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Nel bosco degli apus apus #2

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di Mariasole Ariot
Apus apus: “Una sua peculiarità è quella di avere il femore direttamente collegato alla zampa, tanto che il nome scientifico deriva dalla locuzione greca “senza piedi”. Questa sua caratteristica fa sì che non tocchi mai il suolo in tutta la sua vita; infatti se disgraziatamente si posasse a terra, la ridotta funzionalità delle zampe non gli consentirebbe di riprendere il volo”. Quindi dorme in volo.
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Cadendo ci si attende ad un presente : lui  silenzia il foro, io mi chiudo, lui si muove, io mi espongo, lui ritira, io mi aggrappo, lui prepara la legna, io mi svesto, lui si aggancia, io mi cucio, io mi infiammo, lui mi sventra.
Questo corpo da cui non posso uscire mostra il segno del rovescio, una piega sul bordo del viso. Non è  fragile : porta in seno l’irriconoscenza, la solitudine della preghiera.  E dove, e come ci siamo attardati a guardare i vigliacchi seduti sulla riva. Dove sono, dove non parlo, dove il suono è dato dalle corde e non dal foro, dove non c’è nebbia, dove mi annego, dove non premi, dove mi taci.
Nel campo aperto ti vedo seminare, e non c’è tu che tenga : il foro del mondo ha dato la sua tesi : è presto – dice, è ora che sia notte.
Per un cucciolo di uomo che respira ne esiste un secondo che non ha buche : un rettangolo di carne senza odore.
***
 Era l’odore emesso dal pensiero incessante delle cose.

Esistevano così due diverse configurazioni del vivere-nel-mondo : il cervello rinchiuso all’interno di una gabbia, o una gabbia racchiusa all’interno del cervello. La seconda era la mia : una formazione solida e dura,  massa tumorale benigna o maligna a seconda dello stato in cui mi trovavo :  strada di campo o cartolina, passaggio o  passato, una corsa a piedi nudi o una rapina, una zolla di terra senza patria o un territorio. La mia gabbia portava il nome di certezza, saltava da un polo all’altro senza toccare il centro, il passaggio obbligato dei corpi di luce.

Il mio sguardo è aperto, il volto è attaccato ad uno spillo.

***

Passavano così giorni di treno e di menzogne, di cavalcate sulla slitta marina, delle notti di stellata.

Le ragazzine premevano piano alla bocca dello stomaco per sputare serpi calcate a forza dai secondini : immagini sottratte all’immagine,  lo scivolamento del chiacchiericcio solido decomposto per il gioco del nascondiglio. Le ragazzine più leggere venivano portate nella sala più grande, una a una deposte nelle piccole bare. Là cominciava il terrore : ridevano come pazze.
Le altre, gravide e col seno gonfio di latte, portate nella stalla ad abbeverare gli agnellini. I belati emessi dagli animali significavano vita, le grida delle ragazze tracciavano l’inferno.

Se Madrid era lontana alla vista di tutte, la vecchia volpe, contorta nello sguardo periferico di quella montata lattea, si dimenava fino a recidersi le corde vocali.  Una città non è un pensiero: l’hanno portata via quando la vita non era più in vita.

Cos’è una fine se non questo continuo iniziare l’impossibile? I grammi degli occhi sono pesati, le madri misurano le assenze.

***

Ora, in questa stanza vuota, gli oggetti galleggiano nell’acqua. La differenza è : vedere una lacrima sospesa nel soffitto, pensarsi lacrima, tuffarsi dalla finestra. Oppure : vedere l’opera d’arte in forma di goccia, fermarsi un istante, chiedersi : è una lacrima?

La dimensione della certezza è mortifera: ho le spalle al muro e il muro cede sotto il peso dei passati, sotto le sottane delle donne che non sanno ancora il nome con cui nominare il Tempo.

Più in basso, strizzando l’occhio, vedo una tormenta : sono i miei attimi immobili, la piccola camera chiara all’interno della bocca : dove sviluppo, dove i denti diventano conversazioni. Porti ancora una tenaglia nella testa?

Sognare di avere una parola al posto della lingua : è questa la più grande sofferenza.

***

Nelle camere del cervello si aprono talvolta brevi interstizi, dialoghi in forma di vuoto. Ci insediamo all’interno come piccoli animali da tana, o moscerini, e non siamo niente, e non siamo cosa, e non siamo tutto. Alberghiamo le finiture come calce per rattoppare gli spazi lasciati aperti dai ciechi fabbricanti del cielo. Ma se non è possibile partire dal vissuto per analizzare il contenuto, cominciamo allora dall’analisi per tornare al vissuto : significa diventare niente, strapparsi una ad una le zampette come fanno i ragni quando si ammalano – e poi, solo poi, morire.

Strisciare – madre – non è vedere : è l’unico modo che ho imparato per camminare senza che tu mi potessi sentire.

Stelle tardive. Versi e prosa

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Giometti&Antonello – Macerata

di Arsenij Tarkovskij

 

Un lampioncino rosso sta sulla neve.
Chissà perché non riesco a ricordarlo.

Forse è un foglietto-orfanello,
forse è un brandello di garza,

forse è un fringuello dal petto rosso
uscito a volteggiare sulla distesa di neve.

Forse è che si sta burlando di me
il nebbioso tramonto di questo giorno dannato.

 

L’esecuzione di mia madre

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di Giacomo Sartori

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Qualche mese fa ho ammazzato mia madre. Mai più avrei immaginato che avrei potuto freddare qualcuno a bruciapelo, e tanto meno mia madre, però l’ho fatto. Non ho agito da solo, ma insomma l’ho fatta fuori.

I don’t, honey. James Baldwin/Audre Lorde

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di Jamila Mascat

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A dicembre del 1983 James Baldwin (JB) e Audre Lorde (AL) si ritrovano all’Hampshire College di Amherst (Massachussetts), dove Baldwin insegnava all’epoca. Discutono di cosa significa essere uomo e donna in quel “territorio occupato” che è la vita quotidiana degli afroamericani negli Stati Uniti (JB: That is really what the Black situation is in this country). Parlano di colpe e responsabilità (AL: Jimmy, we don’t have an argument. JB: I know we don’t). Non sono esattamente d’accordo su tutto, anzi: si interrompono (soprattutto Lorde), si contraddicono (soprattutto Lorde), ma convengono della necessità di riconoscere quel che li unisce e quel che li separa (JB: Differences and samenesses. AL: Differences and samenesses […] When we deal with sameness only, we develop weapons that we use against each other when the differences become apparent).

La conversazione, che dura cinque ore, viene registrata e poi trascritta. Un estratto (delle oltre settanta pagine) del testo dattiloscritto sarebbe stato pubblicato un anno dopo (dicembre 1984) sulla rivista Essence (un fashion magazine creato nel 1968 e destinato al pubblico femminile afroamericano).

L’articolo si intitola Revolutionary Hope: A Conversation Between James Baldwin and Audre Lorde.

Qui sotto la traduzione di un estratto. Il resto si può leggere qui.

 

***

JB: Uno dei rischi che corri a essere un Americano nero è quello di diventare schizofrenico, e dico proprio “schizofrenico” nel senso più letterale del termine. Essere nero in America significa per certi versi venire al mondo desiderando di essere bianco. E’ parte del prezzo che si paga a nascere qua, e riguarda qualsiasi persona di colore. Ripensiamo al Vietnam. Ripensiamo alla Corea. Ripensiamo, per questo, anche alla Prima Guerra Mondiale. E ricordiamoci di W.E. B. Dubois –  uomo magnifico e di tutto rispetto – che si era impegnato a convincere i neri a combattere durante la Prima Guerra Mondiale, dicendo che se avessimo combattuto questa Guerra per salvare il paese, il nostro diritto alla cittadinanza non sarebbe più stato rimesso in discussione. E chi può biasimarlo. Ci credeva davvero e probabilmente se fossi stato al suo posto, all’epoca, forse avrei detto la stessa cosa. Du Bois credeva al sogno americano. Come Martin [Luther King]. Come Malcom [X]. Come me e come te. Ecco perché siamo seduti qui.

AL: Io non ci ho mai creduto, tesoro, mi dispiace. Non posso fare finta di niente. In fondo lo so che quel sogno non è mai stato il mio. E ho pianto, gridato, lottato, tuonato, ma lo sapevo. Ero nera. Ero donna.  Ed ero ovviamente fuori – fuori – da qualunque configurazione di potere.  Se volevo andare avanti, dovevo farcela da sola. Nessuno mi aveva incluso nel sogno. Nessuno si interessava a me, se non come a qualcosa da spazzare via.

JB: Vuoi dire che tu non esisti nel sogno americano, se non come incubo.

AL: Esatto. E me ne rendevo conto ogni volta che leggevo Jet [The Weekly Negro News Magazine]. Ogni volta che aprivo una scatola di Kotex [assorbenti interni]. Ogni giorno che andavo a scuola. Ogni volta che sfogliavo un libro di preghiere. Me ne rendevo conto, lo sapevo e basta.

 

 

Urlo grafico

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06TAVOLE-2016-URLO-PER-CARTELLA-STAMPAdi Marino Magliani (con una intervista a Fabrizio Piumatto)

 

A Fabrizio Piumatto a volte scappa il tentativo di raccontare il nostro tempo attraverso una serie di segni. Qui di seguito propongo una scelta di tavole da quello che l’autore chiama Urlo Grafico.

Il volume da cui provengono le tavole è il Book n° 4, Anno 2015. Piumatto lavora a un libro all’anno, e lo fa a partire dal 2012. La casa per cui escono i suoi Book, Nerosubianco, ha pubblicato opere di Mario Bianco e Luigi Preziosi, e su proposta di Luciano Curreri è uscito anche I fanciulli di sabbia, di Lorenzo Muratore, curato da Claudio Panella. Muratore è secondo me una delle  voci più verticali della West Coast Liguria. Ma torniamo a Fabrizio Piumatto. Non so se questa cosa dell’urlo grafico la fanno in molti, forse è addirittura una moda e io a star dietro alla fragilità della Liguria estrema mi sono perso qualcosa, nulla di male, succede, però secondo me a Fabrizio Piumatto questa sua personale traduzione del nostro tempo riesce molto bene. È ironica quanto basta, non pontifica, non spiega, non aggredisce, nel senso che,  anche se si fa chiamare urlo, non c’è nessuna irruenza comunicativa.

 

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M.M. Come è iniziata l’avventura, e quando?

F.P. Sono un grafico pubblicitario, la mia giornata è da sempre scandita da immagini, segni, disegni e idee. Durante l’orario di lavoro abitualmente c’è un committente, un cliente, che ha richieste specifiche, esigenze precise. Urlo Grafico è invece un progetto personale, nato in piena libertà dalla voglia di creare un percorso più complesso e articolato, ma che vivesse di vita propria. La grande mole di notizie che ogni giorno escono e vengono pubblicate dà spazio a infinite possibilità rappresentative. Tutto è iniziato per caso, nel 2012, in seguito alla realizzazione di una tavola riuscita particolarmente bene. Ci ho preso gusto, ho continuato, e tuttora continuo a commentare le notizie nel modo che mi riesce meglio, illustrandole. È un lavoro impegnativo, specialmente quello che precede la pubblicazione della tavola, che consiste nel leggere e consultare la maggior quantità possibile di quotidiani, riviste, cartacee e online. Cerco di evitare i cliché e le facili rappresentazioni. Spazio tra notizie importanti, di fatti gravi, e notizie più leggere che mi permettono di offrire un punto di vista anche ironico. Credo che l’offerta di Urlo Grafico debba essere ampia ed evitare la ripetitività. Insomma, scelgo senza alcun tipo di priorità tra cronaca, arte, scandali, finanza, politica, guerre. Poi comincia la fase creativa vera e propria, che si materializza con penna e colori su un blocco per gli schizzi, ma in piena libertà, senza analizzare a fondo la fattibilità grafica. È la parte del lavoro che preferisco. Solo successivamente “trascrivo” l’idea su computer, ridisegnandola, temporeggio il tempo utile a metabolizzarne il senso e poi la pubblico online.

 

 

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M.M. Il suo rapporto con il pubblico: un autore “urlograficante” come e dove incontra i suoi lettori?

F.P. Provo a veicolare attraverso il mio sito www.urlografico.it e i social più comuni, che rappresentano il modo più semplice e veloce per diffondere il mio lavoro. Non è un vero e proprio blog perché non interagisco molto con gli utenti. Lo utilizzo come pagina personale e vetrina per mostrare le mie tavole. E poi a fine anno, a coronamento di tutto esce il libro cartaceo, che è materialmente l’unico modo di dare senso al mio lavoro. Perché il libro ha un fascino diverso, e una volta stampato mi dà la certezza del lavoro fatto. Dietro il virtuale ci si può spesso nascondere, dietro a un libro stampato no.

 

 

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M.M. Il titolo, infine. Molto bello, ma fuorviante, si diceva. “Grafico” sì, ma “Urlo” … Da una nota di Enrica Zanotti: “Non credo che Urlo Grafico sia stato scelto come titolo accattivante e per attrarre, o risponda a certi obblighi cui non ci si può sottrarre. Uno dei primi book di Urlo viene dedicato a tutti quei giornalisti che operano in ogni parte del mondo, ma soprattutto in quelle parti di mondo dove la libertà di stampa e di parola viene ancora oggi negata. Un invito al “ragionare” non solo grazie alla parola che davvero oggi con il suo frastuono ci rende in qualche modo tutti un po’ sordi, ma mediante la grafica che può raggiungere con il suo “urlo silenzioso” ogni parte del nostro pianeta.”

F. P.  Il nome è effettivamente ambizioso e non sempre rispetta la promessa. Le mie tavole vorrei si facessero vedere il più possibile grazie al passe-partout della grafica, sentirle proprio come un urlo, senza essere però aggressive, infatti, perché non è nel mio stile. E poi sono un po’ stanco delle dichiarazioni bellicose così frequenti e comuni nel mondo di oggi. Io cerco di raggiungere il mio obiettivo facendo riflettere; se ci riesco ho raggiunto il mio scopo e ne sono felice e soddisfatto. Anche il lavoro di ricerca iconografica è importante. Le grafiche poi sono semplici e spero  immediate. La scelta di un tratto lineare, senza sfumature e senza troppi elementi grafici è una priorità che mi sono imposto sin dall’inizio. Ammiro molto i grandi maestri della grafica che con poche linee riescono a comunicare un mondo. Due soli semplici tratti possono dare inizio ad una serie di ragionamenti. Questo meccanismo creativo mi affascina da sempre.

 

 

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waybackmachine#04 Giuseppe Zucco “Il teatro è lo specchio della società, e lo specchio non ha bisogno di cornici dorate – Una lezione di Peter Brook”

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Ogni domenica, noi redattori di Nazione Indiana ripubblicheremo testi apparsi nel passato, scritti o pubblicati da indiani o ex-indiani, e che ci sembra possano dirci ancora qualcosa dell’attuale : che ancora ci parlano, ancora aprono interstizi tra le maglie del presente, ancora muovono la riflessione.

3 marzo 2008

GIUSEPPE ZUCCO”Il teatro è lo specchio della società, e lo specchio non ha bisogno di cornici dorate – Una lezione di Peter Brook “

[un reportage teatrale scritto qualche anno fa, ma che ancora conserva istruzioni del tutto attuali]

Di Peter Brook, fino a un paio di settimane fa, non ne sapevo molto. Conoscevo il nome, che era un regista teatrale di fama mondiale, che l’ammirazione e gli applausi non finivano di fioccare dalle sue parti – insomma, è prevedibile che se non vai a vedere con i tuoi occhi, quello che ti arriva addosso è puro marketing e personaggi costruiti ad arte e l’incenso dei comunicati stampa. Così, sono andato a sentire una sua lezione al Piccolo Teatro Studio di Milano.

Arrivo che è già pieno. I posti migliori sono tutti occupati. Gli estimatori tubano, e sussurrano, e ondeggiano, e si dispongono senza creare disordine. Il caldo in sala ha una strana connessione con la loro temperatura emotiva. Non puoi evitare di leggere la parola Maestro sulle loro labbra. Poi, arriva Peter Brook. Se non l’hai mai visto, ti sorprendi a osservare il vecchietto che cammina in mezzo agli applausi, very british nella fisionomia e nel portamento, ma a ottantanni suonati con jeans, sneakers e il giubbotto di pelle nera. Sembra Fonzie, da grande: quando ha perso capelli ciuffo brillantina, e la vita gli ha già regalato tutto, ed è un portatore sano di esperienza. Si siede su una sedia da regista. E sta esattamente al centro della nostra attenzione.

Alla sua sinistra: un uomo con il maglioncino dolcevita da intellettuale anni sessanta più scarpe di vernice nera che brillano mentre fa domande lunghissime a Brook, alcune davvero imbarazzanti, tipo quella sull’apporto dato dagli attori neri al suo teatro. Alla sua destra: la traduttrice, capelli lunghi e stivali, che di tanto in tanto, invece di tradurre quello che sente, sorride e annuisce – come se Peter Brook si rivolgesse direttamente a lei, ignorando la platea – e mentre annuisce e sorride, interpreta, ma delle volte interpreta male e si scusa, torna sui propri passi, e riporta le parole per quello che sono, con il loro significato preciso e nulla più. Comunque, niente di meglio che avere una traduttrice dalla nostra.

Peter Brook, divertito e completamente a suo agio in mezzo agli estimatori ipnotizzati, avverte che la sua lezione subirà la seguente variazione linguistica: l’italiano per i saluti e l’introduzione, l’inglese per gli argomenti terra terra, il francese per le discussioni intellettuali. Il pubblico ride. Gli stereotipi linguistico-culturali sono sani e salvi perfino qui – ma il modo in cui sono presentati è chiaramente ironico, ed è una cosa del tutto fatata godere degli stereotipi nel momento in cui vengono smagnetizzi dall’ironia iniziale.

Non faccio in tempo a ordinare questo pensiero, che Peter Brook, il suo inglese lento e pacifico, riempiono lo spazio vuoto del teatro. L’attenzione è alle stelle. E neanche le domande lunghissime e para-intellettuali dell’uomo con il maglioncino sembrano rompere l’attenzione. Solo Peter Brook a esporre le sue avventure: per esempio quella africana, dove ogni giorno, lui e la sua troupe, entrano in un villaggio diverso, e senza conoscere la lingua, senza afferrare la cultura, con forme teatrali che giocano principalmente sulla gestualità e sul corpo, tentano di comunicare e condividere esperienza e umanità e altri modi di codificare la vita.

