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cinéDIMANCHE#27_Ritratto di una pigra_Chantal Akerman

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di Ornella Tajani

Il cortometraggio che segue è tratto dal film collettivo Seven women, seven sins, del 1986. Le registe sono: Helke Sander (Gola), Bette Gordon (Avarizia), Maxi Cohen (Ira), Valie Export (Lussuria), Laurence Gavron (Invidia) e Ulrike Ottinger (Superbia). Quello qui proposto, Sloth, di Chantal Akerman, noto anche come Portrait d’une paresseuse, è dedicato all’accidia.

In francese, il termine paresse è utilizzato, al pari del più raro acédie, per indicare uno dei sette peccati capitali, come conferma il Trésor de la Langue Française (qui), che non prevede invece nessuna forma per l’acédie. Dando per buona la definizione di Alberto Savinio, secondo il quale l’etimologia è “il luna-park della filologia”, possiamo divertirci allora nel ricordare quello che Roland Barthes diceva della paresse:

Se si guarda l’etimologia si nota che in latino l’aggettivo piger vuol dire «lento». È l’aspetto più negativo, più triste, della pigrizia, che è di fare sì le cose, ma male, controvoglia,
di soddisfare l’istituzione dandole una risposta, ma è una risposta che si trascina.
In greco invece pigro si dice argos, contrazione di a-ergos, molto semplicemente «che non lavora».
Il greco è molto più franco del latino.

La verità è che Barthes non sarebbe mai stato d’accordo con Savinio: per lui l’etimologia è una cosa seria, e pigrizia e accidia non vanno confuse, nemmeno in francese. Altrove, infatti, all’interno del suo seminario “Comment vivre ensemble”, Barthes spiega che cos’è l’accidia: è il lutto non dell’immagine, ma dell’immaginario; è il momento in cui non si può più investire né contare sugli altri, il momento in cui ci si sente un rifiuto, un rifiuto “senza nemmeno un secchio della spazzatura”, come conclude prima di darci appuntamento al mercoledì successivo –> qui.

Bisogna decidere da che parte stare, se con Savinio o con Barthes – oppure, in una pura logica accidiosa e ipertestuale, non decidere affatto, e concludere con un’ultima citazione che sparigli le carte:

Forse il futuro dell’accidia risiede nei peccati contro ciò che oggi pare connotarci sempre di più
– la tecnologia.

Thomas Pynchon, qui

[V.O. con sottotitoli in inglese]
https://www.youtube.com/watch?v=QNqs6G1IG3c

La filologia del grande complottone, da Raqqua [sic!] ar Torrino (e ritorno)

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di Lorenzo Declich e Anatole Pierre Fuksas

Anatole. Avremmo adorato continuare ad ignorare la questione del complottismo, ancorché informi senza ombra di dubbio gran parte dello Zeitgeist contemporaneo, ma troppi fatti coincidenti la chiamano in causa in maniera veemente e non più eludibile.

Lorenzo. Sì, è chiaramente un complotto di Loro contro di Noi. Non ci possiamo più sottrarre. Dobbiamo parlare!1!!1 Dopo vent’anni circa, poi: pensavamo compiuta la missione quando spiegammo la celebre canzoncina dei Quarantaquattro Gatti alla luce dello scomparso numero Sama.

Anatole. Non ti ho mai parlato della mia controteoria della ridiffusione del nome Samanta in tempi recenti, cioè a seguito della canzoncina dello Zecchino d’Oro (Samanta nel senso di sama per dieci). Il riaffioramento del rimosso! Né dell’interpretazione negazionista della canzone di Anna Identici a proposito della Repubblica Partigiana dell’Ossola, secondo la quale il giorni di libertà sarebbero, appunto, samanta, ma nei giorni cancellati si sarebbero consumate efferatezze contro i collaborazionisti dell’occupazione nazista, cancellate poi dagli storici marxisti.

Lorenzo. E non dimentichiamo il disvelamento del complotto del ripetitore alieno.

Anatole. Ah ricordo, la nostra interpretazione dell’assurdo monumento dedicato a Chico Mendes a Collalto Sabino. Cos’altro poteva essere se non un ripetitore alieno?

Lorenzo. Fu, se ricordo bene, uno Sbaglio del Ripetitore Alieno (Sbra) a generare la tempesta psionico-magnetica che alterò il risultato della partita di pallone Roma-Lecce nel 1983.

Anatole. Sempre che quel monumento non sia stato finalmente rimosso anche lui, come il numero sama (avremmo dovuto dare seguito all’idea di censire e monitorare tutti i MADIEM, Monumenti Assurdi Disseminati in Italia e in Europa e nel Mondo), è probabile che c’entri anche col primo goal regolare annullato da un arbitro alla Juventus nella storia del Campionato di Calcio Italiano da sempre ad oggi. Evidentemente gli equilibri geopolitici stanno mutando in una direzione imprevedibile e forse pesa il fatto che a realizzarlo sia stato Miralem Pjanic, ex fantasista della Roma.

Lorenzo. Questo è ovvio, è perfettamente ovvio. Perché non ci avevo pensato? Vai avanti.

Anatole. In molti sostengono che il database della Federazione Italiana Arbitri lo desse ancora come romanista, nel disperato tentativo di spiegare questo fatto altrimenti inconcepibile.

Lorenzo. Assolutamente

Anatole. Il susseguente piagnisteo dei tifosi juventini, forse l’evento più paradossale della storia del mondo, suscita una certa ilarità.

Lorenzo. [Ride] La suscita, in effetti.

Anatole. Volendosi fare un altro tipo di risate, ma qui non è cazzeggio nostro purtroppo, bisogna leggere per intero l’intervista rilasciata a Repubblica due giorni dopo (il martedì 25 ottobre) dalla Sindaca Raggi, la quale dichiara che la monnezza in strada a Roma sarebbe un complotto contro di lei. Imprecisati soggetti, ma l’imprecisione del soggetto è caratteristica-chiave del complottismo, passerebbero la notte a distribuire rifiuti ingombranti, dal frigorifero alla tazza del cesso, dallo scaldabagno al divano sfondato, in giro per le vie della capitale. Che siano agenti del Bilderberg, della Trilateral o della Spectre non siamo ancora in grado di dirlo con certezza, ma è probabile che scavando nei commenti social varie teorie si stiano già confrontando proficuamente. Dovendo immaginare una logica, è probabile che queste forze oscure complottino per impedire all’assessore Muraro di riaprire la discarica di Malagrotta, per ragioni che avranno certamente a che fare col tentativo di mascherare la presenza dei rettiliani tra noi. D’altra parte ricorderemo come già in campagna elettorale la parlamentare Taverna avesse avuto modo di spiegarci che era in corso un complotto contro il Movimento Cinquestelle per farlo vincere a Roma. Segnalando il primo caso di complotto a vincere mai registrato nella storia, come quello del goal annullato alla Juve, Taverna illustrava implicitamente un altro tratto caratteristico del complottismo corrente: anche le forze più estreme del populismo non sono in realtà attrezzate quando si tratta di confrontarsi con l’inusuale. Si ricorre frequentemente al complottismo ogni qualvolta si produca un fenomeno che viola l’ordine naturale delle cose, certo sorprende che ciò accada anche quando quello stesso fenomeno è stato non solo auspicato, ma procurato mediante un’azione costante ed efficace. Sembrerebbe, cioè, che certe modalità siano così profondamente radicate nel populismo contemporaneo, da non riuscire a farne a meno neanche quando gli autori del presunto complotto sembrerebbero sconfitti dai fatti. Ma è evidente che la questione trascende la scena nazionale ed investe l’ordine delle cose su scala planetaria. Cioè, non è solo una forma di sbrocco del nostro sistema di infotainment locale, per quanto esso sia di gran lunga il più svalvolato dell’intero globo terraqueo praticamente da ogni punto di vista. La guerra in Siria, ad esempio, è quotidianamente spiegata sulla base di un complotto di seguito all’altro, anche in ragione del fatto che, a seconda del fronte che vai a considerare, l’alleanza di tutti contro tutti è tale da confondere anche i commentatori più avvertiti.

Lorenzo. Sì, leggevo proprio ieri su FB un commento di Leila al-Shami – autrice insieme a Yassin-Kassab di un librone che si intitola Burning Country – a un pezzo di Amnesty sulle vittime civili provocate dai bombardamenti dell’alleanza a guida americana in Siria. Il commento dice: “da quando gli Stati Uniti sono intervenuti in Siria contro Daesh [isis, stato islamico insomma] si stima che i civili uccisi dalle forze della coalizione siano 600-1000. Ma non vedrai alcuna folla anti-guerra manifestare contro questo fatto. Loro sembrano preoccupati soltanto di un ipotetico intervento in cui gli Stati Uniti avrebbero come obiettivo il fascista Asad”. Insomma è questo il problema, anche: certi complottismi – in questo caso il punto d’arrivo è che gliamerikani tramano da sempre per attaccare Asad e solo grazie a Pooteen non l’hanno ancora fatto – sono così forti che se avviene una cosa simile, ma non coincidente con la tesi del complotto, questi qua neanche la vedono.

Anatole. Notevole.

Lorenzo. L’ultima cosa che ho esaminato, in fatto di letteratura complottista, sta su un fantastico blog, L’antidiplomatico, una pubblicazione che definirei “spettacolare”. Il titolo del pezzo è già un capolavoro: “Vi ricordate i pick up dell’ISIS? La Toyota risponde a una richiesta russa e siriana e rivela retroscena interessanti“. Lo è per un motivo che vado a spiegare. L’articolo è ambientato nell’oggi, è datato 24 ottobre 2016, va sotto la rubrica “piccole note” ed è definito in calce una “notizia”, quindi ci aspettiamo che ci parli di un fatto, e specificamente del fatto che questi russi e questi siriani hanno ricevuto questa risposta dalla Toyota. Ma prima di riceverla, questa notizia, dobbiamo leggere lunghi brani in cui si riscrive per la milionesima volta questa roba del complotto contro Asad, dei qatarini e sauditi che finanziano l’Isis ecc. Quando la riceviamo scopriamo che la fonte della notizia sarebbe Russia Today in arabo, ed è dell’8 ottobre 2015. Quindi abbiamo un titolone che rimanda a un articolo di un anno fa e noi siamo portati a pensare che questa è effettivamente una notizia, motivo per cui ci leggiamo tutto il pippone complottista precedente alla spiega di questa cosa delle Toyota per arrivarvi. Non basta: poiché la fonte è in arabo, sebbene scritta da un organo di propaganda russo, quasi nessuno (ché mica l’arabo lo leggono tutti quanti) è in grado di verificarne la correttezza. Leggendola scopriamo però che la fonte non è primaria. La fonte di questa fonte è la Abc americana (ma RT non la linka, la cita e basta). Entrando – con sofferenza, lo ammetto – nei meandri della fonte primaria capiamo che sono alcuni officials americani, nel 2015, e non i russi e i siriani, a chiedersi come mai quelli dell’ISIS abbiano tutte queste Toyota nuove di pacca. Danno un po’ di numeri, tipo le vendite della Toyota in Iraq negli ultimi anni, e così fa RT, ma l’antidiplomatico cita le vendite delle Toyota in Arabia Saudita, Qatar e Giordania (e non si sa da dove ha preso queste cifre, fra l’altro). Lo fa perché tutto il pezzo deve ridondare attorno al complottone. Il quale, in sostanza, è l’unica cosa vera nel pezzo. Cioè: l’unico dato di realtà che estraiamo dal brano è che qualcuno ha una teoria del complotto attorno agliamerikani che da almeno 5 anni non aspettano altro che attaccare Asad (che nel frattempo abbiano ucciso dai 600 ai 1000 civili non frega nulla a nessuno).

Anatole. Un capolavoro, davvero. Mi chiedo sempre se questa capacità di buttarla sul complotto possa risalire ad una forma primitiva di ragionamento intuitivo che si possiede senza training, senza addestramento. Non riesco a credere che una roba simile sia del tutto in cattiva fede. Anche ripensando alle note di Wittgenstein al Ramo d’Oro di Frazer si può forse osservare che c’è una forma di stupidità non certo primitiva, non certo infantile, ma universale e molto razionale a ben vedere, basata sulla necessità di intendere i collegamenti casuali come causali, fino al punto di inventarli proprio.

Lorenzo: Qualche mese fa ho trovato questa immagine (su FB, chiedo venia, non mi ricordo in quale bacheca l’ho trovata) abbastanza esplicativa:

info-conoscenza-complotto

Qualcuno mi ha fatto notare che nel terzo riquadro si disegna una stella di David. Cioè: capisci cosa intendo?

Anatole. Perfettamente e che la teoria del complotto sia questa cosa secondo la quale colleghi i puntini in modo da dare addosso a chi ti è più scomodo è plateale. Ci sono vari fatti che contribuiscono a rendere la teoria del complotto il vero modello organizzativo dell’infotainement contemporaneo e sono tutti quanti piuttosto evidenti, cioè, enunciandoli non si rivela chissà quale gran scoperta. Il primo è senza meno il bisogno di un’interpretazione olistica, cioè il fatto che si ha bisogno di ricollegare qualunque cosa accada ad un unico disegno complessivo che tenga insieme tutto. È naturale che se ragioni in questo modo, che etichettiamo tipicamente come medievale o religioso, ma in realtà ci appartiene alla stessa maniera in cui apparteneva alla cultura medievale, soprattutto dalla Summa di Tommaso d’Aquino in poi (quindi il medioevo è quasi finito, stando alle periodizzazioni correnti), e all’elaborazione culturale attorno al pensiero religioso, ogni fenomeno deve essere riconducibile non soltanto ad un unico disegno, ma anche ad una causa unica. Probabilmente questa operazione, quando riesce bene, supportata da una buona retorica che colleghi i fatti in maniera plausibile, ancorché non falsificabile, dà una certa ebbrezza, una forma di sicurezza che appaga la mania di controllo, il vero motore della consapevolezza di massa, poiché somiglia alla conoscenza scientifica. Tout se tient, quindi siamo a posto. Non dobbiamo preoccuparci di niente, non c’è nulla di complicato da capire che ci sfugge. Possiamo tornare a fare i cazzi nostri in pace.

Lorenzo. su questo ho un esempio importante, Daniel Estulin. Scrittore lituano è famosissimo per il suo Il Club Bilderberg, un libro che ho avuto l’avventatezza di acquistare e che – posso dirlo – non ha né capo né coda, nel senso che non si capisce dove sta l’introduzione, se ci sono dei capitoli, di cosa narrano, se quella roba alla fine del libro è un’appendice. La cosa da dire su di lui, oltre al fatto che ha una nonbiografia, è che la sua produzione è integralmente complottista. Cioè la sua cifra intellettuale è il saper scrivere di complotti, non importa quali, non di applicarsi a un tema con un qualche rigore o attitudine. L’ultimo titolo è ISIS spa: storia segreta della cospirazione occidentale e del terrore islamico. Un capolavoro. Scusa, ti ho interrotto.

Anatole. La Lituania è essa stessa un complotto, contro di me in particolare. Se vogliamo fare un po’ d’ordine, si tratta come al solito di ripartire dalla conclusione del Tractatus e poi dalle Ricerche Filosofiche di Wittgenstein, per osservare come la catena di collegamenti che reggono insieme la rete non possa mai arrivare ad un’origine ultima, a meno che non si operi un salto metafisico. Ma a ben vedere il tenersi insieme delle teorie del complotto è ancora più labile, poiché i collegamenti tra i fatti o fenomeni non è necessariamente stringente e modelli alternativi del reticolo sono sempre possibili, come l’immagine che alleghi illustra chiaramente. Il secondo è il principio base della cosiddetta “narrazione”, quello che si utilizza tradizionalmente per una sceneggiatura hollywoodiana, che se il racconto è costruito per arrivare da qualche parte, il collegamento casuale deve spiegarsi in termini di sincronicità, deve cioè intervenire una conversione della casualità in causalità, poiché altrimenti gli innamorandi non si incontrano, l’eroe non intraprende la ricerca che renderà lui stesso migliore ed il mondo salvo, eccetera. Una narrazione che contenga troppi elementi casuali, che non si spiegano nel senso dei rapporti di causa effetto, perde di senso, ma una soltanto basata su di essi ci annoia mortalmente e non ci dice niente di interessante su di noi. Il terzo elemento, di cui parliamo da mesi ormai, implica un salto nel campo ideologico, che può anche essere inteso come un passaggio dalla retorica alla dialettica, ovvero una inevitabile subordinazione della prima alla seconda.

Lorenzo. C’è un’urgenza di polarizzazione che supporta la concretizzazione di un senso. Si tratta di identificare il bersaglio di un discorso polemico, secondo un modello tipicamente forense, e tutto il resto viene da sé. Attorno ad un argomento valido, magari certificato, possono a quel punto affastellarsi una serie di ipotesi, illazioni, dubbi, deduzioni l’una sull’altra, senza che il discorso perda di verosimiglianza.

Anatole. Poi certo, interviene di recente un quarto fattore, che implica un salto di livello notevole, consistente nella capacità di accumulare argomenti complottisti in un’unica macronarrazione, capace di fungere da collettore. Alcune forze politiche europee, ma sicuramente anche alcune mediorientali, funzionano così. Non c’è dubbio che, ad esempio, il Movimento Cinquestelle sia nel suo complesso una grande narrazione complottista, che tiene insieme di tutto, dalle scie chimiche alla congiura romana dei frigoriferi, dalla guerra all’alta velocità ferroviaria alle medicine alternative. Forse, ma questo lo sai meglio te, anche l’ISIS è, in realtà, una grande teoria del complotto di carattere occidentalista.

