Home Blog Pagina 148

Le buone maniere

2

di Marco Simonelli


 
A tavola

“E fra voi due chi è che fa la donna?”

Ce lo chiede verso il dolce
dopo un primo con le arselle
e un secondo a base di branzino.

Per lui è naturale chiederlo.
A tavola, si sa
la confidenza aumenta.

Pare scortese glissare e non rispondere
e certo non è il caso di discutere,
tentare di spiegargli che due uomini

dispongono di modi più creativi
per divertirsi a letto.
Così gli raccontiamo

questo nostro segreto inconfessabile,
arcana metamorfosi notturna
sempre pronta a mutarci in qualcos’altro:

di come il seno cresca e il pene cada,
della voce che s’alza d’un’ottava,
di come bestiali ci accoppiamo

– animali feroci come gli uomini –
per poi tornare a correre ululando
alla mannara faccia della luna.

***
Sul lettino

Tre volte a settimana salgo le sue scale
senza mai incontrare anima viva.

Lui m’aspetta in piedi, al pianerottolo
col viso di chi attende un incidente.

Mi saluta stringendomi la mano
dopodiché il rito operatorio

si ripete identico a se stesso.
E mentre io mi sdraio sul lettino

lui richiude la porta della stanza
e prende posto dietro, scomparendo.

La prima volta è stato imbarazzante
non avevo idea di come comportarmi.

“Verbalizzi un qualsiasi pensiero”
suggerisce, “cercando, se riesce

di limitare al minimo la mole di scempiaggini
che ognuno si racconta per seguitare a vivere”

Un fascio luminoso mi esce dalla bocca
proietto alla parete i super8

di gite al mare, feste e compleanni.
Col tempo siamo entrati in confidenza

guardiamo horror, porno e gli snuff-movie.
Ogni tanto mi fa delle domande:

di chi era la mano col coltello?
a chi appartiene quel pene in erezione?

ed è proprio sicuro che la salma
non provasse un sottilissimo piacere?

Ma per il resto, tace. Lo sa fare benissimo.
Sa farlo così bene che lo pago.

“Pensi a me come ad una prostituta.
Per un’ora può farmi ciò che vuole”.

“Può piangere, strillare ed insultarmi
può lanciare anatemi ed accidenti –

sacrileghi o blasfemi, non importa:
accoglieremo tutti a braccia aperte”.

Una volta scoccato il termine dell’ora
scattiamo in piedi entrambi; premuroso

lui mi scorta di nuovo al pianerottolo
e scendo più leggero per le scale

fino all’angusto portone dell’ingresso
da cui sguscio infine all’aria aperta

fuori, fuori, coperto di placenta.

***

Il fumatore

Dopo il caffè ma prima dell’amaro
potrà sgattaiolare sul balcone
per soddisfare il proprio orrendo vizio.
Chiederà il permesso ai commensali
e si congederà rammaricandosi
con l’aria di chi cerca una toilette.
Imparerà ben presto a riconoscere
le facce solitarie dei cortili,
il livido richiamo verso il vuoto
in agguato da sotto le ringhiere.
Aspirerà veloce la sua cenere
fingendo di trovarsi lì per caso.
Nasconderà la cicca indifferente
fra i gerani appassiti dentro un vaso.

Poesie tratte da: Le buone maniere (Valigie Rosse, 2018)

Da Genova a Istanbul

1

di Marino Magliani

Genova. La città da cui si può solo partire, forse perché sembra non accogliere, con i suoi imbuti stretti e le sue fungaie di palazzi rosi dal salso, e soprattutto con subito dietro le montagne. Strana città, Genova, le cui comunità di emigranti hanno trovato il loro spazio nel centro storico e non nelle periferie. È da questa città che viaggiano le storie umane di Sesso apocalisse a Istanbul (Giunti, 2018). Giona Castelli, poco più che cinquantenne, affascinante libraio, e perdedor, ha dovuto chiudere la sua libreria (guarda caso situata nel centro storico di Genova) che aveva messo su in gioventù con l’aiuto del padre avvocato perché quel figlio non “sapeva fare altro”. In effetti è vero, ma quel mestiere di libraio, in seguito, Giona Castelli l’ha saputo fare come pochi. Fin quando la crisi non gli ha rosicchiato gli affari e il capitale e Giona non riesce a salvare nulla. Deve vendere persino la casa. Non gli rimane molto. È il crollo dei sogni, “ il crollo delle sue Torri Gemelle”, ci racconta un io narrante del quale sapremo ben poco. Avesse una famiglia, una madre… E questa ce l’ha ma è una madre cui manca il cuore di madre.  E sull’aspetto materno, sulle madri che mancano, in questa nota che prova a far conoscere la mineralità e l’umanità del romanzo di Giuseppe Conte, torneremo.
Il personaggio femminile è Veronica, Vero, una donna molto bella e sensuale, colta, divoratrice di libri. Vero è una ricca ereditiera, famiglia di armatori, sposata a un noto nome della politica nazionale, un senatore. Qualche anno prima del viaggio a Istanbul con Giona (viaggiano separatamente perché lei è una donna sposata e troppo in vista) ha conosciuto il nostro libraio nella sua libreria, e in mezzo alle pile di libri prende corpo il loro rapporto, che all’inizio è pura attrazione fisica e poi diventa qualcosa di importante. Vero non è una donna modello, bella fuori e dentro (alta se porta i tacchi e lo stesso alta se se li toglie), ma una donna piena di passioni e contraddizioni, di fantasia, di ossessioni. Una donna vera, si direbbe, figlia del nostro tempo. Ci si chiede come sia possibile che una donna libera e ricca non prenda le distanze da quel senatore che a letto, tra loro due, ha messo la politica, la corruzione, gli affari. Un figlio? Ecco sì, un po’ il motivo per cui non divorzia dev’essere questo rampollo che dopo l’università se ne sta sulle coste occidentali americane a studiare surf come i suoi antenati hanno studiato commercio marittimo. Ma viene sempre il dubbio che lei, Vero, non voglia salvare questo matrimonio neppure per quel figlio di cui si ricorda in poche occasioni. Perché Vero è questo, pulsione, vita, gentilezza, e nello stesso tempo dominio. È un piano di lettura molto interessante questo del carattere di Vero e dei personaggi. Vero non è bella e perdente come Giona, ma come lui è vera, è il vizio dell’occidente. Ha l’arroganza e la bassa soglia persino di rinfacciare pubblicamente a Giona che che lo sta mantenendo durante questo soggiorno a Istanbul. E tutto ciò che non vuol perdere da quel matrimonio, a parte i soldi che già possiede, è il potere.
E nel crovevia di civiltà che è Istanbul Giona e Vero si amano, si concedono e si divorano come se il mondo e la vita finissero dopo aver trascorso laggiù quel fine settimana. Assieme conoscono la città  e assieme incontrano il vecchio amico di scuola di Giona, Giuseppe Maria, “Ritz” raffinatissimo direttore dell’Istituto Italiano di Cultura, che ama Luca, un giovane prete.
Ma prima di tutto questo, c’è un giorno che è quello dell’attesa. Vero arriverà l’indomani e oggi, da solo, Giona, si trova a Istanbul e incontra lo scrittore turco Ilhan Durcan, parecchio famoso, (l’ha conosciuto nella sua libreria a Genova anni prima) il quale è in compagnia di Khaled Nejim, scrittore di Tangeri che si trova a Istanbul su invito dell’Università. I tre bevono in un caffè, parlano di mondo e di piaceri, e quando escono vengono avvicinati da uno spettro, il quale apparentemente di spettrale ha solo una bocca piena di denti guasti, e in realtà è l’elemento che senza volerlo scatenerà l’Apocalisse. Tutto, compreso il giorno di attesa, si consuma dunque in un fine settimana, ed è il tempo che, come direbbe Roberto Arlt, contiene l’infanzia del pianeta.
Ma torniamo a Genova. Genova personaggio. Perché è da lì che è partita anche un’altra storia. C’è un solco, specie di costone invaso dalla luce e di fronte la più nera ombra. È un’idea che prende corpo fin dall’inizio della narrazione e si chiude solo alla fine, nel sangue.
Anzi non può chiudersi. Il sole gira e ciò che sembrava all’opaco la mattina, il pomeriggio è nella luce.
Anche il terzo grande personaggio – l’altra storia – è partito alla ricerca di qualcosa. Ha diversi nomi, e a noi interesserà come lo Sconosciuto. Si tratta di una giovane vita tagliuzzata dalla solitudine e dalla disperazione, dall’odio. Una madre con la quale vive sottomettessa dal suo nuovo compagno che la fa prostituire. E lo Sconosciuto è abbastanza grande per rendersene conto. Un padre biologico che se ne va di malattia ma col quale per colpa della nuova compagna di lui, lo Sconosciuto non riesce a legare, neanche quando a quel padre resta più poco. Segue il vuoto, e assieme al vuoto un tentativo di affidarsi a un’idea di purezza dalla quale punire il mondo, e vendicarsi di quel mondo. E quel tentativo passa per Istanbul. Ma quale vita può rimettere dignità in un progetto di sola morte? Il terzo personaggio è dunque una vittima e sceglierà per sé un futuro da torturatore della vita altrui. Mentre la limousine dall’aeroporto di Istanbul porta Vero verso l’albergo di lusso dove la aspetta Giona, lo Sconosciuto, questo ragazzo tormentato che non riesce a salvarsi e che è già diventato spietato assassino, attraversa la strada. Stridio. Urla, la limousine non riesce a frenare in tempo. Vero scende e chiede allo Sconosciuto se si è fatto male. L’apocalisse inizia su quel marciapiede.
Questo libro ha una struttura perfetta, si gioca in quota per alcune pagine, e quando l’areo su cui vola Giona Castelli si cala su Istanbul il lettore sbarca che possiede già una dose equilibratissima di dati. Per il resto sarà la curiosità a muoverlo. E man mano che si addentra nella di vita di Istanbul – gioia e infezione – la capacità del narratore dilata le immagini, ne deforma alcune e ne aggiunge altre, l’acqua del torrente perde se stessa nelle anse e rotola verso la pianura con altra liquidità, fango, vita e morte.
C’è infine qualcosa che proietta oltre la narrazione, è qualcosa che l’autore affronta da sempre (dico da sempre perché è dagli anni settanta che Giuseppe Conte parla di natura e dignità quando la moda era ben altra), in poesia e narrativa. Qualcosa su cui lavora in Liguria, scagliandosi contro gli usurpatori di quella riga di vallate che crollano in mare, e qualcosa che  compie altrove, dentro e fuori dell’Europa, accanto a intellettuali arabi liberi come Adonis. E’ un’aria di libertà che si respira anche in queste pagine e ce n’è bisogno.

Sonata per pianoforte e vento n. 1

2

di Alessio Mosca

Sappiamo che la loro promiscuità era tale che il concetto di paternità e maternità non esisteva.

I bambini assumevano il cognome dalla canzone che i genitori ascoltavano durante il concepimento e non appena venuti al mondo erano assegnati alla comunità cui erano destinati.

Lì venivano cresciuti fino alla maturità sessuale, dopodiché erano considerati adulti.

Jörg Alba-chiara, Amina Wake-me-up-before-you-go-go, Vasiliy Rhapsody-in-blue.

Già dalla fecondazione la canzone determinava lo sviluppo e la personalità del bambino, funzionava come un segno zodiacale e per tutta la vita avrebbe influenzato la sua sfera emozionale e comportamentale. La musicologia aveva sostituito la psicologia, i melomani erano i nuovi astrologi.

I figli dei canti gregoriani avevano più tendenza alla psicopatia, i glam-rock mostravano labilità e spiccata empatia, i funky-house presentavano tratti narcisistici. Questo generalmente.