E l’idea di Peter Brook è che per arrivare al cuore delle cose, devi creare il vuoto intorno alle cose, scoprirle nude – come il teatro, che non ha bisogno di scenografie grandiose, e abiti di scena griffati, e macchine spettacolari, ma solo di spazio vuoto e di attori che vivono quello spazio, fino in fondo, con tutto il loro corpo – l’energia del corpo, l’esattezza mimetica del corpo. Ovviamente, è in francese che dice queste cose. Le dice prima di spedirmi in testa una frase che non dimenticherò mai più, Il teatro è lo specchio della società, e lo specchio non ha bisogno di cornici dorate.

Incasso il colpo. E rimango in bilico su questo pensiero mentre qualcuno chiede qualcosa sul teatro cinese e su come diventare registi – domanda che non ha altra risposta se non: più ci date dentro con la regia, più imparate. Le mode, i maestri, roba con la data di scadenza. Il pubblico in trance. Silenzio e concentrazione che dura fino a quando Peter Brook non si alza, e corre a dirigere le prove prima dello spettacolo, e gli estimatori con la parola Maestro tra i denti e le mani rosse di applausi riaccendono i telefonini.

 *** 

Ok! La teoria è andata. Non resta che misurarsi con la pratica. Così, la settimana dopo la lezione, sono di nuovo al Piccolo Teatro Studio per uno spettacolo diretto da Peter Brook. La pièce che vedo si chiama Sizwe Banzi est mort. È in francese. I sottotitoli che si illuminano di bianco sul nero del display sono lì a proteggere e vegliare su i non-francofoni.

Sono seduto a terra, su un cuscino. In mezzo agli altri, riesco appena a incrociare le gambe. Molti sembrano fare yoga, e si contorcono parecchio, anche se ignoro del tutto i nomi delle posizioni che assumono. I beati stanno sulle gradinate, il loro sguardo è fisso nel nulla. Sto per spegnere il cellulare quando, cordiale e pre-registrata, una voce femminile ci intima in un italiano elegante di fare fuori cellulari e tecnologie varie. La pièce, così, ha inizio. Le luci si abbassano, e la storia è quella di Styles.

Styles è un uomo nero – il colore della pelle dei protagonisti è fondamentale in questa storia, quel nero non ha nulla di casuale nello svolgimento dei fatti, ma è il segno puro della differenza, e il Sistema di Discriminazione che si ritorce contro Styles ha la fobia dell’umanità nascosta sotto quel colore, e Styles lo impara a sue spese. Styles è un uomo nero che lavora in una fabbrica della Ford, e passa tutto il santo giorno alla Ford, e lì alla Ford capisce fino in fondo la parola vessazione, anche se non ha il vocabolario e l’istruzione è quel poco che è. Ovviamente, vessazione, per noi spettatori, è quasi un eufemismo. Ma Styles, che racconta in prima persona, dipana questa storia con leggerezza e ironia – e tu sei lì a ridere, il pubblico si guarda mentre sganascia risate una dopo l’altra, e c’è di che darsi pacche sulle gambe e premiare con risate esplosive e unisone il racconto di quel povero cristo che si fa un culo così alla Ford, mentre dopo la risata è il rinculo del senso di colpa quello che avverti e – anche se ridi con Styles e non di Styles – hai l’amaro in bocca, e non c’è verso di evitare quella medicina.

Dopotutto, Styles, è uno che sa il fatto suo: alla prima occasione lascia la Ford – con i risparmi di anni alla Ford, compra un negozio da fotografo. E i clienti vanno e vengono, Styles vorrebbe incorniciare i loro sogni nelle fotografie, solo quello, quando un giorno è Robert a varcare la porta del suo negozio. Robert è il secondo protagonista della pièce. La storia di Robert è perfino più drammatica ed emotivamente sgradevole da recepire. Il dramma è racchiuso nel fatto che Robert non è Robert, ma Sizwe Banzi: un uomo di colore, senza documenti, che lavora dove può, si nasconde sempre, perché se lo catturano lo rispediscono in Sudafrica, la sua terra, ritrovandosi per strada a elemosinare centesimi con tutta la sua numerosa famiglia.

Sizwe Banzi è grande, grosso, la disperazione lo incupisce – e una notte va a farsi passare la disperazione in un bar, si ubriaca, e quando esce barcollando l’esigenza insopprimibile lo fa pisciare nel primo angolo, e ubriaco, senza accorgersi, piscia su qualcosa che poi si rivelerà un cadavere, un altro uomo di colore steso a terra, (taglio trama e un personaggio sennò sarebbe lungo). Banzi lo vede, fruga le sue tasche, trova i documenti intestati a questo Robert, e seppure tra mille tormenti e dilemmi interiori e dubbi amletici prende quei documenti, li fa suoi, e l’identità più il nome di Sizwe Banzi spariscono definitivamente quando Sizwe Banzi decide di diventare Robert, un uomo di colore con i documenti.

La tragedia, anche qui, affiora tra le risate, e il rinculo da senso di colpa delle risate è la cosa peggiore in assoluto. Però, lo sforzo da fare è: immaginare come Peter Brook abbia messo in scena questa storia. Styles, Robert, i due attori che prestano carne e ossa ai personaggi, sono immersi in uno spazio completamente spoglio. Nel vuoto del teatro, niente dà l’impressione di una scenografia tradizionale. Solo dei cartoni, due sacchi, un bastone, sgabelli ricavati da cassette, cornici di ferro con due rotelle per farle muovere, una scarpa. Tutto qui. Ma l’assenza, la sparizione del mondo, dura appena pochi secondi. Perchè gli attori con le parole, i gesti precisi quanto affilati, e la maestria con cui dispongono del proprio corpo, rimpolpano velocemente la scena, le danno spessore, la rendono viva e vibrante.

È vuoto intorno, ma è un vuoto particolarmente pieno e caoticamente reale. E noi spettatori, nel deserto della sala, con solo due attori davanti e una scenografia sparita, lavoriamo al pari degli attori, con tutto il nostro corpo. L’immaginazione è su di giri: e ripercorrendo i gesti, le parole, il tono di quelle parole, l’esattezza dei movimenti, ricostruiamo – senza averle mai viste – la fabbrica, la città, le strade e, lì in mezzo, (siamo qui proprio per questo), incontriamo Styles e Robert, e non li molliamo più finché gli applausi non spengono l’immedesimazione.

Di sicuro, c’è qualcosa di capitale in questo modo di fare teatro. La prova, è la forza con cui tutto rimane vivido e ben disposto nella memoria. Provo a capire. E, dal deserto del teatro, emergono due figure. Da una parte, Peter Brook: che prova a raccontarti una storia senza dirti tutto di quella storia – ti dà il tempo, la cadenza degli avvenimenti, ma intanto sottrae lo spazio e la concretezza degli avvenimenti. E dall’altra, lo spettatore: che sulla traccia di quel tempo, mettendo in moto una quantità inverosimile di neuroni, ricostruisce lo spazio di quella storia, e lo vede, ne fa esperienza come se ci vivesse in mezzo, provando direttamente l’orrore di quella storia, tutta la disperazione – il momento culminante della pièce è quando Banzi inciampa nel cadavere, ma quello che i due attori chiamano cadavere in realtà è una scarpa, una scarpa marrone e slacciata, e lo spettatore è in disperato tumulto neuronale mentre ricostruisce da quella scarpa fattezze e orrore di un cadavere steso in mezzo alla strada.

Allora osservo in questo modo di fare teatro una doppia responsabilità: la responsabilità di chi decide di raccontare e orchestrare con rigore quella storia (Peter Brook, gli attori), e la responsabilità di chi deve perfettamente ricostruire lo spazio della storia per avvertirne in pieno il dolore e lo sgomento (gli spettatori). C’è ben poco di passivo in questa forma teatrale: scoprire insieme la realtà, i suoi orrori, è un dovere collettivo, e ciò avviene puntualmente ad ogni replica.

 

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Gabicce Mare

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di Giovanni Bitetto

 

Vibra un poco la plafoniera sull’autobus che ci porta da Cattolica a Gabicce Mare. E i lampioni disegnano quadrati di luce che attraversiamo per stamparci sulle vetrine. Niente a che vedere con il calore esitante della lampadina sul mio comodino, mentre fisso il volto di mia madre, dei miei zii, delle cugine che ridono. Già più grandi di me – che ho solo nove anni – sono prese dal desiderio: reclamano un paio di scarpe, un nuovo vestito. Gli adulti le accontentano, spendiamo la serata affannandoci nell’ingenuo shopping delle ferie estive. Questo ricordo corre veloce, se distolgo lo sguardo mi perdo la passeggiata, le chiacchiere, ritrovo macchie verdi a pulsare sulle pupille.

Da “Per l’odio che vi porto”

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di Emanuele Canzaniello

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Carlos Monzón

Mi sono piaciuti il bianco e quel nero,
Lucido mantello di smalto sulla tua carne,
Foto splendida di Helmut.
Mi è piaciuto volar giù dall’albergo di Mar del Plata
Insieme alla mia donna, dopo averla strangolata
E ancora una volta non morire.
Mi è piaciuto il ring blu su cui non salivo,
La palestra che mi fa vivere.
Mi è piaciuto il caffè, il suo odore,
Le mappe incise nel colore del rame.
Questo è piaciuto a lui e a tanti altri.
Mi è piaciuto farmi meraviglia
Davanti all’arduo firmamento
Fatto a morsi e sfinimenti,
Per averlo un solo istante
Smaltato in parole dure
O contratto in poco ordine.

Nuovo Cinema Teheran

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di Jamila Mascat

insegna cinema cristal

Questo articolo* è stato pubblicato sul numero 30 di Reportage**

*Le foto sono mie e non sono un granché, perché le ho scattate con lo stesso spirito con cui si prendono appunti su un foglio di carta a portata di mano; o anche con lo stesso spirito sciatto con cui si scattano in salone le foto di famiglia al compleanno di una prozia che compie 86 anni, sperando che prima o poi tutti guardino in direzione dell’obiettivo (cioè nel solo modo in cui so scattarle io, che sciaguratamente tratto le foto di viaggio come post-it, promemoria, hard disk esterno). Ringrazio Riccardo de Gennaro per averle pubblicate lo stesso.

**In questo numero di Reportage ci sono anche, tra le altre cose, un’intervista  al fotografo Paolo Di Paolo (che ha regalato alla rivista alcuni suoi scatti inediti e non), un pezzo sul reinserimento dei guerriglieri delle Farc colombiane nella società civile (Virginia Negro, foto di Fabio Cuttica) e uno sulla Carovana delle Madres del Centro America alla ricerca dei figli scomparsi in Messico (Orsetta Bellani), un servizio sulla Ferriera di Servola, una sorta di “caso Ilva” a Trieste (Erika Cei), un fotoreportage da Ushuaia, Terra del Fuoco (Emanuele Camerini e Nola Minolfi), un portfolio sulla transumanza dalla Puglia al Molise (Luciano Baccaro), una riflessione di Gilda Policastro su “comunismo e comunismi”, un’intervista a Giorgio Vasta su Absolutely Nothing (di Maria Camilla Brunetti), l’editoriale di Riccardo De Gennaro su un ipotetico Libro Nero del cattolicesimo e molto altro ancora.

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NUOVO CINEMA TEHERAN

 

Cinema_CristalEx cinema Cristal, con il tetto spuntato, a Lalehzar, Teheran.

Il quartiere di Lalehzar prende il nome dalla strada omonima che collega perpendicolarmente due lunghe e trafficate arterie orizzontali della capitale: a sud Imam Khomeini (questo l’appellativo con cui gli iraniani sono soliti riferirsi all’Ayatollah) e a nord Enghelab – il viale della Rivoluzione Islamica sui cui s’affacciano i monumentali cancelli dell’Università di Teheran e che nel giugno del 2009, dopo la rielezione truccata di Mahmoud Ahmadinejad, fu uno degli epicentri delle proteste dell’Onda verde, teatro di scontri tra i paladini del regime e i sostenitori dell’ex candidato rivale Mir Hossein Mousavi.

Per oltre un secolo, dalla metà dell’Ottocento alla deposizione dell’ultimo degli Shah nel 1979, a cavallo tra le dinastie Qajar (1796-1925) e Pahlavi (1925-1979), Lalehzar fu l’espressione emblematica della “via iraniana alla modernizzazione” e insieme il riflesso delle contraddizioni di questa paradossale esperienza che, recentemente, con il nuovo corso diplomatico inaugurato dalla presidenza di Hassan Rohani, ha conosciuto una rinnovata e controversa accelerazione.

Quartiere dei cinema e dei cabarets, dei café e delle promenades, dei dandy e dei romantici, delle boutiques e della dolce vita, oggi Lalehzahr conserva ben poche tracce delle effervescenze di un tempo.  Esaurito il bagliore delle luci della ribalta, la strada – un rettilineo a senso unico di un certo respiro ma congestionato dalla presenza rumorosa di automobili e ciclomotori  –  pullula ormai di nuove luci: il neon delle lampade e dei lampadari in vendita nei negozi di illuminazione  – decine e decine – che si susseguono  uno dietro l’altro su entrambi i marciapiedi, tra i ruderi degli edifici art déco e i resti spettrali delle sale cinematografiche chiuse poco dopo la Rivoluzione.

LalehZarQuel che resta delle luci della ribalta, Lalehzar, Teheran.

 

Il nome del quartiere Lalehzar (in farsi “letto di tulipani”) deriva da quello di un antico giardino fiorito situato appena fuori dalle mura della città, che ancora intorno alla prima metà dell’800 era adibito a parco di ricreazione della famiglia reale e della corte dello Shah Mohammad. L’inclusione di Lalehzar nel tessuto urbano di Teheran rimonta alla metà degli anni Sessanta quando l’espansione demografica convinse il suo erede Nassereddin a demolire la cinta muraria. Così da giardino reale privato, Lalehzar divenne un parco pubblico frequentato per lo più dai notabili della buona società.

Dopo quasi mezzo secolo di regno e di riforme impopolari, nel 1890, Nassereddin cedette in cambio di un compenso il monopolio della manifattura del tabacco iraniano al maggiore britannico Gerald Talbot per tutto l’arco dei successivi cinquant’anni, alienandosi definitivamente le simpatie dei sudditi, e danneggiando particolarmente gli interessi delle centinaia di migliaia di contadini e bazaris la cui sussitenza all’epoca dipendeva dal commercio di questo prodotto. La fondazione della Imperial Tobacco Corporation of Persia suscitò in poco tempo la vivace opposizione dei religiosi e una massiccia campagna di boycottaggio del fumo che trovò consensi, così vuole la leggenda, perfino tra le donne dell’harem dello Shah.

Quando la fatwa dell’Ayatollah Mirza Shirazi  sancì finalmente la proibizione del consumo di tabacco, e quando le proteste scatenate per la prima volta dall’alleanza tra il clero, la borghesia mercantile e gli intellettuali patrioti in difesa della nazione, divamparono in tutto il paese, Nassereddin si trovò obbligato a revocare il monopolio. Ma a quel punto le casse dello stato precipitarono sul lastrico per risarcire la compagnia britannica della somma dovuta di 500mila sterline. Fu così che Lalehzar, letteralmente fatto a pezzi e venduto ai migliori offerenti, divenne il nuovo quartiere residenziale dell’aristocrazia di Teheran e delle ambasciate e, nel giro di un ventennio, si trasformò nell’avanguardia culturale della capitale.

Come a Broadway

Distretto raffinato e alla moda, che Nassereddin aveva concepito come una copia persiana degli Champs Elysées da cui era  rimasto folgorato durante uno dei suoi viaggi a Parigi, Lalehzar incarnò fin da subito l’eccezione nazionale. Qui furono realizzate la prima linea tramviaria e la prima linea telegrafica della città. Qui soltanto si potevano acquistare oggetti costosi di fabbricazione europea  – sigari, profumi, cappelli, telescopi, grammofoni e radio ultimo modello – che nelle vetrine si mescolavano a vecchie cianfrusaglie da pochi soldi. Qui musulmani, ebrei, armeni e zoroastriani vivevano in pace facendo affari gli uni con gli altri in un’atmosfera multiconfessionale inimmaginabile altrove. Infine, sempre qui a Lalehzar, già prima del decreto regio del 1932 che avrebbe proibito alle donne di indossare il velo negli spazi pubblici, le iraniane della classe media andavano a spasso liberamente senza copricapo, col parasole e le scarpe da charleston. In carrozza o più raramente a  piedi, le donne erano autorizzate a camminare sul lato est della strada, mentre agli uomini era riservato  il lato ovest. La separazione dei sessi si rispecchiava nella distribuzione degli esercizi commerciali che continuarono a  ricalcare questa  divisione di genere anche più tardi, quando la legge consentì a chiunque di passeggiare indistintamente a destra e a sinistra.

Per tutte queste ragioni, gli abitanti di Teheran che vissero gli anni d’oro di Lalehzar, la ricordano come il paradiso dei voyeur: un luogo abbagliante che si offriva alla contemplazione degli avventori di qualsiasi provenienza.

Chi veniva da queste parti, veniva a godersi lo spettacolo: la sofisticata eleganza delle élites cosmopolite, le merci di lusso esposte in bella mostra, oppure le stonature di una contrastata modernità d’importazione coloniale e, infine, i film muti al Grand Cinema. A vent’anni dall’allestimento del primo spazio cinematografico in città, nel cortile del negozio di un antiquario amante e pioniere della cinepresa che con un kinetoscopio Edison proiettava filmati russi per un pubblico aristocratico seduto sul tappeto, nel 1924 fu inaugurata la prima grande sala moderna della capitale nell’auditorium del Grand Hotel di Lalehzar con una platea che avrebbe potuto ospitare fino a 500 persone, purtroppo in principio soltanto uomini.

Il quartiere, che a distanza di altri vent’anni, avrebbe conosciuto un incremento esponenziale dei luoghi di intrattenimento – sedici cinema e sei teatri intorno al 1950 –  sarebbe stato accreditato a metà del secolo scorso come la nuova Broadway di Teheran.

Affiche_teheranUna locandina che mi sembrava un po’ kitsch, vicino al Cinema Pardis Gholak, Nord Est di Teheran.

 

 Fuoco e fiamme

Allo Shah Nassereddin, assassinato nel 1896, successe il figlio Mazaffareddin. Entrambi esterofili e sensibili al fascino delle nuove arti alla moda, i due Shah si vollero rispettivamente promotori della fotografia e del cinema nazionale.