Lorenzo. Sì, l’ISIS non fa eccezione anzi, è un esempio paradigmatico perché si può individuare una sola variante in termini di macronarratsione, quella che consiste nell’intestare tutto “all’islam”. Ci sono tanti esempi che posso portare su polarizzazione, bersaglio polemico eccetera. C’è questo And no respite del 24 novembre 2015 che è molto istruttivo in materia. Contiene tutti i possibili luoghi comuni occidentalisti (occidentalisti nel senso ben spiegato da Ian Buruma e Avishai Margalit in Occidentalismo, cioè di un qualcosa che non pertiene soltanto agli “orientali” che odiano l’occidente ma anche, e prima degli “orientali”, a molti “occidentali”, quelli che definirei “tramontisti”, quelli che non hanno capito le metropoli, culla del meretricio, quelli che i “popoli germanici” ecc. ecc.). In breve passiamo in rassegna tutti i più grandi stronzi del pianeta, che sono “I Nemici”. Ma i più stronzi di tutti sono gliamerikani: i loro soldati ingoiano antidepressivi e si suicidano perché non trovano un senso in quello che fanno (avendo vissuto nel meretricio ecc. ecc.), mentre i Guerrieri dell’ISIS, poiché portano avanti il Vessillo dell’Islam, non hanno paura, sono contenti di morire, sono ardimentosissimi ecc. ecc. e combattono contro TUTTI gli altri, cioè contro tutti quelli che complottano da sempre contro l’islam. Sarebbe divertente, se non fosse tragico, notare che poi la stampa quando parla di una cosa come la battaglia di Mosul non esita a raccontare il suicidarsi di quelli dell’ISIS come un atto di eroismo che tutti gli altri temono, portando acqua al mulino della loro propaganda e, soprattutto, sdoganando la suddetta macronarrazione. E, al di là di questo, è chiarissimo (proprio perché vediamo questi “nemici della civiltà” fare qualcosa che fanno tutti, soprattutto quelli che vorrebbero essere i “salvatori della civiltà”) che fra “And no respite” e un qualsiasi altro prodotto identitario, confezionato da un qualsiasi altro agente politico, economico o sociale di questo pianeta, non c’è alcuna differenza.

Anatole. Mi rendo conto.

Lorenzo. L’esempio forse più “divertente” rispetto ai temi che hai scodellato al centro è però questo documentario che mostrai qualche tempo fa durante un evento di Unponteper presso un cimena dell’Eskwileeno nell’aftermath di uno dei tanti attentati in Francia. E’ in inglese e si chiama: The dark rise of the banknotes and the return of the gold dinar ed è del 15 ottobre 2014. Al di là della tecnica, sopraffina ma anche no, con cui è realizzato, della quale non ci può interessare di meno ma sulla quale centinaia di ziliardi di analisti si sono soffermati producendo rumore, è interessante perché ci narra di come sia necessario fuggire dal dominio di Goldman Sachs, Rockefeller, dalle catene di Bretton Woods insomma dalla Cospirazione Globale dei Signori del Signoraggio e dai loro amici demoplutomassoncomunistigiudaici attraverso l’eliminazione della cartamoneta e l’introduzione del dinaro d’oro. Non importa il fatto che questo dinaro d’oro non sia mai stato coniato, che le transazioni finanziarie dell’ISIS sono sempre state e continuano ad esse in dollari, che gli americani abbiano preso di mira nei loro raid aerei alcuni depositi di dollari contanti nelle aree dell’ISIS, che alle aste dei dollari, che si tengono ogni mese a Baghdad, partecipano quelli dell’ISIS (che poi con le valigie piene torneranno a casa e distribuiranno il contante ai loro broker che su quei dollari ci faranno la cresta). Importa, invece, che appunto questa storia del signoraggio – che tutti abbiamo imparato a conoscere nostro malgrado – finisca nell’unico modo possibile per l’ISIS stesso: è “l’islam” che restituirà il Potere d’Acquisto Reale ai “musulmani”.

Anatole. In altre versioni “occidentali” quel potere lo restituirà la lira, o il franco svizzero, o la pizza de fango del Camerun, ma la sostanza – cioè la macronarrazzzione – è la stessa.

Lorenzo. Esatto. Poi sulle altre “forze politiche mediorientali” ci sarebbe da scrivere un’enciclopedia. Il complottismo che le dittature in Medio Oriente continuano a secernere da una sessantina d’anni a questa parte si è certamente evoluto in quanto a stile e a strumenti di diffusione, ma ha avuto sempre grande cittadinanza (laddove in molti paesi mediorientali possiamo parlare di sudditi e non di cittadini). E’ un po’ nella natura delle dittature, specialmente se “nazionali”, fabbricare complotti. Le “serie” mediorientali sono: il complotto americano, il complotto sionista, il complotto dei fratelli musulmani, il complotto di un Nemico Esterno qualsivoglia. Queste serie possono incrociarsi alla bisogna. L’ISIS, in tutto questo, è anche (e forse soprattutto) figlio loro: non è panarabo, è panislamico ma l’architettura è simile (il panislamismo, d’altronde, nasce dopo il panarabismo). Ha anche uno spunto in più essendo roba globalizzata e dunque più in tune rispetto a ciò che succede altrove. Diciamo che ISIS arriva fino a Nizza, al-Sisi no.

Anatole. La cosa più comica delle teorie del grande complotto amerikano è che rimbalza indietro sulla politica estera americana, come sembrerebbe emergere da questo libro di Tim Airstrope intitolato Conspiracy Theory and American Foreign Policy, pubblicato a marzo dalla Manchester University Press, almeno stando all’abstract (non me lo sono letto, ma mi pare che meriti):

Conspiracy theory and American foreign policy examines the relationship between secrecy, power and interpretation around international political controversy, where foreign policy orthodoxy comes up hard against alternative interpretations. It does so in the context of American foreign policy during the War on Terror, a conflict that was quintessentially covert and conspiratorial. This book adds a new dimension to the debate by examining the ‘Arab-Muslim paranoia narrative’: the view that Arab-Muslim resentment towards America is motivated to some degree by a paranoid perception of American power in the Middle East. This narrative subsequently made its way into numerous US Government policy documents and initiatives advancing a War of Ideas strategy aimed at winning the ‘hearts and minds’ of Arab-Muslims.

In sostanza c’è una guerra di propaganda che ruota attorno a temi che, in realtà, sono parte di teorie complottiste, divenute terreno di argomentazione volta alla persuasione. C’è una specie di circolo vizioso della disinformazione che scaturisce dalle teorie del complotto e se ne serve per inoculare argomenti virali o comunque ad introdurre contenuti tossici all’interno del dibattito. Se vuoi si ritorna sempre al punto della speculazione attorno al concetto di verità, messo in soffitta troppo frettolosamente dal decostruzionismo postcolonialista. Voglio dire che negando un piano di verità indipendente dalle adulterazioni discorsive, poiché ogni configurazione della verità sarebbe necessariamente di parte, si lascia campo libero al libero fluttuare del delirio, all’interno del quale diventa impossibile distinguere gli argomenti che pertengono originariamente ad una determinata teoria del complotto dai rami argomentativi che si producono sulla base di un vero complotto inteso ad adulterare in senso propagandistico il discorso complottista originario. Questo meccanismo sembrerebbe legittimare una vera e propria filologia del complotto, volta ad identificare l’originaria configurazione di una data teoria del complotto, depurandola dagli sviluppi surrettizi.

Lorenzo. Questo è un altro punto fondamentale. Negando un piano di verità indipendente dalle argomentazioni scivoliamo nel dominio delle credenze. Come ricorda Benoît Bréville nel suo “Dix principes de la mécanique conspirationniste” molto spesso pubblicazioni e autori complottisti spingono sul metadato che recita: “non credere a quello che ti dicono”. Più estensivamente Walter Quattrociocchi (scienziato) e Antonella Vicini (giornalista), affrontando in Misinformation: guida alla società dell’informazione e della credulità  i temi delle echo chambers sui social e sul confirmation bias che le determina, parlano espressamente di “pensiero religioso” (pp. 101-108). Un pensiero che ha origine in ciò che Frédéric Lordon chiama “Le symptôme d’une dépossession” e che Arjun Appadurai individua nel fatto che le comunità “nazionali” per via della globalizzazione subiscono mutamenti che non possono in alcun modo controllare o tracciare (vedi Fear of smalll numbers). E che sfocia in quella che tu chiami “urgenza di polarizzazione”  mentre i due autori di Misinformation, analizzando i social, descrivono come “legge di polarizzazione dei gruppi” (87-92).

Anatole. Tutta questa roba fa sì che, ad esempio, le operazioni di debunking non servano praticamente a nulla se non a confermare il pregiudizio di chi già crede che alcune cose vadano demistificate.(129-132), cioè: il debunking convince chi è già convinto.

Lorenzo. Secondo Antonella, con cui ho parlato ieri sera, chi crede non accetterà mai le “verità indipendenti” contenute nel libro. “Abbiamo citato il World Economic Forum”, mi ha detto. “una mente complottista non può credere in una fonte come il World Economic Forum”. Altri crederanno al libro soltanto perché è basato su uno studio scientifico rigorosissimo. Lo useranno come si usa una bandiera. Ieri, per prenderli in giro, scrivevo su FB che per me il loro libro è una bibbia. Evidentemente appare chiaro a tutti quanti che come dicevi all’inizio il complottismo è la cifra dell’infotainment (e questo decostruzionismo postcolonialista non ha fatto che oliare il meccanismo). In sostanza: non c’è competizione fra complottisti e non ma fra tipi diversi di complottismo (e tornando ai dittatori: se c’è una cosa che i dittatori non sopportano è che qualcun altro elabori la propria teoria cospirazionista). I non complottisti, invece, non sono un gruppo, non hanno echo chambers che fanno da cassa di risonanza a credenze. Sono proprio antropologicamente un’altra roba.

Anatole. Certo emerge chiaramente una dimensione settaria del complottismo. I teorici del complotto si riuniscono in sette, ciascuna caratterizzata da una sua idea di complotto. Potremmo quasi sintetizzare che ogni setta o gruppuscolo è in realtà di per sé una teoria del complotto. Anche molta deriva gruppettara marxista potrebbe essere caratterizzata in questo senso. Forse in quest’epoca la differenza la fanno i grandi collettori di teorie del complotto, capaci di elaborare, come si diceva, dei macrocomplotti che inglobano tutti i complotti che ti vengono in mente.

Lorenzo. Le grandi agenzie di propaganda in questo periodo di guerra diffusa lavorano alla grande, ad esempio. Sì, secondo me funzionano un po’ come “aggregatori di complotti”.

Anatole. E la cosa peggiore è che tra un complotto e l’altro ci infilano dentro fatti veri e veramente preoccupanti. È un po’ un mio chiodo fisso che la concomitanza e la continua contaminazione della verità con la menzogna, caratteristica dell’epoca dei social network, sia stata certamente favorita dal proliferare del decostruzionismo nelle scienze sociali e non solo in quelle, dunque dall’accantonamento delle discipline, tra cui le nostre, che investigano la verità storica dei fatti. Alla conoscenza si è affiancata una controconoscenza alternativa, che anche questa origina dal settarismo di certi approcci gruppettari al marxismo per diffondersi a macchia d’olio nella società di massa.

Lorenzo. La controconoscenza, o anche da noi “a controcurtura”, è il classico strumento euristico sulla base del quale le teorie del complotto fondano la loro strutturata verità.

Anatole. In un interessante libro del 2008, intitolato appunto Counterknowledge e sottotitolato opportunamente How we surrendered to conspiracy theories, quack medicine, bogus science and fake history, Damian Thompson introduce un ragionamento sull’industria della controconoscenza, o conoscenza alternativa (p. 175), osservando che «most dynamic people in Western society make a living from counterknowledge». Taluni riescono anche a costruire formazioni politiche di successo sulle medesime basi controconoscitive, fungendo da aggregatori di teorie del complotto inzeppate di verità alternative. Citando il celebre libro sugli Outliers, Thompson osserva che «they are not just salesmen: they are what Malcolm Gladwell calls ‘connectors’, ‘people with a special gift for bringing the world together’». Non si tratta, infatti, di vendere qualcosa, come accadeva nell’epoca appena superata, quella di Berlusconi, per capirci, ma di ricostruire un’idea organica del mondo in cui tutto abbia senso e ciascuno trovi un suo posto, da qualunque esperienza provenga, come in Italia fa Beppe Grillo. In sostanza, l’aggregatore di complottismi ha soppiantato il piazzista. Sembra proprio che Thompson stia parlando di figure come Grillo qui (pp. 175-176): «Connectors make friends and business contacts across a wide range of subcultures and niches. They can efficiently spread a message–a health fad or a conspiracy theory–to charities, government, schools, specialist websites and, above all, the mainstream media. If the counterknowledge entrepreneur is lucky, word of mouth takes over and provides free publicity».

Lorenzo. Assolutamente sì. Possiamo parlare di una diversa strategia di marketing che organizza la destra in maniera non identitaria, o meglio coordinando in un grande calderone complottista tutte le varie direzioni microidentitarie. E così facendo si porta appresso la sinistra sbroccatona senza speranza, quella orfana di una visione sistematica polarizzante.

Anatole. La straordinaria efficacia del meccanismo di aggregazione si dimostra quotidianamente, metticonto quando un cantante italiano, Marco Carta, verosimilmente un prodotto di qualche talent show, se ne esce su twitter che i frequenti terremoti nel centro Italia sarebbero l’effetto di attività umane incontrollate. Il nostro beniamino adduce a supporto di questa teoria complottista del terremoto una vistosa miscela di argomenti falsi, assurdi, meno assurdi ma comunque implausibili, quali «le iniezioni di CO2 o di acque di scarico, l’estrazione – convenzionale o meno del petrolio o gas naturale tramite fracking oppure i progetti dell’industria mineraria o la costruzione di tunnel». Non contento, spiega che «anche i cambiamenti operati dall’uomo sulla superficie terrestre possono dar luogo a terremoti, ad esempio quando i laghi artificiali si riempiono per la prima volta d’acqua». Questo delirio in pochi minuti finisce sui media più o meno ufficiali (ad esempio qua http://www.giornalettismo.com/archives/2180336/marco-carta-terremoto/) e si propaga, rimbalzando indietro sui social, cioè offrendo a chi colleziona argomenti a favore del megacomplotto un nuovo tema da taggare ed includere dentro il suo schema inclusivo, accanto alle scie chimiche, metodi che curerebbero il cancro, le campagne contro i vaccini e via così. Non sorprende, quindi, che il complottismo antiamerikano di matrice occidentalista, quello che funge da vero terreno di coltura per il terrorismo cosiddetto ‘jihadista’ in occidente, funziona più o meno nello stesso modo.

Lorenzo. No, non sorprende in effetti. Su vero e falso, in questo contesto, ci sarebbe da ragionare tantissimo. Quella che chiamo spy literature, un serbatoio inesauribile di complottismi che si spaccia per “informazione”, è proprio in sintesi l’arte di dire una montagna di stronzate complottiste attorno a un nucleo di verità. Ossia: tu mi dici una cosa vera, giusto per darti un po’ di autorevolezza, e poi inizi a tessere la trama delle causalità arbitrarie. Al termine io crederò che a uccidere Giulio Regeni è stato David Cameron. Sulla controinformazione mi permetto il lusso di citarmi. Qui c’è un mio post dell’agosto 2012. Fa da corollario a ciò che hai detto tu, prima: il suffisso contro- implica una subalternità “irriducibile” che non può che creare mostri:

si prende “un discorso” fatto dal “mainstream” e lo si “decostruisce”, dimostrando che è falso o tendenzioso. Ma facendo questo si dimostra, sempre che ci si riesca, che qualcosa è falso o tendenzioso, non si dà un’informazione su cosa succede. Il risultato è che per avere un’informazione si ricorre comunque “al mainstream” perché è il mainstream a produrre e la controinformazione a chiosare. Fare controinformazione in questo senso significa scontrarsi con “l’informazione mainstream” giocando al suo gioco e sapendo di perdere. E dunque, paradossalmente, questa attitudine rafforza l’”informazione mainstream” stessa, perché viene temporalmente “dopo” il “mainstream” e in conseguenza ad esso. Che il mondo dell’informazione sia stracolmo di magagne, propagande, mistificazioni, superficialità, scorrettezza è un dato assodato. E fare continuamente “critica della notizia” o “critica dell’informazione” è essenziale. Ma rimane “il mondo dell’informazione” sia che i suoi attori siano corretti o meno, siano pagati per dire qualcosa invece che un’altra etc. etc. Estrarre informazioni dal mondo dell’informazione per fare “controinformazione” è semplicemente demenziale.

Anatole. il complottismo è un serpente che si morde la coda, come in quel giuoco da tavolo meraglioso che giocavamo da giovani, Illuminati, The Game of Cospiracy.

Lorenzo. [spalanca gli occhi, guarda in un punto lontanissimo dell’universo] Uh, Illuminati!

Anatole. Nella versione Trading Card Game (ho comprato due mazzi, dobbiamo giocarci al più presto!) vedo ora che tra le sette hanno introdotto anche quella dei Cospiracy Theorists, accanto agli Illuminati di Baviera, I Nani di Zurigo, i Rosacrociani, gli Elders of Zion, il KKK, il Vaticano e i Fratelli Musulmani. Tra le carte azione c’è, naturalmente, anche Hoax. Ma la cosa più divertente sono i blog che interpretano la grafica delle carte come un complotto a sua volta, tipo questo  o questo o ancora questo  e questo, ma sono tantissimi! Cioè il complottismo è talmente complottista che se ti inventi un geniale giuoco che parodizza il complottismo divieni preda a tua volta del complottismo al punto che vieni trattato come un complotto!

Lorenzo. E allora dotiamoci di una buona bottiglia di Côte de Nuits e vai con la partita a Illuminati. Non si può farne a meno, ora che l’hai evocati.

Anatole. E il fumo, però, che senza il complottismo mi viene male.

Lorenzo. Va bene. Avrei voluto anche parlare di come la memoria umana è facilmente riscrivibile tanto che tu, malevolmente, puoi far sì che qualcuno ricordi cose che non ha mai fatto. C’è questo libro molto bello, The Memory illusion di Julia Shaw. Ma forse era un po’ off-topic.

Anatole. Manco tanto, pare un complottone pure questo. e poi la Teoria del Complotto è forse l’unico discorso che invera l’idea della semiosi infinita, ce casca bene dentro tutto.