Pare che talvolta i figli di Rachmaninov sognassero di un pianeta dove il vento era una forma di vita. L’aria calda saliva mentre la fredda si abbassava generando una brezza che soffiava tirando su la polvere della landa. Durante il suo tragitto la brezza scaldava nuova aria aiutata dall’attrito e dal calore di una stella che non era altro che il loro sole. La rotazione del pianeta dava l’ultima spinta, così, nel torpore della scia di un vento che moriva, l’aria tornava a salire e un nuovo soffio nasceva, figlio della terra, della stella, delle pressioni atmosferiche ma soprattutto della brezza iniziale da cui aveva ereditato il respiro e la consistenza.

A volte due venti si incontravano e le loro correnti si deviavano leggermente cambiando direzione, si evolvevano.

Altre volte si fondevano in un’unica raffica e il vento che ne nasceva era diverso e uguale a entrambi e anche questo era un modo di fare l’amore.

Al centro dell’inverno

0

Biagio Cepollaro,Kun,2008-Ibrido digitale

di Biagio Cepollaro

 

Da Al centro dell’inverno (2013-2017)

 

*

il corpo nell’occhio del crollo d’Occidente imbandisce

con scrupolo la cena: vino rosso che conta i suoi anni

e pesce che ha risalito la corrente. il nutrimento comune

è una festa e a cantare l’inno di gloria è il desiderio

di mescolarsi alla luce che radente si stende sul tavolo

 

*

il corpo non sa se o da dove si avvisterà

il primo tratto della speranza: l’Occidente

avvitato su se stesso inizia la sua implosione

dividendosi all’interno. la forma che nel tempo

si è data per lo scambio ha portato l’intera

specie all’estinzione. ma invece di frenare

sull’orlo del precipizio sembra accelerare

 

*

il corpo ai margini del crollo d’Occidente misura a spanne

la distanza dalla sua fine e conta di cogliere gli ultimi

bagliori dell’epoca che è stata: fantasie distopiche fioriscono

al cinema e nei sogni un’ansia collettiva che non può

essere detta fa tenere il capo chino e trattenere il fiato

 

*

il corpo ora sa che in suo potere vi è solo

la parola da formulare: nella sua bocca

prende forma rotonda un concentrato di pensiero

e passione l’uno nell’altra fusi

in una posizione. il dire è significare il mondo

non descriverlo né raccontarlo: che il senso

si dice e si misura nell’ascolto di chi resta

 

*

il corpo attende l’autunno come la scossa che smuove

la smemoratezza. il caldo ha fatto dei pensieri vapore

e l’acqua ha dominato come l’ombra il campo dei desideri

ora è un tornare lento a sé un riprendere forma dell’espressione

e del moto. l’azione qual sia ha il sapore buono dei risvegli

 

*

il corpo nell’afa fatica a respirare: l’aria mossa

dai ventilatori è solo aria che si sposta. resta

la stessa la condizione come quella d’Occidente

preso dalla favola della “crescita” senza fine

e senza senso e dal controllo di massa sul dissenso

 

*

il corpo ai margini del crollo d’Occidente desidera

mettere in salvo i manufatti di parole da cui un giorno

forse l’umanità potrà ripartire. così fu per l’antico

Medio Evo così è per questo nuovo: in salvo le parole

ancora potranno risuonare alla fine della prossima notte

 

*

il corpo ai margini della speranza d’Occidente si chiede

come accade che d’improvviso la folla dei corpi sottomessi

possa ribellarsi e riscattare le attuali vittime della forza

come si diffonde il virus benefico che renda intollerabile

il comando spingendo corpi inerti a prodigiosi moti

 

*

il corpo ora vede come tutte le espressioni che scorrono

sugli schermi si mescolano con bocche eguali

anche se diversi sono i palati e diversi i denti: nessuno

vieta di parlare anzi a tutti l’incoraggiamento a dire

è il modo questo per sgretolare l’Occidente che s’infutura

in uno stagno sempre presente da cui non si può uscire

 

*

il corpo ai margini della fine della speranza d’Occidente

ha poche parole da mettere in salvo nel palmo di una mano

la luce che contagia alla giusta distanza del sole dal pianeta

l’euforia animale che si diffonde sulle scale della metropolitana

il centro di una festa che risuona di voci dalla casa di fronte

e il fervore della notte che sale lentamente fino a sfociare

 

*

il corpo ha fatto del dire il sogno del suo ritmo: il nero

sullo sfondo e intorno da sempre ha richiesto un raggio

di piacere e presenza un antidoto buono a fare di poco

un mondo: la forma dell’arte è niente senza questo

discernimento: la lotta sulla terra è fare del giorno cielo

 

Nota

Al centro dell’inverno è in corso di pubblicazione presso L’arcolaio. E’ il terzo libro della trilogia Il poema delle qualità , dopo Le qualità (La camera verde, Roma, 2012) e La curva del giorno (L’arcolaio,Forlì,2014). Per una video registrazione del Prologo e di altri versi si può cliccare qui .e qui  Pagine dedicate alla trilogia si possono trovare qui e  qui L’immagine è Kun, 2008, una stampa digitale con intervento a mano successivo.

sequenza_nun

0

di Claudio Salvi

sequenza d’ordine cronologico

 

*

parola mano
(sia
sia
preme
per
per
me)

 

La caduta dei murazzi: Enrico Remmert

1

Nota 

di

Francesco Forlani

(Articolo pubblicato sull’ultimo numero di Focus)

 

Nella prefazione alle Chroniques pubblicata nel ‘62 Giono entra a gamba tesa sul nouveau roman: “Per sbarazzarsi di Omero, ci dicono, bisognerà raccontare l’Odissea invertendo l’ordine della storia e con voce da balbuziente”. E che due palle, sembra lasciarsi sfuggire l’autore dell’Ussaro sui tetti. Ci sono in italia non pochi narratori, alla Jean Giono, che per questa loro prerogativa, di credere ancora alle storie, di saperle raccontare ma soprattutto ascoltarle, vengono sistematicamente ignorati dalla critica dotta, alta, quella tutta dedita a sparare cànoni anno dopo anno, in nome delle loro cricche e dei loro sodali, a difesa di quell’ultimo baluardo della scrittura che per lo più viene definita letteratura di ricerca. Dall’altra parte non è che poi vada meglio con il regime delle classifiche dei più venduti dove non si capisce se quel venduti sta per libri acquistati o autori venduti alla grande causa della paccottiglia dei generi, in genere poliziesco o fantasy. Di Enrico Remmert possiamo dire una cosa con certezza: a differenza di molti suoi contemporanei che sembrano libro dopo libro, anche due all’anno, scrivere sempre e soltanto della stessa storia, lui ne pubblica uno ogni quattro anni, e non un libro che assomigli all’altro. Nonostante il gran numero di lettori, le traduzioni in molti paesi, perfino alcuni critici italiani si sono concentrati sull’officina letteraria di Remmert, esaltandone la maîtrise delle tecniche narrative, fino ad attribuirgli nella scrittura un grado di consapevolezza, quella gradazione che in molti gli riconosciamo nel difficile campo degli alcolici. Per quanto lusinghiere e giuste esse siano, a mio avviso tali critiche sembrano nonostante tutto perdere di vista la vera vocazione del suo autore: un talento smisurato nel raccontare storie.

À mon avis, celui qui écrit un livre raconte une histoire, un point c’est tout., aveva scritto sempre Jean Giono nei primi anni del dopoguerra, tirando in ballo i cantastorie arabi capaci di tenere banco davanti ai passanti e intrattenerli fino alla fine del racconto. Quanti scrittori dei nostri giorni raccoglierebbero il guanto di sfida gettato dal maestro per mostrarsi capaci di mettersi a raccontare storie, in un angolo di strada qualunque? Enrico Remmert sì e ne ho le prove.

Questa premessa mi è necessaria per far capire perché definire una raccolta di racconti La guerra dei Murazzi, da poco pubblicato da Marsilio, sarebbe fare un torto grandissimo alla natura di quest’opera poiché si tratta di storie. Punto. Otto progetti per la costruzione di una nuvola, Havana 3 a.m, Baal, e la Guerra dei Murazzi, sono quattro storie attraversate da un solo interrogativo formulato dall’autore stesso nella prima di esse, quella che dà il titolo al libro: Perché trovavo che ci fosse qualcosa di magnetico nella violenza, come una droga?

Questo si chiede Manu, barista di uno dei luoghi in cui si sta rifacendo la storia delle notti torinesi, protagonista del primo racconto, ma anche di quell’ incredibile epoca dei murazzi a Torino. Quello che non riusciamo a capire è se la ragazza questa domanda la stia facendo all’io narrante, al proprio creatore e dunque come ascoltatrice o a sé stessa. Certo è che la descrizione nelle prime pagine dello scontro tra hooligans e una banda di quartiere magrebina, superiore per numero ma non addestrata, ti coinvolge nella minuziosa descrizione del campo di battaglia- quei famosi controviali di Torino che nessun italiano al mondo potrà mai capire. E ti immedesimi a a tal punto in quella prospettiva, le due ragazze assistono da un balcone agli eventi, che la visuale da cui tutto si genera si sovrappone all’occhio del lettore come se si fosse dentro a una pagina dell’arte della guerra o di certe riproduzioni della battaglia di Waterloo che si possono vedere al Musée de l’Armée a Parigi. Non aveva forse scritto. Sun Tzu che “Fondamentale in tutte le guerre è lo stratagemma”? Senza voler qui rivelare i dettagli di ogni singola storia dove la trama è un semplice incidente di percorso nello svelamento del senso che il lettore compirà davvero solo alla lettura, quello che colpisce è la leggerezza con cui i giochi si fanno attraverso l’elemento tattico e dunque razionale, in tutte e quattro le storie. Se c’è una traccia che potrebbe servire nella comprensione dell’estetica di Remmert questa va sicuramente trovata tra le lezioni americane di Italo Calvino e in particolare la prima, dedicata alla leggerezza. Come non mettere in relazione infatti questa prima immagine degli hooligans, rapidi, impercettibili, con una delle ultime, l’annegamento nel Po davanti ai Murazzi di Abdellah? Come non scorgervi infatti l’opposizione tra leggerezza dei gesti e delle fughe nel primo, e pesantezza di un corpo che annega in mezzo a una festa in grado di annientare ogni residuo di razionalità, di umanità e permettere ai tanti testimoni di assistere alla morte di un uomo senza coglierne la gravità, il peso, appunto.

“La letteratura come funzione esistenziale, la ricerca della leggerezza come reazione al peso di vivere. » è la formulazione di Calvino che a mio avviso corrisponde a pieno con quanto le quattro storie della Guerra dei Murazzi ci vogliono dire. La scrittura di Enrico Remmert vi opera allora come un crittografo implacabile nel generare storie da dettagli a volte insignificanti, da quadri astratti del vivere comune. C’è una scena particolarmente forte secondo me in cui la protagonista, Manu, descrive i volti nascosti tra le piastrelle del bagno.

Io e Nenne avevamo un bagno tutto tappezzato di piastrelline azzurre di due centimetri di lato, tipo tessere di un mosaico ma smaltate su varie sfumature e perciò ognuna diversa dall’altra, e quando facevo pipì fissavo il pavimento cercando di trovare in certe singole piastrelline una sagoma che mi ricordasse qualcosa, un po’ come leggere le nuvole ma in scala molto più piccola.” Per ognuno dei personaggi di queste storie possiamo dire che è come se cercassero nella storia dell’altro, quella di un intero paese, Cuba e delle sue leggende, di un cane dai tratti infernali di Cerbero o di un parrucchiere giapponese, la propria indecifrabile storia, la natura stessa del suo esistere.

La parola storia, del resto, ricorre per ben sessantadue volte nel libro a conferma di quanto si legge nella citazione posta ad esergo nella prima pagina.

Ci hanno mandato via perché non conoscono le nostre storie. 

BELINDA, JOY E FAITH, profughe respinte a Gorino nell’ottobre 2016

Se allora vogliamo che restino, che rimanga davvero qualcosa, alla fine, una sola è la condizione perché ciò accada ed è raccontare storie, conoscerle, ma soprattutto farsele raccontare perfino quando ci verrebbe da dire con Manu:

E sapete quelli che vi raccontano la loro incredibile storia e alla fine vi dicono: ma io non mi sono mai perso d’animo? Ecco, io sono di quegli altri, sono di quelli che invece alla fine si sono persi.