Nassereddin fu immortalato per la prima volta nel 1842 all’età di 13 anni da un apparecchio che la regina Vittoria aveva regalato a suo padre Mohammad. Da allora avrebbe coltivato la passione per i dagherrotipi, ritraendo se stesso, le sue numerose spose, e i suoi altrettanto numerosi figli, collaboratori e servitori. Perciò all’interno della residenza reale, il palazzo del Golestan, face costruire uno studio sotterraneo che ancora oggi ospita una piccolissima parte – una cinquantina di immagini – della ricca collezione fotografica dello Shah.

Il suo erede al trono, Mazaffareddin, visitò Parigi nell’estate del 1900 in occasione dell’Expo Universelle dove si appassionò alle proiezioni del cinematografo. Poche settimane dopo, a Ostend, in Belgio, il fotografo di corte che lo Shah aveva incaricato di procurarsi una telecamera e la pellicola necessaria, tentò con successo le riprese primo film iraniano  – a dispetto del titolo francese “La fête des fleurs” – che documentava la partecipazione dello Shah al festival floreale della città. In questo senso si può dire che il cinema in Iran nacque agli albori della storia del cinema tout court.

 

moglie nasr

 

 Aniss-Od-Dole, una delle spose favorite di Nassereddin, fotografata dallo Shah nel 1861. La foto è stata a sua volta fotografata da me, al Palazzo del Golestan, Teheran.

La sua tenuta esprime la quintessenza del dress code femminile di epoca Qajar.

L’artista Shadi Ghadirian ha dedicato una serie di fotografie alla rivisitazione dell’abbigliamento iconico delle donne Qajari.

 

 

 

 

 

 

 

 

A partire dagli anni Venti del  secolo scorso, ovvero a partire dall’avvento della dinastia Palhavi alla guida del paese, fasti e miserie di Lalehzar si andarono intrecciando alle fortune alterne del cinema iraniano, in bilico tra creazione autonoma, censura e propaganda. A pochi anni dalla proiezione al cinema Mayak nel 1931 del primo lungometraggio made in Iran –  la commedia muta Abi o Rabi di Ovanes Ohanian, andata perduta, il pubblico iraniano entrò nell’era del suono principalmente attraverso l’importazione di film stranieri sottotitolati, che rimanevano purtroppo inaccessibili alla maggioranza della popolazione analfabeta e incontravano le ostilità delle autorità religiose perché considerati immorali. Gli anni Quaranta accelerarono lo sviluppo dell’industria cinematografica di stato, assistettero alla nascita e alla diffusione di un nuovo genere popolare, il filmfarsi, una sorta di Bollywood iraniano, e parallelamente inaugurarono il doppiaggio delle pellicole occidentali. Negli anni Cinquanta, in piena Guerra Fredda, l’Agenzia statunitense per l’informazione, l’Usis (United States Information Service), con il supporto del governo iraniano, lanciò una campagna per distribuire in tutto il paese filmati di vario argomento realizzati negli Stati Uniti insieme a cinegiornali locali incentrati su temi di interesse comune – dall’alimentazione alla geografia alla sanità – concepiti per trasmettere alla popolazione un’immagine positiva del regime di Reza Pahlavi. Negli anni Sessanta e Settanta fu la volta della nouvelle vague del cinema iraniano d’autore, da allora conosciuto e apprezzato in tutto il mondo.

Il 19 agosto del 1978, l’incendio del cinema Rex di Abadan  in cui persero la vita quasi 500 persone per mano dei sostenitori di Khomeini, segnò crudamente la fine di una epoca. L’anno successivo, l’anno della Rivoluzione islamica, fu per il cinema iraniano il culmine della devastazione: 180 sale su 451 furono rase al suolo – di cui 32 solo a Teheran. Le proporzioni di questo fenomeno non si comprendono se non si coglie la valenza marcatamente politica attribuita al cinema nel contesto nazionale.

Cinema_Africa2Il Cinema Africa (ex Cinema Atlantic), Teheran, ma potrebbe essere Piazza Bologna a Roma.

I cinema risparmiati dai sostenitori di Khomeini vennero comunque sottoposti a una “campagna di purificazione” per rimuovere le tracce di quei nomi alieni che incarnavano lo spirito della Rivoluzione Bianca e filoccidentale dello Shah. Attingendo al registro anticoloniale e panislamico del lessico politico della nuova Repubblica, il cinema Atlantic fu ribattezzato cinema Africa, l’Empire Esteqlal (indipendenza), il Panorama Azadi (libertà), il Polidor Qods (Gerusalemme) e così via.

La produzione cinematografica andò incontro a un destino simile e i film reputati moralmente incompatibili con l’islam o compromessi con il vecchio regime furono censurati e banditi dalla circolazione, mentre dall’Italia arrivavano gli spaghetti western, dal Giappone le arti marziali, e dalla Russia le pellicole sovietiche. Si racconta, inoltre, che nei primi mesi dopo la deposizione di Reza Palhavi, La battaglia di Algeri venisse applaudito nelle sale della capitale. Nel corso di questi anni tormentati, Lalehzar fu una cassa di risonanza dell’asfissia autoritaria a cui, a dispetto delle apparenze, fu sottoposta la società iraniana durante il regime dello Shah e della furia palingenetica che accompagnò i primi passi della Rivoluzione islamica. Negli anni Cinquanta e Sessanta alla progressiva dipartita dalla scena pubblica delle élites intellettuali legate al Tudeh, il partito comunista iraniano nel mirino della Savak (la temibile polizia dello Shah), fece da contraltare l’ascesa di Muḥammad Karim Arbab, il nuovo “Padrino” di Lalehzar, che in pochi anni prese possesso di diversi locali nel quartiere e del monopolio del whisky di contrabbando nella capitale. Questa congiuntura alterò la composizione sociale del pubblico di Lalehzar, sempre più marcatamente popolare, e trasformò l’offerta culturale disponibile: al cinema si imposero le commedie musicali, al teatro subentrarono il cabaret e le danze burlesque, all’intrattenimento si sostituì l’alcol. La parabola si era già compiuta prima del 1979. La rivoluzione perciò fu il soltanto il colpo di grazia che pose materialmente fine alla movida del distretto.

 

Ex_Metropole_TeheranScheletro dell’ex cinema Metropolis, lampadari e motorini con il parabrezza, Lalehzar, Teheran.

Love story

Hamid Nafisi, che insegna nel dipartimento di studi culturali della Northwestern University di Chicago, ha provato raccontare in quattro volumi la tormentata passione degli iraniani per il cinema, animata di volta in volta da pulsioni nazionaliste o occidentaliste. La sua Social History of Iranian Cinema (2011-2012) non è un libro di storia, ma, davvero, come suggerisce l’autore, una “autobiografia culturale” dove le avventure del cinema iraniano si intrecciano alle disavventure della sua famiglia, dinastia intellettuale originaria di Isfahan, la cui generazione a cavallo della Rivoluzione, per lo più militante tra le fila dei comunisti e dei gruppi armati della sinistra radicale, partecipò attivamente alla lotta contro il regime dello Shah per poi essere brutalmente repressa, incarcerata e liquidata dagli islamisti al potere.

Alireza, cugino di Hamid, un immunologo in pensione, ricorda le prime esperienze estenuanti nelle sale di Isfahan, tra blackout, apparecchi malfunzionanti e interruzioni continue: “A volte per riuscire vedere un film di mezz’ora bisognava tornare al cinema tre volte”. I multisala giganteschi, all’interno di altrettanto giganteschi centri commerciali, che da pochi anni hanno cominciato a diffondersi in tutto il paese, non gli interessano per niente anche se funzionano alla perfezione. Alireza confessa di non essere più andato al cinema da così tanti anni, che non sa nemmeno dire esattamente quanti sono. Se il cinema degli anni Settanta “esprimeva una promessa di società che questo paese non ha saputo mantenere”, per lui è inutile continuare a sperare.

Kourosh_sala_vuotaSala vuota nel Multisala Cineplex, Kourosh Complex, Teheran.

La seconda delle sue figlie, Nahal, 39 anni, vive a Teheran, dove insegna antropologia culturale, e come molti iraniani della sua età, alle sale cinematografiche ultramoderne, e spesso deserte, preferisce i giardini persiani. Per colpa della sua ricerca etnografica sulla poetica dell’evasione e dell’ordinario, è condannata a una flânerie perpetua per le strade della capitale, a collezionare cartoline, a fotografare gatti e piante grasse. Abita a pochi passi dall’ex carcere di Al Qasr, la memorabile prigione del regime di Reza Palhavi che rimase tale anche dopo la Rivoluzione islamica e fu adibita a museo nel 2012. Qui dentro furono fucilati due dei suoi zii nel 1988, sebbene dei corpi non sia mai stata rinvenuta alcuna traccia. A Lalehzar, che si trova a pochi chilometri da casa sua, Nahal va spesso a piedi in cerca di oggetti apparentemente insignificanti. Mi spiega la stratificazione spettrale del quartiere: in basso, al piano terra, le luci scintillanti dei negozi aperti, in alto i palazzi fatiscenti, eppure ancora imponenti, del secolo scorso che fungono da magazzini con le insegne luminose che non luccicano più, e dentro, stipati e invisibili, i lavoratori a cottimo che montano i pezzi in vendita al piano di sotto. La dolce vita è lontana, ma il caos non manca. Dopo aver trascorso l’infanzia ad aspettare la fine della guerra contro l’Iraq, la postadolescenza a sperare nelle riforme di Khatami, il predecessore di Ahmadinejad, e l’età adulta a fare i conti con i contraccolpi del post-2009, Nahal fa fatica a immaginare una transizione qualunque per il suo paese, con o senza sanzioni, con o senza multisala.

Lalehzar “dove l’invasione dell’ordinario ha contraffatto perfino i desideri di evasione”, le sembra in questo senso una buona metafora dell’Iran contemporaneo.

IMG_3872Una foto qualunque (e anche un po’ sfocata) scattata attraversando la strada, da un cavalcavia di Enghelab, a Nord di  Lalehzar, Teheran.

 

 

 

 

Erotomaculae

3

di Sonia Caporossi

Le tue mani

muschi estatici del senso
papille del terzo occhio addormentato
le tue mani, ora
mi lisciano come fossi un gatto arruffato
e piegano i silenzi dei nostri rancori passati
come fossero spighe del sonno
che s’inchinano ad un vento impietosito
i guanti eburnei della tua pelle
e tutte le carezze del tuo respiro
che effonde su di me la ritmica dell’attimo
ricercano sul mio corpo i segni del futuro
esitando sul velluto del vulcano a cono
baciando l’epidermide dei miei pensieri sacri
dispersi in nubi amorfe
nel deserto del tuo grembo
restiamo qui, penombre nebulari
impiccate un tempo al giogo del dolore
che ora lecca le ferite dell’interiorità
cercando avidamente, nei sogni silenziosi,
le mute ambiguità di grida sconosciute.

* * *

Arterie

mi disintegri d’un soffio
ogni mio mezzo di difesa
sta svanendo nel nulla
di un no lusinghiero
mentre un battito violento
cancella ogni recriminazione
e rimbomba nelle arterie viola
del mio collo gonfio
livido di disperata ebollizione
perché tu mi stai uccidendo
tocchi perfettamente
e ogni vena del mio corpo
freme di soddisfazione.

* * *

Imene

le tue grandi labbra traboccano bocche di mille baccanti
ti vedo danzare nel Sole, danzare in un sacro sorriso
coraggio salato – esitante del tuo membranoso segreto
mi chiama fuggevole e densa la guaina del guanto che aspetta
la fistola ferita a fuoco si piega in un riso affamato
la guaina che aspetta il mio guanto che ride iracondo e festoso.

* * *

Le labbra di M

una cruda indecenza:
labbra rosso sangue
che ammorbano l’aria
del loro uso funzionale.
e il peso dei tuoi baci dati a un altro
mi rende un vecchio Sisifo sfinito:

io sorreggo sulle spalle
l’amore che non ho.

* * *

Alle tue mani, alle tue dita, oggi

tenaglie loquaci di parole illanguidite
bisbigli smorzati nell’amplesso del tuo seno
mi incalzi ancora una volta di bruciature tattili
mi abiti la carne in stalattiti digitali
colonie di sensi impazziti nel bosco del monte di Venere
recuperano fili di Arianna tessuti dalle tempie al pube
le trame son senza parole – barlume di senso allo stremo
e quando ritorno a nuotare nel{mare – Ananda} d’amore
e dispero di respirare strozzata fra bocca e collare
che invisibile rapprende la mia sostanza al tuo laccio
mi marchi di morsi e rimorsi, possesso perimetrale
trapassi di segni la carne con i tuoi steli digitali
mi calchi l’impronta mentale, innervi la suite cerebrale
a niente io posso sfuggire se l’inseguitore sei te.

 

 

________

[“Queste pagine trasudano un corpo, ne portano l’impronta sindonica, e sono un corpo, e per questo la lettura non è leggera, perché sembra di attraversarlo, questo corpo, nelle sue vicissitudini fisiche, nel suo essere carne+sangue+umori+soffio vitale… Dell’amore, o meglio, dell’eros, si attraversano tutte le fasi nelle varie sezioni: dalla dimensione fisica assoluta del corpo femminile …, alla dimensione della relazione fisica di due corpi …, dall’intimità … alla crisi dell’armonia amorosa …, con il suo portato di dolore/dissidio assoluto …, dalla rinascita dell’innamoramento (la sezione “orientale”…) fino al sacrificio estremo di impronta saffica… Di questo corpo-poesia più che un significato complessivo al termine della lettura rimane un suono, o meglio, una partitura di suoni dissonanti che la nostra mente ha prodotto interpretando questi testi che sono dei veri e propri “spartiti epidermici”, oltretutto ossessivi (prova ne siano le frequenti anafore, collegate all’uso frequente della tecnica dell’elencatio): insomma, ci si trova ad avere immerso le mani in una sostanza fisica senza essercene accorti, pensando di avere tra le mani il solito libro di poesia. E invece, si ha a che fare con qualcosa di vivente e sussultante, difficile da dimenticare, perturbante, certo unico nel panorama poetico italiano. Un libro da vivere, prima ancora che da penetrare con l’intelletto.”

dalla prefazione di Giovanna Frene a Sonia Caporossi, Erotomaculae, Algra editore, Catania, 2016]

Le assenze di Enrico De Vivo

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di Marino Magliani

Cop_DE_VIVOHo un file, da buon ligure ogni volta lo riciclo, si intitola Assenze, non ricordo da quale racconto o sottititolo provenga. Mi dico lo sapevi che prima o poi veniva a taglio. In effetti, se devo trovare un titolo a questo romanzo di Enrico De Vivo, Poche parole che non ricordo più (Exorma, 2017), uno migliore non potevo trovarlo. Ma assenze presume che al testo manchi qualcosa. Vediamo dunque cosa manca… Il paesaggio? La musica? No, inizia con due mani sul pianoforte che accompagnano le onde… Ogni pezzo di questo libro è come un quadro la cui cornice si intreccia a un altro quadro, ma non sullo stesso piano, come se dal precedente procedesse in discesa, e le onde scendessero disciplinatamente e miracolosamente da un muro. E ogni pezzo, senza aver la presunzione di farlo, è come se portasse dentro la memoria del precendente, tant’è che Gargiulo, l’eroe forse, non perché vive per primo, ma perché in un modo o nell’altro lo lasciamo che scappa dagli aggressori all’inizio e mentre leggiamo vorremmo solo salvarlo, tant’è che Gargiulo è quasi sempre lì sul punto di riapparire e tarda ma poi riappare, e allora tutto si lega, anche la mano destra e quella sinistra che suonano all’inizio. Ma vediamo dunque cosa mancava… Il paesaggio? No, abbiamo il Sud polveroso, con i paesi e le sterpaglie, gli sterrati, le rovine, rive di laghi e laghi e la città. Mancano i personaggi? Neanche, il romanzo è un’antologia, un festival di personaggi, abbiamo Gargiulo, il fratello che non abbiamo mai avuto, e le signore di colore e gli sciancati, abbiamo Rossana (“Rossana aveva l’aspetto di una maga nordica dall’età indefinibile, dotata, allo stesso tempo, di tutta la bellezza e l’inquietudine della gioventù e della vecchiezza”), abbiamo i cani bianchi e i poeti-filosofi e forse sì, a questo punto compaiono alcune assenze (“Nel futuro, per una disposizione legislativa, sarà vietato leggere e scrivere. Non esisteranno più librerie, scrittori, lettori. Sperdute in posti lontanissimi, sopravvivranno soltanto delle tipografie-samizdat”), ma questo succederà solo nei sogni. Poi ci sono gli abitanti delle rive del lago, l’instancabile Conoscitore di mappe, etnografi, e uccelli dall’espressione serena, e persino l’omino rotondo, Kurz il camionista, e non menziono gli amici fragili e incredibili dell’io narrante che scendono in campo in seguito. Di quale assenze si parlerebbe dunque, quando si parla di Poche parole che non ricordo? Assenze di una trama, di storie? Non direi, in qualche modo abbiamo fughe e viaggi e cose che succedono e si succedono e abbiamo la comicità, eppure sì, continuiamo ad ammettere che c’è un’assenza. Non è forse che De Vivo ha semplicemente scritto una storia assente, come se fosse andato a prendere un treno e gli avessero detto brav’uomo il treno è già passato, sediamoci qui al fresco sotto il porticato del primo binario e raccontiamocene una? No, non è neanche questo, caro Enrico De Vivo, che non la conosco, se non per averle scritto una volta per il suo Zibaldoni, il fatto è che qui non è che il treno è passato, ma è che leggere Poche parole che non ricordo più dà quell’incredibile e bellissima sensazione di essere stati in un luogo dove non mancava nulla, e non sapevamo cosa, nulla è assente, c’è il paesaggio, la gente, il sole, le rive del lago, persino le tipografie, e ci siamo noi che però siamo andati a prendere il treno e non c’è più la stazione, e uno si siede lì sulla catasta di traversine e binari e i libri che si vorrebbero leggere in treno sono questi, diceva qualcuno, ogni tanto alzare gli occhi e gettare uno sguardo sul paesaggio oltre il vetro e sentire la nostalgia perché non possiamo scendere e guardare.