Lorenzo. Vabbene, magari la riprendiamo in Il Complottone II, la vendetta, prima o poi…

Queering Wittig ?

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di Simonetta Spinelli

Ho chiesto a Simonetta Spinelli il permesso di pubblicare alcuni suoi articoli scritti diversi anni fa e già postati sul suo blog. Le ho anche chiesto di scrivere una breve nota di accompagnamento per ogni intervento, raccontando in sintesi le circostanze della composizione e il contesto di discussione in cui si inseriva, e lei lo ha fatto, per questo la ringrazio. La scelta di ripubblicare questi testi in serie (uno al mese) spero sia evidente a chi legge: (non solo sono incredibilmente belli, ma) sono inattuali e perciò parlano al presente.

Qui il primo post della serie: Una donna lesbica femminista.

***

Monique Wittig: queer or not queer? (2016)

 

wittig

 

Wittig è politica perché è soprattutto una moderna cantora, una delle poche donne lesbiche capaci di inventare il linguaggio della sua passione e di dare voce ad una visione radicale che la rappresenta senza mediazioni. Ma dalla maggior parte delle donne lesbiche più giovani non è studiata, è quasi solo citata sulla base di una frase unica di un suo saggio: “Le lesbiche non sono donne”. Che non è propriamente una citazione, mancando di contesto, è quasi solo uno slogan provocatorio. Per quello slogan è, di volta in volta, citata, esaltata o smentita, oppure ripresa e attualizzata in aderenza alle mode correnti.

Mi sembrava necessario, considerato l’ambito di diffusione della rivista, sintetizzare il suo pensiero per rimediare ad un’appropriazione indebita. Destino che, per ironia della storia, sembra oggi riverberarsi sulle teorizzazioni più intriganti del pensiero queer in Italia, sommerso dalla banalizzazione acritica del “tutto è eguale a tutto”. Un altro spreco.

 

 

Monique Wittig: queer or not queer? (2003)*

Monique Wittig è sempre stata una figura controversa nel panorama culturale rivoluzionato in Europa e negli USA dal movimento delle donne. Osannata dalle lesbiche radicali, combattuta come un pericolo da eliminare dalle femministe etero (involontario omaggio alla forza delle sue intuizioni), viene di volta in volta oscurata o tirata fuori dalla dimenticanza, come un eterno boomerang che torna inevitabilmente a ricreare disturbo. Quando non si sa a che santa votarsi, perché il panorama delle sante è inflazionato, ci si ricollega a Wittig. Percorso a ritroso affrontato da più di una generazione di lesbiche, oggi ripreso sia dalla teoria queer, sia da coloro che a tale teoria si oppongono.

Tra le opere di Wittig, la coperta tirata da tutte le parti è in gran parte rappresentata dalla raccolta dei saggi, The Straight Mind And Other Essays, edita negli USA nel 1991, che comprende riflessioni scritte tra il 1978 e il 1990, in parte pubblicate su Questions Féministes e, dopo la rottura avvenuta nel 1980 tra femministe etero e lesbiche radicali francesi, in Feminist Issues, rivista statunitense. Le opere letterarie, che pure rappresentano la maggiore produzione di Wittig e che esprimono, ben prima dei saggi, il suo pensiero politico, sembrano in questa disputa ereditaria passare in secondo piano, così come gli scritti, inseriti nella raccolta, che tracciano le linee di una ricerca che è simultaneamente politica e letteraria, anzi politica perchè letteraria.

Nei primi saggi Wittig, riallacciandosi al materialismo femminista, in particolare alle opere di Colette Guillaumin, Christine Delphy (inventora del termine) e all’antropologia dei sessi di Nicole-Claude Mathieu e di Paola Tabet, mette in discussione il concetto di gruppo naturale che designa le donne inchiodandole in un presunto destino biologico. Per Wittig, che rilancia l’analisi di Simone de Beauvoir “donne non si nasce ma lo si diventa”, donne e uomini sono categorie sociali, prodotto di relazioni che sono simultaneamente economiche e culturali, e nulla hanno a che fare con il destino biologico. La categoria di sesso è il prodotto di una struttura politica di dominio (la società eterosessuale) che impone il suo marchio sulle donne trasformando corpi e coscienze in oggetto di appropriazione. Come la categoria ‘schiavo’ non esiste senza quella di ‘padrone’, come il concetto di razza nasce solo con la colonizzazione, così ‘donna’, lungi dall’essere un dato immediato, dall’indicare un’essenza di derivazione biologica o di ordine naturale, identifica una particolare relazione tra dominante e dominata, e la formazione ideologica, immaginaria, attraverso la quale il sistema sociale, costruito appunto da chi domina, reinterpreta, riducendolo a oggetto, l’altro da sé su cui esercita il suo potere. Come non esiste lo schiavo biologico, ma solo lo schiavo in relazione al padrone che se ne appropria, non esiste la donna se non in relazione all’uomo che se ne appropria e la concepisce in quanto oggetto di appropriazione. Come gli schiavi, allevati per assolvere la funzione di schiavi, le donne fin dalla nascita sono sottoposte ad un regime di eterosessualizzazione che consiste nel programmarle alla riproduzione forzata della specie, al lavoro gratuito di cura, all’assunzione di sè come oggetto di appropriazione. L’eterosessualità, che poggia sullo sfruttamento e l’oppressione delle donne, è per Wittig un regime politico che sottende qualunque struttura di potere e investe ogni discorso sia politico, che scientifico, che antropologico. Tale onnipresenza fa sì che le donne interiorizzino l’appartenenza a un destino immutabile perché biologicamente determinato.

Per Wittig la presenza stessa delle lesbiche – il cui desiderio non è funzionale all’uomo, né alla riproduzione forzata della specie – evidenzia come donna e uomo siano costruzioni sociali e ideologiche e come il contratto eterosessuale, con la sua pretesa universalità, impedisca il sorgere di un conflitto di interessi contrastanti tra classi sociali – la classe delle donne dominata e la classe degli uomini dominante -, nascondendo la realtà del dominio nella cortina di fumo della naturale divisione dei sessi. La lotta per abolire le classi di sesso, e quindi modificare le relazioni sociali che le sottendono, renderebbe inutili sia la costruzione socio-politica “donna” che la costruzione socio-politica “uomo”. Ma perché il conflitto si sveli occorre che ogni donna assuma una coscienza di classe, cioè diventi consapevole che le sue condizioni di esistenza non rappresentano un problema privato ma un problema sociale (cioè sono condizioni prodotte dallo stesso regime di sfruttamento che colpisce tutti gli altri individui della sua classe), e si liberi dalla mentalità interiorizzata dell’oppressione ripensando a partire da sé tutta la realtà sociale.

Le lesbiche – scrive Wittig – fuggendo dal contratto eterosessuale ad una ad una, come gli schiavi neri dalle piantagioni, rendono visibile il carattere impositivo della cosiddetta sessualità naturale e, nello stesso tempo, inventano una nuova prospettiva sociale, un nuovo linguaggio, un diverso sistema di relazioni. In quest’ottica, le lesbiche non rappresentano più l’alterità dominata che il sistema di potere identifica come “donna”. Le lesbiche, quindi, non sono donne.

La radicalità di Wittig non si indirizza solo contro la cultura e le istituzioni eterodirette ma investe anche parte delle teorizzazioni femministe o lesbiche. Alle concezioni che tendono a enfatizzare, sia pure in termini di valorizzazione delle donne, la differenza sessuale, opponendo alla pretesa universalità del pensiero maschile una controcultura al femminile, Wittig ribatte che che il ricorso alle categorie biologiche, alla specificità strutturale del corpo femminile, significa di nuovo naturalizzare la storia e i fenomeni sociali che sottendono ogni forma di oppressione, quindi implicitamente ammettere l’impossibilità del cambiamento. Parallelamente Wittig critica il mito della controcultura femminile affermando che il matriarcato non è meno eterosessuale del patriarcato, perché solo il sesso dell’oppressore muta, mentre si mantiene intatta la struttura di dominio fondata sulla medesima (anche se capovolta) categoria di sesso.

La queer theory rivendica di aver ripreso, attualizzandolo, il pensiero di Wittig. Ma queer theory è già una definizione che si presta a confusione, perché il  pensiero queer si è diramato in rivoli contraddittori e che spesso utilizzano Wittig operando disinvolte riduzioni.

Il termine queer, utilizzato per indicare una persona stramba, non integrata, poi acquisito politicamente da militanti lesbiche, gay e trans, che ne capovolgono il significato spregiativo e lo assumono come orgogliosa autodefinizione e presa di distanza dalla norma eterosessuale (straight), viene  rilanciato provocatoriamente nel dibattito accademico da Teresa de Lauretis, che organizza nel 1991 un convegno intitolato, appunto: Queer Theory: Lesbian and Gay Sexualities. Con l’utilizzazione del termine queer de Lauretis polemizza con la produzione del discorso lesbico e gay che le sembra fossilizzarsi sulla difesa identitaria, ignorando i rapporti con le differenze di razza, classe, generazione, situazioni socio-politiche. Per de Lauretis la sessualità lesbica e quella gay non sono la stessa forma di sessualità, e non possono essere identificate solo in rapporto all’eterosessualità ma devono essere valutate in riferimento alle rispettive condizioni di esistenza storica, materiale, socio-simbolica in cui si strutturano. Queer Theory,in questa accezione, rappresenta la sfida ad analizzare il terreno comune in cui la sessualità lesbica e la sessualità gay si incontrano, ma anche l’ambito specifico che si sviluppa da pratiche, concezioni, autorappresentazioni diverse, a loro volta segnate da appartenenze di genere, di razza, di classe. Una sfida a misurare e confrontare nelle differenze sia le possibilità che i limiti di un’alleanza.

Gran parte del pensiero queer che si sviluppa successivamente mescola insieme, estrapolando dalla loro costruzione teorica complessiva, contributi di studiosi anche molto diversi: Wittig, ma anche Foucault, de Lauretis, Deleuze, Butler. Partendo, ad esempio, dall’idea comune che il genere è socialmente costruito, il pensiero queer equipara la definizione di Wittig sull’eterosessualità come struttura di dominio che spiega l’oppressione delle donne nella storia – e il suo conseguente appello as eliminare la classe “donna” – all’eterosessualità intesa da Foucault come dispositivo biopolitico per la produzione della sessualità e la gestione programmata dei corpi. Ma Wittig viene accusata di interpretare l’eterosessualità come un blocco rigido e immodificabile da cui si può solo fuggire, anche se non ci sono luoghi in cui fuggire, e opposta a  Foucault, che si guarda bene dal mettere in discussione la mascolinità. Distruzione delle categorie di sesso “donna” e “uomo” e ipotesi di un “fuori” dall’eterosessualità sono interpretate come utopie ingenue. Se i sessi sono prodotti dalla totalità granitica rappresentanta dal regime eterosessuale, non si capisce per il queer cosa resti della lesbica quando raggiunge il mitico “fuori”, né come sia ipotizzabile una comunità lesbica, a meno di ritirar fuori vagina e cromosomi dopo aver teorizzato il genere come costruzione sociale.

Alla generazione queer, cresciuta nella subcultura lesbica e omosessuale, Wittig, legata all’ottica del femminismo materialista, sembra incapace di ipotizzare che ci si possa appropriare, capovolgendoli, dei meccanismi di rappresentazione controllati dal sistema etero. La cultura queer, al contrario, nel suo rifiuto della logica binaria del dentro/fuori l’eterosessualità, è interpretata come un sistema aperto, simultaneamente né dentro né fuori, una cultura di resistenza in cui il pensiero dominante viene costantemente sottomesso a processi di citazione, risignificazione, capovolgimento. Tali processi coinvolgono anche le identità non eterodirette, che vengono interpretate come “esclusioni escludenti” (B.Preciado [1]) di altre minoranze a loro volta escluse (di razza, di classe, di polimorfismo sessuale), e come portatrici di nuove gerarchie e categorie universalizzanti. Il pensiero queer si pone, quindi, come iper-identitario (o post-identitario), nel senso che analizza le modalità attraverso le quali l’opposizione etero-omo costruisce le gerarchie politiche di potere/sapere, e si appropria dei meccanismi della produzione performativa delle identità devianti: se la ripetizione ossessivamente martellata della norma etero produce ciò che nomina, cioè il soggetto universale etero, rendere visibile sempre e ovunque che soggetti del discorso sono lesbiche, gay, trans, neri, i soggetti devianti dei ghetti, significa fare di quei ghetti il luogo di produzione di identità resistenti alla normalizzazione. Ma resistere alla normalizzazione e alla universalizzazione comporta negare ogni identità fissa e assumere in sè l’intera gamma delle identità possibili. Se il genere è una performance (Butler) e il corpo il centro di una deterritorializzazione dell’eterosessualità (Deleuze), unica possibilità di combattere il sistema normativo è moltiplicare al suo interno le figure della devianza in un continuo divenire che, mentre le pone in essere, le ridiscute, le destabilizza: non ci si può relegare in un’identità fissa che impedisce l’accesso ad altre identità possibili. Le lesbiche non sono donne, ma nemmeno sono lesbiche perché l’identità di oggi può essere abbandonata domani, e poi ripresa in un movimento all’infinito.

A chi studia Wittig l’analisi sembra quanto meno affrettata. Il pensiero queer accusa Wittig di ipervalutazione dell’eterosessualità e di ingenuità nelle strategie politiche che ipotizza. Può darsi. Ma ci si chiede quale alternativa strategica, oltre al delirio di onnipotenza, proponga un pensiero che ipotizza la scelta sessuale in termini meccanicistici e di volontarismo, come se il desiderio, le pulsioni, le autorappresentazioni avessero così scarsa influenza da permettere a un soggetto di transitare con estrema facilità da un’identità sessuale all’altra. E quale percorso cognitivo lo stesso soggetto sia in grado di effettuare. Perché qui sta il punto.

Wittig non ignora che esistano altri soggetti oppressi – sparsi nei suoi testi vi sono continui accenni agli omosessuali, all’oppressione di razza, agli stessi uomini costretti nella categoria sociale “uomo” -, semplicemente, seguendo una pratica femminista in disuso, parla a partire da sé. Cioè parla a partire dal punto di vista di una lesbica e parla del punto di vista di una che è lesbica. Non ipotizza che la distruzione della categoria sociale “donna” porti alla nascita della categoria sociale “lesbica”, considera il matriarcato un incubo e non esclude che vi siano altri punti di vista. Si limita a dire che oggi, nelle situazioni socio-politiche e materiali date, la lesbica che sfugge al sistema di dominio eterosessuale rappresenta il punto di vista ineliminabile che permette di valutare l’oppressione di sesso – e il sistema degli innumerevoli sfruttamenti che ne conseguono -, così come il punto di vista dello schiavo nero fuggitivo permetteva di comprendere, e quindi destrutturare, l’istituzione politica, economica e sociale della schiavitù. Che tale punto di vista rappresenti un contro-codice definito e definitivo lo dice il pensiero queer, non Wittig.

Soprattutto nelle opere letterarie, felicemente ignorate o quasi dalla critica queer, Wittig va contro ogni clichés, anche lesbico. Le Guerrigliere sono l’epopea di una collettività che faticosamente si cerca e si trova e si smentisce. La stessa struttura circolare del testo, in cui il dopo, il transito e il prima si rincorrono, aldilà dei limiti spazio-temporali, fa da sottolineatura alla descrizione di pratiche che nella sperimentazione si smentiscono, mutano. Ne Il corpo lesbico è la materialità del rapporto che si rifiuta al codice e si smembra/rimembra in un percorso cognitivo che non ha fine e si inventa mentre inventa il suo linguaggio per dirsi, si ricostruisce in un altro – perennemente contraddetto – sistema di segni. Il “fuori” mitico di Wittig, sul quale polemizza il discorso queer, è la costruzione di un percorso di coscienza non riassorbibile in termini di codice nè di mercato e che smentisce proprio la fissità della politica identitaria chiusa nel ghetto delle sue sicurezze. Ci si chiede, invece, come sfugga alla logica del mercato il soggetto queer polisessuale che, non avendo punti di riferimento, e vagolando nella coscienza di sè come fra un tutto e un niente, non può che diventare l’utente privilegiato dell’apparato produttivo che incrementa il consumismo del sesso.

 

*In teoria 3, in Towanda!, n.9, marzo-maggio 2003 poi in www.tanianavarroswain.com.br/labrys/special/simonetta.htm

[1] B.PRECIADO, Manifeste Contra-sexuel, Paris, Balland, 2000 (trad.it. Milano, Il dito e la luna, 2002). La notorietà di Preciado in Italia è dovuta in gran parte al fatto che il suo è l’unico testo di teoria queer tradotto. [N.per il blog: ovviamente nel 2002]

Il muretto

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di Francesca Matteoni

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Narrare l’inquietudine dell’adolescenza. Narrare chi è niente affatto” né carne né pesce”, ma al contrario fin troppo sé, fin troppo nel suo pieno. Narrare con il bianco e nero la trasformazione adolescenziale alla fine degli anni Ottanta, sul ritmo della musica dark e punk, i Crass, i Bauhaus, Mano Negra, fisicamente condivisa ascoltando insieme a un proprio simile un vinile, una cassetta registrata. Narrare lo struggimento della soglia, del rito di passaggio Narrare lo struggimento della soglia, del rito di passaggio per cui si traghetta la forza disarmata, senza pelle e violenta di alcuni adolescenti nel mondo adulto. Ci riescono Céline Fraipont, sceneggiatrice, e Pierre Bailly, illustratore, ne Il Muretto (Eris, 2014), storia a fumetti dura e commovente, ambientata in Belgio, nel 1988. Protagonista è Rosie, ragazzina abbandonata a se stessa dalla madre che è andata via di casa, seguendo un altro uomo, e dal padre assorbito dagli impegni di lavoro. Sola ad affrontare la sua identità in divenire, Rosie oscilla fra l’universo infantile e l’impulso a infrangere ogni regola, fra il desiderio di meritare l’amore e la fiducia del padre e un’indipendenza anarchica e ribelle, refrattaria a ogni regola. Come in un gioco si rifugia sotto una coperta a leggere, ascoltare la musica e pensare quasi fosse la sua tenda-nomade, ma allo stesso tempo marina la scuola, beve alcolici, fuma e perde la migliore amica. È così che si arriva al muretto, luogo di confine su cui arrampicarsi e da cui saltare giù, dove Rosie incontra Jo, sedicenne che abita da solo sopravvivendo grazie a piccoli furti e allo spaccio e che la inizia al mondo dei concerti, ai dischi dei Cure e dei Ramones. La musica, quale trama che unisce i destini, fa rispecchiare i due ragazzi l’una nell’altro, dice la loro rabbia e intensità. Jo è attraente e pericoloso, incarna una possibilità di vita condivisa, sebbene ai margini – è una sponda in cui Rosie trova riparo, sebbene sia fatta di buio, si popoli nel tratto del fumetto dei volti ombreggiati e nervosi delle dipendenze, dell’irregolarità che ci sembra liberazione quando gli affetti familiari, le norme sociali, l’apprendimento obbligato ci costringono in uno spazio troppo angusto per l’anima. Questa favola d’amore e perdita porterà Rosie all’estremo di sé, a conoscere il dolore che inutilmente voleva chiudere in un cassetto con le lettere mai aperte, ricevute dalla madre. Eppure solo chi si affaccia sull’inferno, chi con la sua fragilità si lascia toccare dalle fiamme, dalla paura, dall’amore totale, può trovare uno sguardo lieve, fiducioso sul tempo a venire.

