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Giovanni Accardo sulla formazione degli insegnanti (il piano triennale)

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Pinuccia Di Gesaro intervista Giovanni Accardo

La ministra alla Pubblica Istruzione ha emanato recentemente il piano triennale contenente le priorità nazionali di formazione per gli insegnanti in servizio. Qual è la Sua opinione su questo Piano di formazione? Secondo Lei come dovrebbe funzionare la formazione dei docenti in servizio?

La scuola italiana, a differenza della gran parte di quelle europee, si caratterizza per un grande numero di discipline studiate, mediamente 12 nelle scuole superiori, e per il fatto che i programmi ministeriali prevedono che di ogni disciplina si studi tutto, dalle origini a oggi. Però nello stesso tempo si pretende di fare quello che fanno gli altri paesi europei, senza minimamente rivedere i programmi scolastici, riducendone i contenuti e magari riducendo il numero delle materie insegnate. Ogni riforma, al contrario, invece che togliere, aggiunge competenze e soprattutto pretende che gli insegnanti, normalmente formati per insegnare le proprie discipline (così funziona a tutt’oggi la formazione universitaria), siano in grado di fare mille altre cose. Va esattamente in questa direzione la recentissima proposta di un piano di formazione triennale obbligatorio per tutti i docenti. Tra l’altro secondo la logica del marketing che ormai detta le regole della comunicazione politica, ovvero annunci roboanti che spesso nella sostanza racchiudono il vuoto. E nella logica degli effetti speciali si avvale esperti che arrivano da luoghi esotici, ad esempio da Singapore. Come a dire che la scuola italiana, che ha una nobilissima tradizione di risultati e studiosi, da sola non è in grado di provvedere alla formazione degli insegnanti. In quale scuola si sono formati i numerosi cervelli che quotidianamente fuggono all’estero, spesso accolti da prestigiose università e centri di ricerca? Arrivano forse da Singapore o dalla celebrata scuola finlandese? Esiste un solo modello valido per tutti i luoghi del pianeta, indipendentemente dalle loro peculiarità? E allora ecco un po’ di formule in inglese, che non guastano mai perché, esattamente come il latinorum di manzoniana memoria, stupiscono e persino incutono soggezione. Secondo le ultimissime linee guida il docente dovrà formarsi sul disagio giovanile e sulla coesione sociale, sull’inclusione e la disabilità, persino sulla cittadinanza globale, che chissà cos’è esattamente. E poi naturalmente bisogna conoscere il mondo del lavoro. Nessuna parola sulle conoscenze disciplinari e in generale sulle competenze culturali. Ad erogare tale formazione saranno gli enti accreditati dal ministero e abbiamo già visto come funziona, molta inutile formazione on-line a spese del docente, con l’unico obiettivo di arricchire tali enti, spesso assolutamente privi di titoli. Io sono assolutamente favorevole all’aggiornamento continuo degli insegnanti, tant’è che nella mia esperienza li organizzo tutti gli anni e li frequento, però vorrei che fossero le scuole, i collegi docenti, mettendosi magari in rete con altre scuole, a proporre i corsi di cui sentono la necessità, sulla base della loro esperienza didattica quotidiana e non dei fumosi astrattismi ministeriali stabiliti da funzionari che non hanno mai messo un piede in un’aula. Non che gli insegnanti sappiano tutto e non abbiano bisogno di imparare anche da chi vive fuori dalla scuola, come ad esempio gli studiosi di didattica e di pedagogia, però sulla base di percorsi progettati dai collegi docenti, ovvero a partire da esigenze concrete. Ci sono tanti insegnanti che hanno competenze da insegnare ai loro colleghi sulla base della loro esperienza, dei loro studi, del loro sapere e che andrebbero valorizzati, coinvolgendoli nell’aggiornamento. In questo modo la formazione non sarebbe sentita come un obbligo che arriva dall’alto, ma come una necessità condivisa che, al contrario, nasce dal basso. Ogni insegnante sa che l’apprendimento funziona solo se è significativo, non basta l’imposizione, l’obbligo, ma questo forse viene ignorato dai funzionari del MIUR.

La nuova idea, secondo la quale gli studenti nel triennio devono fare 200 ore di alternanza scuola-lavoro, è una buona idea a Suo parere?