 

NdR: Marino Magliani ha scelto il passo che segue da “Poche parole che non ricordo più” di Enrico De Vivo (Exorma, 2017), e lo pubblichiamo con il beneplacito dell’editore

 

«Solo ritmo e cadenze»

Quella sera d’inverno era andata a finire che io e Gargiulo scappavamo a bordo della sua scalcagnata vespa bianca. Scappavamo di notte, mentre uomini armati di bastoni ci inseguivano a bordo di un’Alfetta marrone. Gargiulo diceva che conosceva un posto sui Monti Lattari dove saremmo stati al sicuro: «Vedrai, li sperdiamo facile facile, parola di Gargiulo!».
Gargiulo era il mio amico musicista, vecchio amico d’infanzia, che aveva trascorso tanti anni in giro per il mondo a suonare il blues. Adesso era tornato e diceva che finalmente avrebbe potuto insegnarmi tutto quello che volevo, soprattutto come si diventa poeta, che in effetti era il mio sogno di gioventù. Per la verità, era un po’ di tempo che io non pensavo più a certe cose, e dunque di preciso che cosa volevo che lui mi insegnasse non lo sapevo, o forse non lo ricordavo più. Per me bastava che fosse tornato, ero già contento così. In ogni caso, per non dispiacergli, avevo preso a fargli domande vaghe sulla poesia, alle quali lui rispondeva sempre allo stesso modo, e cioè che si trattava soltanto di imparare a seguire ritmo e cadenze. «Solo ritmo e cadenze», ripeteva, poi tutto sarebbe venuto naturale, non mi dovevo preoccupare. Aggiungendo anche: «Ricordati che con le stesse parole si possono dire cose diverse».
Gargiulo era un analfabeta ignorantone, e sentirlo parlare in questi termini mi intimoriva e divertiva insieme. Ma il suo modo di fare aveva qualcosa di convincente, e infine avevo accettato di seguirlo. Mi aveva condotto in un piccolo cantiere edile deserto, in una stradina di campagna con il Vesuvio a nord-est. Era lo stesso cantiere – rimasto tale e quale – dove andavamo da ragazzi già ammalati della vita ad ascoltare la musica dallo stereo della sua Fiat 850 e a dare aria ai nostri sogni: io a quello di diventare poeta, lui a quello di diventare musicista blues.
Erano passati tanti anni, non saprei nemmeno dire quanti. Adesso faceva molto freddo, era dicembre. Avevamo acceso un fuoco in un androne scalcinato del cantiere e Gargiulo si era messo a sfogliare dei quaderni pieni zeppi di misteriosi segni. Dopo averli sistemati su un ripiano di legno sorretto da sei mattoni di tufo, aveva cominciato prima a parlare di luna e nenie notturne, poi a cantare dolcemente, con me seduto per terra di fronte a lui ad ascoltare. Ma era durato tutto pochi minuti, perché all’improvviso erano arrivati gli uomini armati di bastone con l’Alfetta marrone ed eravamo stati costretti a scappare.
Da quel poco che avevo avuto modo di capire in quei minuti, Gargiulo aveva imparato da autodidatta a trascrivere una specie di ideogrammi molto simili alle lettere dell’alfabeto fiorite di ghirigori e di figure che si vedono disegnate nei codici. Recitava questi segni ad alta voce, cantandoli come da una partitura, con un sottile filo di voce quasi impercettibile. «Questo è niente!», mi diceva infervorato nelle pause del suo canto. «Capirai il resto quando sarai in grado di decifrare anche tu i segni che si trovano qui dentro», e sventolava i suoi quaderni.

L’allegria di Mario Benedetti

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mb NIdi Francesca Fiorletta

 

L’ottima casa editrice Nottetempo sta pubblicando da qualche tempo le opere di Mario Benedetti, narratore, poeta e saggista uruguaiano di origine italiana, scomparso nel 2009, che resta uno degli autori più amati della letteratura latinoamericana. Dopo La tregua (2006) e Chi di noi (2016) ecco Il diritto all’allegria, con la traduzione di Stefania Marinoni. Si tratta di una raccolta composita di prose, contraddistinte dalla solita ironia di Benedetti, nonché dal suo carattere vivamente nostalgico, fortemente empatico col lettore, dotate di un’intelligenza profondamente umana, viscerale, talvolta diremmo chirurgica. 

Errare è partigiano. Note sulla Resistenza

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di Matteo Cavalleri

 

scacchi

 

Italo Calvino – introducendo, nel 1978, l’edizione italiana di Rizzoli dell’Anabasi di Senofonte – rintraccia una problematica prossimità, sia contenutistica sia formale, tra l’opera greca e la memorialistica italiana sulla ritirata di Russia:

Questa lotta per il ritorno d’un esercito condotto alla sconfitta in una guerra non sua e abbandonato a se stesso, questo combattere ormai solo per aprirsi una via di scampo contro ex-alleati ed ex-nemici, tutto questo avvicina l’Anabasi a un filone di nostre letture recenti: i libri di memorie sulla ritirata di Russia degli alpini italiani. Non è una scoperta di oggi: nel 1953 Elio Vittorini, presentando quello che doveva restare nel genere un libro esemplare, Il sergente nella neve di Mario Rigoni Stern, lo definiva «piccola anabasi dialettale»[1].

 

La problematicità di un tale accostamento, segnalata dallo stesso Calvino, consiste nella sua manifesta caducità nei confronti di uno sguardo più sensibile a quelle che sono le declinazioni antropologiche che i due orizzonti testuali manifestano. Senofonte riesce infatti ad individuare con sicurezza, nel guerriero ellenico impegnato nel periglioso ritorno in patria, una capacità militare-stilistica che permette al soggetto di convivere con l’esperienza di derelizione che la situazione gli impone: «l’uomo può ridursi a cavalletta e pure applicare a questa sua condizione di cavalletta un codice di disciplina e di decoro – in una parola: uno “stile” –, e dirsene soddisfatto; non discutere né tanto né poco il fatto d’essere cavalletta ma solo il miglior modo d’esserlo».[2] I mercenari greci «in qualche modo portano con sé la patria»[3], individuano nella meta del loro stentato peregrinare l’orizzonte assiologico – quello rappresentato dall’«esercizio delle virtù classiche, filosofico-civico-militari»[4] – nel quale riconoscersi e rispetto al quale intenzionare la propria azione. È grazie alla fiducia nella riserva di senso incarnata dall’idea stessa di patria che i guerrieri ellenici riescono a preservare la propria impronta umana in una situazione che costantemente li spinge, tramite la seduzione della violenza, verso il baratro del non-umano.

Le pagine vergate dagli alpini italiani prendono invece le mosse dal sempre più acuto contrasto tra «una Italia umile e sensata» e «le follie e il massacro della guerra totale»[5]. La compossibilità tra ritirata di Russia e anabasi si interrompe proprio dove il rigore glaciale e mortifero della steppa russa recide il rapporto con il termine ad quem, recide il rapporto con la patria a cui ritornare. L’«Italia umile» non è più la stessa, non appartiene più, non si riconosce più nell’Italia da cui è partita. L’anabasi, l’accordo tra gettatezza e tensione etica in vista del rientro in Italia, non è possibile proprio perché manca il terzo oggettivo a cui far riferimento. La ritirata di Russia non è un ritorno in patria, ma è la genesi preistorica di un nuovo inizio, di un viaggio verso una patria a venire.

L’alpino italiano nella tragedia di Russia appercepisce – ovvero “riflette” su di un piano di consapevolezza una percezione che fa del dolore fisico la sua marca dirimente – la vacuità del regime fascista, della sua patria. Nuto Revelli rintraccia in questa vivida appercezione del fascismo come epopea nichilista, estenuatasi nell’invasione russa, la matrice, la genesi a venire della sua scelta partigiana. È la necessità esperita nella tragedia bellica del fronte orientale il luogo in cui il futuro partigiano trova i germi, i pertugi, per la propria scelta, in cui riscopre il gesto della libertà. È una scelta che si incide su di un piano di chiarezza, ma di intrinseca difficoltà[6]:

 

Senza la Russia, all’8 settembre, mi sarei forse nascosto come un cane malato. Se nella notte del 25 luglio mi fossi fatto picchiare, oggi forse sarei dall’altra parte. Mi spaventano quelli che dicono di avere sempre capito tutto, che continuano a capire tutto. Capire l’8 settembre non era facile![7].

 

L’accadere di una tale scelta, il suo segnarsi nella coscienza individuale come una frattura originante, permette un recupero del concetto di anabasi come euristica positiva atta alla delineazione della nuova erranza che la Resistenza inaugura. La scelta infatti rinviene nella contingenza necessitante delle determinazioni storiche un registro valoriale, di giustizia, che le trascende, che assume la necessità al livello della decisione. Si riafferma, nella sua iniziale balbuzie, un orizzonte assiologico verso il quale andare-ritornare. È un andare non verso un luogo fisico, geografico, ma, nella piena fisicità della traslazione, verso un’idea che con grande difficoltà tratteggia il proprio profilo. Il partigiano, come dichiara il giornale clandestino L’Uomo, risale ad un nuovo inizio a partire dal ritorno alla propria matrice umana, a quel quanto che la fascistizzazione non è riuscita ad intaccare:

 

Il nome stesso di questo giornale, oggi o dimani potrà apparire astratto o superbo; ma quando cominciò a circolare nascosto, il suo nome significava fare appello, perduto tutto, ad una indeclinabile sostanza. L’uomo doveva restare il principio e la fine di ogni discorso fra gli uomini e se lo stato unitario era caduto in rovina nel crepuscolo della storia degli stati nazionali d’Europa, se l’economia del paese non sopravviveva che per il servizio provvisorio degli invasori, se la terra stessa, battuta, spogliata, lacera, corsa, non era che un campo di battaglia di secondaria importanza (ma il nostro dolore era lui sì al centro del mondo), una moribonda spoglia offerta allo strazio di un esercizio cauto per gli uni, di un puntiglio caparbio per gli altri, se ogni intermezzo o sussidio di storia, di civiltà, di convivenza era smarrito, la qualità umana no, non poteva essere tolta di mezzo.

 

Qui risiede il senso dell’anabasi, la sua accezione antropologica. È, nel vuoto prodotto dal collasso delle istituzioni e della loro portata morale, un ritornare a se stessi, una fedeltà a se stessi e alla propria costitutiva eccedenza rispetto alla «nuda vita»[8]. È un ritorno che si scopre tale solamente facendosi.

La Resistenza inaugura infatti una traiettoria temporale che scompagina l’asse storico nella sua accezione di progresso lineare, inaugura un tempo intessuto da un sincopato susseguirsi di tracciati di provenienza e di movimento: è cristallizzarsi di «adesso»[9] che sono «già» e «non ancora», disposizione dialettica di un passato attuale che cairologicamente muove il tempo senza, tuttavia, avervi mai luogo[10].

Quale figura, quale traiettoria e storica e spaziale impone al movimento del soggetto il concetto di anabasi?

L’Anabasi di Senofonte prende le mosse dall’appercezione, da parte del soggetto, di situarsi in una topica di esclusione, di trovarsi fuori luogo e fuori legge; parimenti, l’8 settembre obbliga il cittadino italiano ad una similare esperienza di spaesamento, di smarrimento, alla negazione del proprio statuto di cittadinanza. Il soggetto resistente inizia l’anabasi a partire da un volontario mettersi fuori legge; il partigiano è infatti clandestino in un paese che non riconosce più e che non permette lui nessuna possibilità di riconoscimento sia normativo sia etico. Nell’eruzione dell’8 settembre, nel suo disordine, coglie la possibilità di un gesto di disobbedienza e di dubbio, non solo di terrore e dolore morale; coglie le potenzialità per un nuovo inizio.

L’evento Resistenza inaugura la propria procedura di verità[11] proprio a partire dalla messa in scacco di quel «dispositivo in grado di produrre un’identificazione senza residui tra la mente del singolo e i proclami del regime»[12]. La riattivazione di un pensiero in grado di far rapporto sulla realtà della situazione presente – in grado cioè di metterne in evidenza le condizioni di possibilità altre rispetto a quelle dell’ordine fascista – è ciò che permette al futuro partigiano di «rischiare di rischiare»[13] e di procedere nel proprio percorso di fedeltà a quell’evento che originariamente l’ha «colto e rotto»[14]. La Resistenza si presenta quindi come il perdurare in un processo che continuamente chiama alla conferma di una frattura nella coscienza individuale, che continuamente obbliga ad una scelta e al suo riconoscimento in un orizzonte politico, in una soggettività politica. La lotta partigiana, nella sua durezza, è dubbio germinativo in tensione dialettica con la propria cifra paralizzante, con l’esposizione alla sofferenza e alla morte inflitta e subita:

 

Il nemico stesso ci aveva educato alla morte, ci aveva consegnato, scarnito e solitario, il suo più cupo impulso. Egli era rimasto al di là, vestito da soldato, con i suoi gradi e i suoi distintivi. Scriveva assiduamente alla famiglia lontana, come potevamo accertarci catturando i suoi corrieri, conservava gelosamente nelle tasche della divisa, che frugavamo dopo la sua morte, tutt’una vita regolare di ossequio alla società, dov’era nato e cresciuto: certificati militari, promozioni, immagini o medaglie dei santi, forse le stesse che gli avevano dato la madre o la fidanzata perché lo proteggessero, era rimasto anche nella guerra al riparo dal dubbio, corretto e disciplinato, anche nelle rappresaglie, quando giungeva sul posto, sapendo già quante case doveva distruggere, quanti civili fucilare. Per ciò poteva uccidere con tanta facilità. L’odio che l’aveva portato fino a quel punto giaceva in lui come sommerso da un solido strato di indifferenza e di disprezzo: sembrava essersene liberato, dando a noi tutto il suo peso, attribuendoci quegli inumani lineamenti che erano in lui celati dalla maschera del soldato. La nostra peggiore condanna, tanto più avvertita quanto maggiore era la responsabilità del comando: espiare anche per lui, invidiargli, senza avere il coraggio di confessarlo, quelle stesse apparenze di uomo normale, ossia soggetto a una serie logica e continua di convenienza, che erano state distrutte in noi. Mai più uomini come gli altri, mai più capaci di godere la purezza di un affetto o la serenità del riposo[15].

 

Emerge qui un’ulteriore accezione della categoria di anabasi che informa il venire alla presenza del partigianato. Il soggetto resistente si trova infatti gettato nel proprio destino, ha deposto la maschera del soldato e volontariamente reciso tutti i nessi che lo rimandano alla vecchia società; si trova legato alla ruvidezza delle determinazioni necessitanti e, proprio in forza della riflessione su tale legatura[16], deve inventare il proprio risalire, deve diventare ciò che l’uomo è nella sua ultima essenza, deve rifondare il proprio stesso statuto d’esistenza:

 

si è questa guerra sviluppata subito e nella coscienza universale e nei fatti come decisiva non di un modo qualsiasi d’esistere ma dell’esistenza stessa di uomini singoli e di popoli e razze, della esistenza insomma dell’uomo nell’esercizio libero del suo pensiero e del suo lavoro, che è la sua vita. […] Questa, se mai altra, è la guerra onde può attendersi l’uomo, secondo l’antico detto, fabbro della propria fortuna, l’individuo esperto di tanto male e ansioso finalmente del bene, l’individuo sì, che, superstite dell’eccidio, solo con la sua libera vita, fatta giustizia del nemico, riconosce intorno a sé negli altri superstiti i compagni e con quelli imprende la via […][17].

 

Come l’anabasi greca non può essere un semplice ritorno, in quanto la derelizione della situazione ha portato i soldati allo smarrimento di qualsiasi orientamento precedente, così il partigiano, dopo aver riconosciuto attorno a sé i «compagni», dà origine ad una nuova via. È però sprovvisto della sicurezza che vi sia «ancora un mondo diverso nel quale si poteva ritornare»[18]. L’anabasi consiste infatti in un’invenzione del proprio cammino deficitaria della conferma di essere un reale ritorno: «è la libera invenzione di un’erranza che sarà stata un ritorno, un ritorno che, prima dell’erranza, non esisteva come strada-di-ritorno»[19].

Ciò che fa del significante «anabasi» un possibile supporto per la meditazione dell’evento Resistenza sta nella sua capacità di intenzionare il percorso, la strada del ritorno: l’anabasi lascia infatti indecise, nella traslazione indicata, «le parti rispettive dell’invenzione disciplinata e dell’erranza casuale»[20]. Le lascia indecise ma le contempla entrambe. Nella tensione mai chetabile tra questi due termini si situa la genesi stessa della matrice politica della lotta partigiana: il suo originare dal polemos, ma come atto consustanziale al traghettamento verso la polis. La politica nasce infatti come il contrario della violenza, ma trova in quest’ultima ciò che la fonda, la protegge, la amplia[21]. Violenza e politica tagliano i poli di una sintesi disgiuntiva, la prima origina la seconda tramite una derivazione per contrasto. Il partigiano è consapevole di ciò, è consapevole che la fenogliana assolutezza della propria situazione rimanda non solo ad un’esemplarità ma anche ad un’assenza di riferimenti giuridici: costringe appunto ad una invenzione disciplinata, all’invenzione di una disciplina stretta tra la fedeltà alla regola e la fedeltà a se stessi. Una tale, incoativa, disciplina erra, si forgia nell’impatto con le casualità che le si oppongono, incappa in errori (l’erranza incarna qui la sua duplicità semantica), può a tratti cedere alla seduzione della violenza, ma per assumerne infine la necessità come irrevocabile pertugio verso la nascita di un nuovo ordine politico, verso una libertà che sappia emanciparsi, dandole forma e autolimitandola, dalla rottura immanente e drammatica della liberazione[22].

Da qui il terrore del partigiano di perdere ciò che più lo differenzia dal nemico: la pratica consapevole della violenza; ovvero la percezione chiara e distinta dell’impossibilità di una sua gestione naturalizzata e autolegittimantesi, della necessità di un suo doloroso e angosciato inserimento in un orizzonte di fini obiettivati dalle determinazioni storiche:

 

Quel peso di male che grava sugli uomini del Dritto, quel peso che grava su tutti noi, e che si sfoga in spari, in nemici uccisi, è lo stesso che fa sparare anche i fascisti, che li porta a uccidere con la stessa speranza di purificazione, di riscatto. Ma allora c’è la storia. C’è che noi, nella storia, siamo dalla parte del riscatto, loro dall’altra. Da noi, niente va perduto, nessun gesto, nessuno sparo, pure uguale al loro, m’intendi? Uguale al loro, va perduto, tutto servirà se non a liberare noi a liberare i nostri figli, a costruire un’umanità senza più rabbia, serena, in cui si possa non essere cattivi. L’altra è la parte dei gesti perduti, degli inutili furori, perduti e inutili anche se vincessero, perché non fanno storia, non servono a liberare ma a ripetere e perpetuare quel furore e quell’odio, finché dopo altri venti o cento o mille anni si tornerebbe così, noi e loro, a combattere con lo stesso odio anonimo negli occhi e pur sempre, forse senza saperlo, noi per redimercene, loro per restarne schiavi. Questo è il significato della lotta; il significato vero, totale, al di là dei vari significati ufficiali. Una spinta di riscatto umano, elementare, anonimo, da tutte le nostre umiliazioni […][23].