Quando chiudiamo il volume è l’immagine di una donna-bambina a imprimersi in noi. Non sorride, ma attende. E nell’attesa il tempo si fa umano, smette di respingerci o di spingerci a un’inutile corsa. Cosa resta, dunque, quando la vita ci mette alla prova, ci tira giù brutalmente dal muretto, ci sorprende e non ci fornisce nessuna istruzione per l’uso del dolore? Forse la differenza sottile tra chi cade nell’ombra e chi l’accoglie dentro di sé, impara che tutto quanto il male taglia, è ricucito dalla grazia di essere ancora vivi.

Una vacanza non riuscita ( appunti di lettura su Houellebecq e l’individualismo)

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di Giorgio Mascitelli

 

Nel romanzo Sottomissione di Michel Houellebecq il protagonista François, un professore universitario specialista di Huysmans, decide di trascorrere un periodo presso l’abbazia di Ligugé che aveva ospitato anche il suo autore prediletto dopo il ritorno alla fede durante la sua formazione spirituale. E’ del resto un momento delicato per François: posto forzatamente e anticipatamente in pensione dal nuovo governo islamista francese a causa della sua laicità, l’equilibrio della sua umbratile e moderatamente infelice esistenza di uomo senza qualità, non privo però di una sua arguzia,  è messo gravemente a repentaglio. In un frangente del genere nulla di più naturale che cercare un po’ di raccoglimento e, per così dire, di abbeverarsi alle fonti che hanno ispirato il lavoro di una vita, anche se in François forse non c’è completa consapevolezza di questo bisogno.

Comunque sia, l’esperienza si rivela un completo fallimento. Infatti i tic e le mille piccole abitudini consumistiche di cui è schiavo gli impediscono  non solo di apprezzare la comodità un po’ spartana della sua stanza nel convento, ma anche di concentrarsi sulla meditazione. In particolare l’impossibilità di fumare in stanza e il contestuale fastidio per i sensori antifumo si rivelano ostacoli insormontabili. Ecco allora che François si ritira dal ritiro ben prima di quanto previsto con un’uscita condotta secondo un perfetto stile da bigiata. Benché non sia particolarmente soddisfatto di ritrovare i propri concittadini, egli condivide tacitamente con loro un certo gusto per le comodità irrinunciabili che il mercato contemporaneo mette a disposizione del consumatore.

In fondo si potrebbe affermare senza cadere neanche eccessivamente nel paradosso che il ritiro nell’abbazia ha funzionato alla perfezione consentendo a François di conoscersi autenticamente: recatosi a Ligugé con l’idea di essere un misantropo in cerca di un senso profondo per la vita, scopre che la sua misantropia è molto più mondana e sociale di quanto credesse e che in definitiva essa non è nient’altro che la manifestazione del suo individualismo consumistico. A onore di François va detto che a seguito di questa epifania non si perde in psicodrammi da antieroe novecentesco, ma con postmoderno pragmatismo trae le sue conseguenze di questa scoperta: essa infatti è il passo logico immediatamente precedente a quello conclusivo del romanzo ossia la conversione del protagonista all’Islam per ragioni di carriera.

Non va condannato François per questo passo: il dilettantismo esistenziale dimostrato nell’abbazia e l’attaccamento puro e semplice alle cose e ai loro nomi senza neanche l’appiglio di qualche illusione offerta dall’ideologia dominante fanno letteralmente di lui uno sbandato.  Purtroppo per lui a differenza del protagonista de Le particelle elementari François non crede al progresso. Come ogni sbandato egli è nave senza velo e senza governo spinta dal vento che vapora non povertà nel suo caso, ma l’insignificanza dell’esperienza. In effetti, il sistema di relazioni di François assomiglia pericolosamente a quello di un emarginato nella sua strumentalità e irregolarità; c’è una certa comunanza, per esempio, tra la sua situazione emotiva e relazionale e quella del protagonista del Diario di un senza fissa dimora di Marc Augé, che finisce a dormire in macchina. Ora il problema ovviamente è capire se Houellebecq abbia tratteggiato un caso individuale, per quanto interessante, o una sorta di miniatura, di sineddoche della vita contemporanea.

Di Houellebecq si dice, soprattutto in relazione a questo romanzo, che sia un islamofobo; personalmente non sono convinto che sia vero, ma mi rendo conto che nel corso degli anni ha rilasciato tutta una serie di dichiarazioni, immagino più che altro per scopi promozionali, che hanno costruito questa sua nomea. Comunque la si pensi, deve essere chiaro che tra Houellebecq e un’Oriana Fallaci e un Thilo Sarrazin si frappone la complessità del discorso letterario al di là delle sue posizioni politiche vere o presunte. E’ il criterio di lettura che suggerisce Engels a proposito di Balzac, allorché ne sottolinea la capacità di cogliere e rappresentare le tendenze della società a prescindere dalle proprie opinioni politiche e ideologiche. In questo senso il ritratto dei gruppi dirigenti francesi che emerge da Sottomissione è quello di un ceto disposto a qualsiasi azione e a qualsiasi compromesso pur di mantenere almeno parzialmente i propri vantaggi economici e sociali. Ogni loro tattica sembra essere orientata a questo fine senza alcuna altra strategia di più ampio respiro e lo sbandamento di François non sembra essere che il corrispondente  sul piano individuale di questa assenza di strategia.

Peraltro il fallimento del soggiorno di Ligugé appare determinato dall’inconsapevole conflitto di due ordini di aspettative, l’una turistica e l’altra spirituale, che si risolve con la vittoria della prima. Del resto anche l’organizzazione dell’ospitalità nell’abbazia, sospesa a metà tra il modello alberghiero e quello conventuale,  alimenta in qualche misura il conflitto tra questi due ordini di aspettative. Ma cosa vuol dire in concreto che l’aspettativa turistica prevale sull’altra? Che l’esperienza del viaggio e dell’altro da sé non può sussistere che in forma di merce.

Fin qui si potrebbe dire null’altro che una banalità sociologica, ma l’aspetto interessante è che questo turisticizzazione dell’esperienza non avviene in un personaggio culturalmente fragile o in un benpensante, ma in uno studioso, un intellettuale che sa di compiere non un semplice viaggio, ma una raffinata citazione di Huysmans: circostanza tanto più notevole quanto più tutti i critici della società dei consumi e dell’estetica della merce hanno sempre sorvolato sul grado di coinvolgimento dei ceti intellettuali in questi meccanismi. Non si tratta però di una polemica antintellettualistica, ma, in virtù dell’autostraniamento con la quale è condotta la narrazione in prima persona, della constatazione di quella che è ormai diventata una seconda natura di tutta la popolazione francese o meglio occidentale. Infatti quando Myriam, la studentessa ebrea amante di François in procinto di trasferirsi con la famiglia in Israele dopo che il primo turno delle presidenziali ha mandato al ballottaggio Marine Le Pen e il candidato islamista, a casa di lui si lancia in un suo commosso Addio monti alla Francia nell’evocare le ragioni del suo attaccamento per la propria patria non trova altro da citare che il proprio amore per il formaggio e François da par suo la rincuora dicendo che ne ha in frigorifero. Qui sembrerebbe quasi che Houellebecq sia tentato da una via flaubertiana alla critica del capitalismo e dell’estetica delle merci.

E insomma appare chiaro e proprio questo lo rende un personaggio tipico, almeno in una lettura tendenziosa come la mia che esclude tutta la componente fantapolitica del romanzo, che il turista dell’esistenza François in mancanza di approdi alternativi non può che convertirsi all’Islam per mantenersi fedele alla sua vera religione ossia il capitalismo. E questa seconda religione si staglia come un contorno sfumato di ombre dietro  alla fantasmagoria della descrizione dell’ascesa al potere dell’islamismo, ma va dato atto a Houellebecq che solo uno scrittore apolitico e radicalmente ossessivo come lui avrebbe potuto cogliere il tema dell’individualismo delle nostre società nella sua integralità svolgendolo in maniera spietata e rappresentando così le tendenze sociali dominanti del nostro tempo.

Overbooking: Lisa Ginzburg

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Allegri (ma non troppo) tropici

di

Francesco Forlani

nota su Spietati i mansueti (Gaffi Editore)

Cinque racconti, scanditi dallo stesso numero di pagine ( con minime variazioni) come i cinque sensi. Un’edizione graficamente ineccepibile a cura di Maurizio Ceccato. Cinque promenades della ville lumiére essenzialmente dislocate sulla rive droite. Quando ho cominciato a leggere i racconti di Lisa Ginzburg il passo che vi ho riconosciuto è stato quello di Vite di uomini non illustri di Giancarlo Pontiggia. Negli Spietati vige lo stesso dispositivo narrativo usato da Pontiggia, deliricizzazione della lingua, delle situazioni, l’unico in grado d’illustrare (rendere illustri) vite altrimenti normali, poco significative, minime. Come in Pontiggia  si parte sempre da una persona nella sua singolarità, per restituirla alla comunità ignara di tali esistenze grazie a un’applicazione alla lettera della tecnica biografica, generalmente destinata alle vite famose e certamente fonte d’ispirazione ai necrologi familiari.

Da una parte lo slancio vitale, che nella sensibilità dell’autrice si traduce con la passione che disordina (o al contrario organizza) le vite dei suoi personaggi, e dall’altra la micidiale finitudine e ineluttabilità del destino contro cui le lancette del tempo si spezzano, prima o poi. Esemplare da questo punto di vista il primo racconto, intitolato Buonanotte gattina e in cui la protagonista, Galia, a fronte della sua debordante vitalità deve far fronte al sostentamento compilando i necrologi di “uomini e donne non illustri”. Una domanda però sembra seguire nodo dopo nodo, racconto dopo racconto, la trama della tessitura dei personaggi: esiste un tempo prima della fine di un amore?

Lisa Ginzburg si serve degli oggetti, delle cose per ricomporre tessera dopo tessera il mosaico di ogni mondo dove perfino un orologio da polso, un semplice mazzo di fiori può diventare il metronomo impietoso dello “still life” piazzato nelle stanze ordinarie di ogni amore, legittimo o illegittimo che sia. Del resto la rue du Paradis dove quelle stanze sono, non è forse l’incrocio di due strade, la rue de la Fidelité e l’impasse du Désir che illustrano meglio di ogni altra carta questo strano paesaggio? E come non pensare alla magnifica ouverture dell’incompiuto romanzo di Bobi Bazlen, Il Capitano di lungo corso,  dominata dalle piante di Ortensia sulle finestre, le stesse che il protagonista ritroverà appassite due pagine dopo o addirittura trasformate nel finale quando quegli stessi fiori, diventati di plastica, rinunciano alla propria natura e caducità, per trovare nel kitsch la propria salvezza e immortalità?

” Mi sono comportato come quei pittori che, cercando di evocare un colore, inventano aspetti del paesaggio” leggo sulla quarta di copertina dell’opera di Giancarlo Pontiggia, nell’edizione Oscar Mondadori del 91. Questo è forse il maggiore antidoto alla deriva lirica del kitsch, trappola infernale per chiunque si avventuri nel mondo delle passioni, e questa la maggiore qualità di quest’opera di Lisa Ginzburg che con uno stile di grande eleganza e sottile ironia, racconto dopo racconto riesce  a trasportare il lettore nell’arena delle passioni senza cedere all’illusione di sconfiggere il tempo nè a quella ancora più terribile della resa ad esso.

*Segnalo la presentazione a Parma, domani 27/10/2016 – Libreria Piccoli Labirinti – Ore 19.00 Via Gramsci, 5, Galleria Santa Croce, del libro  Spietati i mansueti, Gaffi. Saranno presenti l’autrice e l’editore. Conduce l’incontro Gian Carlo Zanacca. Letture a cura di Giuseppe Boles e Paola Ferrari

I treni non esplodono. Storie dalla strage di Viareggio

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A settembre ho presentato insieme agli autori  I treni non esplodono. Storie della strage di Viareggio edito da Piano B. Leggere questo libro è stata un’esperienza dolorosa, per la vicinanza dei luoghi, per l’approccio che Federico e Ilaria hanno scelto, quasi facendosi da parte perché le voci risuonassero in tutta la loro verità, mettendosi in altre parole al servizio. La vicenda è recente, non ancora risolta, irrisolvibile per chi in quel fuoco ha perso gli affetti più cari. Eppure, e questa è l’unica cosa che mi sento di dire, se questo è prima di tutto un libro che chiede giustizia con la dignità delle storie èanche un coro della speranza. Che ci ricorda che davvero c’è il bene in fondo all’essere umano, quel bene che spinge qualcuno a raccogliere tutti i cani e i gatti sbruciacchiati per la via, qualcun altro a cercare per giorni i resti di un amico risucchiato dentro l’esplosione, una madre a presentarsi agli altri nell’abito migliore per rispetto della gioia di esistere della figlia che non c’è più, qualcun altro a raccogliere ogni memoria,  ogni tributo in una piccola baracca divenuta Casina dei Ricordi, perché i vivi e i morti non sono mai davvero separati ed entrambi hanno bisogno di giustizia (f.m.).  

di Federico Di Vita e Ilaria Giannini

«È successo un casino vai a prendere la telecamera e fai le immagini»

Diego Granzetti, 31 anni

(Operatore video)

Diego Granzetti è un uomo alto, con un sorriso aperto e qualcosa di lieve nei modi che lo fa sembrare più giovane della sua età. Lo incontriamo in un locale davanti al mercato all’ora dell’aperitivo e poco dopo veniamo raggiunti dalla sua compagna e dalla loro bambina. Ci siamo ritagliati un po’ di intimità nella sala sul retro, è la prima volta che accetta di parlare di quella notte: anni prima ci aveva provato ma senza riuscire a mettere in ordine le idee. Dal 2009 a oggi per Diego Granzetti sono cambiate molte cose: ha lasciato Viareggio per andare a vivere nell’entroterra, verso Lucca, di là dal Monte Quiesa, inoltre è diventato padre. In via Ponchielli non torna più, ogni tanto la occhieggia dal finestrino, quando arriva in treno.

Il 29 giugno ero uscito con la mia ex compagna e stavamo litigando di brutto. Non ci vedevamo da tantissimo, eravamo a cena fuori a Pietrasanta, dov’è l’inceneritore, verso la capannina del Pollino. Avevamo appena finito di mangiare e stavamo in macchina per tornare a Viareggio quando scoppia una lite furibonda. In auto continuiamo a urlare, offese, un casino. Abbastanza passionale come storia. E c’ho questa immagine che non scorderò mai per tutta la vita, quando stavamo riappacificandoci, in un secondo momento, c’era ancora tensione, lei mi si siede sulle ginocchia e io con la macchina ferma guardo fuori, avevo il parabrezza davanti, la macchina era puntata da Pietrasanta verso Viareggio. Mentre parlavamo vedo come un’alba: tre bagliori e poi un chiarore enorme. E rimango sbalordito. Fermo. Capisco subito che è qualcosa di inimmaginabile. Il litigio passa in secondo piano e le dico: partiamo. Faccio la parallela dell’Aurelia – via Macchia Monteggiorini – a una velocità folle, roba da sbandare in curva. Sono abituato a guidare forte perché per il lavoro che faccio sono sempre in autostrada e cerco di arrivare a casa prima, è un po’ incosciente, però… Il limite era a 50 e io penso di aver fatto anche 120 sui drittoni, c’ho messo meno di 10 minuti. Sono arrivato nella via del Fortino, tra Lido e Viareggio, dove c’è il ponte, lì vedo le fiamme. Sapevo che erano a Viareggio ma non pensavo potessero arrivare… vedevo gli alberi della pineta e poi, sopra, le fiamme.

Quando sono partito da Pietrasanta credevo che l’unica cosa che potesse aver provocato quel chiarore fosse al porto, immaginavo una nave, anche se non abbiamo un porto grande come Livorno che gestisce i gas e queste cose qua. Non pensavo davvero che un treno – come dice sempre la Rombi – potesse esplodere.

Quando da quel ponte vidi le fiamme capii che era qualcosa verso l’interno, non sapevo bene dove, e allora mi viene in mente che al bowling, al vecchio bowling, c’è un ponte da cui magari avrei avuto una visuale migliore. Quando arrivo in zona inizio a vedere tutte le macchine parcheggiate in doppia fila, forse anche qualche sirena lampeggiante, sarà passato nemmeno un quarto d’ora.

Tiro dritto e posteggio dietro i Vigili del Fuoco. Mi saluto con la mia ex che mi dice di lasciar perdere. Ma era impossibile, qualcosa mi spingeva ad andare.