Il mio ’68

0

di Andrea Rényi

Nel primo numero del 2018 dello storico settimanale Élet és Irodalom (Vita e Letteratura) il giornalista ungherese István Váncsa (1949) tira le somme non prive d’ironia, del Sessantotto in salsa magiara: “Lo spirito più libero e il naturale ottimismo in qualche modo si sono infiltrati anche da noi, perciò ritenevamo i mamelucchi del regime dei cretini, e loro ogni tanto si rendevano conto di essere considerati dei cretini, quindi le loro facce tonte rispecchiavano incertezza, e nei momenti peggiori sghignazzavano imbarazzati.

Una lettera a Norbert Conrad Kaser

0

di Roberta Dapunt

A settembre dell’anno scorso è stato presentato a Brunico un libro che raccoglie i versi tradotti in italiano di Norbert Conrad Kaser, poeta dell’Alto Adige, enfant terrible di un territorio che non gli ha voluto bene, perché in balìa della sua voce poetica che graffiava profondamente tutto ciò che toccava. Norbert C. Kaser ha toccato tutto, luoghi, abitanti, lingue, società, politica e chiesa. Ma di più ancora, ha toccato sé stesso senza compromessi e senza riguardo. Ci ha lasciato un patrimonio di sensibilità che ora possiamo custodire anche in lingua nazionale. Sono state dette cose buone alla presentazione di questo libro, alcune troppo buone. Anzi non buone, perché troppo benigne e angeliche per norber c. kaser che da lui sappiamo, va scritto con la minuscola.

rancore mi cresce nel ventre.
L’inizio è senza maiuscola, in contrapposizione con il giusto, il corretto. kaser appunto. Che non era corretto. Lui non corrispondeva. Non aveva relazione di convenienza, di somiglianza, di conformità o di luogo, di tempo. Mi sono servita del vocabolario per quest’ultima frase, perché mi sembra, che la voce corrispondere raccolga l’opposto delle qualità del poeta kaser. Che sì, sono qualità dei pochi. E ora ce l’abbiamo anche in italiano questa figura provvista di buona controcorrente, avversa a ogni forma di conformismo e tristemente  succube e dominante di sé stessa. Perché Norbert è morto, è morto giovane e in compagnia solo dei suoi versi. Splendidi versi che ai miei occhi non sono affatto tinti di tanti colori com’è stato detto, di uno però certamente. Ché sì, le dimensioni sue, tra doti d’intelligenza e dolorosa mancanza volitiva, hanno fatto arrossare il volto di non pochi lettori. Direi quindi che il colorito della pelle più rosso del normale, è il colore conveniente nel quale norbert c. kaser ha immerso i suoi versi. Lo trovo magnifico. Il resto è profonda solitudine, condizione amara di una tristizia morbosa. Ma le sue poesie, le sue lettere, i vari testi in prosa! Mi auguro che il lettore lo accolga così com’era. È stato espresso il desiderio di liberarlo dal suo personaggio. Non facciamolo. La vita di un poeta è il patrimonio sul quale i versi di ogni sua poesia sono messi insieme, pezzo per pezzo. Grazie alphabeta, grazie Werner Menapace per la benfatta traduzione.

A norbert c. kaser ho scritto una lettera soltanto. Ero bambina quando è morto. Probabilmente gliene avrei scritte molte di più se non fosse stato così.

Fortezza, 27 agosto 2009
(prova di risposta a norbert c. kaser,  Brixner Rede, 27. August 1969)

Alla letteratura sudtirolese, a quella altoatesina
in questo tripudio di onorificenze, decorazioni concesse in segno d’onore,
al cittadino senza potere che dice ciò che ritiene importante.
Alla letteratura scritta per il mondo senza commemorazione patriottica,
io quarant’anni dopo mi chiedo quale timbro la tua voce, kaser,
affideresti alle parole importune, oggi,
Du unverträglicher Geselle, scriviamo ora.

E ti rispondo con scrittura italiana, da pensiero ladino, da lettura di te risolta in tedesco.

Noi che abituati a pensare per generazioni, pronunciatori instancabili di ricorrenze,
se tu sapessi quale lontananza
dagli abiti tirolesi e piume di gallo forcello
e camici immacolati e merletti intorno ai passi delle sfilate.
Eppure io confesso. Amo tuttavia le processioni,
solennità disinvolte tra i prati a rafforzare la fede,
consegnando stagionati gonfaloni al vento
che in ogni estate guardo da una lontana finestra. Sedotta,
finché il passo lento religioso si risolve tra le case. Il mio domicilio.

Io che sono ladina, che non sono italiana, che sono figlia illegittima di quest’Italia,
che ne violento ogni giorno la lingua e compro il pane in tedesco.
Falso desinare il mio. Ipocrita,
ogni giorno a pasturare con indifferente lingua.
Eppure i versi, a loro non importa l’inchiostro versato,
importa a loro invece la terra impropria che pesto,
poiché non so a chi appartengo, eppure erede di un popolo fermo,
mentalità sedentaria, che abbiamo fissato i chiodi per vendere ladina persino la cena
e sul tavolo ormai abbiamo lasciato un limitato spazio alla modestia, all’umiltà.

Ottuso norbert, tu parli di esilio eppure non esiste condizione esule più triste di questa.

 

Ricordo volentieri di avere avuto una ghirlanda
e aver camminato nelle processioni.
E vestita a festa ascoltavo
i fiati trionfare in chiesa,
di lato i santi hanno visto il mio stupore.

Non conosco fuga, non ho mai ripiegato le mie radici,
ma qui, dentro i paesi delle mie genti conosciute,
dentro questo tempio dei valori educati
e delle molte solitudini, vicine di casa,
io sono in esilio.
In mezzo agli alberi, dentro l’erba, sotto i fiori,
io sono la zolla staccata dei campi coltivati.

Questo luogo ha partorito la mia vita
e la mia storia non ripeterà più tale giorno.
E come manca il tempo dentro i rosari, sono assente,
dal gesto umile delle mie genti inginocchiate.

 

Ora io caro norbert, ho raccontato  un giorno all’ospedale il mio male di vivere,
l’ho raccontato in dialetto pusterese e chi ascoltava, per gentilezza mi riponeva domande
dentro a una grammatica poco frequentata. Italiano di scuola,
poche ore alla settimana per giustificare una cittadinanza non voluta,
aggiungo, non meritata.

Assurdo conversare il nostro, rimane il male di vivere
per un colloquio irrisolto per forma e tonalità.

E dunque, giovane kaser, alla letteratura sudtirolese, a quella altoatesina
va il merito di essere ciò che è per natura, un nome composto di lingue diverse.
Nostra letteratura è il melo, il suo ramo d’innesto,
la pianta in sviluppo sul callo cicatriziale di un’ibrida alleanza politica.
Kein schöner Land, noi siamo chimera alpina.

E tu caro norbert, parlavi di letteratura che nessuno sa, non in questo luogo bizzarro.
Porgimi l’orecchio, ho da dirti che Prima Letteratura è la mia quotidianità,
baraonda di pensieri da depositare lentamente negli scaffali delle lingue.

Roberta Dapunt

 

NdR: qui, sempre su Nazione Indiana, si parla dell’antologia “rancore mi cresce nel ventre.” del poeta

Costruire antifascismo oltre l’emergenza

2

 

di Gaia Benzi

Siamo messi più o meno così: negli scorsi anni di fascismo si parlava come di una cosa morta e sepolta, l’antifascismo sembrava essere superfluo e fuori moda, e dominava la retorica degli “opposti estremismi”; oggi le imprese fascioxenofobe dei militanti di estrema destra hanno conquistato le prime pagine dei giornali, con un effetto cassa di risonanza che non si capisce quanto sia voluto, e quindi criminale, e quanto sia solo incosciente idiozia. Il dibattito pubblico è schiacciato sugli ultimi eventi, che si pretende abbiano impresso il segno del paradigma. Tutto sembra essere, come al solito, un’emergenza: l’emergenza democratica, l’emergenza fascista, la conseguente emergenza antifascista. E noi scivoliamo, ancora una volta, lungo la china politica e comunicativa che ci impone il carosello elettorale, e che ormai dovremmo conoscere bene.

Ma il neofascismo non è mai stato un’emergenza: è un fenomeno presente da anni e da anni denunciato, con costanza, da pochi. Trattarlo come tale rischia solo di dare vita ad analisi sbagliate che, se da un lato ingigantiscono il problema, dall’altro non arrivano a comprendere come e dove esattamente il neofascismo stia davvero mettendo radici. Siamo stati chiamati a prendere parte, e ci siamo riscoperti partigiani; ma per costruire argini alla barbarie, forse, la prima cosa da fare è proprio rifiutare la logica emergenziale di questa chiamata, non accontentarci più di rispondere agli stimoli esterni e iniziare ad elaborare, invece, strategie di lungo corso.

Parto da me e dalla mia esperienza, mettendo sul piatto qualche spunto di riflessione. Sono nata e cresciuta e attualmente vivo in uno dei quartieri apparentemente più neri di Roma, l’Appio Latino, scenario che ha fatto da sfondo alla famosa, lugubre e annuale sfilata commemorativa di Acca Larentia il 7 gennaio, con tanto di saluto romano a congedo. Quando esco dal portone sono circondata da svastiche e celtiche e scritte in fasciofont, prodotto delle sezioni dei vari partitucoli neofascisti della zona. E ogni giorno provo, in questo scenario di svastiche e celtiche, a fare politica insieme ad altre e altri, parlando di accoglienza, mutualismo e solidarietà. Forse come curriculum non è granché, ma un paio di cose mi sento di dirle.

Innanzitutto, ci tengo a dire che, persino nelle loro roccaforti, i fascisti veri e propri, cioè i militanti delle sezioni dei partitini fascisti, sono ancora pochi. Sempre troppi, certo, ma ancora pochi. I loro asset principali sono i soldi e il tempo da perdere, oltre a una notevole dose di fanatismo. Se oggi vediamo aumentare i loro simpatizzanti è perché da almeno dieci anni stanno investendo con ampiezza di mezzi principalmente in due settori: la legittimazione culturale, e il reclutamento dei giovani. Un lavorio costante, sottotraccia, che ha saputo fiutare il vento nero dell’Europa di questi anni e spera ora di cavalcarlo, cosciente che la destra, anche estrema, è elemento appetibile soprattutto per le nuove generazioni: l’unica facile alternativa di ribellione in un panorama dove ogni alternativa sembra aver cessato di esistere. Un decennio – o forse di più: un ventennio, un trentennio – in cui nel frattempo la sinistra istituzionale scompariva e quella di movimento veniva massacrata in tutti i modi possibili e immaginabili, e ridotta a un lumicino.

E così, mentre l’antifascismo era sempre meno attrattivo, sempre più appannaggio di gruppi ristretti “ancorati al passato”, e veniva delegittimato nel discorso pubblico, il fascismo diventava cool, e al giorno d’oggi può capitare di sentirsi dire da uomini e donne di sedicente sinistra (intellettuali, giornalisti, persino scrittori) che “questa cosa se la fanno i centri sociali non mi interessa, se la fa CasaPound sì”. Ormai il fascismo è “di moda”, come scrive giustamente Raimo su Internazionale.

Ma anche se apparentemente ripuliti, anche se ancora attualmente pochi, i fascisti restano comunque pericolosi. Non sto qui a fare l’elenco delle aggressioni degli ultimi anni, che fortunatamente sta circolando da giorni nella mediosfera italiana – e che ogni tanto sarebbe carino fosse ripreso pure dai giornalisti che ospitano questi “democratici figuri” nei loro studi. Mi limito, ancora una volta, a ciò che conosco, all’Appio Latino, dal quale partivano le macchine cariche di minorenni dirette verso i quartieri multietnici di Roma per i cosiddetti banglatour, veri e propri riti di iniziazione fascista. I banglatour sarebbero i pestaggi collettivi, avvenuti a partire dal 2013, di immigrati provenienti dal Bangladesh, individuati sulla base di criteri etnici, scelti in quanto poco robusti e poco inclini alla reazione fisica e alla denuncia. A dimostrazione del fatto che le aggressioni su base etnica non sono cosa recente, e anzi vanno avanti indisturbate da tempo: la punta di un iceberg fatto di intimidazioni quotidiane, in particolare tra le studentesse e gli studenti delle medie superiori, tra le straniere, i neri, le trans, i “diversi” di ogni sorta.