 

La storia, intesa qui come palcoscenico sul quale il soggetto esperisce la propria epifania, la propria piena manifestazione, è intessuta di vettori pubblici e politici, quelli della grande storia per l’appunto, e di dimensioni esistenziali, intime, di questioni private, come affermano sia Fenoglio sia lo stesso Calvino: «Domani sarà una grande battaglia. Kim è sereno. “A, bi, ci”, dirà. Continua a pensare: ti amo, Adriana. Questo, nient’altro che questo, è la storia»[24].

Una differenza minima sembra contraddistinguere la parusia del partigiano da quella del fascista:

 

Ferriera mugola nella barba: – Quindi, lo spirito dei nostri… e quello della brigata nera… la stessa cosa? … – La stessa cosa, intendi cosa voglio dire, la stessa cosa… – Kim s’è fermato e indica con un dito come se tenesse il segno leggendo; – la stessa cosa ma tutto il contrario. Perché qui si è nel giusto, là nello sbagliato. Qui si risolve qualcosa, là ci si ribadisce la catena[25].

 

Una differenza minima la cui logica operativa si costruisce su una duplicità di gesto: è atto differenziale e differenziante[26]. La distinzione tra partigiano e fascista, special modo se colta nella coessenzialità della violenza, è infinitesimale, ma, proprio in forza di questa sua natura apparentemente impercettibile, è dirimente ed irriducibile. È una differenza simile a quella individuata da Alain Badiou[27] nel Quadrato bianco su sfondo bianco di Malevič (1918): un atto sottrattivo radicale nel quale si inventa un contenuto massimo nel luogo stesso della differenza minima; proprio là dove non c’è quasi nulla che contraddistingua l’oggetto «quadrato» dallo sfondo rispetto al quale si staglia. L’opera di Malevič «è una proposta di pensiero che contrappone la differenza minima alla distruzione massima»[28]; parimenti, il partigiano sembra assumere un tale pensiero elevandosi dalla situazione di minorità – dalla trappola alla quale l’oppressore l’ha inchiodato[29] – attraverso un gesto minimale ma incommensurabile come quello della gestione della violenza verso un fine di liberazione o, ancor meglio, verso la costituzione di una nuova forma di politica.

Elemento necessario ad un gesto di tale irriducibile radicalità è una modifica nelle stesse qualità ottiche attraverso le quali il soggetto resistente guarda il proprio tempo, il proprio spazio. La Resistenza impone al soggetto di essere contemporaneo alla propria epoca, di sfidarne lo sguardo oscuro[30]. Contestualmente, gli permette di trovare una nuova tessitura simbolica all’interno dell’omogeneità del proprio spazio, gli permette di scoprirlo costellato di luoghi, di «immagini dialettiche»[31] che tracciano i contorni di un paesaggio[32]. Tutto ciò è frutto di uno sguardo diplopico[33] in grado di sovraimprimere spazio e tempo con trasfigurazioni di senso latrici di un nuovo rapporto tra soggetto ed oggetto, all’interno del quale pensare diversamente la situazione presente e scorgervi, quindi, delle possibilità di cambiamento.

In questa metafora ottica si può forse individuare la maggiore compossibilità rintracciabile tra esperienza resistenziale ed esperienza filosofica. Il resistere inizia con un cambiare lo sguardo, storcendo e piegando gli occhi[34] per riuscire a scorgere nella necessità l’«adesso» carico di futuro e libertà; filosofare è sforzo del concetto, calibratura del rapporto soggetto-oggetto, è il dispiegamento ad un tempo soggettivo e obiettivo della coscienza riflettente[35]. Entrambi i gesti presuppongono un’estroflessione metariflessiva, una mediatezza del pensiero radicale. Resistere non è aderire al registro dell’opinione, ma cambiare lo sguardo sulla scia della rottura evenemenziale accorsa sia al proprio presente sia alla propria soggettività. La filosofia non è punto di vista, non è Weltanschauung, ma articolazione di uno sguardo nuovo in grado di mettere in luce le costrizioni che l’apparenza misconosce, in grado di «rimettersi veramente alla cosa, e non al bisogno ideologico»[36].

 

scacchi2

 

Il concetto di anabasi permette infine un’ultima ripartenza interpretativa. Un tale nuovo inizio è custodito nella poetica di Paul Celan, il poeta che forse più di tutti ha cercato di pensare il XX secolo, di misurarne l’abissalità, a partire dalla rigenerazione delle sue stesse possibilità e capacità rappresentative. Anche per Celan si tratta quindi di un risalire, di un inizio che è anche ritorno, di un’Anabasis (1963) dopo Auschwitz:

 

Scrittura minuta fra i muri, questo

impervio-vero

Salire e Ritornare

nel futuro dal cuore lucente.

Laggiù.

Diga

di sillabe, color

mare, protesta lontano

nell’Insolcato.

Poi:

spalliera di boe,

boe d’affanno,

con riflessi di respiro, saltellanti,

istantaneamente belli –:

suoni di luminose campane –: (dum-,

dun-, un-,

unde suspirat

cor),

sfrenati, riscattati,

nostri.

Realtà visibile, udibile,

parola liberata, rizzata

a tenda:

Insieme[37].

 

La poesia si apre negando qualsiasi gesto di eloquenza; nessuno prende inizialmente parola. Solo una voce in tono minore incrina il silenzio dell’anonimato per tracciare una direzione all’interno di tre rimandi estremamente labili[38]: «scrittura minuta», «impervio-vero», «nel Futuro del cuore lucente».

Una via che si deve aprire nella durezza di un muro, di una frattura materiale, ma che al contempo intravede in se stessa, nella propria impervietà, l’unica possibilità di esistenza e di senso. Inizia così anche l’azione partigiana. Si percepisce come flebile e stentata, ma coglie la propria cifra di verità in una strutturale debolezza: «moriamo nel giusto», affermano moltissime lettere dei condannati a morte nelle carceri fasciste. Una verità che è riflessa, promana dal «cuore lucente» del futuro, ma, al tempo stesso, che è raggiungibile solo tramite un salire che è anche un ritornare. Il gesto del resistere impone infatti una nuova temporalità; scardina il tempo del progresso all’interno del quale l’oppressione totalitaria ha costruito la sintassi della propria azione[39]. È solo in un tempo altro, nel futuro anteriore, che il partigiano può trovare una possibile libertà.

Dove? Nell’«Insolcato», nel deserto, su di un territorio straniante anche quando conosciuto, proprio in quanto investito da uno sguardo che gli dona l’aleatorietà dell’incontro con l’alterità. La montagna e la città sono luoghi familiari che si sovraimprimono di un senso nuovo: il senso dato dall’evento in atto, dalla sua eccedenza significante, dal suo portato di verità. In una tale situazione, solo l’incontro con l’alterità, con le «boe d’affanno» e «luminose campane», permette al soggetto di non smarrirsi e di trovare riscatto, di condividere un «nostri». Qui, nell’«Insieme» che chiude i versi di Celan, sta l’essenza dell’impegno partigiano. L’anabasi non può terminare come gesto individuale: insorge nella coscienza singolare, ma richiede contemporaneamente un orizzonte di riconoscimento. Non si cristallizza però in un «noi» costruito sulla logica e l’identità dell’io. La frattura originante, avvenuta nell’individuo in concomitanza con la scelta resistenziale, prosegue anche al suo esterno come un’«esperienza di avventura individuale in rotta col passato che […] si consolida nell’impresa di una nuova organizzazione di uomini» [40]: nasce quindi l’in-separato, un noi che veicola la propria «disparità immanente»[41] e trova, nell’insieme, la «parola liberata». L’anabasi, nella sua ultima accezione, si concretizza quindi in una nuova parola: è ritorno, riflettuto e straniato, sulla parola precedentemente reificata. L’anabasi è lavorio, trasfigurazione sul e del significante. È riconnettere le parole con significati e con oggetti nuovi – con la «cosa», chioserebbe Adorno –, è ridar loro una nuova capacità fonetica e semantica: è recuperare l’esausto significante «patria» e chiamare «Gruppi di azione patriottica» le bande partigiane cittadine.

L’anabasi individua così la propria traiettoria, ritrova la parola dietro la quale un nuovo «insieme» può proteggersi e nell’erranza manifestarsi (la parola «rizzata a tenda» di Celan): il reduce di Russia, e con lui decine di migliaia di donne e uomini d’Europa, hanno trovato nella Resistenza un nuovo orizzonte all’interno del quale testimoniare la propria scelta; un orizzonte dove delineare la tensione etica rispetto alla quale piegare e foggiare la propria esistenza, la propria antropologia. Un’antropologia che non poggia, infatti, su una soggettività costitutiva; bensì si plasma e si educa, in ogni singola scelta, nella medesima sostanza umana che il partigiano condivide con il fascista. Il resistente smette di essere fascista – non nasce diverso dal fascista – quando sceglie di scegliere di non essere più tale. E qui sta l’elemento pratico, e non ontologico, della sua antropologia.

 

note

[1] I. Calvino, «Introduzione», in Xenophon, Anabasis, a cura di F. Ferrari, Rizzoli, Milano 2008, p. 8.

[2] Ivi, p. 9.

[3] Ivi, p. 8.

[4] Ibidem.

[5] Ivi, p. 8.

[6] Cfr. C. Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino 2006, pp. 23-41.

[7] N. Revelli, La guerra dei poveri, Einaudi, Torino 1962, p. 143; pagina di diario del 12 ottobre 1943.

[8] W. Benjamin, Per la critica della violenza, in Id., Angelus Novus. Saggi e frammenti, Einaudi, a cura di R. Solmi, Torino 1995, p. 28.

[9] W. Benjamin, Sul concetto di storia, tr. it. G. Bonola, M. Ranchetti, Einaudi, Torino 1997, p. 57.

[10] Cfr. G. Agamben, Categorie italiane. Studi di poetica e di letteratura, Laterza, Roma-Bari 2010, pp. 100-101.

[11] Cfr. A. Badiou, Manifesto per la filosofia, tr. it. F. Elfante, Cronopio, Napoli 2008, pp. 33-40.

[12] S. Forti, «Introduzione», in Id. (a cura di), La filosofia di fronte all’estremo. Totalitarismo e riflessione filosofica, Einaudi, Torino 2004, p. XI.

[13] A. Badiou, Metapolitica, tr. it. M. Bruzzese, Cronopio, Napoli 2001, p. 24.

[14] Id., L’etica. Saggio sulla coscienza del Male, tr. it. C. Pozzana, Pratiche Editrice, Parma 1994, p. 45.

[15] R. Battaglia, Un uomo, un partigiano, il Mulino, Bologna 2004 (1945¹), p. 113.

[16] Cfr. C. Luporini, Filosofi vecchi e nuovi, Editori Riuniti, Roma 1981, pp. 59-63.

[17] C. Dionisotti, Prospettive e concetti della guerra. L’individuo, in Id., Scritti sul fascismo e sulla Resistenza, Einaudi, Torino 2008, pp. 86-89. Frammento autografo databile all’inverno del 1944.

[18] Battaglia, Un uomo, un partigiano, cit., p. 114.

[19] A. Badiou, Il secolo, tr. it. V. Verdiani, Feltrinelli, Milano 2006, p. 98.

[20] Ibidem.

[21] Cfr. R. Esposito, L’origine della politica. Hannah Arendt o Simone Weil?, Donzelli, Roma 1996, cit., p. 44 – 45.

[22] Cfr. H. Arendt, Sulla rivoluzione, tr. it. M. Magrini, Einaudi, Torino 2006, p. 29.

[23] I. Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, Einaudi, Torino 2002, p. 147.

[24] Ivi, p. 153.

[25] Ivi, pp. 146-147.

[26] Cfr. Badiou, Il secolo, cit., p. 72.

[27] Cfr. ivi, pp. 71-73.

[28] Ivi, p. 72.

[29] Cfr. P. Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino 1991, p. 14.

[30] Cfr. O. Mandel’štam, Il secolo, in Id., Poesie 1921-1925, tr. it. S. Vitale, Guanda, Parma 1976, p. 37.

[31] W. Benjamin, I “Passages” di Parigi, in Id., Opere complete, a cura di E. Ganni, tr. it. G. Russo, Einaudi, Torino 2000, vol. IX, p. 516.

[32] Cfr. Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, cit., p. 10.

[33] Cfr. A. Zanzotto, Diplopie, sovrimpressioni (1945-1995), in Id., Sovrimpressioni, Mondadori, Milano 2001, pp. 37-38.

[34] Cfr. Fenoglio, Una questione privata, in Id., Romanzi e racconti, Einaudi, Torino 2001, p. 1124.

[35] Cfr. T.W. Adorno, Terminologia filosofica, tr. it. A. Solmi, Einaudi, Torino 2007, pp. 125-126.

[36] Ivi, p. 115.

[37] P. Celan, Anabasis, in Id., Poesie, a cura di G. Bevilacqua, Mondadori, Milano 2001, pp. 439-441.

[38] Cfr. Badiou, Il secolo, cit., p. 110. Alla sottile lettura della poesia di Celan qui offerta da Badiou si farà riferimento costante nel prosieguo del testo.

[39] Cfr. Benjamin, Sul concetto di storia, cit., p. 45.

[40] C. Dionisotti, Letteratura «partigiana», “Aretusa”, n. 17-18 (1946), p. 157.

[41] Badiou, Il secolo, cit., p. 112.

waybackmachine#03 Roberto Saviano “Su Gustaw Herling”

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Ogni domenica, noi redattori di Nazione Indiana ripubblicheremo testi apparsi nel passato, scritti o pubblicati da indiani o ex-indiani, e che ci sembra possano dirci ancora qualcosa dell’attuale : che ancora ci parlano, ancora aprono interstizi tra le maglie del presente, ancora muovono la riflessione.

3 marzo 2008

ROBERTO SAVIANO”Su Gustaw Herling”

In un unico amarissimo sorso, dovrebbe essere bevuto Un mondo a parte di Gustaw Herling che riappare presso Feltrinelli in edizione economica. Leggere tutto in una volta, subendo un pugno nelle viscere, uno schiaffo in pieno volto, sentendo la dignità squarciata, la paura di poter crollare prima o poi nello stesso girone infernale descritto nelle pagine. Un testo prezioso e tremendo, una testimonianza sui campi di concentramento sovietici, sulle barbarie compiute dal regime stalinista dell’URSS contro milioni di persone.

Gustaw Herling aveva vent’anni quando decise nel 1939 dopo l’invasione tedesca della Polonia, di attraversare il confine russo-lituano sperando di organizzare in Russia una resistenza anti-nazista. Fu però arrestato dalla polizia sovietica per il suo progetto. Tale episodio potrebbe sembrare una bizzarria è in realtà un tragico paradosso. L’URSS e la Germania avevano firmato nel 1939 un patto, il celebre patto Ribbentropp-Molotov che sanciva una relazione di non belligeranza tra i due stati. Herling quindi secondo la polizia segreta sovietica, tentando di fuoriuscire dalla Polonia per combattere la Germania aveva indirettamente cospirato contro l’URSS. La vita del giovane Gustaw venne così deportata ad Ercevo, campo di lavoro che faceva parte del comprensorio concentrazionario di Kargopol sul Mar Baltico. Un campo di lavoro adibito alla raccolta del legno per costruzioni, un vero e proprio centro industriale con linee ferroviarie ed un villaggio per il personale libero, tutto costruito e portato avanti con la forza lavoro dei prigionieri. La situazione materiale del campo era oltre ogni limite di sopportazione umana: 40 gradi sotto zero, un lavoro continuo e massacrante, orari diuturni, 300 grammi di pane più una mestolata di minestra. Herling descrive con abilità di storico la struttura organizzativa del campo, le gerarchie, i rapporti d’autorità. Nei campi vi erano diversi livelli di prigionieri, i “bytovik” ovvero criminali comuni con condanne brevi, poi v’erano i criminali efferati ed incalliti gli “urka”, veri e propri signori regnanti dei campi, infine i più numerosi erano i “belorucki”, i prigionieri politici. I belorucki erano i prigionieri con minore speranza di sopravvivenza, i più vessati e maggiormente caricati di fatica lavorativa. Gli urka avevano ogni diritto sugli altri prigionieri a loro era data la responsabilità di vigilare sul lavoro e sull’ortodossia politica dei prigionieri. Herling li descrive in modo tremendo: per tali uomini il pensiero della libertà è altrettanto ripugnante quanto l’idea del campo di lavoro per una persona normale. La parte maggiore dei prigionieri politici erano bolscevichi, comunisti, individui che avevano combattuto per la causa socialista. Il meccanismo staliniano era una sorta di serpe a spirale che procedendo nelle varie istituzioni, attraverso diverse generazioni, purgava, deportava, imprigionava, vecchi rivoluzionari comunisti, funzionari, dirigenti, che acquisivano troppo potere, oppure gente comune, persone qualsiasi che inconsapevolmente non agivano con ortodossia alla linea politica di Stalin. La delazione divenne ovviamente la regola di vita della società sovietica, usata spesso come strumento per tenere in scacco il proprio vicino, il collega di lavoro, i propri familiari. Denunciare per rovinare la carriera di qualcuno, per prendere il suo posto, o semplicemente per salvarsi la vita, era divenuta attività comune nella Russia di Stalin. Nei campi di prigionia sovietici il mezzo di oppressione e tortura era il lavoro. Usato come forma di distruzione, la fatica schiantava i corpi, riduceva i prigionieri alla febbre, alla cecità per avitaminosi. L’unico modo per cercare di sopravvivere era riuscire a farsi ricoverare. Gli ospedali sembravano chiese offrenti rifugio da una potentissima Inquisizione. L’automutilazione divenne così una prassi comune per poter trovare una pausa dal lavoro. Come in trincea durante la prima guerra mondiale i soldati si sparavano alle mani o alle gambe per poter essere spediti lontano dalla battaglia, così i prigionieri sovietici si amputavano con le asce le dita, le mani, si tagliavano le gambe, pur di trovare una pausa alla loro condanna. Dopo molti casi di automutilazioni, le autorità sovietiche si accorsero dell’autolesionismo e per combatterlo decisero di condannare tutti i feriti, sia accidentali che volontari, a continuare a lavorare: vidi un giovane prigioniero…riportato dalla foresta nel recinto con un piede amputato. In Un mondo a parte v’è una figura di prigioniero autolesionista, Kostylev, che è forse il personaggio maggiormente toccante del testo. Il racconto su Kostylev contiene in se non soltanto il valore della testimonianza ma uno spessore letterario che trasfigura la vicenda, caricandola di significati universali. Kostylev era stato un uomo che aveva dedicato la sua vita alla causa bolscevica. Ammirava come santi laici, i comunisti europei, idealizzandoli come combattenti per la libertà in un continente oppresso dalla borghesia. Arrivò ad imparare il francese per comprendere i discorsi di Thorez, segretario del Partito comunista francese. Iniziò a leggere Balzac, Sthendal, Constant, e trovò in quei testi un’aria diversa, mi sentivo come un uomo che, senza saperlo, era stato soffocato tutta la vita. Kostylev dopo quest’esperienza di lettore cambiò idea sull’occidente e sul bolscevismo. Abbandonò il lavoro di partito, concesse tutto il suo tempo alla lettura desideroso di conoscere le verità che gli erano state nascoste. I libri stranieri che si procurava clandestinamente, lo fecero arrestare. La polizia segreta lo accusò d’essere una spia e torturandolo fu costretto a confessare la mendace accusa. Dopo che Herling scoprì che Kostylev ustionava di sua volontà il suo braccio esponendolo alle fiamme vive, nacque tra loro una complice amicizia. Preferiva avere un braccio piagato e gonfio, piuttosto che lavorare per i suoi carcerieri. Nella baracca dove esentato dal lavoro Kostylev passava le giornate, non c’era attimo in cui non leggesse libri. Herling non capì mai come riuscisse a procurarseli ma non provò mai invidia per lui, semmai profonda ammirazione. La lettura che gli aveva cambiato l’esistenza portandolo nei campi di lavoro, continuò ad essere la maggiore espressione della sua umanità in quel girone infernale. Conservare, preservare, tutelare la propria umanità, era non solo impossibile ma persino letale in un campo di lavoro. Aiutare il compagno ferito, passargli del cibo era pericoloso non solo perché privandosi delle pochissime risorse materiali si rischiava di danneggiare il proprio già precario corpo, ma perché ogni elemento umano in quelle condizioni poteva far perdere i nervi, poteva far emergere la vita passata, insomma ricordare d’essere uomo in una condizione disumana è letale. La vita in un campo di prigionia può essere tollerata solo quando ogni criterio, ogni termine di paragone che si riferisca alla libertà, è stato completamente cancellato dallo spirito e dalla memoria del prigioniero. Il messaggio che non soltanto in questo testo ma che l’intera opera di Herling porta con sè, è racchiuso in una codificazione nuova della capacità di giudizio. Non è possibile giudicare un essere umano costretto in condizioni disumane. Il tradimento, la delazione, la prostrazione, la prostituzione generate dalla fame, dalla costrizione, dalla malattia, non possono essere considerati comportamenti umani seppur commessi da uomini. Sono giunto al convincimento che l’uomo può essere umano solo in condizioni umane, e considero assurdo il giudicarlo severamente dalle azioni che egli compie in condizioni disumane, come sarebbe assurdo misurare l’acqua con il fuoco.