Ho l’impressione che ci sia un equivoco, che si creda, cioè, che la disoccupazione sia colpa della scuola che non forma adeguatamente gli studenti per entrare nel mondo del lavoro. Ma è questo il compito della scuola? Lo sarà certamente per gli istituti tecnici e professionali, focalizzati su un mestiere o una professione. Ma i licei, quali professioni formano? Quale vantaggio avranno gli studenti a perdere 200 ore di scuola a vantaggio di uno stage in un luogo di lavoro? Qual è l’obiettivo, far conoscere come funziona il mondo del lavoro? Allora si chieda agli studenti del quarto anno di scuola superiore di farsi un’esperienza lavorativa di almeno 15 giorni durante l’estate, in cambio di una simbolica retribuzione, magari offrendo a chi li ospita qualche sgravio fiscale. Nei licei si progettino dei percorsi che siano al contempo di educazione alla cittadinanza, di orientamento universitario, di creatività, facendoli svolgere in quinta, tra l’ultima settimana di agosto e la prima di settembre, senza sottrarre ore alla scuola. Mi pare che in un momento di grave crisi economica, in cui l’intero mondo del lavoro è in profonda trasformazione e molti lavori scompaiono, ci sia bisogno di molto sapere, di creatività e immaginazione, di capacità di collegare, confrontare, argomentare, ideare, stimolando l’intelletto, naturalmente in relazione al presente, non certo facendo vivere gli studenti in un mondo astratto. Anche a proposito di alternanza scuola-lavoro, bisogna fare attività che abbiano senso e non le solite cose all’italiana, ad esempio parcheggiando gli studenti in un ufficio a far fotocopie. Gli studenti del triennio sono migliaia e specie nelle aree depresse del Sud vorrei sapere dove si può trovare spazio per fargli svolgere un’esperienza veramente formativa. Molte scuole, infatti, sono in difficoltà, si stanno inventando di tutto e spesso solo per poter dire che è stato fatto. Addirittura, nella prospettiva del nuovo esame di maturità, sembra che tale alternanza sarà determinante per attribuire il credito scolastico agli studenti, dunque le scuole si troveranno a dover valutare qualcosa che esula dalle loro competenze. Cioè sempre di più la valutazione complessiva dello studente viene sottratta al lavoro degli insegnanti, in una sorta di vera e propria schizofrenia. Peraltro sovrapponendo quello che non può essere sovrapposto, ovvero competenze culturali e competenze professionali.

Valutazione degli insegnanti. Gli insegnanti hanno paura di essere valutati?

Sì, la valutazione fa paura, inutile negarlo. Ma fa paura perché è stata presentata come una mannaia che pende sul capo degli insegnanti, e questo sempre nella logica della politica marketing. Con l’ultima riforma ai genitori si è lanciato il seguente messaggio: adesso licenzieremo i docenti incapaci, i lavativi, gli psicopatici. Cosa giustissima, peraltro, solo che è impossibile farlo, perché il docente, avendo vinto un concorso pubblico, è tutelato dal diritto pubblico e può essere licenziato solo per gravissimi motivi, non certo perché non sa insegnare. Però, proprio mentre si tentava di far passare questo messaggio di severità e autorevolezza, con un meccanismo farraginoso e a tratti incomprensibile, sono stati immessi in ruolo migliaia di insegnanti senza alcuna selezione, persino insegnanti iscritti in graduatoria e che non avevano fatto neppure un giorno di supplenza. Se si vuole una scuola di qualità, serve puntare sulla formazione e sulla selezione degli insegnanti. L’attuale legge di riforma non fa nulla di tutto ciò, anzi, nel continuo parlare di competenze è stato bandito un concorso che ha sottoposto gli insegnanti ad una verifica di conoscenze enciclopediche. C’è anche da capire chi dovrebbe valutare e con quali obiettivi, perché al MIUR sembrano ignorare che la valutazione non è un’attività sanzionatoria ma un processo formativo, cioè per individuare eventuali lacune, per indicare cosa l’allievo deve migliorare, ma anche per evidenziare i punti di forza, perché esiste anche la motivazione, l’incoraggiamento, la gratificazione. Ma se non si mette mai un piede in classe, questo forse non lo si sa. Io contesto nel modo più assoluto che a valutare gli insegnanti siano i genitori, e lo dico da genitore: io non vorrei valutare gli insegnanti di mia figlia, perché temo che non avrei la sufficiente obiettività. Sia perché implicato emotivamente nei risultati che mia figlia ottiene, sia perché dovrei fidarmi di quello che lei riporta a casa, non essendo in classe ad osservare. Capita talvolta che un insegnante entri in conflitto con un genitore e capita che sia il figlio, cioè lo studente, a prendere le difese dell’insegnante, a dire all’insegnante di lasciar perdere il genitore. Perché alla fine i ragazzi sanno di non poter mentire. Allora si stabilisca cosa si vuole valutare e come, dopo ne riparliamo. Un’ultima cosa va detta sui test Invalsi, che da strumento di misurazione degli apprendimenti degli studenti in italiano e matematica, sta diventando sempre di più e impropriamente strumento di valutazione dei docenti prima e dell’intero istituto scolastico poi. Anche qui sovrapponendo ciò che non può essere sovrapposto. Tali test, soprattutto per l’italiano, misurano una porzione minima dell’apprendimento, inoltre parliamo di due materie misurate, nel caso delle scuole superiori, al secondo anno. E con questo si può valutare un intero collegio docenti? Eppure questo chiede il rapporto di autovalutazione previsto dall’ultima riforma scolastica e da cui dipenderanno le risorse. Da un po’ di anni si sta affermando l’idea di sostenere economicamente le scuole che hanno risultati, cioè quelle che funzionano, magari perché inserite in un territorio e in un contesto sociale di ricchezza economica e culturale, penalizzando quelle in difficoltà. Alla faccia dell’eguaglianza!