A un quadro siffatto va aggiunto il clima del paese, dove il lessico e la postura fasciste sono ormai sfacciatamente sdoganate, e la xenofobia è diventata senso comune. Un clima alimentato ad arte dai nostri governanti, che nel fomentare le destre e i loro argomenti trovano un facile espediente per deviare la rabbia sociale. Ed è in virtù di questo clima se ora i fascisti, noti vigliacchi, si sentono legittimati ad alzare la testa.

Un doppio binario che, pur con i suoi intrecci e la sua complessità, va tenuto ben presente da chi pratica l’antifascismo. Sorgono manifestazioni di protesta dopo anni di silenzio – e che si diffondano e si moltiplichino ogni giorno di più. Con la consapevolezza, però, che l’antifascismo tradizionalmente inteso come contrapposizione diretta e scontro frontale potrebbe non essere più sufficiente.

Me ne accorgo quando incontro le persone per strada, durante i banchetti o la distribuzione di volantini, e cerco di instaurare con loro un dialogo fatto in verità soprattutto d’ascolto. Ogni volta c’è chi si ferma a chiacchierare, a inveire, chi si lamenta, chi ti manda affanculo, ma comunque si finisce a parlare, e ogni volta mi rendo conto con rammarico che le parole d’ordine dell’antifascismo fanno riferimento a una tradizione politica che, per varie ragioni, non esiste più. Per questo anche le iniziative antifasciste all’apparenza più lodevoli e, diciamo così, “d’impatto”, se prive di un radicamento territoriale rischiano di essere percepite come “guerra tra bande”. E la contrapposizione sul piano chiamiamolo militare – di forza bruta, fatta di azioni che si concentrano principalmente sui partitini dichiaratamente fascisti, che vanno braccati e ostacolati e sfidati pubblicamente – risulta spesso incomprensibile nelle pratiche a una maggioranza silenziosa non fascista che pure potrebbe e dovrebbe essere inclusa nel discorso. Un antifascismo dal retrogusto machista, che rischia di essere indistinguibile a un occhio esterno.

In generale, il limite più grande sul quale sento di fare serena autocritica riguarda la natura stessa della risposta antifascista, che sempre più spesso si configura come rincorsa sui loro temi, presa di parola ex-post, viene cioè dopo qualcosa che i fascisti fanno, nel tentativo di recuperare il terreno perso mentre continuavamo a dividerci in micropartiti e aree politiche, indebolendo così le nostre stesse file. Tenendo a mente il doppio binario di cui sopra, e il fatto incontrovertibile che le manifestazioni prima o poi finiscono, e bisogna tornare a casa, mi sembra che oggi ci sia bisogno soprattutto di potenziare quei ragionamenti e quelle pratiche che si concentrano nell’attaccare il retroterra che gonfia le vele delle destre: ragionare, cioè, su come levare ai fascisti il terreno sotto i piedi.

Una volta ho sentito dire da un compagno molto più in gamba ed esperto di me che “se vuoi fare antifascismo nel quartiere, apri una palestra popolare”. Molte realtà nate dal basso riescono ad operare in contesti difficili (leggi: periferie abbandonate a se stesse, territori dell’estrema destra, territori di mafia) perché interpretano l’antifascismo su un piano sociale e culturale – che poi è lo stesso piano su cui stanno investendo loro. Le iniziative di piazza – e i pranzi meticci, gli incontri pubblici, le passeggiate della memoria, i forum partecipati, le assemblee aperte, e chi più ne ha più ne metta – hanno quasi sempre al centro i bisogni di chi abita il territorio in cui si svolgono, e aspirano a coinvolgere le persone normali, non politicizzate. L’obiettivo è quello, a partire dai problemi e dalle necessità comuni, di ribaltare il discorso delle destre, e individuare cause diverse da quelle propagandate solitamente (gli immigrati, ad esempio, come fonte di ogni male). In queste occasioni magari non ci si pone esplicitamente contro i fascisti, ma ci si batte per qualcos’altro, e si mettono in circolo anticorpi al fascismo dando spazio ad altri modi di vedere il mondo.

Soprattutto – e forse è questo l’aspetto più importante – sono momenti in cui si riprende parola apertamente e pubblicamente, e si fanno emergere le alternative al discorso culturale fascista o ur-fascista che già ci sono, esistono e operano quotidianamente. Alternative molto più presenti e diffuse delle strutture fasciste, e che a differenza di queste non trovano mai spazio sui mezzi d’informazione mainstream.

Sono un’intercapedine nel discorso pubblico razzista e frammentato, spesso allergico a qualunque proposta portata avanti su base identitaria di contrapposizione frontale al fascismo e alle destre. Sono tentativi di parlare alle persone e di far parlare le persone tra loro, costringendole a incontrarsi per strada, coinvolgendo anche chi crede che i migranti ci levino il lavoro e i soldi, chi pensa che siano un problema concreto, chi straparla di degrado e sicurezza ed è completamente imbevuto della retorica dominante – in una parola: chi non la pensa come noi. È una zona grigia dove ci si sporcano le mani spesso e volentieri, e pezzo dopo pezzo si prova a erodere, come la goccia che scava la roccia, il consenso culturale delle destre.

Credo che, di fronte ai recenti fatti, sia ancora più impellente la necessità di allargare il fronte dell’antifascismo ed elaborare nuove strategie per arginare la barbarie. È un lavoro ancora tutto da fare, e da estendere a quelle categorie – le studentesse e gli studenti, gli uomini e le donne immigrate – che oggi sono vittime privilegiate delle azioni fasciste, per strappare pezzo a pezzo, territorio dopo territorio, con un processo costante e capillare di ricostruzione del tessuto sociale, il terreno culturale imbevuto di solitudine, disagio e intolleranza in cui le destre e i fascisti scorrazzano indisturbati. Costruire, più che distruggere, sembra essere oggi la sfida dell’antifascismo.

 

PS: Nell’Appio Latino, quartier generale di Forza Nuova, ultimamente colonizzato anche da Blocco Studentesco – propaggine giovanile di Casa Pound, negli ultimi trent’anni la destra ha sempre perso le elezioni. Giusto per dire che le apparenze a volte ingannano, e i margini per costruire una resistenza alla barbarie ancora ci sono. Solo, non vanno sprecati.

 

*

 

Gaia Benzi è dottoressa di ricerca in Italianistica e attivista di Scup – Sport e Cultura Popolare. Ha scritto per Micromega, CheFare e Dinamopress.

[Foto: stella in onore del partigiano Paolo Morettini, situata sul Monte Tancia in Sabina, luogo della sua ultima battaglia.]

Due fratelli

1

di Monica Pezzella

La perrera è un cunicolo scuro. Come la gola umida e tortuosa di una grotta, a un certo punto si snoda in due corridoi perpendicolari a un’anticamera quadrata e vuota. Questa stanza ha i muri lisci e lucenti simili a scaglie di metallo e, negli angoli in alto, grate lunghe e strette, spesso intasate da polveri vecchie e ragnatele. Ai tempi in cui la perrera fu costruita, dovevano servire a fare entrare l’aria e lasciare uscire un poco di puzze ed esalazioni malate. È probabile però che già allora dalle sbarre non filtrasse che un vento pesante, carico di ceneri e suoni otturati, proveniente dai carretti e dal forno alle spalle del cubo di pietra.

Dentro, non c’è un posto migliore o peggiore di un altro. Le gabbie sono tutte uguali, perché all’interno non c’è nulla, disposte una di fianco all’altra lungo i corridoi in modo da occupare tutto lo spazio a disposizione. La perrera è come un alveare. Nelle celle tutto ciò che cambia – e cambia a gran ritmo – sono gli inquilini. Vengono, chissà da dove, e se ne vanno, tutti nello stesso posto. Non molto lontano.

In una delle gabbie del lato sud, quelle di fronte all’entrata, da pochi giorni ci sono due nuovi ospiti. Nel viso hanno qualcosa dello spinone e il pelo è duro come stoppa, di un grigio antracite, venuto fuori dal confuso mescolarsi di ciuffi bianchi e neri. Due fratelli.

Santo Ramirez si sveglia tutti i giorni alle cinque del mattino. Non abita troppo lontano dalla perrera. A quell’ora il giorno è ancora sbiadito, qualsiasi sia la stagione, e attraverso gli spiragli delle finestre in legno non di rado si ha l’impressione di scorgere la bocca del forno nel cielo viola, dietro gli strascichi di nubi. Ma è tutta un’immaginazione. L’inceneritore della perrera è una struttura bassa e tozza, un cubo, fatto a immagine e somiglianza della prigione, con una sola, grande bocca scorrevole e cigolante di lamiere. Lo stridìo della porta nel binario è l’ultimo suono vivo, ogni venerdì mattina. E il primo che Santo percepisce dopo essersi tolto i tappi dalle orecchie.

Santo Ramirez lavora alla perrera da tre anni e quattro mesi. I due fratelli arrivano giusto allo scoccare del suo quarantesimo mese di lavoro, in una giornataccia color seppia di fine ottobre.

La prima regola della perrera è “un cane per cella”, ma due celle vuote quel giorno non ci sono, perciò i due spinoni finiscono insieme nella stessa gabbia, ad annusare l’aria stantia con le barbe una di fianco all’altra infilate tra le sbarre.

Dopo aver chiuso la porta della cella, Santo strappa un foglio giallo e umido che per una notte è rimasto affisso su una sottilissima striscia di muro tra quella gabbia e la gabbia adiacente. Sul foglio c’è scritto: “In famiglia”. Significa che qualcuno è venuto a prendere l’inquilino precedente, liberando giusto un posto per i due fratelli. E per fortuna è giovedì, perché se l’indomani arrivasse il furgoncino con altri cani Santo non saprebbe dove metterli.

È sempre così. Sempre si arriva al venerdì, giorno dei forni, con un sovraffollamento.

Santo Ramirez ha sistemato uno sgabello in legno smangiato contro l’unico fazzoletto di muro libero. Le sbarre delle gabbie tappezzano lo sghembo cubo della perrera come carta da parati, ma il lembo di muro dove Santo ha messo il suo sedile è coperto solo da uno spugnoso strato di muffe, di cui può sentire distintamente l’odore. Gli si attacca al di dietro della camicia e resta infiltrato nelle fibre anche dopo il secondo lavaggio. È l’unico posto libero e Santo è un uomo che si accontenta. Lì seduto può vedere l’uscio che si schiude e si dilata man mano che Abdón ci spinge dentro la gabbia mobile. È una gabbia stretta e lunga, che scorre sopra ruote male oleate e fa un rumore come solo all’inferno. È la gabbia che serve a portare fuori i cani. Ogni venerdì mattina.

Santo rispetta sempre il rito, da tutti e tre gli anni e da tutti e quattro i mesi di perrera. Se ne sta lì sullo sgabello e aspetta che Abdón prenda la gabbia mobile dal deposito e la trascini sferragliando lungo il corridoio. Poi si comincia, in senso orario. Sui fogli attaccati alle sbarre sono indicati i giorni di permanenza di ciascun cane. Mentre percorrono il loro giro nel perimetro quadrangolare, Santo e Abdón si basano su ciò che c’è scritto sui fogli. Se c’è scritto “cinque” o addirittura “sette”, allora il cane va preso.

Qualche cane oppone resistenza e cerca riparo in un angolo giù in fondo, pur sapendo che ripari non ve ne sono. La maggior parte, però, è contenta di uscire, memore dei bagordi della sera prima. Questi ultimi non creano problemi. Con quegli altri bisogna usare il cappio.