Il sistema di repressione sovietico rappresentava quanto di più stupidamente burocratico potesse esistere sulla crosta terrestre. Ogni arresto doveva essere motivato, ufficialmente formalizzato. Migliaia di persone subirono le più stolte e sordide accuse: sabotaggio dell’industria sovietica, spionaggio, cospirazione contro la patria, tradimento, controrivoluzione. Attraverso queste condanne il sistema sovietico ostentava giustificazione ad ogni sua crisi, ad ogni rallentamento della pianificazione economica. Migliaia d’innocenti, spesso innocue persone e tutt’altro che nemici politici, furono tolti di mezzo, vittime di una spietata e illogica guerra interna. Nel campo di Ercevo Herling incontra un prigioniero denunciato alla NKVD (la terribile polizia segreta che poi prenderà il nome di KGB) perché da ubriaco aveva sparato un colpo alla fotografia di Stalin, centrandone un occhio. Per tale gesto fu condannato a 10 anni di prigionia! A differenza del sistema concentrazionario tedesco dove gli individui venivano gasati, massacrati ed arrestati, senza processi-farsa, ma soltanto per il loro essere ebrei, comunisti, testimoni di geova, omosessuali etc. il sistema sovietico estorceva confessioni, inventava piani di sabotaggio, costringeva a produrre assurde prove. Formalizzava ogni messa in scena: Non basta conficcare una pallottola nella testa di un uomo, deve egli stesso chiederla cortesemente al processo.

Gustaw Herling riuscì a salvarsi dal campo di lavoro perché fu, in quanto polacco, spedito tra le truppe comandate dal generale Anders. Dopo una peregrinazione a Baghdad, Mossul, Gerusalemme, Alessandria d’Egitto, approda in Italia dove ammalatosi di tifo trascorre la degenza a Sorrento incontrando la famiglia Croce. Quest’incontro sarà determinante poiché molti anni dopo Lidia Croce diverrà sua moglie da cui avrà due figli, Benedetto e Marta. Herling a Napoli trascorrerà gran parte della sua vita. Si dedicherà alla messa appunto delle sue opere e sino agli ultimi giorni scriverà il monumentale Diario scritto di notte. E’ un colosso narrativo composto da più di dodici volumi, in Italia è apparsa soltanto il primo volume che raccoglie gli scritti che vanno dal 1970 al 1987 (Diario scritto di notte, Feltrinelli 1992). Si affastellano in quest’impresa intellettuale ricordi, riflessioni filosofiche, momenti di profonda saggezza descrittiva, invettive, docili momenti di pigrizia. Si passeggia nel Diario scritto di notte, in un sistema geologico da esplorare in molteplici strati che si depositano così come emergono nel pensiero herlinghiano. S’incontra nel dedalo del Diario un episodio inquietante che ritrae Thomas Mann e Ignazio Silone discutere in Svizzera sul metro di paragone in base al quale giudicare i diversi sistemi politici. Silone risponde: Senza dubbio: basta determinare qual è il posto che è stato riservato all’opposizione. Mann invece: No, la verifica suprema è il posto che è stato riservato all’arte ed agli artisti. Herling che non tace un profondo fastidio nei confronti della postura estetizzante della prosa di Mann, traccia una profonda critica al sommo tedesco che risultava indulgente con il sistema sovietico analizzandolo esclusivamente attraverso le vendite di massa dei testi di Goethe che avvenivano in URSS. In Herling la necessità prima dell’intellettuale è presenziare al dolore umano, mantenersi sentinella della libertà umana non delegare mai ad altro il proprio imperativo di difesa della dignità umana. E tutto questo Mann, con la priorità all’arte, nonostante tutta la sua grandezza letteraria, lo negava. Ma nel Diario vi sono anche lacerti di memoria personale sono moltissimi e profondamente appassionanti, il racconto di un cagnolino trovato nel deserto iracheno durante la guerra ed amorevolmente curato da Herling, oppure la pagina scritta nel 1980 quando sono descritti gli attimi del terremoto che devastò Napoli, mirabili le tinteggiature dei volti identici dei terremotati irpini, lucani, partenopei, le voci, le fughe, gli assembramenti, l’assoluta impossibilità di prendersela con qualcuno. Eppure non pare questa narrazione diaristica esser un tracciato d’esperienza personale. Scritto di notte, il titolo segnala subito il ruolo in qualche modo postumo del pensiero, quasi come la nottola di Hegel che giunge tardi, quando il giorno è compiuto, la scrittura del Diario è una somma non di ciò che è capitato a se stesso, ma di ciò che è capitato attraverso se stesso. Un Io che diviene punto di partenza ma non elemento d’arrivo, che parte per un preciso motivo ma non conosce ovviamente il termine dello slancio. Un senso al motivo d’ispirazione per questo impegno intellettuale durato un’intera esistenza lo si può rintracciare in un frammento del testo Breve racconto di me stesso (L’ancora del mediterraneo 2001) curato da sua figlia Marta: Scrivo perché ho un bisogno interiore di confrontarmi con determinati problemi. Se vivi finché si vive di qualcosa si adempie alla propria missione. [..] Ho sempre desiderato lasciare qualcosa dopo di me, ma in realtà ho scritto unicamente per me stesso. Scrivo perché mi dà piacere.

Anche i testi pubblicati come opere compiute ed autonome sono parti del tessuto connettivo del Diario. I due racconti Requiem per il campanaro (L’ancora del mediterraneo 2002) e L’isola (L’ancora del mediterraneo 2003) sono narrazioni, terre emerse nella vastità degli oceani di parole della scrittura di Herling. Racconti in cui la traccia partenopea è fortissima, determinante almeno come in Don Ildebrando (Feltrinelli 1999) che assieme a Ritratto veneziano (Feltrinelli 1995) raccoglie i racconti più rilevanti ambientati a Napoli. In Don Ildebrando Herling prova ad affrescare il paesaggio italiano mantenendo la distanza dell’esule ma non celando una complicità da cittadino italiano d’adozione. In questo libro emerge la descrizione di una Napoli caotica e rutilante, determinata da una forza vorticosa che la sbatte dalla miseria dei lazzari, al barocco sontuoso della dominazione spagnola, spingendosi ad amalgamare gli aspetti scaramantici, popolari con le vette più alte del pensiero umano. E così nel racconto Ex Voto, appare il cuore di Napoli, il petto, il corpo, la Napoli più cara ad Herling quella dove abitava suo suocero Benedetto Croce, quella dove si erge la chiesa di San Domenico Maggiore dove Tommaso d’Aquino si formò e divenne sommo. Una Napoli che si costruisce piuttosto come una mappatura spirituale per Herling, che geografica o storica. La prosa dei racconti di Herling è elegante, rispettosa, piana, possiede un’appassionata razionalità che sembra fregarsene di ciò che in letteratura può essere definito come talento, guizzo fantasioso, o senso della frase. Una scrittura continua è quella di Herling, pronta a tracciare e comunicare piuttosto che ad esprimere, come la poetessa Cristina Campo ha scritto: in Herling [..] le grandi parole cerimoniali dell’orrore e della pietà traversano il suo discorso con la stessa naturalezza del vento autunnale fra gli alberi e della pioggia sui vetri.

Herling ha immesso l’ordito della sua qualità narrativa nella trama della testimonianza. Appaiono nei testi di Gustaw Herling una miriade di personaggi, che divengono tracce di un’orchestra della dannazione, che trascende la particolarità dei campi di lavorato sovietici, del terremoto, della persecuzione nazista, della sua esperienza di guerra, della Napoli appestata e diviene rappresentativa della condizione umana del secolo novecento. Forse è vero che ogni narrazione proveniente dal profondo della memoria dei fuoriusciti, dei salvati, si assomiglia. Le pagine di Levi, Salomov, Herling, Wiesel, hanno un patrimonio genetico simile che ancor prima d’essere determinato dalla comune barbarie subita è accomunato dalla volontà di perdono. Nelle parole finali, nei giudizi accennati, nella ricognizione del dolore, questi autori hanno scritto per concedere all’umana genia la possibilità di vivere diversamente, di non dimenticare proprio al fine di essere diversi. Non sarà possibile sapere se questi autori hanno perdonato i loro secondini, i loro banali aguzzini, e in fondo non è importante, è però necessario comprendere se essi hanno perdonato l’esecutore primo della barbarie: l’essere umano. Lasciare memoria, scrivere, è in qualche modo un attestato di fiducia verso l’uomo, verso le nuove generazioni. Il ricordo tremendo, insomma, come promessa o speranza di un nuovo percorso umano.

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Pubblicato su Pulp n. 48

 

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Dora Pal e l’inquietudine

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di Daniele Barbieri

 

La poesia di Ida Travi mi rende inquieto. Leggendo Dora Pal. La terra, sua raccolta appena uscita, nella quale si continua il discorso iniziato tre libri prima, dando voce ai personaggi di un mondo che non esiste ma nonostante questo esiste, leggendo Dora Pal si ha al tempo stesso la sensazione di capire tutto e di non capire quasi niente, come se un’apparenza di facilità, di semplicità quotidiana, rivelasse in realtà una sorta di abisso di cui non si scorge il fondo. Ho vissuto, nel leggere in sequenza la serie di componimenti che costituisce la raccolta, la singolare esperienza di un etnologo che si trova di fronte a una cultura stranamente familiare e al tempo stesso sconosciuta, come un Ernesto De Martino nella sua terra del rimorso, alla ricerca di configurazioni che fossero in grado di darmi ragione di quei comportamenti così intimamente diversi, però anche stranamente familiari.

Ma il piccolo mondo dei Tolki, il popolo immaginario cui pure la vecchia Dora appartiene, è già all’origine una creazione letteraria, creata apposta per produrre nel suo lettore un’irriducibile sensazione di spaesamento dentro il consueto, dove lo schema esplicativo rassicurante applicabile dall’etnologo in qualsiasi terra del rimorso non può essere davvero applicato. E il lettore è condannato a rimanere lì, appeso a questa identità che è insieme un’alterità, a questa oscillazione tra l’altrove e il qui.

Intanto, dunque, le parole. Le parole di Ida Travi sono semplici, quasi banali, anche nel loro fare riferimento spesso a temi del poetichese più trito: la luna, il cuore, il bambino… Ma il poetichese, il lirismo d’accatto, la banalità delle parole che la poesia non sopporta più perché le ha sopportate troppo in passato, qui è già svanito quando queste parole entrano nel gioco, con un particolare effetto di straniamento che permette incredibilmente di recuperare quello che sembrerebbe irrecuperabile.

Questo mi interessa capire: che cos’è che permette a queste parole consumate di riprendere in maniera quasi spaventosa la loro forza?

Può darsi che la ricerca di una risposta possa partire da un’analisi dell’io lirico. Dora Pal, il nome di donna che costituisce il titolo dell’opera, è anche il soggetto dell’enunciazione di tutto quello che viene detto, poesia dopo poesia. Una strategia di tipo teatrale, indubbiamente, che mette fuori gioco l’io lirico tradizionale, emanazione del poeta, e se non basta di per sé a ridar senso alle parole consunte, tuttavia certamente aiuta: non sono, quelle parole, infatti, emanazione della proiezione dell’autore, ma testimonianza della voce di una persona umile, ingenua, appartenente a una cultura che non ha ancora vissuto la consunzione del linguaggio poetico, e che – lei – non sa nemmeno di stare esprimendo in poesia. La poesia sta piuttosto nel modo in cui le sue parole vengono trascelte tra le tante, fatte uscire per un attimo dall’ombra in cui sembrano vivere, e recuperate a noi. La poesia sta nel senso di familiarità e distanza che questi frammenti di discorso ci evocano.

Non manca molto allo scadere del secolo dagli anni in cui Federico García Lorca cercava di dar voce all’epica popolare con il suo Romancero Gitano. In quelle poesie indimenticabili, García Lorca compiva un’operazione simile, spostando l’io lirico al di fuori di sé, dando voce alla voce del suo popolo mitico. Ma García Lorca, ragione o meno che avesse, poteva davvero pensare che il suo popolo esisteva, e che persino i suoi lettori potessero riconoscersi come sua parte. Si trattava di risvegliare un’identità culturale dimenticata, quella di Góngora e di Lope de Vega, traduttori colti di uno spirito popolare, ma anche, tre secoli prima di loro, quella del Romancero e del Cancionero, le raccolte di versi anonimi medioevali con cui ha origine la poesia spagnola.

Questa pretesa non esiste nella poesia di Ida Travi, e nemmeno avrebbe senso. Della cantabilità straordinaria, del duende dei versi di García Lorca, qui rimane solo una sfarfallante incertezza, un baluginare di inquietudini. Mentre quello di García Lorca è un nuovo Romancero, in cui il poeta si fa voce di un canto che è comunque sin dall’inizio corale, e come tale continua a presentarsi, qui la voce di Dora Pal non canta affatto, limitandosi a parlare a chi le sta intorno (non direttamente a noi), esprimendo i suoi crucci e implicitamente la sua visione delle cose – però implicitamente, cioè come si fa con chi già la condivide, e non esplicitamente, come va fatto con chi non la conosce.

Da qui l’effetto dominante di un discorso che ci arriva come colto dal buco della serratura, quasi spiato da fuori, proprio come – appunto – potrebbe arrivare a un etnologo, che non è parte della comunità che sta studiando (che sta spiando). E anche l’effetto poetico sembra sortire quasi di nascosto, quasi di sorpresa, come fosse non voluto dalla voce di chi parla. È probabilmente anche questo a renderci così facilmente tollerabili, a renderci – nonostante tutto – così veri quei termini tanto consunti: è che la poesia, qui, non si fa attraverso di loro. Essi appartengono all’eloquio quotidiano di Dora, al suo rivolgersi a Zet, a Kiv. La poesia è come se venisse fuori, ancora implicitamente, dalla sorpresa per la coincidenza tra questa piccola retorica del quotidiano (le ripetizioni, gli anacoluti, gli accostamenti analogici…) e la retorica alta della poesia, due dimensioni differenti che i versi di Travi ci fanno scoprire perfettamente sovrapponibili – così che ciascuna fornisce all’altra una dimensione diversa, e il quotidiano diventa poetico, e il poetico si immerge nel quotidiano. Ma al tempo stesso questo quotidiano così poetico non è esattamente il nostro, e neanche quello dei nostri nonni (che pure, qua e là, sembra poter essere), bensì un’ordinarietà che non smette di essere aliena, magari proprio per il suo essere implicitamente così poetica.

Del resto, lo straniamento dell’io è un fenomeno che abita la poesia di Ida Travi già da prima dei quattro (sino ad ora) libri che costituiscono la saga dei Tolki. Magari la voce esterna che parla nelle poesie, per esempio, de La corsa dei fuochi non ha un nome preciso come qui, e nemmeno un contesto così definito, con degli interlocutori precisi, anche loro dotati di nome; però è già una voce altra, che parla da fuori, la voce di personaggi – personaggi che, peraltro, non hanno che quella voce, che sono definiti solo da quello che dicono, però esterni all’io del poeta, proiezioni quasi teatrali, estraniazioni.