Passo dallo studio e prendo la telecamera, dietro non avevo niente.

Una sfiga assurda è stata che il mio collega non aveva messo in carica le batterie, non trovavo la camera, non trovavo le cassette, non trovavo niente. Avevo il panico addosso e iniziavo a sentire delle grida, prendo l’unica batteria che trovo mezza carica, afferro un nastro e parto. Di corsa ritorno verso i vigili, passando da dietro.

Vado verso via Ponchielli e vedo tutti questi alberi anneriti, però la cosa che proprio mi colpisce è la cisterna enorme di un tir che aveva preso fuoco. Lì dico: ma vaffanculo, ma guarda che cazzo è. Non so perché ma pensai che fosse stato questo enorme tir ad aver scatenato il tutto[1]. Inizio a far delle immagini, ma riprendendo mi resi conto che qualcosa non quadrava. Di ambulanze ne erano arrivate forse due, la polizia non c’era…

Via Ponchielli era sempre aperta, fino alle 3 potevi fare quello che ti pareva[2], ci potevi entrare con un carrarmato, era anarchia pura, la gente gridava. A quel punto capisco che c’è qualcosa di più grande. Quindi sempre di corsa – andavo sempre di corsa, forse ero nervoso, avevo questa adrenalina – vado sull’Aurelia ed entro in via Ponchielli da dietro. [Fa una lunga pausa] La prima scena che vedo è qualcuno che portava via un vecchietto in vestaglia, sapevo che era il Cappelli, aveva uno studio dove aggiustava cose d’epoca, tra l’altro aveva delle rarità enormi nell’ambito della fonica, un tecnico vecchissimo, avrà settant’anni.

Naturalmente lo vedo attraverso la camera, la scena la vedo in un totalino: ci sono le persone che vengono portate via e tutto il resto scuro. Macchine esplose, tutto nero, acqua in terra, non so dirti quanti vigili correvano, poi vedo delle fiamme enormi dalla parte opposta, dove c’erano la passerella e il parcheggio del dopolavoro ferroviario.

Ero talmente nel pallone da non sapere dove mi trovavo, non so perché ma credevo di essere dall’altra parte delle rotaie, tanto che quando ho telefonato al mio collega per dirgli di raggiungermi con un’altra telecamera gli ho dato delle indicazioni totalmente errate, gli ho detto di essere dalla parte della Stazione, verso la Superal.

Io non è che Viareggio la conosco bene, di più, ci son nato e cresciuto: ero completamente andato fuori di testa, non connettevo bene.

Mentre ero al telefono arriva un vigile del fuoco che mi strattona e mi fa oh, digli ai tuoi colleghi… – ma in modo irruentissimo – sono delle teste di cazzo, lo vedi che ne è esplosa mezza, ne è esplosa una e basta, se esplodono le altre siamo tutti morti.

Allora mi giro, guardo i binari e vedo queste fiammate enormi, stavano prendendo fuoco le macchine che erano parcheggiate di là, era tutto nero e le fiamme illuminavano in controluce le sagome delle cisterne. Lì ho capito. E sono rimasto così. Lui mi diceva c’hanno le infradito, i tuoi colleghi sono venuti in ciabatte. Ho pensato che fossero di Rete Versilia, hanno saputo che era successo qualcosa e sono partiti così come stavano, in calzoncini.

Per prima cosa mi tiro nei binari e vado vicino alle cisterne, inizio a vedere delle persone, indossavano quelle divise tipo Anas, arancioni, con delle luci controllavano per terra, non so che facessero. La vampata aveva annerito tutto, aveva distrutto le macchine ma non credevo avesse fatto dei danni, non credevo assolutamente ci fossero dei morti. Ricordo un discorso, si diceva ci saranno forse due morti, non pensavo a quest’impatto impressionante.

In fondo alla passerella, dov’era l’unico parcheggio a strisce bianche di Viareggio –  sempre affollatissimo – c’erano delle macchine che avevano preso fuoco da cui partivano fiammate di venti metri.

Ho attraversato i binari fino alla Croce Verde, poi sono tornato indietro perché ho capito che il grosso era dall’altra parte. Sono passato vicino alla Stazione e ho visto i sassi dei binari tutti sdraiati sulle banchine: una distesa di sassi.

Torno in via Ponchielli, l’attraverso tutta, l’asfalto fumava, una roba apocalittica che vedi solo nei film.

Era tutto distrutto. La cosa più allucinante era l’interno delle case, quelle che ora non ci sono più: erano nere, era scoppiato tutto. Erano scoppiati i mattoni che tenevano il muro in piedi, erano esplosi dal calore, le pentole si erano fuse.

Alcuni pezzi invece… mi ricordo un poster di Eros Ramazzotti, un poster, la cosa più effimera del mondo, attaccato a una parete, sano.

Ho visto delle scene che non mi scorderò mai nella vita. Ho visto una di quelle bacinelle dove mia mamma mi lavava da piccino, di quelle blu, ci vedo infilato dentro un uomo di 50 anni, nudo. Con le braccia e le gambe fuori, era vivo. Sicuramente qualcuno l’aveva tirata per strada… tutte queste cose non le ho filmate però.

Erano già arrivate le prime ambulanze, forse della Misericordia di Lucca, qualcuno mi dice che in una casa erano morti due bimbi. Vado verso un edificio crollato e vedo il nonno di questa famiglia che girava come uno zombie. Mi hanno detto che era il nonno dei Piagentini, una figura alta, sulla sessantina, tutti lo guardavano, era sicuramente un familiare.

Sulla strada da lì in poi – l’uomo nella bacinella era davanti al gommista, al Passaglia[3] – c’era una distesa di quei lenzuoli termici che mettono quando sei gravemente ustionato, con della gente sopra. Magari stavano aspettando un altro viaggio delle ambulanze, non lo so. Ce n’erano già molte ferme e chiuse, stavano prestando i primi soccorsi. Da quella notte in poi quando sento un’ambulanza – non pensavo mai di poter fare un discorso del genere – penso a quelle sirene e al 29 di giugno.

C’era gente che andava e veniva, curiosi, qualcuno fotografava. Miei colleghi che non hanno rispetto di nessuno, andavano dai feriti e gli piazzavano la camera a tutto grandangolo davanti – senza entrare in polemica, son cose che ho visto. Miei colleghi non credo professionisti, tra l’altro. Tante cose penso di averle rimosse. Non ricordo molto altro.

Sono stato lì per due giorni credo, non ho mai dormito. Non ho dormito la mattina dopo perché verso le 6 ha cominciato a squillare il cellulare per le aziende per cui lavoro, poi ho iniziato a fare un servizio per il Tg3 nazionale. Non ho smesso di lavorare fino al giorno dopo, quando è arrivato Berlusconi. Le immagini che ha usato Sky erano le mie, non era neanche tantissimo, avrò girato una quarantina di minuti, perché combattevo continuamente con questa cazzo di camera che non mi stava accesa, quindi nell’assurdità, nella tragedia, poi ti confronti con piccoli problemi del cavolo.

Credo di avere un istinto per queste cose, per via del mio lavoro, però non mi era mai successo niente del genere. Quella sera il caso ha voluto che ci sia stato un incidente a due passi dallo studio dove ho sempre lavorato, avevo l’attrezzatura lì e il cervello ha fatto uno più uno.

Le immagini non le ho più riguardate. Non le guardo e non passo più da via Ponchielli. Mi ricordo un sentimento fortissimo: dal secondo giorno volevo pensare ad altro. Forse era una cosa per salvaguardarmi, un senso di rifiuto.

Quando ho iniziato questo lavoro a Rete Versilia ho beccato gente morta in autostrada, impiccati, persone che si son tirate sotto il treno, li ho visti faccia a faccia. Il primo incidente che ho visto erano quattro morti e non ho mangiato carne per una settimana. Ti viene il disgusto. Però il magone più grosso che ho provato nella mia vita è stato intervistare la Rombi.

Ho fatto tre interviste a Daniela Rombi, tra cui l’ultima in via Ponchielli, dove non volevo andare – e anche lei mi ha detto che non ci va mai – era per La7, volevo andare a casa e, non lo so. In assoluto se qualcuno mi chiedesse qual è tra le persone che ho intervistato quella che mi ha massacrato di più, è stata lei. Perché parla con freddezza, non con la pietà che ti aspetti da una a cui è morta una figlia. Sì, ce l’ha la pietà, ma è anche pragmatica, dirompente, quando racconta. Penso di aver pianto insieme all’assistente. Forse perché ricordo sua figlia al vecchio Cro[4], la sera.

Non posso dire di aver conosciuto Emanuela, però sapevo chi era, la vedevo. Magari si era tre stupidi al Cro il martedì sera, mi ricordo lei e Sara, non la conoscevo ma a Viareggio siamo in dieci, se ti vedo una sera al Cro, la sera dopo al Cro e siamo i soliti tre, insomma, mi ricordo di te. Poi aveva dei lineamenti molto particolari, le vedevo al Sars[5], in altre situazioni anche, non ci siamo mai salutati ma quando poi ho visto le foto…

* * *

Voglio raccontarvi di una cosa che è stata ritrovata, si parla di una macchina, la cosa più stupida del mondo. A me fa ridere perché conosco il proprietario. La mattina del 30 giugno per lavorare mi danno come assistente Carlo, un vecchio fonico di sessant’anni. Ci incontriamo alle 6 di mattina al piazzale della Stazione e lui ha una faccia sconvolta.

Carlo ha due passioni, le armi – è un collezionista – ma non lo devi vedere come un Rocky, è un sessantenne, single, come ti posso dire, appassionato di armi, soprattutto storiche, dalla balestra…  ne possiede un sacco. E di macchine, adora le macchine. Di recente aveva comprato una Porsche d’epoca, bellissima, anni ’70 o ’80. Qualche giorno prima sua sorella l’aveva tamponato facendo retromarcia e lui aveva portato la macchina nell’autofficina di via Ponchielli.

Passiamo tutto il giorno insieme, era un uomo distrutto. Ci teneva a questa auto, ci parlava. Il giorno dopo io proseguo da solo, per la prima volta fanno un cordone stampa e ci fanno entrare dentro via Ponchielli: non ti potevi fermare assolutamente, c’era un piantone all’inizio e uno alla fine, te proseguivi, facevi immagini, ti fermavi un secondo e andavi avanti. Perché era pericoloso, non si poteva sostare.

A un certo punto lato monte, passo, guardo il forno dell’autofficina: distrutto. Pensavo alla macchina di Carlo, poveraccio. Mi giro, guardo dentro l’autosalone e mi sembra di vedere una Peugeot sfondata e dietro questa una fila di macchine bruciate, e in fondo c’era la sua: intonsa. Pigio REC alla camera, il giornalista vede che mi stavo veramente facendo i cazzi miei in quel momento lì, dovevo fare altre robe, gente che lavorava, macerie, non mi importava una sega, volevo fare quella macchina lì.

Rendetevi conto che dall’inizio alla fine io ci dovevo mettere cinque minuti, era quello il tempo che avevamo, ne ho passati tre chiamando Carlo.
Carlo, c’è la tu’ macchina!
Non mi prendere per il culo Diego.
Ti giuro Carlo è la tu’ macchina, è nòva, è intonsa! Te l’ho filmata, te la mando sul Tg3.
Prendo il giornalista e gli faccio: oh queste immagini qui vanno in onda stasera, quella macchina ce la devi mettere. Non lo so se è andata, però Carlo la sera m’ha chiamato, era felicissimo.

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[1]    Era il tir guidato dal camionista polacco Malek Marcin, che aveva parcheggiato davanti ai giardinetti di via Ponchielli e si era addormentato. L’uomo di 38 anni, rimasto gravemente ustionato nell’esplosione, è stato curato al centro grandi ustionati dell’ospedale Cto di Torino e si è salvato.
[2]    Diego è giunto sul luogo dell’esplosione dopo circa mezz’ora, quindi alle 00:30, probabilmente in quel momento in via Ponchielli non erano ancora arrivate le forze dell’ordine che poi hanno impedito l’accesso alla zona.
[3]    Fulvio Passaglia è un gommista che si trova a poche decine di metri dal luogo della strage, all’incrocio tra largo Risorgimento – la parallela di via Ponchielli – e via Porta Pietrasanta. Il negozio, forse grazie alle vistose lettere gialle dell’insegna, è preso da molti come punto di riferimento.
[4]    Il Circolo ricreativo operaio di Viareggio, che si trova in Darsena, in via Coppino.
[5]    Un centro sociale in Darsena, vicino alla piscina comunale.

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Postfazione

Una sera di qualche ottobre fa, quando già avevamo iniziato da tempo a lavorare a questo libro, un amico di Firenze mi domandò come mi era venuto in mente di imbarcarmi in un’impresa di tale portata. Mi chiese un semplice perché e io, che avevo scritto due romanzi e professavo una letteratura il più libera possibile dai vincoli della realtà, scrollai le spalle e non seppi cosa rispondere.
Era la stessa questione che mi era risuonata così spesso nella mente, quando dovevo alzare il telefono o scrivere una email per fissare un’intervista, quando varcavo la soglia delle case di chi aveva perso gli affetti più cari o affrontato le ustioni: ogni volta mi chiedevo come avevo fatto a ritrovarmi invischiata nelle vite degli altri. Dove nasceva la spinta con cui mi ero arrogata il diritto di raccogliere le loro storie, che sicuramente meritavano di essere raccontate, ma perché io, perché noi, perché in questa forma?
Per darmi una spiegazione posso solo tornare a quel 29 giugno che per i versiliesi fu un vero spartiacque, uno di quei momenti di coscienza e storia collettiva che frantumano come terremoti l’orizzonte piatto della vita, tanto che tutti noi conserviamo una personale versione di quella notte impressa nella memoria.
Persino io, che abitavo a Firenze e avevo lasciato ormai da otto anni il paese del Comune di Massarosa dove sono cresciuta, fui raggiunta in tempo reale dalla notizia come se non mi fossi mai spostata da lì. Era passata da un minuto la mezzanotte e stavo leggendo in pigiama quando il cellulare si mise a suonare: era mio fratello minore, rientrato proprio quel giorno da una vacanza negli Stati Uniti. Ci telefoniamo di rado e visto l’orario sentii due dita di panico piantarsi in gola. Tutto bene?
Io sto bene ma sono in Darsena, è scoppiato qualcosa, ci sono delle fiamme altissime, stiamo andando a vedere cosa è successo, guarda se su internet dicono qualcosa.
Mi precipitai al computer ma ancora non c’era traccia del disastro, solo a mezzanotte e un quarto cominciarono a trapelare le prime, confuse notizie, che diventavano di ora in ora sempre più gravi.
Dormii male e mi svegliai convinta di stare ancora sognando: partii per Viareggio per raccontare quello che era successo sul giornale online per cui lavoro. Io e il cameraman raggiungemmo in macchina la città e parcheggiammo nei pressi della Torre Matilde. La sensazione di irrealtà era fortissima: il cavalcavia che sovrasta i binari era chiuso e presidiato dalla polizia, la Croce Verde era devastata dal fuoco, le strade ingombre di carcasse di auto incenerite, via Ponchielli ridotta a un buco nero.
Questa era la città dove avevo frequentato cinque anni di liceo classico, queste le strade che avevo percorso milioni di volte con lo scooter per andare al mare o a ballare in discoteca, dove avevo passeggiato per mano alle mie prime cotte. Viareggio, la città che più avevo amato tra quelle dove mi ero ritrovata a vivere, il paese del Carnevale e dell’adolescenza eterna, era irriconoscibile.
Ricordo quella giornata come una bolla impastata di sonno; mi muovevo al rallentatore e ancora più lentamente mi sembrava si muovessero quelli intorno a me: gli sfollati rimasti senza casa alloggiati nel campo provvisorio davanti al Comune, i volontari che sudavano nelle divise, i tantissimi viareggini che si erano trascinati in piazza Nieri e Paolini per ritrovare amici e parenti, contarsi a vicenda, toccarsi il viso e le mani, assicurarsi di essere ancora vivi.
Facevo interviste e pensavo all’Abruzzo colpito dal terremoto, che sempre per lavoro avevo visitato qualche settimana prima: adesso toccava a me provare lo stordimento della terra che ti cambia sotto i piedi, questo era il mio turno di incontrare vecchi compagni e conoscenti sconvolti e inorriditi, di essere travolta dalla rabbia del popolo esplosa all’arrivo della politica nazionale in pompa magna.
Viareggio toccava a me e mi toccava da vicino: nei mesi dopo, negli anni successivi, non avrei mai smesso di figurarmi l’attimo esatto in cui il convoglio aveva perso la sua traiettoria, l’istante prima che quelle vite venissero deviate per sempre, diventassero qualcos’altro. L’ultimo minuto in cui tutto era stato come doveva essere.
L’avrei immaginato, avrei ricordato e sempre, tornando a casa in treno, avrei cercato con lo sguardo quel che mancava in via Ponchielli.
Così ho iniziato a desiderare che altri insieme a me conoscessero e ricordassero, non solo chi perse la vita in un incidente che poteva essere evitato ma tutte quelle esistenze che sono cambiate alle 23.48 del 29 giugno 2009. Tutti i volti, le voci, le storie che dopo pochi mesi appena erano state spazzate via dalla velocità della cronaca, dall’oblio della modernità, dalla difficoltà di accettare che quel lunedì d’inizio estate a Viareggio trentadue persone erano morte nelle loro case, nei loro letti, nei loro giardini, nelle loro macchine, nei loro cortili.