Anni luce

1

di Francesca Fiorletta

Ecco, con buona approssimazione ho allora compreso cos’è il tiro completo della vita, l’accumulo, il grano messo via nel corso delle stagioni. “Venticinque anni e sembra ieri”, come dicono i malati di nostalgia, e come ovviamente non dirò io.

“Anni luce”, di Andrea Pomella, esce in questi giorni per Add editore, nella collana Incendi, curata da Fabio Geda. E t’incendia sul serio.

Quell’avverbio, ovviamente, è scritto in corsivo, sembrerebbe lasciato lì en passant, e invece così non è. Ovviamente questo non è un libro di memorie, non è un libro di autofiction, non è una storia completamente fantastica, non è un romanzo generazionale, non è un saggio sulla musica grunge, non è il diario ormai non più segreto perché dato alle stampe dell’autore. 

Sud. Bocca. Grovigli

0

di Valentina Formisano

Odio toccare il cibo con le mani.

Sporcarmi oltre il necessario.

Mostrare come mangio.

Ma oggi papà ha fatto le linguine coi polipi.

C’è qualcosa di atavico in questo celenterato a pezzi nel pentolone.

Il sugo è scuro, quasi violaceo, una consistenza acquosa che sa più di brodo che di salsa. È eccitante, quasi volgare.

C’è una pentola apposta a casa mia per preparare il polpo. Una terracotta smaltata. Il coperchio affonda sulle teste degli animali che si arrendono ai bollori.

Carta forno che sbuca dai bordi. È così da quando ho memoria, non può essere altrimenti.

Polipi: animali da congelare affinché le loro carni si sfibrino e siano tenere in bocca. Cotture prolungate in cocci a fuoco lento. Bestie che non si concedono facilmente, pescate di fiocina, battute a violenza, si arricciano a fatica, più ardue degli scogli ai quali s’aggrappano.

Il piatto è enorme e nonostante la ridotta capienza del mio stomaco non lascio che poche ventose morte e qualche pelle di pomodoro.

Ritorno a essere un animale del sud: forchetta che arrotola più del dovuto e dalla bocca un ricciolo capriccioso sbuca, non lo riesco a infilare subito dentro, mi vince, non lo governo, come se fosse ancora vivo, mi sporca un po’ la guancia. Oh…!

Pepe: spezia vietata. Ce la mettiamo quella polvere nera io e papà, come due ladri, di nascosto, come un segreto per essere complici io e lui, portatori di Verità intenti a beffare l’autorità. Ma mamma ci vede lo stesso, fa una brutta faccia. Non dice niente.

Si torna alle origini, nei modi, nelle sensazioni viscerali, nella voracità con cui a questa tavola oggi si consuma il pranzo.

Mi sento nella scena degli spaghetti al nero di seppia del film Via Castellana Bandiera. Una scodella immonda al centro della tavola da cui attingono in tanti: padroni di casa e ospiti si trascinano scie nere in piatti di plastica e mangiano come se stessero partecipando a una guerra. Sporchi in volto, con arie feroci; bambini completamente imbrattati. Il boss di quartiere adesso appare come un lattante dimenticato dalla maestra, con la vergogna spalmata in faccia e i denti neri; un sorriso marcio (invero è marcio da molto tempo prima del pasto). Non c’è dialogo in questa lunga scena ma solo uno sferragliare di posate e rumori di saliva, risucchi e lingue che leccano quella tinta plumbea che fa spavento. Così come in Fuocoammare dove un adulto mangia come fosse un bambino e un bambino impugna la forchetta come un vecchio di tremila anni: succhiano gli spaghetti e sembrano mostri marini, cannibali, divoratori della propria stessa specie. Non vedo l’ora che questa scena termini. Disgustosa. Infinita. Eppure è la prima che mi torna in mente. Lampedusa: c’è qualcosa di intoccabile. Allora comprendo e li lascio mangiare, disgustata e allo stesso tempo benevola. Ho capito.

Un sud magico e ne ho memoria anch’io.

Cento anni fa c’erano i miei zii che mangiavano frutti di mare crudi. Li prendevano dalla grande ciotola piena d’acqua. Li vedevo consumare quell’atto osceno in mezzo a tutti noi, a capo della tavola a cui mangiavano vecchi, donne, bambini. Nonna era l’unica femmina ammessa a quel rito: come una sacerdotessa, per privilegio d’anagrafe, assieme ai più valenti tra gli uomini adulti beveva molluschi dai loro gusci. Succhiavano bestie rosse, molli, purificate dal rito del limone che disinfetta, organismi ancora viventi e mi sono sempre chiesta dove avessero gli occhi quelle masse informi: erano pur sempre animali eppure non mi sembrava affatto.

La natura demoniaca delle creature del mare.

Giallo di Napoli, grigio, bianco lattiginoso, bave, filamenti, schizzi, rumori e ingoi. Erano in pochi a poterlo fare. Serve lo stomaco forte. Una volta mio zio ha preso il tifo.

Certe cose hanno una valenza sessuale. Lo capisci dal modo in cui si mangiano. A quel tavolo, ogni domenica si compiva un baccanale.

Come vorrei essere grande anche io. Sacerdotessa anche io. Vorrei essere ammessa a quella mensa. Ma è evidente: sarò ancora una bambina fino a che non saprò ingoiare molluschi crudi senza vomitare e senza essere tradita da viscere delicate.

Un giorno provai le ostriche. Sembrava di leccare uno scoglio sul quale avesse appena pisciato qualcuno. Decisi di poterne fare a meno e tornai a sedere dal lato del tavolo di quelli che non contano niente.

Adesso il sud è lontano. È lontano anni e chilometri. Nel frattempo ho imparato a prendere il numero giusto di maccheroni, a bere dal cucchiaio senza rumore, masticare a bocca chiusa, a non mettere pane dove non ci vuole. Ho imparato l’eleganza.

Ma oggi è domenica, papà ha fatto le linguine con i polipi.

Ho ingurgitato zampe, sono tornata acqua del Golfo di Napoli, urla nei mercati ittici alle cinque del mattino. Sono tornata chi non sono stata mai, ma il cibo mi chiama, chiama a scendere a patti con la dignità.

E il tovagliolo ripiegato a triangolo su questa tavola è la sola, unica traccia di un’umanità ancora non del tutto dimenticata. Nonostante i polipi, nonostante i miei avi. Nonostante.

***

Nota critica di Antonella Falco
Il cibo come elemento ancestrale. Come rito tribale. Come ritorno alle origini – richiamo di un Sud che si perde nel mito – regressione ai primordi della civiltà. Cultura che antecede la cultura. Il cibo come trionfo dei sensi, carnalità sfrenata, pulsione erotica. Lessico famigliare del pasto, fenomenologia della voracità, antico baccanale del gusto. C’è tutto questo in Sud. Bocca. Grovigli di Valentina Formisano, giovane e poliedrica autrice di origine campana che coniuga la passione per la scrittura con un’intensa attività artistica. Trasferitasi nelle Marche all’età di undici anni, si laurea nel 2013 all’Accademia di Belle Arti di Macerata, per poi trasferirsi a Firenze nel 2016 in seguito al conseguimento di una borsa di studio presso la Fondazione Il Bisonte. Centro internazionale per lo studio dell’arte grafica, dove si specializza nelle tecniche di incisione. I disegni e le xilografie di Valentina Formisano rivelano un talento fuori dal comune ed una personalità anticonformista: la sapiente perizia tecnica, sorprendente in un’artista ancora molto giovane, trova espressione in soggetti non convenzionali, lontani dalle fredde esercitazioni accademiche. C’è vita pulsante nelle opere di Formisano e questo vale tanto per la produzione grafica quanto per quella letteraria. Lo si evince chiaramente nel racconto citato, in cui spicca il contrasto tra l’incipit asettico: ‹‹Odio toccare il cibo con le mani. Sporcarmi oltre il necessario. Mostrare come mangio›› e l’explicit che a partire dal verbo ‹‹ingurgitare›› denota una compromissione con la materia, uno “sporcarsi le mani” e con essi l’accettazione di una storia, di un passato, di una tradizione di cui, infine, ci si riconosce come ultimo anello: ‹‹Ho ingurgitato zampe, sono tornata acqua del Golfo di Napoli, urla nei mercati ittici alle cinque del mattino. Sono tornata chi non sono stata mai ma il cibo mi chiama, mi chiama a scendere a patti con la dignità. E il tovagliolo ripiegato a triangolo su questa tavola è la sola, unica traccia di un’umanità ancora non del tutto dimenticata››. In mezzo vi è la descrizione di quello che un antropologo culturale definirebbe in termini di ritualità e trasmissione di memorie e modelli culturali: ‹‹c’è qualcosa di atavico in questo celenterato a pezzi nel pentolone››. Ma vi è anche il corpo, in tutta la sua consistenza materica, nella sua visceralità, nella sua ferina e a tratti oscena ingordigia. Il corpo di chi mangia e il corpo di chi è mangiato: il loro fondersi nelle bocche avide da cui spuntano piccoli tentacoli ribelli, ‹‹riccioli capricciosi›› che non si riesce a ‹‹infilare subito dentro›› e sporcano di sugo le guance. È quasi una scena pornografica, un amplesso fagocitante, in cui ripugnanza e deliquio orgiastico si fondono assieme, a ribadire ancora una volta il legame antico tra cibo e sesso. Non è un caso che nelle orge dionisiache dell’antica Grecia le baccanti giungessero al culmine dell’eccitazione parossistica addentando vivo o mangiando crudo un cerbiatto, assimilato alla figura di Dioniso. Ogni rito orgiastico è anche una celebrazione misterica: la carnalità trascende se stessa, il corpo immolato e divorato si transustanzia in qualcosa di ulteriore. D’altra parte consumare insieme il medesimo cibo è un atto che affratella, un rituale di comunione, che sancisce la permanenza nel tempo della famiglia intesa come entità metastorica. Il vitalismo insito nella convivialità a tratti truce del racconto partecipa del binomio indissolubile di eros e thanatos e lo conduce ad una sintesi che è pura esaltazione dell’esistere, accettazione della tragicità della vita ma non della sua finitezza, sullo sfondo di un Sud ‹‹magico›› che continua a chiamarci dal gorgo del tempo.

Gli zoccoletti rossi

0

di Marina Massenz

Nella penombra della stanza, rilassata sul letto, ripensava al loro ultimo viaggio. Erano stati in un paese lontano, un paese d’Oriente.

Un giorno si trovavano in riva al mare; Peter giocava con altri bambini, a tratti si immergeva con maschera e tubo, poi ricompariva. Era da poco passato il maltempo, l’acqua da torbida andava riacquistando la sua trasparenza, il sole spandeva sulla scena una luce inesorabile. Lei era distesa sulla sabbia, ma ad un tratto avvertì un improvviso pericolo; forse i pescecani si stavano avvicinando alla riva, al largo il mare era ancora scuro e burrascoso. Le rive scendevano in quel punto in modo particolare; dolcemente all’inizio, formando delle pozze in cui ai bambini piaceva giocare; poi, poco più in là, improvvisamente, il fondale cadeva a strapiombo, l’acqua acquistava un colore blu intenso che alludeva a grandi profondità.

Si alzò inorridita; vedeva, come se il suo sguardo fosse improvvisamente capace di sondare tali abissi marini, le sagome affilate dei pescecani avvicinarsi, prepararsi al loro balzo felino sui piccoli umani. Allora chiamò a gran voce “Peter, Peter…”, ma Peter quando esplorava non sentiva nulla. Si protese quindi in avanti, distese il braccio il più possibile, il suo corpo si allungò fino a coprire la distanza che la separava dal bambino, l’afferrò per una spalla e lo tirò sulla spiaggia accanto a sé.