Ma, a sentire la stessa Travi, la prospettiva di estraniazione si troverebbe già nell’essenza della poesia. Ne L’aspetto orale della poesia l’origine della vocalità poetica veniva tentativamente individuata nelle sonorità del rapporto tra il neonato e la madre, cioè nel rapporto tra qualcosa che non è ancora un soggetto e qualcosa che ha momentaneamente (e parzialmente) rinunciato a esserlo per entrare in sintonia col bambino. La voce della poesia è quindi fuori dal soggetto, gli preesiste. Non ne deriva; semmai contribuisce a formarlo.

Forse è proprio perché abita questa dimensione conturbantemente pre-soggettuale, che la poesia di Ida Travi non smette di inquietarmi, di proiettarmi in un altrove che non capisco bene dove sia, sebbene evidentemente non lontano.

 

***

 

Da Ida Travi, Dora Pal. La terra, Bergamo, Moretti & Vitali, 2017

 

 

Chi sono i Tolki? I parlanti. Per slittamento sonoro e di senso dell’antico verbo all’infinito ‘to talk’.

Esseri sacri e miserabili, misteriosi e semplici.

Penso a un Tolki come a un parlêtre, un essere marchiato dal linguaggio. Parlêtre è un neologismo di Lacan che fonde l’essere al linguaggio, nell’atto della pronuncia. Vedo i Tolki come lavoranti o non lavoranti, esseri che nello scontro con la poesia assumono su se stessi il peso d’un linguaggio povero, duro come una colpa, leggero come una liberazione.

 

Ida Travi, Il mio nome è Inna

 

*

 

Lo vedi se sollevi il piatto
è sotto la tovaglia, sotto lo zerbino

 

Ma tu non alzi lo zerbino, Zet
hai paura?

 

Cosa ti spaventa di più
la tempesta o lo zerbino?

 

– Zet, dillo! –

 

Scalpita il cavallo, sotto l’insegna
polverosa, rotta.

 

*

 

Presto crescerà l’insalata e tu potrai mangiarla
non c’è bisogno di chiedere il permesso

 

– è tua –

 

È pazza l’insalata, non sa niente
butta fuori le foglie per niente
spinge fuori la testa per niente…

 

Nessuno le ha detto niente
nessuno le voleva bene

 

*

 

Cosa volete da me?
Non sono la maestra, io
il fuoco ce l’avete
che volete ancora?

 

Sull’immobile terra
roteava l’anello
roteava la pietra
e il mattone, il mattone
anche lui roteava
come un bambino

 

Povero anello
povero bambino
solo.

 

*

 

Hai sentito la mandria? Trottava verso noi
era tutto un tempestare sopra il vetro – sicuro! –
trottava contro il cerchio della luna

 

– quale luna? –

 

Basterebbe una preghiera detta bene
detta con la punta delle dita, basterebbe
martellare appena. Appena, appena…
anche contro la nostra volontà

 

come fa il picchio nero, sopra la barriera rossa.

 

*

 

Ha perso la parola là
dove è caduta la goccia

 

Scende fino al giaciglio rosso

 

Fino al lumino rosso
dove sospira e soffia
– ah! –

Burger Queen

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di Elisa Sabatinelli

SWNS_BABY_01-870x652La prima volta che ti ho mollato è stata per andare al Burger King.
Salotto, tardo pomeriggio di fine luglio, finestre e persiane chiuse, ventilatore acceso.
Un silenzio dolce e pacifico invade la casa: è quello della tua vita appena nata e della giornata accaldata che giunge al termine quando le biciclette rientrano dal mare.
Siamo nel salotto dei miei genitori, io seduta sul divano, tu nella carrozzina al centro della stanza e tutto intorno, a corolla, volti di famigliari in estasi.

L’operaio e il capitale. L’utopia realista di Philippe Poutou

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di Jamila Mascat*

A pochi giorni dal primo turno delle presidenziali francesi, che secondo alcuni sondaggi favorirebbe Emmanuel Macron, Marine Le Pen e Jean-Luc Mélenchon, l’extrême gauche ha fatto irruzione nel dibattito elettorale grazie agli exploit televisivi irriverenti del candidato, operaio Ford, del Nouveau Parti Anticapitaliste.

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*Questo articolo è stato pubblicato sul manifesto del 16 aprile 2017

Una maglietta qualunque, bianca, di cotone, a maniche lunghe. Philippe Poutou, il candidato alle presidenziali del Nouveau Parti Anticapitaliste (NPA), la sbandiera come un trofeo tra gli applausi della folla in apertura del meeting di Reims, una settimana dopo il Grand Débat televisivo del 4 aprile a cui ha partecipato senza giacca né cravatta, proprio con quella maglia arrotolata fino ai gomiti, a fianco degli altri dieci pretendenti all’Eliseo, tutti rigorosamente più eleganti di lui. Un indumento banale – una “canottiera” secondo l’ex ministro della Pubblica Istruzione Luc Ferry, un indumento inqualificabile per Natacha Polony su Le Figaro, un “pigiama” per la deputata del Fronte Nazionale, Marion Maréchal-Le Pen, nipote di Marine – che ha scatenato una raffica di tweet incandescenti e resterà negli annali di questa campagna elettorale, forse la più sofferta e la meno scontata degli ultimi cinquant’anni.

A soffrire di questi tempi è soprattutto il Partito Socialista (PS) di François Hollande e Manuel Valls, grande artefice e prima vittima della riforma del lavoro El Khomri, che oggi guidato da un esponente dell’ala sinistra, Benoit Hamon, rincorre affannosamente il traguardo del 10% senza avere alcuna possibilità di qualificarsi al secondo turno. Se mesi di proteste contro la Loi Travail erano stati un’ avvisaglia, ora il disagio elettorale arriva come una conferma : tout le monde déteste le PS.  Ma non sarà necessariamente il centrodestra, a beneficiare della caduta libera dei socialisti, per colpa delle sciagurate vicende giudiziarie di François Fillon, indagato per “appropriazione indebita di fondi pubblici”. Le proiezioni di voto annunciano il sorpasso del suo partito, Les Républicains, da parte della France Insoumise di Jean-Luc Mélenchon e prefigurano uno scenario inedito e inaspettato per il primo turno, con in testa il nuovo centro (En Marche) di Emmanuel Macron, l’extrême droite di Marine Le Pen e la gauche di Mélenchon.

Congratulazioni

Non è stata solo la maglietta poco elegante di un metalmeccanico dello stabilimento Ford di Blanquefort, a Bordeaux, a imporsi all’attenzione del pubblico e dei giornalisti. Philippe Poutou, il più sfrontato dei “piccoli” candidati, è riuscito a infrangere in un colpo solo tutte le regole del galateo che le circostanza d’eccezione imponeva. Già prima dell’inizio del confronto televisivo aveva rifiutato di stringere la mano a Macron, Fillon e Le Pen e di posare nella foto di gruppo con gli altri pretendenti – “non è una foto di famiglia e non sono i miei colleghi”.

Durante tutta la diretta si è voltato più di una volta per rivolgersi ai suoi compagni seduti tra il pubblico, dando le spalle alle telecamere, tanto da suscitare una curiosità irresistibile sui social network. “Cosa avrà bisbigliato mai Poutou ai suoi amici?” si domandava Buzzfeed. Disarmante, la risposta di Philippe – “gli chiedevo un parere, per sapere se ero intervenuto bene e avevo detto cose giuste” – ha commosso una giornalista de L’Obs/Rue 89, che ha voluto rendere omaggio a tanta irresistibile modestia nel titolo del suo articolo: “Internet, sappi che Philippe Poutou è ancora più fico di quello che pensi”.

Ai “grandi” candidati, il portavoce dell’NPA ha risposto per le rime. Ha spiegato a Macron – ex banchiere di Rothschild e ex ministro dell’economia del governo di Manuel Valls, perché quando parla di lavoro ordinario è evidente che non sappia cosa di cosa parli. Ha detto a Fillon quello che tutti avrebbero voluto, ma nessuno ha osato dirgli, accusandolo sfacciatamente di corruzione. E come se non bastasse, ha svelato i privilegi di casta della candidata più fintamente anti-casta di tutto il firmamento elettorale francese, Marine Le Pen, che convocata dai giudici per un’inchiesta sugli impieghi fittizi dei suoi assistenti parlamentari a Strasburgo, ha potuto rinviare il suo interrogatorio, facendo appello all’immunità parlamentare di cui gode in qualità di eurodeputata. “Noi non abbiamo l’immunità operaia: quando la polizia ci convoca, dobbiamo andare”.

È stato un elettroshock per tutti. Per i commentatori televisivi della serata che nonostante una buona dose di snobismo e condiscendenza, hanno faticato a digerire “l’insolenza volgare “ di Poutou e della sua barba incolta, e per i “grandi” candidati che il giorno successivo hanno fatto sapere per bocca dei loro portavoce di non voler più partecipare a un secondo round del dibattito a 11 come previsto all’inizio per il 20 aprile. Ma la performance di Poutou ha scosso soprattutto il pubblico della diretta – quasi sei milioni e mezzo di telespettatori – che hanno dimostrato di apprezzare le virtù di un politico non professionista: non un dilettante allo sbaraglio come vorrebbe Madame Le Pen, ma un militante abituato a una politica diversa, che non si decide nei palazzi, che non si discute in completi scuri, che non beneficia di nessun privilegio di fronte alla giustizia, ma al contrario paga il prezzo delle lotte affrontando la repressione brutale degli ultimi tempi. Philippe è un lavoratore che passa 30 ore a settimana a fare manutenzione in officina, e per questo insiste sulla riduzione dell’orario di lavoro: lavorare meno per lavorare tutti. Un sindacalista della CGT (per 20 ore al mese) che conosce bene il diritto del lavoro e le infrazioni da parte delle imprese, e che da anni si batte contro la chiusura del suo stabilimento Ford a Blanquefort. Un cittadino che paga le tasse in proporzione a quel che possiede (che non è molto: una Peugeot 3008 e qualche migliaio di euro sul conto in banca, secondo la dichiarazione dei redditi del 2016 resa pubblica dalla Corte Costituzionale dopo l’approvazione della sua candidatura alle presidenziali).

Il suo ingresso irriverente nel dibattito ufficiale è stato un cortocircuito che anche opinionisti non sospetti hanno salutato favorevolmente. Un “missile Scud” per Le Monde, “un’eroe popolare” per il New York Times,  e soprattutto un’”irruzione di realtà”, secondo Mediapart, che ha avuto l’effetto di un secchio d’acqua in faccia a una classe politica non completamente impermeabile.

 

Campagna euforica

Sabato scorso nella piazza del mercato di Saint Denis, banlieue nord di Parigi, si gira uno degli spot ufficiali della campagna di Poutou che dal 10 aprile scorso vengono trasmessi ufficialmente in TV. Il set è un grande flash mob che si dimena davanti alla basilica sulla Place de la République, a poche decine di metri dalla rue du Corbillon, resa nota dall’assalto lanciato al civico 48 da un centinaio di uomini dell’antiterrorismo contro i responsabili dell’attentato del Bataclan. Periferia usurata dalla droga, dal crimine, dalla discriminazione, e bersaglio degli interventi a dir poco maldestri della Bac (Brigade anti-criminalité) – che il 7 marzo, per esempio, ha fatto incursione nel liceo Suger e arrestato 55 studenti rimasti in stato di fermo per oltre 24 ore – Saint Denis non è una location di finzione, ma uno dei tanti volti del paese reale. Sono una cinquantina i militanti dell’NPA di tutte le età – dai 2 agli over 60 – che partecipano alle riprese, insieme a un’equipe di ballerini professionisti. Hugo Chesner, il regista che aveva già diretto gli spot della campagna 2012, spiega al megafono di che si tratta: “Preparatevi a una lotta a passo di danza. Non è tanto diverso da una manifestazione”. Ma dopo due ore di prove Konan, il coreografo, non è ancora soddisfatto. “No, non ci siamo capiti, ci vuole più energia. Pensate a Poutou contro Le Pen e fate come lui!”.

Philippe intanto si aggira sulla piazza, stringe la mano di chi va a salutarlo, si lascia intontire di foto dai passanti, scatta selfie con uno sciame di adolescenti che spudoratamente giurano che dal vivo è anche più bello che in tv, abbraccia una signora velata sulla sessantina che vuole a tutti i costi congratularsi con lui, rilascia qualche intervista e soprattutto si gode lo spettacolo. Quelli che proprio non riescono a ballare ripiegano sullo sventolamento delle bandiere rosse che pure fanno parte della coreografia. Le riprese vanno avanti fino alle 4 del pomeriggio. C’è chi è sfinito e giura che avrebbe preferito volantinare all’alba o attacchinare di notte piuttosto che darsi alle danze. Ma per fortuna c’è anche chi si è divertito. “Secondo me è venuto bene, dice Clémence. E poi sarà sicuramente l’unico clip con un corpo di ballo!”. Per le ultime due settimane di campagna Hugo ha immaginato una web-series a puntate dove Philippe interviene come un supereroe contro le vessazioni di Mr. Capital, contro il sessismo, lo sfruttamento e la discriminazione.

Il video di Saint Denis, invece, è quello sui cui verrà registrata la lettera aperta di Poutou agli elettori, che si conclude più o meno così: “Lo sappiamo che queste elezioni non ci cambieranno la vita. Ma votare per un operaio e per un programma anticapitalista è un modo per dire che non finisce qua”.

Come già nel corso delle campagne precedenti, gli spot dell NPA cercano di rispecchiare lo spirito del partito: possibilmente contro corrente, senza prendersi troppo sul serio, rifiutano il culto della personalità. Eppure Philippe a suo modo è diventato sorprendentemente un cult e la cosa fa sorridere i compagni e le compagne che lo conoscono da tempo. Nel 2012 alla sua prima prova elettorale era il candidato che nessuno conosceva e che in fondo nessuno desiderava conoscere, destinato a rimpiazzare un predecessore giovane e carismatico come Olivier Besancenot, senza riuscire a eguagliarlo in fatto di eloquenza, popolarità e voti (la Ligue Communiste Révolutionnaire di Besancenot nel 2007 aveva raggiunto il 4,08 %, mentre nel 2012 l’NPA di Poutou, il suo successore, si era fermato all’1,15 %, pari a 411.160 voti). All’epoca per presentarsi agli elettori Philippe aveva pubblicato un libretto di cinquanta pagine intitolato Un ouvrier est là pour fermer sa guele (Un operaio farebbe meglio a stare zitto). Nel frattempo ha imparato parlare come si deve, incassando i complimenti della stampa internazionale. “Va molto meglio, ma è soprattutto un lavoro di squadra”, ci tiene a precisare, “supportato da un nucleo determinato di militanti molto attivi che lavorano per questa campagna già da prima che esistesse”. Si riferisce alla campagna pre-elettorale, la corsa a ostacoli per raccogliere le 500 firme di sindaci o deputati che, in base ai requisiti della legge francese, gli avrebbero permesso di partecipare alla corsa all’Eliseo. Senza l’impegno ostinato di tanti volenterosi che hanno percorso la Francia in lungo e in largo per perorare la causa della sua candidatura, Poutou non ce l’avrebbe fatta.

Poi risponde alle domande del pubblico, sulle energie rinnovabili, i trasporti pubblici e gratuiti, i Territori Occupati, le pensioni. E ritorna al punto di partenza: “Dicono che siamo poco credibili. Ma che Bernard Arnault, il presidente di LVMH (il gruppo che possiede il marchio Louis Vuitton) abbia un patrimonio di 40 miliardi di euro, non è ancora più incredibile? Mentre se noi parliamo della necessità di garantire alla gente di poter vivere di quello che guadagna, o di assistenza sanitaria gratuita, o di diritto alla casa, ci sentiamo ripetere che è impossibile, inimmaginabile, fantasioso, un’utopia. Vi pare logico?”.

L’ha ripetuto venerdì a Lille – “Ma perché quando sono le banche a rubare è normale, e se noi diciamo “espropriazione” invece è assurdo?” – e poi di nuovo forte e chiaro in un’intervista rilasciata a Libération : “Cent’anni fa anche le ferie pagate erano un’utopia. Ma le conquiste sociali non sono mai piovute dall’alto. Non sono mica stati i padroni spontaneamente a rendersi conto che il lavoro minorile fosse un’aberrazione”.

Alla convinzione diffusa per cui, parafrasando Fredric Jameson, è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo, Philippe obietta una convinzione ostinatamente contraria: la consapevolezza che è impossibile riformare questo sistema per renderlo vivibile dignitosamente per tutti. “Ci dicono che le cose non possono essere altrimenti. Ma chi l’ha detto che hanno ragione loro? E poi non possiamo permetterci il lusso di privarci della possibilità di pensare e volere qualcosa di diverso”.

Questione di desideri, di diritti, di rapporti di forza e di lotte, di vite che si ribellano contro i profitti che le negano. Queste sono le parole d’ordine intorno a cui Philippe Poutou ha costruito la sua campagna elettorale (Nos vies, pas leur profits) – a volte intercalandole a qualche parolaccia per irritare meglio i benpensanti. “C’è tanta rabbia in giro di questi tempi e con ragione. Ma non è tutta destinata ad andare in pasto al Front National. Le Pen ha un vantaggio: in una fase di merda come quella attuale sono gli argomenti peggiori, all’altezza della situazione, che riescono imporsi. La scommessa è tirare fuori da questa collera diffusa qualcosa di buono: la rabbia, la coesione e la solidarietà”.

Più facile a dirsi che a farsi, certo. Ma il semplice fatto di avanzare una prospettiva simile contro il fatalismo disperante e martellante che vuole che le classi popolari siano tutte risolutamente protese a destra, getta una luce diversa sulle ombre della politica francese, che pare trovare conferma nell’ascensione di Mélenchon nei sondaggi e nell’improvviso entusiasmo suscitato dal caso Poutou.

 

Che razza di popolo?

