alla disperazione e decide di partire per ritrovarlo. Trascorso un anno di ricerca in tutti i mercati russi, torna vittorioso.

Eppure, giorno dopo giorno, il Malek-Adel redivivo manifesta sempre più qualcosa di cariato; un logorìo lento, inarrestabile cova dentro Čertopchanov, perché quel cavallo non ha le stesse movenze, i medesimi pregi dell’altro. L’oscuramento dell’immagine storta, così lungamente perpetrato, viene talvolta squarciato da lampi di lucidità; finché il rovello cessa grazie a un diacono del paese che, incontrandoli, nota una verità lapallisiana: come può un grigio pomellato dopo un anno non aver ancora imbiancato il suo manto? Il cavallo montato da Čertopchanov è ancora interamente grigio. Quello dunque non è Malek-Adel; quello è solo un impostore. Meglio: un usurpatore.

Allo svelamento consegue il disprezzo per l’immagine storta; fin quando una notte Čertopchanov, sorretto e sospinto da una solenne ubriacatura, conduce il falso Malek-Adel nella campagna, in mano la pistola. Sta per ucciderlo, esita; lo sprona giù per un dirupo. Incamminato sulla via del ritorno, qualcosa lo tocca sulla schiena: il muso del cavallo. Quell’immagine, sua figurazione, sua creatura, reclama di esistere: il proprietario pensa di liberarsene uccidendola. Lo fa, ma poche settimane dopo Čertopchanov, consumato da una malattia fulminea, che lo smagrisce e gli toglie la parola, si spegne, orribilmente trasfigurato.

Terza: alla fonte di Urdar

La principessa Brambilla di Hoffmann inscena un carnevale romano quale sommo ministro del fantastico, mai disgiunto, però, da quella nota d’ironia che è il sigillo più profondamente autentico dell’autore. Giglio Fava, scadente attorucolo, sprofonda in un oscuramento della sua immagine storta grazie al mago e ciarlatano Celionati, che gli fa credere d’essere l’oggetto d’amore della principessa Brambilla, mentre il giovane, licenziato dal teatro Argentina, fa parlare di sé la città per le sue stramberie; anche l’innamorata di Giglio, la sartina Giacinta, è sulla bocca di tutti: avrebbe fatto girare la testa niente meno che a un principe. Il racconto, trascorsi alcuni mirabolanti capovolgimenti, transitando attraverso una sarabanda di svelamenti e pittoresche fantasticherie, si conclude con un happy end: finito il carnevale i due innamorati tornano ad essere quello che erano e per quello che sono si amano. Celionati si rivela per il principe Pistoia, gran cerimoniere di questo vorticoso putiferio.

Esiste, però, un breve inserto narrativo, carico di intense sfumature allegoriche: nel Caffè Greco, dove Giglio si reca per gustare un piatto di maccheroni, viene avviato il racconto del malinconico re di Urdar Ofioch, cui non riesce a donare un sorriso neppure la sua fin troppo gaia sposa, la regina Liris; per giunta i due finiscono per addormentarsi d’un sonno profondissimo. Ma il mago Ermodio, al suo ritorno da Atlantide, dona agli abitanti di Urdar una fonte, la quale possiede una virtù: riflette l’immagine, ma capovolta. I sovrani, risvegliati, corrono a specchiarsi nella fonte per primi e, trovatisi così deformati, finalmente riescono a sorridere proprio davanti a quel loro io rovesciato, quell’immagine storta. Ma, sobillati dai filosofi, che predicano come disdicevole guardare se stessi a testa in giù, gli abitanti di Urdar iniziano a gettare immondizie nel lago, tanto da trasformarlo in una palude graveolente. Intanto i due sovrani muoiono e il popolo chiede soccorso di nuovo a Ermodio; nascerà, egli preconizza, la nuova regina di Urdar dallo stagno. Così avverrà: la regina Mistilis, il cui linguaggio, dapprincio incomprensibile, grazie al mago tornerà a farsi comprendere.

Quando, passato il carnevale, il principe Pistoia, alias Celionati, rimette in sesto la realtà riconsegnando i due giovani al loro amore “ordinario”, nel suo discorso d’addio cita di nuovo la fonte di Urdar. In un luogo la paragona allo specchio deformante del teatro, all’incanto e al disincanto generati dal palcoscenico; poi si congeda con una fin troppo scoperta chiarificazione (cap. VIII, trad. Laura Bocci):

(…) Sono venuto e verrò qui sempre nell’ora fatale del vostro riconoscimento, per confortarmi insieme con voi al pensiero che dobbiamo considerare ricchi e felici noi stessi e tutti coloro ai quali è riuscito di guardare la vita, se stessi e tutto il loro essere nel meraviglioso specchio solare del lago di Urdar e di riconoscervisi.

“L’ora fatale del riconoscimento”; quando accetti di “conoscerti di nuovo”, di tornare a conoscerti. Dinanzi alla propria immagine storta il popolo di Urdar reagisce rabbioso, vuole intorbidarla, cerca di oscurare quell’immagine; al pari dello sventurato Octave de Saville, quando si affida all’incantesimo del dottor Cherbonneau, o come Čertopchanov, fintantoché si convince di aver recuperato il suo Malek-Adel. Svelata quell’immagine, caduto il velo dagli occhi, tre risposte si danno davanti a quello specchio deformante: distruggere l’immagine, cercare il colpevole di tale deformazione, sorridere; il sorriso di chi si riconosce e riconoscendosi rinasce, poiché, conformato alla mutevole morfologia dell’esperienza, cammina accanto a se stesso, unica guida sovrana, secondo l’intera lezione di Montaigne, l’esperienza medesima. Esperienza come sperimentazione costante di sé; una laicissima esplorazione. Esplorazione da intendersi fino all’ultima istanza, cioè profanazione di qualsivoglia idolo interno, che  nel tempo ci siamo andati costruendo; per dirla stirnerianamente, tradirsi ripetutamente è il cardine della vera conoscenza di sé. Perché solo tradendoci ci “consegnamo” davvero a noi stessi interamente.

 

Foto di Suzanne Saroff

 

La fine dell’acqua

Di
francesca fiorletta
-
23 Febbraio 2018
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di Vincenzo Corraro

Verso la fine di agosto, quando già l’estate precipitava in un vortice di luce avanzata, Miro Brunetti pensò bene che era venuto il tempo di ratificare il passato. Tenne la cosa in gran segreto ancora per alcuni giorni, e invece che stare lì a vagare per i boschi fissando con gli occhi ormai saputi l’algoritmo degli uccelli in volo o a fiutare nell’aria l’odore asprigno di rosa canina dei caprioli in amore (era un anno che si trascinava tra le montagne e dal velario di quei dirupi, con le spalle alla roccia, sentendosi protetto, sentinellava gradasso il bosco vagliandone minuziosamente, da competente, ogni respiro: acquattato e calmo come una bestia in fuga nella vegetazione fittissima, si teneva lontano da certe minacce che persino i carabinieri di R. gli avevano preannunciato serie tanto da dissuaderlo dal farsi vedere in giro, per un bel po’), si decise a scendere al casolare e tornare diritto da Piera, scusarsi una volta per sempre, portarla a mangiare una pizza e dirle com’era il fatto. Ma fin quando avesse avuto negli occhi solo cielo e il riflesso del sole sulla lastra bocciardata della falesia, quella faccia livida di rancore a stento contenuto poteva dirsi tranquilla e piena di fiducia tra le balze delle rocce che l’infallibile crudezza di popolo aveva segnato per sempre come l’Abisso del Diavolo.

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