Ho saputo del disastro ferroviario di Viareggio dalla televisione. Sullo schermo c’erano immagini di enormi fiamme lontane, e molto caos. Doveva trattarsi dell’edizione speciale di un telegiornale: rimasi come ipnotizzato dalla tragedia che colpiva una città di cui non sapevo praticamente nulla. A Roma era una serata afosa, rientravo da un giro in motorino fatto col solo scopo di farmi rinfrescare dal vento. Doveva far caldo anche a Viareggio perché molte delle vittime avevano le finestre aperte, da lì erano entrati il gas e la vampata di fuoco. Questo particolare è stato chiaro sin da subito? Non lo so. Continuavo a guardare le immagini correre in loop nel rettangolo del televisore, le prime coperture erano parziali. Era già evidente che il numero dei morti era destinato a crescere di ora in ora. L’ingiustizia a volte assume forme cariche di magnetismo. Continuavo a fissare il video, ero solo e in ogni caso non avrei avuto niente da dire. Non ne ho parlato nemmeno nei giorni successivi, fedele al precetto che i soli ad avere il diritto di esprimersi sono i familiari delle vittime, se ne ha voglia qualcuno degli amici.
Viste le responsabilità che sin da subito istintivamente imputai a Trenitalia (se in città deraglia ed esplode un treno che trasporta Gpl, di chi può essere la colpa?), immaginai le facce unte dei politici planare su Viareggio e l’infinito chiacchiericcio che si sarebbe fatto di tutto ciò.
Poi passarono mesi e anni. Incontrai Ilaria, che è di quella zona, e che mi parlò della strage – la chiamava proprio così, la strage. Sapevi che gli abitanti di via Ponchielli avevano firmato una petizione per chiedere la costruzione di un muro che separasse la strada dalla ferrovia?
Non sapevo niente. Me ne parlò altre volte, poi altre ancora. Avevo sbagliato a pensare che ne avrei sentito discutere a lungo: passati i primi giorni i mezzi di informazione nazionali non se ne sarebbero occupati più. Nonostante le presunte responsabilità di Trenitalia. Nonostante il processo che finalmente si cominciava a celebrare. A Roma era passato in sordina ma, come ho avuto modo di constatare, anche a Firenze, dove nel frattempo mi ero trasferito, nessuno sembrava curarsene. Il silenzio ribadiva il dominio dell’ingiustizia. A forza di sentir parlare della strage di Viareggio, in contrasto col distratto oblìo in cui andava sprofondando, ho finito per prendere a cuore la vicenda. Ilaria qualche volta mi accennò di aver pensato, in passato, di volerne scrivere ma di non aver mai cominciato. Adesso a informare le persone con cui tiravamo fuori il discorso eravamo noi.
Sua madre fa parte sin dall’inizio di uno dei comitati nati in seguito a quella notte. Avevamo informazioni di prima mano e un canale per entrare in contatto con molte delle persone coinvolte. A un certo punto ci fu chiaro che il modo migliore di indagare le circostanze della strage di Viareggio era lasciar esprimere chi le aveva vissute in prima persona. Per questo abbiamo incontrato chi ha avuto il destino di trovarsi quella notte a lato dei binari. Ci interessava ascoltare le storie dalla viva voce di chi le aveva vissute. Ci ritrovavamo in un bar, o alla Stazione, o in casa del testimone con cui avevamo appuntamento. Accendevamo il registratore, lo mettevamo su un tavolo e lasciavamo che la conversazione prendesse il suo corso. A volte questi incontri sono durati anche due ore. La verità emersa dalle parole di chi ha vissuto quella sera sarebbe stata diversa da quella pronunciata nelle aule del tribunale, indipendentemente dall’esito giudiziario. Volevamo dare spazio a questi racconti e all’unicità di chi li ha vissuti, fare in modo che si smettesse di considerare le vittime come numeri.
In alcuni casi, come per i macchinisti, siamo andati al Polo fieristico di Lucca dove viene celebrato un processo troppo grande per entrare nelle strette aule del tribunale cittadino. Abbiamo raccolto così le deposizioni di alcuni testimoni chiave che ci sarebbe stato impossibile raggiungere diversamente.
La lavorazione del libro è durata più di tre anni, la distanza delle testimonianze rispetto alla notte del 29 giugno varia da tre a cinque anni. Tra quelli che abbiamo intervistato c’è chi ha avuto molte occasioni di parlare, anche pubblicamente, della propria esperienza, altri invece accettavano per la prima volta di farlo – fino ad allora avevano preferito non tornare su quei momenti. Per la stessa ragione alcuni hanno scelto di declinare il nostro invito.

Da “Terra di mezzo”

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di Marco Aragno

 

Era la tua salvezza:

ripetere i gesti minimi, quotidiani

come accendere le luci

alla stessa ora

tenere vivi i fiori sul balcone,

dare da mangiare ai cani.

Labranca for dummies

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Per chi ne avesse voglia, giovedì prossimo, il 27 ottobre alle 18,30, dedichiamo una serata a Tommaso Labranca.

Sarà presso l’Auditorium Piero Calamandrei in via Correggio 43 a Milano. Ci sarò io con Marta Cagnola, Luca Rossi e Francesco Specchia. E anche un ospite molto labranchiano che non vi dico per non rovinarvi la sorpresa. Parleremo di Tommaso e presenteremo il nuovo numero della rivista da lui fondata, Tipografia Helvetica. Un numero speciale tutto dedicato a lui e alla sua opera.

Passate  trovarci, se lo merita.

labranca-for-dummies-27-10-2016

mater (# 8)

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di Giacomo Sartori

 

Portavi i fiori

portavi i fiori

sulla tomba di famiglia

brullo muro

nel cupo del colonnato

(neoclassicismo malmesso

dei cimiteri)

dov’è il dandy

che tanto t’è mancato

cinéDIMANCHE #26 FRANCESCO DAL BOSCO Amnesia (I morti ritornano)

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di Francesco Dal Bosco
(con una intervista al regista curata da Giacomo Sartori)

Cos’hai voluto fare con questo lavoro?

Con questo video, che dovrebbe essere il primo di una serie, ho cercato di riattivare e restituire energia a un’iconografia altamente significativa degli anni ’60 e ’70 del secolo scorso, quando queste figure e queste parole proiettavano nel mondo una volontà di resistenza e cambiamento. Prima che venissero depotenziate, rese innocue dalla rete della comunicazione globale. Immagini diventate in un certo modo intoccabili, svuotate di ogni vitalità, relegate nel territorio proibito degli stereotipi, del “già visto” e dell’ovvio.

Cosa intendi per ridare energia, quando anche il tuo sguardo non è più quello che era quando queste immagini le vedevi la prima volta?

Restituire energia significa per me, in primo luogo, ricordare. Ho letto qualche giorno fa un’intervista a Hans Ulrich Obrist a proposito della pratica quotidiana della pittura che mi ha molto colpito, anche perchè utilizzava il termine “amnesia”, che è il titolo che ho voluto dare al ciclo di film a cui sto lavorando.

Guardiola e Mourinho, i duellanti di Paolo Condò

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di Giovanni Dozzini

condoEro arrivato a Barcellona da due mesi esatti, il 23 settembre del 2002, e un paio di volte m’ero spinto fino agli isolati intorno al Camp Nou per ammirare da fuori l’enorme catino in cui una settimana sì e una settimana no sembrava riversarsi mezza città per assistere alle partite della compagine allenata da Louis Van Gaal, l’olandese rubizzo col naso da boxeur e i capelli impomatati. Il calcio, a Barcellona, era una confessione laica che al tempo ribolliva ben più dei recenti istinti indipendentisti del popolo catalano, ma lo squadrone di Leo Messi e Pep Guardiola era ancora molto di là a venire. Degli eroi del futuro dream-team quella sera scesero in campo solo Charles Puyol, l’enfatico capitano dalla chioma frondosa, e Xavi, il raffinato architetto, allora ancora ventiduenne. Due icone del barcellonismo che più tardi sarebbero entrate nella storia del club e dell’intero calcio spagnolo.

Nell’autunno del 2002, quindi, io ero a Barcellona per studiare da Erasmus. Sui giornali e in metropolitana captavo il nervosismo dei tifosi, che pochi mesi addietro avevano dovuto ingoiare il rospo dell’ennesima Coppa dei Campioni finita nella bacheca del Real Madrid, per di più dopo che i merengues erano venuti a espugnare il Camp Nou con un sonante due a zero in semifinale. E nel Real Madrid, la sera di quel 22 novembre 2002, giocava anche Luis Figo, portoghese dal ciuffo inscalfibile, ala destra elegante e un po’ compassata, che dopo essere stato per anni idolo dei sostenitori culé nell’estate del 2000 li aveva traditi per cedere alle lusinghe dell’odiato nemico madrileno. Nelle due stagioni precedenti, tra Liga e Champions, per qualche ragione Figo non aveva mai calcato il proprio vecchio terreno di gioco con addosso la maglia del Real, e gli idolatri di un tempo, adesso, decisero di riservargli un’accoglienza da brividi. Successe piuttosto presto, dopo che l’ingresso dei blancos era stato salutato da una bordata di fischi e da un calpestio di piedi che aveva fatto tremare tutto lo stadio. Ero riuscito a trovare un biglietto grazie ai buoni uffici di mio fratello, che ora mi sedeva accanto, e vidi distintamente una testa di maiale in porchetta planare in campo dalla curva alla mia sinistra. Era diretta a Figo, avvicinatosi alla bandierina per battere un calcio d’angolo, come poteva anche chiarire il coro cantato pressoché da tutti i quasi centomila tifosi presenti, una volta di più fattisi portavoce degli umori dell’intera Catalogna: “Ese portugues, hijo puta es”. La partita divenne memorabile proprio per quell’episodio, perché in sé fu invece un incontro brutto, noioso, uno zero a zero che scontentò i tifosi di casa e venne incassato senza entusiasmo da quelli del Real. Al di là del maiale e al di là del boato anti-madridista, per me fu impressionante assistere allo spettacolo del Camp Nou ricoperto di blaugrana mentre gli altoparlanti lanciavano l’inno ufficiale. Una coreografia semplice e mostruosa: tutti gli spettatori, noi inclusi, avevano trovato sul seggiolino un foglio di carta da sollevare al momento opportuno. Blu o granata o giallo sul retro, le parole dell’inno sul fronte. Una marcetta da banda paesana, ma urlata come fosse un’esortazione epica e insieme un grido d’aiuto rivolto ai giocatori e ai tifosi dai tifosi stessi: uniti siamo forti, ne abbiamo passate di cotte e di crude, abbiamo dimostrato che nessuno ci potrà piegare. Quanto all’effetto dei fogli levati sulle nostre teste, mozzava il fiato. Tutto lo stadio era un gigantesco stendardo blaugrana, con la scritta “Força Barça” dipinta in giallo proprio dirimpetto a noi. Un capolavoro di minimalismo.

Fu insomma il mio battesimo del fuoco al Camp Nou, dove negli anni sarei tornato altre due volte per vedere delle poco significative partite di Champions, e col clasico. Fu allo stesso tempo una delusione, perché al momento di assicurarmi il biglietto speravo di poter vedere giocare insieme a Figo un altro Giuda per antonomasia, e cioè Ronaldo, il Fenomeno, che poche settimane prima aveva tradito anche me e tutta la gente interista come me, il presidente Massimo Moratti in testa, mollandoci per il Real proprio quando si era rimesso finalmente in sesto dall’ennesimo infortunio, e proprio quando più ne avevamo bisogno: la ferita del 5 maggio all’Olimpico di Roma, con lo scudetto perso all’ultimo respiro a beneficio degli odiati arcinemici della Juventus, era ancora pulsante, e dolorosissima. Ma quella sera Ronaldo aveva qualche acciacco fisico, e persi così l’occasione di ammirarlo giocare dal vivo. Non mi era mai capitata prima, né mi sarebbe più ricapitata. È ancora oggi un mio grande rimpianto.

Al Camp Nou purtroppo non c’ero otto anni più tardi, quando l’Inter di José Mourinho andò a difendere con le unghie e con i denti il tre a uno conquistato eroicamente a San Siro nella semifinale di andata della Coppa dei Campioni, edizione 2009/2010. Era l’anno del Triplete, e anche se so che non tutti possono ricordare a memoria ogni singolo istante di quelle due partite come invece succede a me, immagino che dilungarsi troppo risulti pleonastico: in casa, coi tre gol in rimonta dopo lo svantaggio a opera di Pedro, fu un’impresa da libro di storia, ma al ritorno, dopo l’espulsione di Thiago Motta seguita alla sceneggiata di Busquets, fu un esercizio di grande letteratura. Per giorni a Barcellona avevano alimentato il mito della “remuntada”, perché passare il turno avrebbe significato giocarsi la finale al Bernabeu di Madrid, il tempio nemico da profanare oscenamente e irreparabilmente, e invece non ci riuscirono. Non ci riuscirono grazie alla stoica resistenza dei dieci interisti rimasti in campo per più di un’ora di gioco e alla benevolenza del dio del pallone, che illuminò l’arbitro belga De Bleeckere al momento di annullare il gol di Bojan a una manciata di secondi dal fischio finale per un fallo di mano di Yaya Touré sacrosanto ma difficilissimo da vedere. Se dopo l’espulsione avventata di Motta e la convalida del gol irregolare di Piqué che aveva riaperto i giochi a meno di dieci minuti dalla fine (il fuorigioco del difensore centrale catalano era netto, ma lì per lì se ne accorsero in pochissimi, e di sicuro né io né De Bleeckere) fosse arrivato anche quest’altro torto probabilmente Mourinho, alla fine dell’incontro, avrebbe sferrato il più poderoso attacco mediatico della storia ai colori e alla tradizione del Barça. Invece, per fortuna, l’arbitro fece il suo dovere, e l’isterismo del portiere Víctor Valdés e degli irrigatori sparati contro il giubilo di Mou e della sua truppa a fine partita conferì un tono ancor più epico all’affermazione dell’Inter. Anni più tardi alcuni tifosi del Barcellona mi dissero che quel giorno per loro era stato importante, perché gli aveva insegnato ad affrontare la sconfitta. Ma sono piuttosto convinto che di quell’insegnamento, in realtà, avrebbero fatto volentieri a meno.

Ad ogni modo l’appuntamento tra Mourinho e il Barcellona, o meglio tra Mourinho e Guardiola, sarebbe presto diventato un’abitudine. Un secondo dopo la finale di Madrid vinta dall’Inter contro il Bayern Monaco, il 22 maggio 2010, l’ormai già ex allenatore nerazzurro salì su una macchina del Real che l’avrebbe portato dal presidente Florentino Pérez per firmare un nuovo contratto con la squadra del potere per definizione, la casa ideale per un conservatore portoghese di famiglia salazariana che nel suo mestiere aveva sempre fatto dell’arroganza, dell’egocentrismo e della presunzione la propria cifra essenziale. Ecco, se il mio debito di riconoscenza nei confronti di José Mourinho per la gioia purissima regalatami con la vittoria della prima sospirata Champions League della mia vita è incommensurabile, il mio giudizio su di lui non dico come uomo ma almeno come personaggio fuori dal campo è invece molto severo. E in me questi due sentimenti convivono in maniera ambivalente, lo devo confessare, perché quando Mou parla alla pancia dei suoi tifosi, quando li convince delle esasperate situazioni di accerchiamento in cui ritiene di versare insieme a loro e alla squadra e alla società, soli contro tutti, sempre e comunque, quando evoca il rumore dei nemici e gli zero tituli dei cattivi di sempre e di quelli di turno, ebbene, in quei casi Mou riesce a parlare un po’ anche alla mia pancia. Siamo uomini, siamo tifosi, e da tifosi forse ci possiamo ogni tanto concedere il privilegio dell’irrazionalità. Ma con ciò onestamente fatico a scendere a patti, visto che so benissimo che uno come Mourinho, così plasticamente in grado di incarnare un sistema di valori reazionario e molto lontano da quello a cui ritengo di ispirarmi, non mi dovrebbe piacere per niente, e non dovrebbe piacermi mai. Eppure, a essere altrettanto onesti, nemmeno il perbenismo garbato ed elegante di Guardiola, che per rimanere in politica sarebbe pure una figura tendenzialmente assimilabile al mondo progressista, mi piace. Proprio per niente. Di più: il suo Barça stellare spesso m’ha annoiato, come sempre m’hanno annoiato le squadre troppo esatte, troppo leggiadre, troppo aggraziate. Se mi date Pep o Mou, come allenatore, io mi tengo Mou, come mi tenevo il Trap quando tutto il mondo pendeva dalle labbra di Arrigo Sacchi. Ma quel che penso o sento io in fondo c’entra poco, perché lo scontro tra Mourinho e Guardiola negli anni successivi al Triplete interista è stato totale, e a tratti è tracimato in qualcosa che col calcio non aveva niente a che fare. Nell’aprile del 2011, un anno esatto dopo la semifinale di Coppa Campioni tra Inter e Barcellona, il caso decise di apparecchiare quattro clasicos nel giro di tre settimane: il ritorno di Liga, la finale di Coppa del Re e le due semifinali di Champions. Mou contro Pep, Real contro Barça, Madrid contro la madre di tutte le autonomie. Un altro portoghese, dopo Figo e dopo Cristiano Ronaldo, era pronto a diventare il figlio di puttana per eccellenza del Camp Nou.

La storia di quei venti giorni di fuoco viene oggi raccontata magistralmente da Paolo Condò, una delle prime firme della «Gazzetta dello Sport», in un libro meticoloso come un saggio e avvincente come un romanzo. Si intitola Duellanti (Baldini & Castoldi), e riesce a restituire appieno tutta la fosca magia dell’immaginario del clasico. Condò batte da subito sui tasti giusti, e peraltro sa benissimo che quella tra Mourinho e Guardiola è stata considerata, e lo è tutt’ora, una sorta di guerra di religione che ha luogo dentro e fuori dal terreno di gioco. L’assunto di fondo del giornalista della rosea è intrigante: quando a metà anni Novanta Mou era il secondo di Bobby Robson al Barça Guardiola prese le sue difese al termine di un infuocato scontro con il Real, e forse proprio quel debito di riconoscenza verso l’allora giovane uomo che gli aveva risparmiato almeno un paio di ceffoni ben assestati è un tarlo che nel tempo ha scavato nell’amor proprio di colui che per sé ha avuto l’ardire di coniare il soprannome di “Special One”. Guardiola difese Mourinho, quella volta, e Mourinho non se lo può ancora perdonare. Per questo negli anni in cui entrambi hanno finito per sedersi sulle panchine di alcuni dei più grandi club del mondo José da Setubal ha fatto di tutto per cancellare l’onta e anzi chiarire agli occhi di quello stesso mondo chi dei due aveva il talento, la forza e le palle per prevalere sull’altro. I maschi, alla resa dei conti, restano galli che vogliono il pollaio tutto per sé. Mou è un maschio alfa, e di sicuro anche Pep è un maschio alfa. L’incontro tra i due non poteva che generare scintille.