In quel momento, arrivò Paul; disse, venite, ho trovato due persone che possono essere per noi ottime guide. Si diressero insieme verso di loro; molto cordiali, l’uomo e la donna pareva conoscessero assai bene il paese. Di fronte alla barca, sulla quale  fino a quel momento era previsto che salissero, lei e Paul provarono entrambi una certa esitazione, un sottile timore; infatti le nuove guide li avevano invitati a seguirle per un’altra strada. Chiese a Paul: “Sei sicuro che abbiamo preso tutto, che non abbiamo scordato nulla?”. Ma dopo poco si tranquillizzò, vedendo che l’imbarcazione sulla quale avevano riposto tanta fiducia altro non era che una tozza scatola di lamiera, per giunta tutta chiusa, senza finestre, che avanzava sull’acqua senza alcuna eleganza.

Loro, invece, avrebbero proseguito diversamente; strane imbarcazioni, in verità… Si accomodarono; la coppia che li guidava in una, Paul e Peter in un’altra. Erano grosse ceste galleggianti. Lei si sistemò ridendo nella borsa di paglia che portava ogni giorno al mare.  Emergeva la sua testa, che osservava il panorama, le braccia, che poggiavano sui manici della borsa, e le gambe, che facevano dondolare gli zoccoletti rossi ad un pelo dall’acqua. Iniziarono il loro viaggio in tutta allegria; le leggere imbarcazioni venivano trasportate dalla corrente per una sorta di via secondaria, una strada di canali verdi e luminosi per i quali si procedeva senza alcuno sforzo.

A tratti lei rideva, perché a volte la cesta girava su se stessa, tirata in un carosello di gorghi leggeri, poi riprendeva il suo percorso ondeggiando come su una giostra.

Mentre le altre due piccole imbarcazioni avevano già toccato la riva, ancora giocava; un’onda le accarezzò il piede, afferrò uno zoccoletto… lo vide affondare lentamente. Si allontanava sempre più, perché nel frattempo l’acqua stava portandola verso terra. Allora si mise a remare con le braccia contro corrente, presa dall’urgenza di riavere la sua calzatura; dopo un po’ di resistenza, il fiumiciattolo cedette alla sua insistenza e

mentre lei affondava il braccio, fattosi di nuovo lungo lungo, la lasciò raccogliere lo zoccoletto. Se lo rimise e subito dopo saltò a terra, dove gli altri la stavano aspettando. Camminavano davanti a lei, che nuda osservava il suo corpo muoversi nel passo elastico, poi vide il suo ventre piatto e il pube. Si fermò affascinata; i peli del pube erano diventati piccoli arbusti, che portavano infiorescenze di diversi colori.

Il giallo, il verde, il rosso  riverberavano luminosi in quel punto del suo corpo.

Chiamò Paul, gli chiese di guardarla; egli si fermò, la osservò e disse che era molto bella ma avrebbe visto meglio dopo. Paul ha paura di perdere le guide, pensò. In effetti le loro guide e Peter tra di loro camminavano veloci avanti. Paul affrettò subito il passo per raggiungerli.

Lei invece si attardò ancora un attimo; si girò verso il fiume, lo guardò con amore, un po’ dispiaciuta di non aver regalato il suo zoccoletto ai gorghi divertenti che lo volevano. Ma non poteva donare a nessuno le sue chiavi segrete.

 

È morto Jack Ketchum

5
Jack Ketchum

di Viola Di Grado

Jack Ketchum

Tra le morti di Ursula Le Guin e Dolores O’Riordan, giustamente celebrate in una marea di articoli, in Italia abbiamo dimenticato la morte di Jack Ketchum. Scrittore controverso, definito da Stephen King “l’uomo più spaventoso d’America”, le sue storie estreme e sinistramente vicine alle storture dell’attualità hanno ispirato un gran numero di film, tra cui The Girl Next Door, la storia vera di Sylvia Lykens, la sedicenne che nel ’65 venne torturata a morte da un intero vicinato.

Appena ho letto della morte di Ketchum, il 29 gennaio, ho contattato il suo consulente management, Turner Mojica, per esprimergli il mio dispiacere. L’avevo conosciuto nel 2011: mi aveva proposto di tradurre The Woman, l’opera più cruda e originale di Ketchum, che a Sundance – nella sua omonima trasposizione cinematografica – ha provocato un’orchestra di grugniti moralistici e indotto alla fuga buona parte dell’audience. Il progetto è poi sfumato: il romanzo, purtroppo, non esiste ancora in italiano.

Io e Turner non parlavamo da anni, ma ricordavo i suoi modi delicati e la passione esuberante con cui si occupava delle opere di Ketchum. Quando gli ho scritto era ancora sconvolto,  stava per prendere un aereo per incontrare la moglie di lui, mi chiese trafelato se volevo leggere, ed eventualmente tradurre, quello che aveva scritto di petto in ricordo di Ketchum, che per lui era stato come un padre.

Mentre leggo il memoriale ritorno con la mente a The Woman, il libro che dovevo tradurre. La trama è questa: un padre di famiglia dal temperamento fascista trova nel bosco una donna selvaggia e la cattura, decidendo di “civilizzarla”, ma in realtà ciò che fa fino alla fine – insieme al figlio adolescente, che lo emula con disastrosa precisione – è abusare di lei in tutti i modi possibili. Il romanzo ruota intorno a una doppia narrazione: in primo piano la violenza esplicita, lampante, dell’uomo su questa donna catturata, e in sottofondo, più sfocata, appena intellegibile, la violenza dei piccoli gesti quotidiani all’interno del microcosmo familiare.

È facile stroncare questo libro: la violenza fa arricciare il naso, accapponare la pelle, soprattutto se a subirla è una donna. Allora si grida al sessismo, alla misoginia, come se invece una delle conseguenze logiche di una società educata alla parità di genere non dovesse essere proprio la libertà di usufrutto creativo di simboli e personaggi al di là del genere, soprattutto se dietro il marasma degli abusi alla protagonista risiede una serissima critica al sessimo ancora dilagante.

In The Woman la violenza è il mezzo eletto per raccontare senza metafore buoniste i danni collaterali di una cultura, la nostra, dove la donna è ancora educata a sottostimare il disagio causato dai gesti di prevaricazione maschili: a conviverci, ad adattarsi alla violenza domestica e sociale di matrice patriarcale come acqua che prende la forma di una brocca.

The Woman

Le vere protagoniste sono infatti la moglie e la figlia del sadico. Belle, casalinga costantemente intenta ad accontentare il marito e contenere i suoi moti di rabbia, che sente l’obbedienza come una vocazione femminile e la sottomissione come il male minore necessario a sventare il pericolo di una violenza maggiore e definitiva. E Peggy, la figlia adolescente chiusa in un silenzio infuso di paura, terrorizzata dal confronto con il padre e dal rendere partecipe gli altri di ciò che accade in quella casa: lei stessa, in uno spazio eliso dal racconto, ha subito un terribile abuso.

La violenza della storia principale serve proprio da lente d’ingrandimento per la violenza della storia secondaria, altrimenti invisibile. Come a dire: bisogna davvero arrivare a uno stupro, a torture fisiche, o addirittura a un femminicidio, perché la violenza contro una donna sia riconoscibile e dunque arginabile? Ci mancano davvero gli strumenti per discernere i conflitti familiari dalla violenza sistematica, unilaterale?

La “woman” del titolo non è in realtà una donna specifica (non è la selvaggia strappata alla natura, né la moglie rimbecillita dal panico, né la figlia preda di innominate sofferenze) bensì la donna come costrutto sociale, come evidenza terribile di un mondo in cui ancora c’è quasi sempre bisogno che il gesto violento provochi un danno eclatante per riconoscere la brutalità e mettersi al riparo. Per fortuna, sul finale, la donna cosiddetta “selvaggia” si vendica e porta con sé dalla casa malefica Peggy e la sorellina più piccola, tenendole per mano.

Di seguito il ricordo di Ketchum scritto da Turner Mojica:

Conobbi Dallas Mayr – questo il suo vero nome – in una riunione di ex alunni dell’Emerson College. Lo spinsero via da un gruppo di ammiratori, per lo più donne, e me lo presentarono. Bevemmo entrambi lo stesso scotch, Dewars con ghiaccio, e io bevvi il suo Winston, il che in seguito sarebbe diventato un nostro rituale. Sentimmo di conoscerci da tempo e il resto della festa scomparve nel nulla. Il giorno dopo ci incontrammo alle 4:30 in quello che lui battezzò “Il Meeting” nell’allora World Café nell’Upper West Side, non lontano da dove viveva. Sapevo già che sarei andato a vivere vicino a lui.

Quando mi stabilii a Manhattan da Boston non molto tempo dopo la laurea, il Meeting divenne parte della mia vita. Scrittori, artisti, attori, intellettuali e operai mescolati nel frizzante flusso di gente del Lincoln Center e degli ABC Studios lì vicino. Dallas mi guidò come Caronte attraverso le sue acque. Gli uomini e le donne che partecipavano diventarono la mia famiglia allargata. Nei primi anni non lessi nessuno dei libri di Dallas, non erano poi così facili da trovare. Finché non mi capitò di imbattermi in “Joyride” da Barnes&Noble. Dovevo fare qualcosa: ce n’erano solo due copie. Decisi di preparare la sua prima cartella stampa. Mi immersi in un tesoro di materiale custodito nel suo appartamento di Broadway, dove conobbi sua moglie Paula e i loro gatti. Lanciai la sua prima grande festa letteraria da Nell’s per “The Girl Next Door”. Quell’evento fu l’inizio delle nostre promozioni congiunte, che per me erano solo scuse per bere, fumare, parlare e ridere insieme. Incontrò ogni amore della mia vita, fu testimone di ogni rottura, vide le mie numerose discese all’inferno. Fu lui il responsabile del mio trasferimento in Italia. “Vai” – mi disse – “esci da qui e spingiti fino in Grecia”.

Mangiammo, bevemmo, fumammo e viaggiammo insieme in dozzine di città in Italia, da Milano alla Costiera Amalfitana, all’isola di Malta e alle spiagge della Costa Rica dove mi trasferii dopo tredici anni in Italia. Diventai quello che definì il suo “idiot bastard son”, da una canzone di Frank Zappa. Indossavo quel distintivo con orgoglio.

Gli mandai un biglietto per farmi visita a Playa Tamarindo per un consulto su una sceneggiatura che stavo scrivendo. Era pallido e aveva un’aria fragile, i suoi occhi erano grigi e non del blu penetrante a cui ero abituato. La sua andatura era lenta ma sorrideva nel dolore. Il caldo gli faceva bene. Era di umore migliore. Il suo cancro in seguito si dissipò.

Lo riportai in Costa Rica per ulteriori lavori sulla sceneggiatura, ma il vero motivo era trascorrere il suo compleanno insieme. Fuggì dall’inverno di New York e fu felice dei nostri progressi.

Mi sentivo pieno di gratitudine ma sopraffatto dal suo cancro che era tornato. Pareva meno grave dell’ultimo, ma sentivo che sarebbe stata l’ultima volta che lo avrei visto vivo. Durante quel viaggio mi sbriciolai gradualmente e sviluppai quello che lui chiamò “febbre del fiasco”, un terrore nervoso di fallire che per me equivaleva a deluderlo. Ingurgitai una moltitudine di pillole, sciacquandole con bottiglie di scotch, mi prese il male dell’anima, ma Dallas mi guarì. Sapeva che stavo soffrendo. La paura di perderlo era insopportabile. Mi era più caro di mio padre.

“È morto. Sono morto.” Steso sull’amaca, guardo il Pacifico. Scorro Spotify e metto su Tom Waits, “Sins of the Father”, chiudo gli occhi. La musica svanisce mentre percorro i cinquanta passi fino alla spiaggia di Playa Marbella, in Costa Rica. Non sento il calore del sole o della sabbia o il chiacchiericcio degli uccelli. Sono sordo alle iguane che sibilano contro di me e alle onde che mi martellano mentre nuoto. Mio padre era un’anima generosa e gentile, mi ha insegnato cose che non esistono nei libri. Stephen King lo ha definito “un archetipo” e lo era davvero. Altre cinquanta bracciate e mi guardo indietro verso la riva, trattengo il respiro e affondo nella corrente. Mentre vado sott’acqua sento le sue risate. Resto a bocca aperta per poi tornare a riva a stendermi sfinito sulla spiaggia, ridendo. Sento Dallas lì con me sulla sabbia e quest’ondata di ricordi mi riempie di gioia.