Il bilancio virtuale è strepitoso. Quadruplicati i likes sulla sua pagina Facebook, Poutou è in testa al Twitter Politique essendo il candidato più nominato sulla rete, mentre il video della sua stangata a Fillon e Le Pen durante il dibattito televisivo del 4 aprile ( « Philippe Poutou fustige la corruption» ) è in pole position sulla pagina politica del sito di Le Monde, con 4 milioni mezzo di visualizzazioni. Intanto i meeting si susseguono e raddoppiano i numeri dei partecipanti, molti dei curiosi che vengono a conoscerlo di persona. Che ogni like diventi un voto è cosa tutt’altro che scontata. Poutou piace e dispiace; e chi ne ha condiviso l’intervento salutare contro la casta corrotta non è necessariamente sulla sua stessa lunghezza d’onda per quanto riguarda tutto il resto. Contro di lui si è scagliato l’ex direttore di L’Express, Christophe Barbier, con un editoriale intitolato “Poutou est quelqu’un de dangereux, che a pensarci bene in fondo è un complimento. Per contrastare l’immagine del candidato “normale”, Barbier sbandiera la minaccia bolscevica e taccia di questa pericolosa collocazione ideologica sia Poutou che Nathalie Artaud, la candidata alle presidenziali di Lutte Ouvrière, l’altra storica formazione trotskista dell’extrême gauche francese.

Da una prospettiva molto diversa, gli elettori della France Insoumise di Mélenchon vorrebbero che Poutou si facesse da parte, lanciando la parola d’ordine del voto utile a sinistra e puntando sull’eleggibilità del loro candidato al secondo turno.

“Mélenchon non è un nemico”, ha ripetuto Poutou in tante occasioni. “Ma non siamo interscambiabili. E il voto utile alla fine è il voto calcolato in funzione di quello che dicono i sondaggi. Se non ci fossero i sondaggi, voteremmo per le idee che ci rappresentano”. I sostenitori di Philippe sono d’accordo: “Poutou non è Mélenchon. C’è differenza tra una campagna popolare e una campagna populista”, spiega Corinne Rozenne, redattrice di Révolution Permanente, alludendo a un’intervista a Chantal Mouffe pubblicata pochi giorni fa su Le Figaro, che incorona il “populismo di sinistra” di Mélenchon e accusa le altre opzioni di non capire gli orientamenti della congiuntura politica attuale.

A dispetto del suo conclamato realismo politico, la prospettiva di Mouffe le pare la più irreale di tutte. Abbracciare un “patriottismo di sinistra” per parlare al cuore degli elettori e inventare il “frontenazionalismo della gauche”, le sembrano entrambe ipotesi improponibili. “O forse sono praticabili, ma allora bisogna fare finta che la République, anche nella fantomatica VI versione invocata da Mélenchon, non sia quello è. Il che non mi pare così realista”. Contro la “lepenizzazione” dilagante del dibattito politico che ha fatto dei temi della sicurezza, del protezionismo, della patria da difendere, delle frontiere da salvare e dalla tradizione da preservare, il denominatore comune di questa campagna (le domande a cui tutte le forze politiche sono state indirettamente chiamate a rispondere), Poutou ha scelto deliberatamente di sollevare altre questioni.

Se per contenere la deriva verso un nazionalismo reputato “delirante”, il Consiglio Superiore dell’Audiovisuale ha deciso di vietare la marseilllaise e le bandiere francesi dagli spot elettorali, Poutou da parte sua ha puntato tutto sull’internazionalismo: lo sciopero generale in Guyana, il popolo kurdo, i rifugiati siriani. “Se parliamo di passioni, appassioniamoci alla solidarietà invece che alla paura e a casa nostra”.
Poutou perciò sembra ancora più necessario in questa configurazione elettorale che nella precedente. Secondo Emmanuel Barot, professore di filosofia all’università di Toulouse-Mirail e militante dell’NPA, “Poutou dice a voce alta quello che molti pensano a voce bassa”. Ma soprattutto dice cose che altri non dicono e non fa cose che altri fanno. A differenza di Mélenchon, non cosparge i suoi meeting con le tinte del tricolore, non invoca la Repubblica universale di De Gaulle e Mitterrand, non pensa che “il popolo (tout court) sia la soluzione”, non difende ad ogni costo l’idea ormai abusata di una laicità che esclude più di quanto non includa, non ammicca al sovranismo di sinistra.

Piuttosto, dice a chiare lettere no all’islamofobia e basta allo stato d’emergenza; spiega che il razzismo di stato è un problema serio e punta il dito contro la sua inestirpabile radice coloniale, denunciando la criminalizzazione dei giovani nei quartiers populaires. Femminismo, anticapitalismo, antimperialismo sono parole che non esistono nel programma di Mélenchon, l’Avenir en commun. C’è chi obietta che sono solo parole e per giunta desuete. Ma sono parole a cui una parte del popolo della sinistra non è disposto a rinunciare.

Per questo è tutt’altro che inutile che Poutou continui a dar voce al proprio dissenso all’interno del dibattito elettorale, approfittando del fatto che il suo discorso è riuscito a fare breccia, con buona pace di Marine Le Pen, apparentemente incrinata nella scalata dei sondaggi da un avversario – “un’arma di distruzione di massa” secondo il settimanale d’economia Challenges tutto dalla parte di Macron – che la deputata ha sprezzantemente accusato di essere un “catcheur”, un politico da wrestling.

In un articolo dedicato al wrestling del 1958, «Il mondo del catch», Roland Barthes analizzava le caratteristiche di uno sport che, insieme alla boxe, ha sempre fatto parte del patrimonio della cultura popolare. “La funzione del lottatore non è di vincere, spiega Barthes, ma di compiere esattamente i gesti che ci si aspettano da lui”. E Philippe Poutou ha fatto e continua fare quello che milioni di persone si aspettano che faccia. E’ così che anche chi non avrebbe mai voluto, è stato costretto a smettere di ridere e di deriderlo per rispondergli.

In attesa del verdetto del voto (per Poutou un mezzo e non un fine, dal momento che la politica non si riduce ai seggi elettorali), che il buon senso dell’extrême gauche contro le insensate ingiustizie di questa società sia diventato senso comune per bocca di un “lottatore” è in ogni caso un’ottima notizia.

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Durante le riprese dello spot elettorale dell’NPA. Saint Denis, 8 aprile 2017

 

La notte ha la sua voce

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di Mario De Santis

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Durante una lettura di poesie all’Istituto dei Ciechi di Milano, i non vedenti presenti raccontavano delle possibilità di poter comprendere il senso e la visione di un testo anche senza aver mai visto il particolare dettaglio di una cosa nominata, un colore o la luce stessa. Il romanzo di Alessandra Sarchi “La notte ha la mia voce” (Einaudi, 2017, p. 165) racconta di un’evoluzione, di una trasformazione interiore, nonostante – e in qualche modo anche “a partire da” – limite del corpo. Un romanzo sulle possibilità che ha il corpo, tutti i corpi, di annullare confini che siano mancanze reali o semplicemente il limite che tutti i corpi hanno. L’elemento chiave di questa storia non a caso, ruota attorno come vedremo, ad una voce senza corpo, che cuore del libro fino a darle il titolo.

Senza figli? No, Lunàdiga

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di Francesca Matteoni

Lunàdiga è la pecora che, pur fertile, non si riproduce. Singolare, strana, anticonformista, lunatica, dove è la luna più misteriosa con il suo aspetto imprevedibile a prevalere sulla luna crescente prima e piena poi. “Ha la luna di traverso”, si dice di qualcuna o qualcuno il cui umore non è armonizzato con gli altri – è giallo quando intorno tutto è fuxia, è storto quando il mondo è dritto, fa perdere la pazienza o fare spallucce, o forse è solo che la sintonia è altrove, non con l’esterno, ma con il sé, l’interno? Che l’armonia non è qualcosa di predeterminato e fisso, ma piuttosto un concetto o un sentimento fluido, ricco e quindi vario?

Con in testa questo desiderio di varietà, ma anche la pecora che non ci sta, la luna che sparisce o mostra una faccia di fondo enigmatica, o più semplicemente con in testa e nel corpo la mia vita, mi sono avvicinata alla visione di Lunàdigas, film documentario realizzato da Nicoletta Nesler e Marilisa Piga che ha al centro proprio le storie di donne senza figli, raccolte in quasi dieci anni di incontri e video-interviste: donne note e meno note, dai mondi dell’attivismo politico, culturale, sociale, della scienza, della scrittura e dell’associazionismo, varie per esperienza e provenienza geografica, che si alternano ai Monologhi impossibili, scritti da Carlo A. Borghi e interpretati da Monica Trettel, dove parlano donne dal mito, dalla storia, dalla moda e perfino qualcuna piuttosto famosa dal microcosmo delle Bambole.  Dunque Lunàdigas fa subito due cose molto importanti: primo colma un vuoto imbarazzante, affrontando con ironia, curiosità e la giusta delicatezza l’essere donna dal punto di vista di chi non diventa madre (per scelta o per destino); secondo dà un nome che finalmente afferma. Trovarsi definite per negazione o assenza di qualcosa porta sempre con sé il bisogno di giustificarsi, come se ci fosse una colpa non detta nella nostra scelta, come se il materno dovesse per forza coincidere con il divenire madre biologica, mentre chiunque si interroghi sul suo significato con quel briciolo di intelligenza e onestà necessarie, saprà molto bene che il materno è l’aver cura, la spinta nel mondo e l’abbraccio che suggeriscono a chiunque, al più piccolo come al più grande, che non siamo soli, anche se da soli dobbiamo imparare a camminare. Vi sono molteplici modi di sperimentare il materno senza fare figli: lavorando coi bambini, curando un parente malato o bisognoso, un’amica o un amico, facendo crescere un giardino, nutrendo un animale. In poche parole: non abbandonando coloro che amiamo. Questo va tenuto presente quando ci troviamo con le nostre semplici vite davanti agli altisonanti Luoghi Comuni. Ed ecco come fra questi due poli si sviluppa il documentario.

Da una parte, in fila brontolona come alle poste, tutti gli stereotipi, alcuni scioccherelli, altri offensivi, per la lunàdiga: egoista, immatura, una che preferisce viaggiare, che ha tanto tempo libero, che alleva gatti e cani (o criceti o, con una punta d’esotismo, pappagalli caraibici), che non ha mai smesso di sentirsi figlia, che rifugge l’impegno, che vuol mantenere il corpo atletico di un’adolescente e così via… Ma dall’altra le storie autentiche, che mostrano allo spettatore il vero cuore del film, ovvero la possibilità di scegliere come essere donna – con figli, senza figli, con pappagalli o con piante rampicanti, con cappello o senza, con la bicicletta o a piedi, con lo smalto o il cacciavite o tutti e due e in una stessa mano, di decidere per sé fuori dalle convenzioni sociali, dalle imposizioni implicite e sgradevoli di un pensiero dominante che mai interroga se stesso. Perché invece quando si tratta di scegliere consapevolmente le domande aumentano in modo esponenziale e allo potremmo parlare non solo di donne con figli biologici o senza, ma di donne che adottano, che prendono minori in affido, che fanno volontariato, che non fanno nulla di tutto ciò e stanno proprio bene e, con buona pace di qualche moralista di troppo, non si sentono affatto responsabili dell’imminente estinzione del genere umano. Potremmo parlare delle donne che imparano a difendere le loro scelte e a condividerle con gli altri umani, di chi non ha affatto paura di essere differente e semmai prova un po’ di pena per chi la differenza in sé l’ha soppressa. Ma ancora, Lunàdigas è un film pieno di leggerezza e perfino gioia: gruppi di donne che non puntano il dito l’una contro l’altra, caroselli delle due documentariste alle prese con perfette bambole di carta (le stesse con cui anche io, da bambina ho giocato per ore) e un finale-bambino, bambina, che non vi anticipo, ma che ha tutta la bellezza dell’esserci e dell’infanzia senza età, lasciata essere, senza ricatto o costrizione.  A chi vorrei far vedere questo documentario? Alle donne, certo, ma anche agli uomini – a tutti coloro che hanno sete della loro differenza e di un nome per dirla. A mia nonna che a figli e nipoti ha dedicato tutta la vita, alla severità di mia madre che è stata la prima persona a dirmi in tutti i modi immaginabili: pensa fuori dalla scatola, impara, vai e sii libera – sempre. Ed essendo tutto tranne che una tenerona, lo ha fatto, sì, spingendomi alla poesia, ai viaggi, alle esplorazioni, ma condendo il tutto con regole ferree e sfuriate ogni volta che, pensando sfrenatamente fuori dalla scatola, ne combinavo una delle mie. Vorrei mostrarlo alle mie amiche, le donne con cui lavoro e porto avanti la rivoluzione dei lenti e dei fragili, perché lì dentro, figli o non figli, ci siamo noi. Ad Azzurra con cui conduco laboratori di poesia e condivido una montagna intera, e mi sfogo delle fortune e delle sfortune dell’italica scena culturale; a Emanuela con cui abbiamo portato un progetto artistico ispirato ad Alice nelle scuole e nei centri educativi della nostra città, diventando consapevoli di noi in mezzo agli altri con i  bambini; a Cecilia con cui condivido il fato di strega e parliamo alle donne attraverso saperi erboristici, interpretazione dei tarocchi, scrittura dal bosco. Potrei certo aggiungere che Azzurra è mamma della bambina Bianca, Emanuela del bambino Pietro e Cecilia di Eva e Bambi, che sono cani; ma cosa cambia? Poco, molto poco, quando le donne scelgono e condividono liberamente. Parola mia, madre di quattro gatti, amica di diversi bambini, sorella delle erbacce per pigrizia. Lunàdiga.

Tomàs

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tomas  di Edoardo Zambelli

Andrea Appetito, Tomàs, Effigie, 2017, 170 pagine

Mi sedetti sotto una grossa trave e chiamai di nuovo Tomàs. Gli gridavo di entrare. Tanto non avrebbe visto niente. Il cielo era diventato così buio. Ma Tomàs non rispondeva. Allora uscii e vidi che era andato via. Al suo posto c’era il cannocchiale, abbandonato sul prato. Mezz’ora dopo la bufera finì. All’improvviso. E tornò il sereno. Forse anche Tomàs sarebbe tornato all’improvviso. Così come era sparito.

Tomàs, romanzo d’esordio di Andrea Appetito, inizia con due eventi che si verificano a breve distanza l’uno dall’altro. Un’apparizione e, subito dopo, una sparizione. Una nave compare al largo di una mai nominata città e Tomàs, di lì a breve, scompare.

Tutto quel che segue è, in breve, il racconto di una presa di potere. Luka Stratos, partito dal niente, è riuscito col tempo a conquistarsi sempre più sostenitori, e adesso è pronto a mettere in atto quella che è, a tutti gli effetti, l’instaurazione di un regime dittatoriale. Ciò che ne viene fuori è, inevitabilmente, un’ondata di violenza che in breve sconvolge l’intera città. E in tutto questo troveranno posto oscure profezie, visioni, incendi, e l’incombere di un’eclissi solare che accompagneranno la storia fino all’ultima pagina, in una deriva finale che molto ha in comune con una tragedia greca.

Sette voci si alternano a raccontare la propria versione di ciò che accade.

Mio padre era il padrone di tutte le taverne. L’uomo più ricco e potente della Città, ma all’inizio non era nessuno. La fortuna di mio padre cominciò con la chiusura del porto, quando gli stessi proprietari lo riempirono di sabbia, perché non gli conveniva più tenerlo aperto. E per fare questo si servirono di mio padre.

Il dipanarsi della trama è quasi spartito in due. Nella prima metà, il romanzo si preoccupa di raccontare ciò che lega i personaggi parlanti, poi, nella seconda, si concentra invece a spiegare le origini e i modi della presa di potere. Vi è quindi una sorta di passaggio da una dimensione individuale a una dimensione collettiva delle vicende narrate.

La cosa che subito colpisce del romanzo è la sua (voluta) vaghezza. Impossibile risulta collocare la storia e i suoi personaggi in un periodo storico o in un luogo ben precisi. L’intera geografia del romanzo è fatta di poche, deboli indicazioni: ci sono il bosco, il porto, il faro, il ghetto, la zona elettrificata e così via. I personaggi si muovono quindi in uno spazio e in un tempo che, proprio perché incollocabili, sono collocabili un po’ ovunque e, a mio avviso, proprio in questo risiede uno dei punti di forza del romanzo. Nella sua capacità, cioè, di rendere la storia raccontata una storia universale.

L’instaurarsi di una dittatura è, in effetti, un qualcosa che è gia successo, succede, e purtroppo potrebbe succedere ancora. Magari con le stesse modalità descritte nel romanzo, magari no, ma questo poco importa. Quello che è importante è che Andrea Appetito, nel suo romanzo, seppure non in modo evidente, ha fatto sì che la storia raccontata sia carica di un’urgenza morale che la accosta e la fa dialogare con la Storia.

Un’ultima considerazione per il modo in cui il libro è costruito. In questo senso è interessante rilevare che, pur essendo un romanzo ricco di rivelazioni, queste vengono presentate al lettore senza le astuzie di una narrazione “a colpo di scena”. Mi spiego. La narrazione nasconde molti segreti che andranno svelandosi pian piano nel corso della storia. Ma gli svelamenti avvengono, per così dire, attraverso minimi scarti. Nei cambi di voce può succedere che un personaggio sappia qualcosa che quello che parlava prima non poteva sapere, o che abbia visto qualcosa che l’altro non poteva vedere e così via.

La scrittura, semplice e scarna, si fa funzionale a questo dire per brevi accenni, al continuo colmare le omissioni che si intrecciano fra un personaggio e l’altro. Tutti, chi in un modo chi un altro, legati alla figura di Tomàs. Tomàs che, è bene dirlo, è il principale motore dell’azione, in certo modo determina i destini di tutti gli altri, ma è l’unico di cui il lettore non sentirà mai la voce.

Capii che c’era poco tempo e poi sarebbe stato un inferno. Cominciai a correre. Più veloce che potevo. Più veloce delle lancette del comandante. E mentre correvo sul sentiero mi ricordai di Tomàs. Della sera in cui l’avevo incontrato. Non avevo mai sentito un’intimità tanto grande con un altro essere umano.

Le macchine inadempienti di Lawrence Fane

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Lawrence Fane

[Pubblico un brano di uno dei quattro saggi che compongono Apollo, figlio di Apelle di Luigi Ballerini, uscito per Marsilio nel 2016. Si tratta di un’esplorazione a tutto campo dell’opera di altrettanti artisti del secondo novecento: Marco Gastini, Paolo Icaro, Eliseo Mattiacci e Lawrence Fane.]

di Luigi Ballerini

II. Di un curioso attaccapanni, di un museo di strumenti perduti e di certe manie

Anche lo studio di Lawrence Fane è diviso in tre parti: un’anticamera, una sala che non vorremmo dire di esposizione, ma di decompressione delle opere, un luogo dove esse testimoniano della loro provvisoria conclusione, e, dulcis in fundo, una vera e propria officina da fabbro, o si tratta di una falegnameria, di un cantiere, di una vetreria?