Condò racconta quelle quattro partite, e soprattutto tutto ciò che gli è stato intorno, con la forza della suggestione e delle informazioni. Il mestiere lo aiuta moltissimo, e in queste pagine traspare soprattutto l’enorme amore che Condò per il suo mestiere nutre: perché fare giornalismo sportivo a certi livelli, oggi, è uno degli ultimi modi per fare il reporter a libro paga, e Condò svela con gusto tutto il sistema dei contatti, dei legami, delle amicizie e delle inimicizie, delle conferenze stampa e dei dietro le quinte, dei viaggi e delle cene, soprattutto le cene, perché mangiar bene e bere bene aiuta a pensare, a capirsi e spesso pure a scrivere. È un mondo sempre più distante, a ben vedere, distante dall’ora e dal qui, i soldi son sempre meno e i giornali sono in crisi dappertutto, e quell’idea di giornalismo romantico e da osteria incarnata dal cronista auto-immortalatosi in Duellanti tende a sfibrarsi ogni giorno di più. Anche per questo il libro è prezioso. La qualità della scrittura di Condò è alta come chi legge i suoi pezzi ogni giorno sa già benissimo, e qui ha il merito di tradurre in una lingua lampante e mai retorica la guerra di logoramento combattuta in quei venti giorni di primavera tra due comandanti che si somigliano come il giorno e la notte.

Il duello tra José e Josep, tra il Giuseppe lusitano e il Giuseppe catalano, li ha costretti a lasciare sul campo di battaglia innumerevoli energie, e in un modo o nell’altro nessuno dei due, dopo di allora, è più stato lo stesso. La cesura netta tra prepotenza madridista e buonismo barcellonista che tante volte mi sono sentito raccontare nei miei mesi e nei miei viaggi in Catalogna, d’altronde, non esiste, come non può esistere un crinale capace di dividere in maniera definita e definitiva i torti di Mourinho dalle ragioni di Guardiola, i vizi dell’uno e le virtù dell’altro, nonostante la pressoché totalità della stampa italiana abbia nel tempo deciso di parteggiare per il principesco condottiero separatista. Guardiola è simpatico, gentile, carino, innovativo, rispettoso, Guardiola è sveglio, Guardiola è smart, così smart da farsi invitare a Palazzo Vecchio da Renzi e diventarne, diciamolo a spanne, amico. Mourinho è l’opposto, è uno che accusa i giornalisti di prostituzione intellettuale e dà del vecchio a Ranieri anni prima della sua parabola da Libro Cuore al Leicester, Mourinho avalla le teorie del complotto e attacca frontalmente tutto e tutti, se gli fa comodo, così come fece con Guardiola e il Barcellona alla vigilia del terzo round di quell’aprile 2011, l’andata di Coppa Campioni, la partita più importante delle quattro della serie. Condò in effetti in questo libro è molto onesto: non prende posizione, anche se è chiaro che nel gioco delle parti Guardiola, al di là di qualche eccesso melenso, è il buono e Mourinho il cattivo. Però il lato oscuro intriga tutti, ed è altrettanto chiaro che qui intriga anche lui. Duellanti si inscrive in una tradizione letteraria calcistica che negli ultimi anni in Italia ha prodotto libri notevoli, come i due di Sandro Modeo su Mourinho (L’alieno Mourinho, del 2010) e sul Barcellona (Il Barça, 2011), entrambi editi dalla compianta nonché insolvente Isbn, anche se sposta l’accento su un piano decisamente più epico, sfruttando al meglio il grande potenziale del confronto tra due personalità così marcate, carismatiche e antitetiche. Oggi José Mourinho e Josep Guardiola siedono sulle panchine delle due squadre di Manchester, lo United per il portoghese e il City per lo spagnolo. Il primo scontro è stato già archiviato a favore di Pep, e al momento, sarà colpa dell’aplomb che si respira a quelle latitudini, l’uno e l’altro (ma soprattutto l’uno) riescono a non andare mai sopra le righe. Ma siamo ancora all’inizio. Paolo Condò già sa che presto o tardi sarà senz’altro costretto ad aggiungere un nuovo capitolo al suo libro.

Salentitudini tondelliane – terza parte

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Trent’anni dopo Ragazzi di piazza. Che cos’è diventato il Salento di Tondelli

Edi Brancolini: PIER VITTORIO TONDELLI
Edi Brancolini: PIER VITTORIO TONDELLI

TERZA PUNTATACentro storico, passato prossimo

qui la prima e la seconda tappa

 di

Giorgia Salicandro

 

Il centro storico era un deserto di pietra e polvere, nell”86. «Troppi finanziamenti vanno perduti per incuria a Lecce» scrive il Quotidiano, giovedì 5 giugno. Il 22 tuonerà «Là dove l’antico diventa degrado», preannunciando un book-inchiesta in collaborazione con il Movimento per la salvaguardia e lo sviluppo del centro storico. «Qui un balcone tenuto su a malapena da rudimentali puntelli di legno si è trasformato in un “erbario” pensile – spiega puntuale la didascalia – ciuffi verdi adornano anche la facciata di una casa di vico Storto; in via dei Mesagnesi una casa è completamente sventrata». Palazzo Adorno, Palazzo Dei Celestini, l’ex Convitto Palmieri attendono un compassionevole restauro. Il soffitto a cassettoni del Duomo minaccia di staccarsi in pezzi.

«La sfortuna di vivere nell’amato centro storico» titola un articolo sul rione delle Giravolte, ed è quasi un sospiro che chiude il cerchio. Pasolini? Anna Maria Ortese? No: Fernando D’Aprile, cronista del Quotidiano di Lecce, il 26 aprile 1987. Un piede nel terzo Terzo millennio, il cuore fedele al 1950, ostinato come una vedova a lutto. «La risposta, la prima che si incontra per strada, viene dalle facce ostili dei ragazzini. Notano il cronista e il fotografo accompagnati da una persona del luogo. “’Nfame” gli urlano da lontano, poi gli girano le spalle. Poco prima hanno visto girare tra le strette viuzze del rione una volante della polizia. L’hanno considerata un’intrusione del “loro” territorio, una possibile minaccia ai loro “giochi”, sempre più spesso poco innocenti. Lo testimoniano i frantumi di vetri di auto che si scorgono qua e là: un colpo secco a una candela e via. Nelle loro lunghe e vuote giornate vagano, deridono, minacciano chi non li sopporta. Vanno per terrazzi, si intrufolano nelle case e quando si trovano difronte agli occupanti tirano fuori una scusa spavalda. A lato della chiesa del Rosario, tra due pietre sconnesse, spunta una decina di siringhe usate per l’eroina. Amaro paradosso: la via si chiama Santa Maria del Paradiso». Niente chiacchiere, ricorda chi oggi ha quarant’anni o più. Davvero il centro storico non era un paese per i leccesi.

foto di Daniele Coricciati

Prima che le mammelle in pietra si tingessero d’oro, a metà anni Novanta, con la Legge speciale sul barocco, con i fondi della Regione Puglia, con il Piano Urban, prima che famiglie annidate come topini alle Giravolte venissero rigurgitate verso l’esterno, in quartieri siglati a progetto, prima che le memorie del peccato di sua maestà la Mara – la più famosa transessuale che Lecce ricordi – venissero murate vive, un manipolo di giovani affamati trovò casa in quella polvere. Si fece posto nella crepa aperta da affitti d’occasione, che «te li regalavano, i locali», in uno spazio di mezzo della storia in cui nessuno voleva entrare. Un campo aperto.

Sulla pagina de L’Espresso del 14 settembre 1986, una foto ritrae un gruppo di ragazzi con una grande radio in mano. È la crew della stilista ventiquattrenne Cicky Pai, frizzante come una Shirley Temple, occhiali da sole, vestiti sgargianti, sgargiante anche il muro alle sue spalle, con un graffito colorato a dovere.

Tra le pareti zuppe del centro storico, negli interni sciupati dalla dimenticanza, “creatività al potere” assunse un significato del tutto peculiare, e saldamente avvinghiato alla storia degli anni a seguire. Lì, agli albori della rivoluzione, arrivò Pier. «Lungo, alto, con una camicia a maniche corte. Me lo ricordo. Era un ragazzino curioso, da taccuino di viaggio, appuntava tutto, i dialoghi, gli incontri, faceva molte domande». Francesco Spada fu il suo testimone privilegiato. Dopo varie esperienze artistiche a Roma e in altre città, è tornato per formare il gruppo Atlantide-Nuovi scenari di comunicazione – scrisse di lui il giornalista su L’Espresso – gli otto membri del gruppo hanno restaurato i bellissimi locali di Palazzo Guarini nella centrale via Palmieri, “la via” dicono “della nuova imprenditorialità giovanile leccese”.

foto di Daniele Coricciati
foto di Daniele Coricciati

In via Palmieri, alle otto di sera, non scatta il coprifuoco già da qualche anno. Metterci piede, per un leccese, significa negoziare con teorie di esseri verticali, immobili, come vittime di una fattura, oppure ondeggianti da una sponda all’altra, impossibile il sorpasso, rimbalzanti tra le volute dei prospetti e quelle in versione domestica, esposte sulle bancarelle, vittoriosi di selfie, colanti gelato come statue della libertà.

Capelli biondi, capelli rossi, occhi verdi e azzurri, guance di latte, lentiggini sul viso, per ogni donna c’è una rosa, per ogni uomo un pegno d’amore, per ogni amore un venditore indiano, bengalese, pakistano, due euro una rosa per il vostro amore, altrimenti un accendino per le sigarette, quello lungo per il fornello a gas. Il negoziato si ripete ancora e ancora, a ricatti alterni, mentre qualcuno dal marciapiede ingorgo sputa una bestemmia, le buste della spesa rotte in terra.

Due ore più tardi, il solo coprifuoco sarà quello dei residenti, quando ai turisti si unirà il popolo della notte, come riemerso dai gorghi di piazza Mazzini, trent’anni prima, brulicante movida, movida leccese, così detta, un brand nel brand dell’età d’oro del Salento. E bar, e pub, e ristoranti macineranno ordinazioni e post su Instagram, fino a notte fonda. Oggi anche i bellissimi locali di Palazzo Guarini si sono convertiti alla gastronomia.

«Era un luogo abbandonato, volevo farlo diventare uno spazio contemporaneo. Atlantide era il primo studio multimediale nel Mezzogiorno, allora lo definivamo multidisciplinare. Una trentina di ragazzi. Facevamo interior design, artigianato, allestimenti, cura di progetti urbani, videoarte, alla preistoria della tecnologia». Da qualche anno, per Francesco Spada, mettere piede in via Palmieri non è più un’avventura quotidiana. «Diventammo un fatto di costume. Avevo curato la direzione artistica del Quotidiano di Lecce. A 27 anni ero alla Biennale di Venezia. Uliano Lucas, Ferdinando Scianna sono passati dal mio studio. Il New York Times arriva a Lecce grazie a Francesco Spada. E anche Pier Vittorio è arrivato qui per raccapezzarsi su questo nuovo humus contemporaneo. Lungo, alto, a maniche corte, faceva molte domande. Pensavo fosse il solito giornalista, ma aveva l’aria molto più riflessiva, curiosa. Sottile».

foto di Daniele Coricciati
foto di Daniele Coricciati

Nel 1986 nel centro storico di Lecce c’erano solo tavernose putee de mieru, lu Totu, l’Angiulinu, lu Sciacquitti, lu Frangiscu, centesimi per il vino, uova sode, pezzetti di cavallo al sugo, e il catarro dei vecchi singolarmente sodale ai nuovi spleen dei ragazzi. Si sostava per dei mesi, l’arrivo della Questura era il segnale che bisognava cambiare piazza. L’impero della Mara splendeva ancora di un’ombra perfetta, nelle migliaia di cubature guadagnate al mercato consolatorio della notte. Il Cinema Odeon, con le gambe di Edwige Fenech, si incaricava del turno di giorno, ed era l’unico incarico che avrebbe mai accettato per il bene del divertissement locale.

Di fronte a casa mia c’è una bella bottegona che è una sciccheria: Bruno Petrachi avrebbe aizzato più volte una Woodstock dell’orgoglio leccese nel territorio off limits della villa comunale, riabilitato d’occasione. In una gabbia seminterrata, proprio al centro della villa, una lupa viva giaceva al guinzaglio. Avrebbe dovuto ricordare i fasti romani della città, quell’animale affamato. I ragazzi, ogni tanto, le lanciavano mezzo panino. La siringa già carica finiva per cadere in terra.

«Il centro storico può e deve tornare a vivere». Vivere, rivivere. Parole che si rincorrono, in quegli anni, ora come denuncia, ora come proposito. Le Amministrazioni arrivarono adagio. Senza freno a mano, vi arrivarono i ragazzi dell”86.

 

In ordine di citazione:

G.F.S., «Troppi finanziamenti vanno perduti per incuria a Lecce», Quotidiano di Lecce, 5 giugno 1986

Là dove l’antico diventa degrado, Quotidiano di Lecce, 22 giugno 1986

F, D’APRILE, La sfortuna di vivere nell’amato centro storico, Quotidiano di Lecce, 26 aprile 1987

P.V. TONDELLI, Ragazzi di piazza, «L’Espresso», 14 settembre 1986, ora in Opere. Cronache, saggi, conversazioni, a cura di F. PANZERI, Milano, Bompiani, 2001, pp. 251.254.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Tu se sai dire dillo 2016. V edizione

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di Biagio Cepollaro

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Tu se sai dire dillo

V edizione

21, 22 e 23 ottobre 2016

Spazio Ostrakon e Bioforme

Rassegna ideata e curata da Biagio Cepollaro in memoria dell’amico e poeta Giuliano Mesa

La V edizione di Tu se sai dire dillo si svolgerà nei locali del centro Bioforme, via Aosta 2, Milano (MM 5 Cenisio) e si articolerà essenzialmente intorno ai temi: la poesia di Giuliano Mesa, l’emergenza poetica di questi ultimi anni a Napoli, la riscoperta critica del Gruppo 93 a ventitré anni dallo scioglimento del sodalizio, la nascita della collana Autoriale e il primo volume dedicato a Francesco Tomada, la festa del blog Perigeion e la poetica del lutto di Amelia Rosselli.

VENERDI’   21 ottobre

ore 18.00

Biagio Cepollaro e Giorgio Mascitelli leggono Giuliano Mesa

Proiezioni dantesche di Paola Nasti

ore 18,30

Fabio Orecchini : Installazione e performance dedicate a Giuliano Mesa

ore 19,00

Conversazione sulla poetica emergenza a Napoli.

a cura di Bernardo De Luca

Viola Amarelli, Biagio Cepollaro, Antonio Devicienti, Tommaso Di Dio, Giusi Drago, Francesco Filia, Vincenzo Frungillo, Carmen Gallo, Nino Iacovella, Eugenio Lucrezi, Giorgio Mascitelli, Luigi Metropoli, Gianni Montieri, Paola Nasti, Angelo Petrella, Christian Tito, Ferdinando Tricarico e Daniele Ventre

ore 20.00

Intervallo

ore 20.30

La poetica emergenza: la poesia a Napoli

Viola Amarelli

Francesco Filia

Carmen Gallo

Eugenio Lucrezi

Giovanna Marmo

Angelo Petrella,

Ferdinando Tricarico

Daniele Ventre

SABATO   22  ottobre

ore 18.00

Alla fine del 900: il Gruppo 93

a cura di Angelo  Petrella

Angelo Petrella in dialogo con Adriano Padua

Intervengono:

Mariano Baino, Marco Berisso

Guido Caserza, Biagio Cepollaro, Marcello Frixione, Paolo Gentiluomo, Costanzo Ioni

ore 19,30

Nicola Sisci e il cortometraggio

ore 20.00

Intervallo

ore 20.30

La collana Autoriale e Francesco Tomada

Edizioni Dot.Com Press

a cura di Fabrizio Bianchi e Biagio Cepollaro

ore 21.00

Festa di Perigeion

Roberto R. Corsi, Guido Cupani. Giusi Drago, Nino Iacovella, Amara Miao Rossi, Christian Tito

DOMENICA  23  Ottobre

ore 18.00

Psiche e materia

Jung e Pauli

a cura di Antonio Sparzani

ore 18.30

Rivoluzioni dimenticate

a cura di Pino Tripodi

con Francesco Forlani

ore 19,30

Kafka, La colonia penale. Una traduzione

a cura di Davide Racca

ore 20.00

Intervallo

ore 20.30

Amelia rosselli e Bologna in lettere 2016

a cura di Enzo Campi

Il programma della serata comprende il video “Stratificazioni”, montato con immagini della IV° edizione del Festival; il recital “Erba nera che cresci segno nero tu vivi”, con Martina Campi, Francesca Del Moro, Mario SboarinaAlessandro Brusa, Sonia Lambertini, Enea Roversi; e la presentazione del volume “Il colpo di coda. Amelia Rosselli e la poetica del lutto” (Marco Saya Edizioni)

 

Philippe Muray c’è!