Aldo Grasso e l’insostenibile innocenza dei media

3

negli anni Venti del secolo scorso

 
Aldo Grasso sul Corriere della Sera si è scomodato a criticare il nostro appello ⇨ Ai direttori e alle direttrici delle reti televisive e delle testate giornalistiche nell’articolo ⇨ Appello per una tv migliore Gramsci citato a sproposito Un gruppo di intellettuali del blog «Nazione Indiana» ha scritto una lettera aperta «ai direttori e direttrici delle reti tv e delle testate» per lamentarsi dell’odio nei talk show

I titoli, si sa, sono generici, e spesso di un articolo distillano impressionisticamente l’inconciliabile, così la positività di “Appello per una tv migliore” viene subito vanificata da quel “Gramsci citato a sproposito“. Anche gli occhielli ai titoli devono sintetizzare, ma ridurre a un mero “lamentarsi dell’odio nei talk show” l’appello del “gruppo di intellettuali del blog «Nazione Indiana»” è pura malafede, dal momento che in esso ci si rivolge all’attenzione delle “reti televisive e delle testate giornalistiche” e quindi in senso più ampio a tutta l’informazione.

Che gli intellettuali non guardino la tv perché “volgare” è una banale supposizione di Grasso e forse ciò che infastidisce di più è che la guardino in modo critico, proprio per denunciare quella volgarità, solo con laica legittima critica però, nessun “rosario dell’indignazione”, e neppure, come malignamente si suppone nell’articolo, intenti opportunistici “nella speranza che si presenti un loro libro“, pratica cortigiana che è del tutto ignota dalle nostre parti, dove, come principio etico fondante, non pubblichiamo nemmeno le recensioni dei libri dei componenti della redazione.

L’odiosa parola “sodali”, poi, riferita ai firmatari dell’appello, con tutto il suo contorno di presunte conventicole, logge di favori, corporazioni di categoria e oscure manovre, è davvero inopportuna e offensiva: ci sono personalità intellettuali diversissime fra le firme e soprattutto ci sono quelle dei comuni lettori del blog che passano e aderiscono.

A un certo punto Grasso si chiede “Chi è così insensibile, apatico e cieco da non firmare un simile appello al buon senso, alla convivenza, all’uso democratico dei mezzi di comunicazione?”, ma è solo una domanda retorica, posta ironicamente per banalizzarlo e svilirne l’efficacia, e atteggiandosi “a sproposito” a un Franti deamicisiano si risponde molto opportunamente “E l’infame sorrise.”.

E forse non accadrà sempre direttamente che “le parole dei talk possano tradursi in atti di violenza omicida“, certo, ma è innegabile che esse contribuiscano a creare un ambiente sociale confuso e razzista, che è il terreno fertile per la nascita e la giustificazione di quella violenza, che non si estrinseca solo nel gesto estremo e nello slatentizzarsi degli istinti peggiori, ma nel formarsi di una capillare mentalità discriminatoria che permea ogni angolo del paese, che, disinformato sulle cifre concrete del fenomeno, sia portato a vedere invasioni di migranti dove non ci sono. Che per il terribile omicidio di una ragazza possa credere all’invenzione mediatica di riti tribali vodoo, con una totale mancanza di rispetto in primo luogo nei suoi confronti, attraverso la diffusione morbosa e insistita di falsi particolari macabri, solo per scatenare maggiormente odio e legittimazione della vendetta, non solo verso gli accusati, ma soprattutto verso chi quei fatti non li ha commessi, ma ha la sfortuna di appartenere alla loro stessa “tribù”, alla loro stessa “razza”, parola odiosa ma purtroppo sempre in auge.

La propaganda era l’anima dei regimi totalitari e quello che dice Grasso non era vero nemmeno “negli anni Venti del secolo scorso”:

Sostenere l’esistenza di una connessione diretta tra l’esposizione ai messaggi dei media e il comportamento dell’individuo è teoricamente ingenuo (una teoria in voga negli anni Venti del secolo scorso, smentita poi da tutti gli studi sugli effetti dei media).

Non era vero nemmeno quando c’erano solo la radio EIAR che trasmetteva “Giovinezza”, i filmati Luce, i pochi censurati giornali di regime e molto analfabetismo che non poteva nemmeno leggerli, e non c’erano le televisioni, e men che meno il web, i social, l’eccesso di comunicazione attuale, ma esisteva solo una “sana” propaganda fascista che si faceva largo a colpi di manganello e aggressioni di parlamentari e operai in sciopero, e il peso della stampa era di certo minore dei discorsi dal balcone del Duce e dell’indottrinamento fin dall’età scolare.

Anche se, paradossalmente, secondo Grasso un’informazione manipolata e infedele alla verità non ha nessuna influenza sulle opinioni e sui comportamenti individuali, e pensare il contrario sarebbe da parte nostra “teoricamente ingenuo” e “superficiale”, noi, tacciati di moralismo, come sempre accade quando si critica la mancanza di etica e di deontologia, crediamo fermamente che impegnarsi in prima persona e invitare i media a un giornalismo più trasparente, più documentato, più fedele alle fonti, meno violento nelle parole e nella strumentalizzazione delle notizie, non possa che far del bene all’opinione pubblica.

Neofascismo, antifascismo, la (non*) manifestazione, e una passeggiata per Macerata

9
Macerata, monumento ai caduti

Macerata, monumento ai caduti

di Renata Morresi

Se esco dal portone e giro a sinistra, basta qualche metro umido di viale per arrivare alla sede del PD che è stata colpita da due colpi di pistola. A destra, ugualmente, una breve passeggiata mi separa da un supermercato dove vado spesso: lì davanti si è accasciato Mahamadou Toure, l’uomo raggiunto al fegato dal primo proiettile sparato in strada sabato scorso. Dall’altra parte della città invece – “città” fa un po’ sorridere: Jimmy Fontana in una vecchia canzone la chiamava “paese mio che stai sulla collina”; per il vicino conte Giacomo suppongo sarebbe andato benissimo “borgo selvaggio” – diciamo a due, tre chilometri da dove sto uscendo di casa, c’è un locale chiamato “Terminal”, anima notturna di musica e impegno. Per capirci: lì l’associazione partigiani fa il tesseramento annuale, lì si tiene un “Piccolo festival di suonata poesia”, e l’altra sera erano in programma gli “In Zaire”. Anche lì sono arrivati tre colpi di Glock calibro 9. In quel punto nessuno è stato colpito per fortuna – era sabato mattina, in un posto ai confini della campagna, non certo il Bataclan. La logica punitiva però è trasparente: castigare il luogo del mescolamento.

“Glock calibro 9” l’ho letto in giro, e sentito pronunciare con voluttà. Un ragazzo ha tentato di spiegarmi quanti colpi ha il suo caricatore, ma non me lo ricordo più, ero troppo esterrefatta di stare parlando di pistole. Non sono neanche riuscita a ricostruire bene il percorso del raid. Ho letto della preghiera dell’attentatore, con tanto di cero votivo a Mussolini; poi il ritorno in centro, a concludere la scorreria con una spettacolare resa al monumento ai caduti. Anche questo mi sta a due passi, brutto come quasi tutti i monumenti del ’33. Sui suoi gradini si trovano sempre i ragazzi che escono dalle scuole dei dintorni (quelle che non sono state rese inagibili dal terremoto). Ho scoperto solo l’altro giorno che proprio su questo monumento i partigiani della banda Nicolò issarono la bandiera italiana, nel giorno in cui Macerata si liberò dei nazisti, il 30 giugno del 1944. Quella bandiera l’aspirante stragista l’ha presa e se l’è messa sulle spalle, supereroe de noantri. I Carabinieri l’hanno fotografato così, ammantato del tricolore, davanti ai poster di bambini in festa appesi in caserma.

Io sabato mattina ero nel centro storico di Macerata, dentro le mura, assieme a degli adolescenti, tutti rinchiusi in un teatro. Penso alle classi piene di giovani del mondo, i cognomi vari, gli occhi di ogni forma, la carnagione di ciascuno di noi di un qualche colore. Penso a chi conosco, gli studenti afrodiscendenti, gli adottati, i ragazzini mescolati, i nati chi qui chi altrove, le mezze italiane, i quarti di un po’ tutto, quelli ormai cittadini, i residenti da trent’anni, e poi i miei di compagni di scuola, amiche, cugini, che vivono in altri posti del mondo, coi figli che a tre anni parlano tre lingue: non siamo mai stati tanto meticci. La diversità ci attraversa da dentro, anche qui nei sobborghi dell’impero. Non è la pubblicità di un marca di vestiti, questa è la realtà, una realtà impensabile per i razzisti regionalisti e i fascisti nazional-popolari. È forse anche l’evidenza del mescolamento ad aizzarli, a far sì che cerchino la repressione, insieme all’istinto brutale di volere un capro espiatorio. Una logica in cui le infezioni contemporanee si diffondono a partire da sceneggiature ben collaudate, e ancora purulenti.

C’è una pletora di segnali neofascisti in questa storia. E al tempo stesso la corsa accorata a non parlare di neofascismo, a non irritare i già incarogniti, con lunghi thread rabbiosi nei social ad invocare che non si dica quella parola lì, che è un pezzo che è tramontata. Gente che si inerpica in cervellotiche battaglie retoriche per dimostrare che no, no, non è più il tempo per queste “divisioni”, ci vuole giustizia, ci vuole più polizia; e il tatuaggio delle SS sulla fronte di Traini, il saluto romano prima di lasciarsi prendere, il Mein Kampf ritrovato in casa cosa c’entrano mai, perché vuoi politicizzare ‘sta cosa?

Neanche l’arrivo di Forza Nuova domenica scorsa, giunti baldanzosi davanti a una porta forata da un proiettile a rivendicare solidarietà per l’attentatore, o l’arrivo di Casa Pound martedì pomeriggio, scortati di gran carriera dalla polizia anti-sommossa in un centro cittadino deserto, col segretario che dà il benvenuto con “un saluto romano generale” e invoca la pulizia etnica, o, infine, ahimè, Roberto Fiore e i suoi ieri sera, coi soliti gesti e rituali, riescono a smuovere la compattezza grigia di tanti amministratori, giornali locali, avventori da bar, ministro Minniti, candidati premier, propagandisti elettorali, tutti finalmente fermamente uniti nel non dire la parolina brutta, “neofascismo”, neanche se arrivasse una ventata di Zyklon B.

Forse mi sbaglio, forse le parole che fanno paura sono proprio quelle opposte: “antifascismo”, “antirazzismo”. L’impressione è che a dire troppo forte “antirazzismo” si possano perdere i voti dei razzisti. Il sindaco di Macerata (in quota PD) vuole sospendere la manifestazione antifascista di sabato, o meglio, ha chiesto che sia sospesa. “È il tempo della comunità”, “si fermino le violenze”, “farsi carico del dolore”, “a favore della vita”, “fermarsi a respirare”, “è il tempo della riflessione”: si spertica di cliché il povero sindaco, nel tentativo di ricacciare la sua paciosa cittadina in un sonno che in questo momento sfiora l’anestesia. Una manifestazione contro la violenza indetta e poi soppressa: è improbabile che i movimenti antifascisti e antirazzisti accettino questo coprifuoco. Qualcosa dovrà pur accadere. Io, ingenua, mi immaginavo già un corteo con alla testa il primo cittadino e la comunità africana e tutti quelli offesi dalla violenza: no al razzismo! no al terrorismo! mai più stragi! no al fascismo! O no? No, gli amministratori vorrebbero sprofondare, non vedono l’ora che tutto passi. Ah, passare! Per ora per la città sono passati solo i volantini con su scritto “La gente è con Traini”.