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muray

di

Lakis Proguidis*

traduzione di Francesco Forlani

(Saluto con estrema gioia la pubblicazione da parte delle coraggiose Edizioni Miraggi, (Tamizdat) di Cari jihadisti di Philippe Muray. Una gioia che ha due ragioni ben precise: la prima è che si tratta della prima in Italia di una delle voci più contre- courant del dibattito politico e letterario francese; la seconda è che questo è avvenuto grazie all’Atelier du Roman che ce lo ha fatto conoscere e amare, e a Nazione Indiana che in questi anni per mio tramite ha proposto delle traduzioni tamizdat di alcuni suoi testi. Ho chiesto ai ragazzi di Miraggi di pubblicare la Postface al libro sperando di fare cosa a voi gradita. Sempre a proposito di Cari jihadisti… segnaliamo  la pubblicazione in contemporanea del testo di Olivier Maillart, traduttore con Francesca Lorandini dell’opera di Muray, sul sito diretto da Giacomo Verri. effeffe)

 

 

Cari jihadisti… non è un pamphlet, né una beffa mediatica, né tantomeno una provocazione di quelle a cui hanno preso gusto in questi ultimi anni intellettuali e pubblico, non è neppure un ciclostilato militante di quelli che fanno la felicità dei blogger e ingrossano i ranghi degli eterni ottimisti. È un libro che fa appello al buon senso. È una profonda riflessione sulla morte della nostra civiltà occidentale, preparata, programmata e infine messa in opera da un’altra civiltà detta anche quella occidentale. Non sono giochi di parole. Muray parla dell’Occidente vampirizzato. Della civiltà che è riuscita in mezzo secolo ad autoconsumarsi, a fagocitare la propria forza vitale, a sbarazzarsi di qualsiasi cosa avesse in avversione, a disertare totalmente i propri valori, ovvero «lo spirito critico, la conflittualità, la capacità di assorbire il Male o il demoniaco e di comprenderli per combatterli».

Che ci siano voluti quindici anni per tradurre e togliere dal francese questo saggio di Philippe Muray, nonostante la sua attualità, come dire, scottante, mette in luce la carenza essenziale delle nostre società sovrainformate. Gli opinionisti che si agitano senza sosta ai quattro angoli del pianeta per i diritti dell’uomo e per la sovrabbondante letteratura che ne consegue, sono apparentemente poco inclini alla facoltà umana più elementare: riflettere. Ma può succedere, eccone la prova. Per goderselo, bisogna prendersi la parentesi del tempo della lettura e isolarsi dal chiacchiericcio mediatico, concentrandosi sull’attualità dello sguardo di Muray sulla nostra civiltà.
Di tutta questa storia, lunga tre millenni, non si è saputo mantenere, o, per meglio dire, non si è voluto mantenere che un’etichetta: Occidente. Cari jihadisti… spiega questa transustanziazione diabolica, questa negazione di se stessi senza essere stati costretti da un nemico esterno, da una forza ostile. E ora è questo Occidente per così dire post occidentale che si propaga dappertutto, che conduce l’umanità intera verso la globalizzazione, se necessario col fuoco e col sangue. Ma – si potrebbe pensare con cognizione di causa – l’Occidente non doveva a detta di tutti essere sul punto di esalare l’ultimo respiro, privato delle sue qualità intrinseche, di queste armi immateriali? Ricrediamoci, e ricredetevi «cari jihadisti», colui che si è rivelato capace di succhiare il proprio sangue è imbattibile. Muray dixit.

Ovviamente Cari jihadisti… non è il solo libro di Philippe Muray a non essere stato tradotto. L’insieme della sua opera, infatti, romanzesca, saggistica, poetica e critica, già mantenuta ai margini in Francia, attende il giorno in cui gli editori degli altri paesi d’Europa (nel senso geografico del termine) si sovverranno del fatto che il loro mestiere non consiste preminentemente nel riprendere e diffondere le opere degli autori di ampio consenso e dei sovversivi di servizio. La voce di Philippe Muray è unica, inimitabile. Nei decenni che sono seguiti in Francia ai «trenta gloriosi» (1945-75), Muray è stato uno dei rari scrittori a non partecipare, consapevolmente, alla grande carnevalata della commercializzazione dell’arte e dello spirito, annunciata a suon di tromba come imprescindibile. Si è battuto fino alla sua morte prematura nel 2006 per non diventare come gli altri, per non soccombere alla seduzione della vita mediatica – televisione, presentazioni, cocktail di lancio e compagnia bella –, per non scrivere una parola senza essere in prima analisi convinto che quella parola sarebbe servita alla sua impresa demistificatrice, al suo sforzo di guardare concretamente il nostro mondo.

Dall’uscita del primo romanzo, Chant pluriel, nel 1973, fino al suo «lessico» Le portatif, uscito nel 2006, Philippe Muray ha pubblicato quattordici opere, di ogni genere letterario, e più di trecento articoli per riviste e giornali. Questi articoli, li ha raccolti in sei volumi di cui quattro intitolati Exorcismes spirituels e due Après l’Histoire. Non si può certo dire che una tale attività creativa ininterrotta durata trentatré anni, sorprendente, e sempre fuori dai sentieri battuti, sia passata così inosservata. Il suo primo grande saggio, Le XIX éme siècle à travers les âges (1984) – un affondo intellettuale formidabile a proposito dell’oscurantismo che generano lo scientismo e la razionalizzazione forzata della vita umana – è stato notato e accolto favorevolmente dalla critica alla sua pubblicazione. Però generalmente e in buona parte perché, come ho appena detto, non ha mai voluto stare al gioco, Muray è rimasto uno scrittore di nicchia, amato e difeso soltanto da alcuni scrittori anch’essi dotati dello stesso autentico spirito critico. Eppure va detto che il vero divorzio tra Muray e l’ambiente artistico e letterario francese è sopraggiunto nel 1991 con L’Empire du Bien, vera e propria matrice delle sue opere ulteriori, compresa Cari jihadisti…, pubblicata pochi mesi dopo gli attentati dell’11 settembre 2001.

Il 1991 non è un anno a caso. È il momento dell’insediamento di Eurodisney ottanta chilometri a est di Parigi. (Da allora, nelle guide turistiche vendute ai visitatori di questo gigantesco asilo nido, Parigi è segnalata come una tappa che merita davvero una sosta.) Ci sono in apparenza delle coincidenze che, viste da Marte, non lo sono affatto. Nel momento storico in cui l’Europa (per mano della Francia socialista) apriva il proprio cuore, geograficamente e metaforicamente, per accogliere in pompa magna l’industria infantilizzante americana, Muray pubblicava il suo Empire du Bien in cui scandagliava l’irresistibile ascesa dell’infantocrazia in tutti i campi della vita, pubblica e privata. La qual cosa non data certo da ieri. Tale culto dello stato infantile, di cui Eurodisney non è che il simbolo più esplicito, sopraggiunge per chiudere, probabilmente in modo trionfale, una lunga serie di tentativi che l’Occidente aveva intrapreso già da un secolo per liberarsi del patrimonio della propria civiltà: l’individuo libero, autonomo e creatore, altrimenti detto, l’uomo che cerca di evolversi. Vale la pena allora riportare un passaggio dell’opera citata in cui il lettore riconoscerà tra l’altro le origini di Cari jihadisti..:

Il telecollettivismo filantropico è l’erede perfetto e pacifico del dispotismo comunista, tutto un dispiegamento virtuoso di letteratura edificante, con tanto di pastorali alla Aragon e di idilli alla Éluard. I cervelli sono kolchoz. L’Impero del Bene attinge a piene mani da quell’antica utopia: burocrazia, delazione, esaltazione appassionata della giovinezza, smaterializzazione del pensiero, abolizione dello spirito critico, addestramento osceno delle masse, annientamento della Storia a forza di attualizzazioni, appello kitsch al sentimento contro la ragione, odio del passato, uniformazione degli stili di vita. È successo tutto in fretta, estremamente in fretta. La Milizia delle Immagini occupa il campo a suon di sorrisi e anchegli ultimi focolai di resistenza si stanno disperdendo. Sono stati abrogati i capitoli più risibili del programma delle grandi ideologie collettiviste (la dittatura del proletariato, in primis), ma il cuore del progetto rimane lì, gregario, nessun rischio che scompaia. Il trionfo dell’individualismo è un grande bluff, è una di quelle tante amene verità giornalistico sociologiche di consolazione, quelle che ci sciroppano quotidianamente in un mondo in cui ogni singolarità, ogni particolarità è in via di estinzione. Individuo dove? Individuo quando? In quale angolo recondito del nostro ridicolo globo trovarlo?

L’idea centrale intorno a cui si costruisce l’opera romanzesca e saggistica di Philippe Muray è che noi viviamo nel mondo dopo la Storia. Tale mondo somiglia del resto a tal punto al vero mondo storico d’un tempo che rischiamo di trascorrere la nostra vita lì dentro senza rendercene conto. Il che non esclude il fatto che un abisso incolmabile li separi. Il mondo storico include al suo interno il Male (il negativo, il granello che fa inceppare la macchina, il rifiuto dello stesso, lo spirito critico, il rovescio della medaglia ecc.). Il mondo poststorico si ostina a ignorarne l’esistenza. Il primo è costituito da una successione d’incarnazioni della lotta incessante tra il Bene e il Male, il secondo, si identifica solo nella lotta tra il Bene e il Bene. Sarà mai possibile? Sì, dice Muray.
Attraverso la festa non stop, il rumore di fondo mediatico, la diserotizzazione dei rapporti umani, la persecuzione implacabile dei piaceri individuali (supposti come nocivi alla salute), la svalorizzazione totale del passato e attraverso mille altre furbate dello stesso calibro, il mondo poststorico è riuscito ad ammazzare sul nascere qualunque idea secondo cui possa diventare esso stesso oggetto di critica e refutazione in blocco. Anime belle e malintenzionate hanno voluto accostare Philippe Muray a Francis Fukuyama che, negli stessi anni, parlava della «fine della storia».

È evidente che per i due scrittori il cuore dell’affaire è lo stesso: la Storia è finita. Confonderli sarebbe però davvero una mostruosità. Fukuyama è colui che danza intorno alla vittima, ben contento di essersene sbarazzato, ben lieto di vivere d’ora in poi nell’ultima era di un’umanità unificata (leggi: globalizzata) che non conoscerà più guerre nazionali (la nazione americana basta e avanza) néopposizioni ideologiche (il pragmatismo americano basta e avanza) né scarti di civiltà (il melting pot americano basta e avanza). Quanto a Muray, lui invece è lo sconfitto, al fianco della vittima. Si sente soffocare. Si batte con tutte le sue forze. Di questa nuova era dell’uomo sotto trasfusione «iperfestiva» e «ipersecuritaria» non ne vuole sapere, a nessun costo. Dieci anni sono trascorsi nell’euforia iperfestiva.

L’11 settembre 2001 l’Occidente (l’Impero del Bene) si risvegliava per scoprire sconvolto che il suo grandioso progetto di realizzare un mondo senza frontiere, lanciato l’indomani del crollo del blocco sovietico, in conclusione aveva ottenuto come unico risultato un terrorismo senza frontiere. Fuori discussione, per l’Impero del Bene, rimettere in causa le sue mire geostrategiche e culturali. Fuori discussione, ben inteso, riflettere anche solo per un istante sul legame profondo che esiste tra la trasformazione della terra tutta intera in supermercato e la follia assassina dei gruppi che si richiamano all’Islam. «Spiegare è giustificare» ha dichiarato il Primo Ministro francese subito dopo la recente carneficina del Bataclan, per sgombrare subito il campo da ogni idea d’un esame specifico di questo tipo di terrorismo, che imperversa sull’intero pianeta da almeno una trentina d’anni. Era fuori discussione perfino prendere in considerazione l’idea del Male come parte integrante dei nostri ideali e delle nostre opere. In compenso, si è optato per la guerra. Varrebbe la pena sapere, quantomeno, che senza una riflessione sulle cause principali di tale conflitto, quest’ultimo rischia di tramutarsi in rivalità mimetica, come direbbe René Girard, uno degli autori preferiti da Philippe Muray. Vincerà colui che sarà il più morto, ovvero noi, dice Muray. E mi preme sottolineare che non si tratta affatto d’una provocazione, di una di quelle trovate di spirito tipiche degli scrittori francesi.

È un aforisma che condensa una ricerca spirituale e artistica condotta per almeno tre decenni, un giudizio morale, maturato, ponderato in ogni suo dettaglio, analizzato in tutti i suoi aspetti, sulle sorti della nostra civiltà. In tal senso possiamo dire che Muray prolunga la messa in questione che Husserl e Valery avevano intrapreso tra le due guerre a proposito della crisi della civiltà europea. Inequivocabilmente.
Va tuttavia precisato che sia in Husserl che in Valery, si trattava di premonizioni, segnali d’allarme, segni che annunciavano la catastrofe in arrivo. In Muray la morte è sopraggiunta. Solo che il cadavere si crede più vivo che mai. Miracolo? Non direi proprio. L’elisir del Bene ci è stato fatto ingoiare a dosi massicce.
Eppure Muray non viene fuori dal nulla, non è senza precursori. Un anno prima della sua morte, nel 1947, Georges Bernanos aveva tenuto una serie di conferenze pubblicate postume e intitolate La libertà, per farne cosa? È la critica rigorosa di una civiltà che, al risveglio dall’incubo da lei stessa provocato su scala planetaria, rifiuta ostinatamente di trarne la benché minima lezione in vista di moderare i suoi immensi desideri di comfort e beni materiali.

Di qui le sue conclusioni: per ogni organismo la decomposizione comincia dopo la morte, per le civiltà da molto prima.
Philippe Muray ha fatto l’elogio di Georges Bernanos a più riprese in saggi e articoli. Come di Flannery O’Connor, Philip Roth, Milan Kundera e di tanti altri scrittori, soprattutto romanzieri, il cui sguardo obliquo sul mondo ha stimolato il suo. Eppure i suoi maestri, i veri maestri, rivendicati, ripresi ininterrottamente nei suoi scritti e commentati alla luce del presente, rimangono Balzac e Céline. Muray si richiama molto spesso alla loro eredità, alla loro arte di racchiudere in un abbraccio il mondo nella sua interezza. Nondimeno, mi preme sottolineare che supera i suoi maestri in un punto cruciale, esteticamente parlando. La sua risata tocca vette che farebbero sognare i suoi grandi modelli. Il che non significa che in tale campo sia stato solo e isolato, che tale risata prima di allora non sia risuonata. È risuonata eccome! È proprio con una risata che iniziano i tempi moderni. È la risata di Rabelais. Salvo che, nel caso di Philippe Muray, la risata non è soltanto l’elemento proprio dell’uomo come era stato per il suo nobile antenato. In un’epoca oscura come la nostra è d’obbligo servirsene come di uno strumento di tale finezza da permetterci di orientarci con la riflessione nella nebbia di tutte quelle idee che sembrano fatte con lo stampino e da cui siamo stretti in assedio.

* Lakis Proguidis scrittore e critico lettrario. Nel 1993 ha fondato e dirige la rivista L’Atelier du roman, con cui Philippe Muray ha collaborato in modo assiduo fino alla morte nel 2006.

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Paesaggio e convenzioni figurative nella poesia italiana contemporanea

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[Questo saggio è incluso nel volume Nuovi realismi. Il caso italiano, uscito per Transeuropa quest’anno, a cura di Silvia Contarini, Maria Pia De Paulis, Ada Tosatti. Raccoglie dei contributi realizzati in occasione del convegno internazionale «I nuovi realismi nella cultura italiana all’alba del nuovo millennio» (Parigi, 2014).]

di Andrea Inglese

 

Premessa teorica

Se c’è una questione rilevante, in ambito di teoria letteraria, che riguardi il realismo, e non da oggi, essa è associata alla possibilità di una “critica dell’ideologia”.

È vietato

1

di Fabio Pusterla

È vietato lordare le acque.
È vietato pescare di frodo.
È vietato portare di là
chi di là non deve andare:
mendicanti, malati, paure,
disperati di sventura.

Paghino alle dogane
pedaggio ai nostri ponti,
facciano i loro conti o
crepino a casa loro.
Son venuti da terre lontane
son venuti senza invito.

È vietato portare al dito
l’anello della pietà.

***

L’anello della pietà
lo abbiamo gettato nell’onda
è andato subito a fondo
un pesce se lo mangiò.

Il pesce che se lo è mangiato
fino al mare lo porta
lo porta fino alla morte
del mondo che abbiamo avuto.

Lo pesca un pescatore
sulla riva dell’altro mondo
fa un respiro profondo
e intanto ci guarda annegare.

Non ci sarà pietà
per chi pietà ha negato
l’acqua si chiuderà
tutto sarà sparito.

da: Ultimi cenni del custode delle acque (Carteggi Letterari, 2016)

Hommage al poeta da camera (Zimmerman)

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di

Francesco Forlani

Lo vedi arrivare, Davide contro i Golia piazzati sulle aste, un arco tra le braccia con molte corde, la voce impastata di fumo buono e la marca di cartine per titolo di gala. Così immagino i poeti scavalcare il filo spinato dell’attenzione, così  ho sentito migliaia di persone ripetere a memoria ogni verso, il vero sogno di ogni poeta, della domenica e del lunedì. Esegeti delle lettere e decifratori dei generi, lettori accigliati, professori che pretendete l’amore dei vostri alunni per i vostri amori d’antan, poeti che rimpiangete la natura dei classici forzati purché rechino la ceralacca sulle catene, tra le righe del Canone e sfoggiate eterna giovinezza a ogni colpo di tosse, sappiate almeno per un attimo relegare i vostri distinguo lirici – perché senza lira non si canta nemmeno una messa- nella celletta delle vostre prestazioni pensionabili, antologie autoreferenziali. Inchinatevi al passo, togliete il cappello, al passaggio del poeta da camera, Zimmerman. Oggi, ieri, è stato un grande giorno perfino per voi.

Canto del rivolgimento

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di Federico Scaramuccia

colui che nel sonno consuma
colpito diretto alla nuca
si sveglia che è un’altra persona
ribatte ogni volta lo slogan

 

nel fosso che pare di merda
si attuffano come in un’orgia
puttane e papponi a merenda
si leccano il culo a vicenda

“Ritmo sopra tutto”, una mostra al MA*GA di Gallarate

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MUSEO MA*GA, GALLARATE (VA) DAL 15 OTTOBRE 2016 AL 5 FEBBRAIO 2017

IL MA*GA FESTEGGIA I SUOI PRIMI 50 ANNI

CON LA MOSTRA RITMO SOPRA A TUTTO

Cinquant’anni di storia e di arte al MA*GA

a cura di Franco Buffoni