La gente, chi è la gente? Quanto piace alla ‘gente’, compresa quella in corsa alle elezioni, questo dissolvimento nella ‘gente’: immaginarci tutti come disperate monadi in cerca di protezione, da blandire e poi tornare a dividere, da mantenere illusi, isolati, magari risentiti ma in ordine. Ecco allora che arriva Salvini a Camerino, cinquanta chilometri da qui, a benedire la gente terremotata, ripete il mantra del non vi lasceremo soli, et voilà con abile precisione anche lui si appropria dell’evento del momento: “il sacrificio di Pamela non sarà vano.” Pochi gesti per incastrare una nota gerarchia: il leader-uno-di-noi, la gente come cosa informe uniformata solo da sangue e suolo, il simbolo della femminilità violata, l’umanità di scarto, le non-persone.

Alle associazioni che hanno deciso di rimandare la manifestazione il ministro Minniti ha scritto: “hanno fatto un atto d’amore verso la comunità”. Una carezza paternalista, e poi giù la minaccia: se qualcuno insiste a fare la manifestazione, sarà “il ministero dell’interno a impedire che si faccia.” Di nuovo: gentismo, retorica astratta, simboli triti e repressione.

Ora cammino, mi affaccio dalla passeggiata alberata di pini che dà sui giardini pubblici, a guardare le forze dell’ordine massicciamente dispiegate – e solitarie: non passa un’anima tranne me e qualche pensionato, che commenta a voce alta “Sto qua dal ’58 e Macerata è sempre stata piena di democristiani e baciapile, da dove escono ammo’ sti fascisti?” Vaglielo a spiegare al signore che tutto si è spostato a destra, annichilito, frammentato fino a polverizzare, che il razzismo sembra diventato un diritto, il giochino che non si nega a nessun frustrato, impoverito, oppresso dalle logiche di un sistema-lavoro trattato come il più insondabile dio. Persino in una cittadina storicamente antifascista come questa ha attecchito il verbo del qualunquismo suprematista: non sono solo i leoni da tastiera a invocare la forca per quattro poveracci in fuga (a Macerata i richiedenti asilo sono 180), è pure il ministro dell’interno ieri ad adeguarsi alla logica dell’attentatore, adombrando l’idea che siano i rifugiati in fuga ‘a provocarci’, e quindi a provocare un tentato eccidio. Un po’ come se la Notte dei cristalli fosse stata ‘provocata’ dagli ebrei (come del resto i nazisti si affrettarono ad affermare).

Mi fermo per un caffè e apro il Carlino locale, in prima pagina trovo l’immagine della palazzina dove probabilmente è morta Pamela Mastropietro. Si vedono un paio di poliziotti che piantonano l’ingresso. In un angolo il volto della ragazza, all’interno del giornale una foto più grande, un selfie di quelli belli che si fanno le belle adolescenti nelle loro pose curve e spericolate. Credo che la foto sia lì per fare da specchio: vuole riflettere (e allettare) la bellezza fragile latente in ogni umano, vuole ravvivare la nostalgia (e la rappresaglia) verso la sventatezza della gioventù. Pamela, la ragazza vulnerabile, la ragazzina in fuga che un italianissimo nativo ha preso su per cinquanta euro per poi lasciarla alla stazione, la tossicodipendente che per qualche motivo non voleva più stare in comunità, che girava in un posto mai visto a cercare una dose, cercava sponde dove c’erano, a suo modo senza preclusioni almeno lei, Pamela per i vari Salvini, Fiore, Di Stefano conta solo come astrazione. Per loro è il simbolo della delicata razza bianca traviata dallo straniero nero – ce lo dice l’indifferenza con cui gli stessi hanno ricevuto la notizia di mercoledì di un altro corpo di ragazza, Jessica Valentina Faoro, pietosamente ritrovato in un borsone, uccisa da un italiano. Queste giovanissime donne bianche, tanto amate dal gossip, dalle docu-soap, dall’infotainment, servono come idoli, ma sono esposte ad una gerarchia che le vuole ingenue e appaganti, o, al polo opposto, ammalianti e pericolose. Possono essere fragili davvero, protagoniste di una cronaca nera sempre più spettacolarizzata, spogliata di ogni interpretazione ideologica o politica, come fossero le vittime di un naturale darwinismo invece che del suprematismo patriarcale. Accanto ai loro corpi inermi, sovraesposti, ipernarrati, accanto ma invisibili, quelli delle persone colpite da un proiettile il 3 febbraio, lasciate in terra, lasciate a lungo senza un nome, quasi sulle soglie dell’essere nessuno. (Ancora più nascosti, abitudinariamente usati, i corpi delle donne nere rapite e sfruttate per pochi euro sulla costa adriatica, a pochi chilometri da qua.)

Mi ha colpito di quella copertina del Carlino – che è in ogni bar, e viene distribuito gratis a pacchi nelle scuole – che non ci fosse una parola sulla tentata strage.

Torno verso casa, soffia un’aria di tramontana. Persino Massimo D’Azeglio, ricordo, si lamentava che questa città fosse troppo spesso spazzata dal vento. Incombe sull’Italia una sconfitta politica e civile devastante. Se non si riuscirà a parlare pubblicamente, con parole severe e chiare, a manifestare pacificamente, sarà uno scivolare nella zona grigia. La storia è arrivata a convocarci, persino qua in questa piccola provincia, nel nostro sabato mattina dei cristalli. Una storia profonda e complessa, che mai mi è parsa così semplice.

 

__________

*aggiornamento delle 19: l’invito a sospendere tutto non è stato accolto, si è preso atto dell’arrivo di migliaia di persone, la manifestazione si farà (ma Comune e PD ne faranno un’altra, tra una settimana)

L’insicurezza del lavoro e le passioni tristi. Contributo per una riflessione antifascista

8

di Andrea Inglese

C’è tra gli esseri umani, almeno quelli fuoriusciti dall’egemonia del pensiero magico o di quello religioso, la credenza che una buona diagnosi sia indispensabile per una cura efficace. Fuor di metafora, se abbiamo capito cosa è successo a Macerata e dintorni, potremmo cercare di situare l’evento specifico in uno scenario che gli fornisca maggiore intelligibilità. Non so poi, in realtà, se un tale tentativo possa favorire in alcun modo migliori interventi terapeutici.

Quello che abbiamo visto a Macerata e dintorni è il palesarsi di un terrorismo politico di matrice razzista e neofascista, giustificato dalle forze politiche della destra che concorrono oggi alle elezioni legislative. Non solo, ma questa giustificazione ha una solida base nella società “civile”.

Elegia e distacco: spiriti e corpi celesti nel firmamento di “Stelle Ossee”

3

Orazio Labbate, Stelle Ossee, Liberaria 2017

di Rino Garro

Orazio Labbate con Stelle Ossee, Liberaria, 2017, colpisce il cuore del lettore attraverso una serie di racconti che indaga le trame più profonde dell’essere umano: le accensioni paradossali e stranianti; le sospensioni dal reale; i vuoti dell’abbandono e i surreali desideri di colmarlo; la melanconia ossessiva fino allo scivolamento schizofrenico.

L’informità innominabile di Calasso

0

di Domenico Talia

Abitiamo luoghi, tempi e condizioni inafferrabili. Definizioni diverse sono state tentate per qualificare questa epoca e la società che la affolla. Società liquida, mondo globalizzato, post-moderno, post-storia. Tutti tentativi che descrivono soltanto parzialmente e dunque imperfettamente il loro oggetto. Viste incomplete di una materia complessa che sfugge alle teorie consolidate, ai tentativi di sistematizzazione.

Verbosfiora

0

di Joe Ross / traduzione di Andrea Raos

Toracecaldo risolinosalto parcoschermo invito materia
Sillabadipendenza carezza golagrattato biplano
Spallaingobbito lavoratoreperversione tambutobattito salariodirigente
Liberomercato crepasquadra incrociocultura falcato embriobistecca
Perifericamenteannegato trascuratezzacaduto amoreaffamato rimasuglio.

L’eleganza del Riccio (Ignazio)

0

di

Francesco Forlani

 

Conosco Ignazio da molti anni e ho imparato a conoscerlo attraverso un bel progetto editoriale da lui curato insieme a Paolo Graziano. Ne animava le pagine  un coraggioso manipolo di redattori, cronisti, critici della cultura e dello spettacolo, penne finissime come quelle di Anna Smeragliuolo e di Giusi Marchetta, fotografi come Salvatore Di Vilio, solo per citarne alcuni. Sulle pagine di Fresco di Stampa quello che mi colpiva della scrittura di Ignazio, sia che si trattasse di editoriali o di inchieste era la sobrietà dello stile, l’incisività, l’asciuttezza della frase, quella concretezza che richiama la parola inglese concrete, cemento; the jungle concrete, la giungla di cemento potrebbe essere anche il titolo di quella Campania divisa tra Napoli e Caserta, quella per intenderci che coinvolge città come Aversa dal prefisso telefonico napoletano e dal codice postale casertano. Aversa, la città di cui Ignazio  è non solo uno storico cronista ma uno dei suoi maggiori animatori intellettuali, una delle voci, insieme a quella di Pino Montesano o di Salvatore D’Angelo, di quella radura che è la storica libreria Quarto Stato fondata da Ernesto Rascato.

Questa conversazione, tra Ignazio Riccio e Gianluca Di Gennaro  procede per condensazioni, divagazioni, tappe obbligate, quella di Scampia per esempio nel capitolo 7 , e riflessioni che offrono attraverso le parole del giovane attore napoletano veri e propri spiragli di vento, di correnti d’aria in grado di rendere respirabili luoghi altrimenti cupi, ossessivamente rinchiusi su di sé.

La storia di Gianluca Di Gennaro però non è solo la storia di un giovane attore che riesce a “cogliere” il momento giusto, a giocarsi le sue chance, il debutto a quattordici anni in Certi Bambini ( Premio Flaiano per la migliore interpretazione), le serie, soprattutto Un posto al soleLa Squadra e da ultima Gomorra dove interpreta lo zingariello, insomma di uno che nonostante the jungle concrete ce l’ha fatta. Il valore di questo libro è a mio avviso nel tono generale dello scambio tra i due autori, un tono senza retorica, quel tono di chi è interessato a sapere, più che a far  sapere, parlare più che far parlare. Il suo valore inoltre non va cercato nel memoir che data la giovane età del protagonista, ventotto anni, sarebbe un po’ prematuro, quanto nel tentativo costante di farsi testimone di questo tipo di narrazioni cinematografiche e attraversare con vere e proprie turnè il territorio per disinnescare certi pericolosi dispositivi di sovrapposizione fiction-realtà e certe altrettanto pericolose derive mimetiche che in questi nostri territori “di confine” della legalità ma non solo, visto il successo internazionale di Gomorra, sono all’ordine del giorno. Scrive così Ignazio:

“Scampia per Gianluca non è solamente una tappa lavorativa. Tra il giovane attore e gli abitanti del luogo, durante e, soprat- tutto, dopo le riprese de L’oro di Scampia, si è instaurato un rapporto speciale. L’incontro con Gianni e Pino Maddaloni e con le associazioni che operano per il rilancio del territorio, sommato all’affetto spontaneo dei ragazzi che vivono nelle vele, i cosiddetti borderline, sempre sul filo tra il bene e il male, hanno spinto Gianluca ad assumere un impegno morale e materiale nei confronti di questa gente, di cui lui stesso ci racconta.”

Ecco perchè auguro a Ignazio e Gianluca, al loro libro, di continuare a girare per le scuole, per i quartieri a rischio, facendosi oltre che testimoni messaggeri di un altro mondo possibile al di là di quello che viene solitamente raccontato.

ps

Pochi giorni fa in una delle due scuole medie in cui insegno, in quasi Normandia, un giovane che sembrava appena uscito da una strada dei quartieri, ma francese da almeno tre generazioni, con uno sguardo a metà tra la sfida e la complicità mi spara passandomi accanto : “song xxx di Scàmpia“. Mi sorprende, mi ha quasi battuto, ma poi faccio in tempo  a girarmi e a correggerlo: Scampìa, on dit Scampìa, je t’ai eu!

.