La burocrazia ha invaso anche il mondo della scuola. C’è modo di salvarsi, ed eventualmente come?

Stamattina, con gli studenti di quarta, abbiamo lavorato per tre ore sulla scrittura del saggio breve e mentre gli studenti sudavano e faticavano, ho pensato che tutto quel lavoro magari è stato fatto per nulla, perché ogni anno si parla di modificare l’esame di maturità. Quindi io insegno agli studenti come si svolge una delle più impegnative tipologie d’esame e loro tra un anno si potrebbero trovare a svolgere un esame completamente diverso. Le sembra normale? Gli insegnanti sono sfiniti dalle continue riforme. Credo non esista altra professione così pervicacemente sottoposta a continui cambiamenti, e spesso ogni riforma va in direzione opposta alla precedente. Il risultato sono infinite procedure burocratiche, inutili adeguamenti di norme e delibere, carte da compilare, circolari da leggere e inviare, sottraendo tempo prezioso allo studio, alla preparazione delle lezioni, alla correzione dei compiti. Tutto ciò è capace di annientare anche il più volenteroso degli insegnanti. Incontro ogni giorno insegnanti che vorrebbero cambiar mestiere. La scrittrice Mariapia Veladiano, dirigente scolastica a Vicenza, qualche mese fa, dalle colonne di “Repubblica” ha scritto una lettera al ministro, chiedendo di smetterla di inondare quotidianamente le scuole con circolari, che spesso prescrivono obblighi inutili, impossibili da assolvere o estranee alla nostra professione, come quello dello scorso febbraio (poi ritirato), secondo il quale il docente che accompagna una classe in gita avrebbe dovuto controllare lo stato di manutenzione del pullman e se l’autista fa uso di psicofarmaci. Devo dire che anch’io in questi ultimi mesi ho pensato di cambiare lavoro, per l’insensatezza delle norme che regolano e mutano ad ogni passo il nostro lavoro, scritte con quella che Claudio Giunta, su Internazionale del 23 dicembre, ha definito lingua disonesta [“è la lingua disonesta di chi non sa bene che fare, non ha le idee chiare, non vuole assumersi le responsabilità che gli competono (e che il discorso chiaro impone a chi lo pronuncia), e lascia a chi deve leggere (e soprattutto: a chi deve obbedire) il compito di decifrare, di leggere fra le righe, di stiracchiare le parole e i concetti dalla parte che vuole, anzi di interpretare le parole e i concetti come s’interpreta il Talmud, cercando d’indovinare le intenzioni di un padrone invisibile e capriccioso, che dice e non dice, che lascia agli altri il compito di riempire con qualcosa lo spazio che lui ha lasciato vuoto non per liberalità ma per inabilità a parlar chiaro, ossia a decidere, e cioè per codardia.”]

L’ufficio, scrive Kafka in una lettera a Milena, non è un’istituzione stupida, piuttosto appartiene al mondo del fantastico. Ecco cos’è la burocrazia: un mondo irreale, abitato dal non senso e amministrato da solerti funzionari che obbediscono ciecamente agli ordini superiori e non si pongono domande. E tutti noi siamo dei Josef K. in cerca di un giudice che ci spieghi quale sia la nostra colpa.

 

(questa intervista è apparsa l’11 ottobre sul quotidiano online “Buongiorno Südtirol”)

 

Giovanni Accardo è nato in Sicilia nel 1962, sì è laureato all’Università di Padova e vive a Bolzano, dove insegna materie letterarie al Liceo delle Scienze Umane/Artistico “Pascoli”. Dirige la scuola di scrittura creativa “Le scimmie”, organizza attività culturali con biblioteche e associazioni, cura progetti per il Comune di Bolzano, l’Assessorato provinciale alla cultura e altre istituzioni.

Suoi racconti, articoli e saggi critici sono apparsi su riviste e antologie (Studi Novecenteschi, Fata Morgana, Forum Italicum, Tempo Presente, Il Cristallo, Micromega). Fa parte della redazione della rivista online “Fillide”, collabora con la pagina culturale del quotidiano “Alto Adige” e fa parte del comitato scientifico del Seminario Internazionale sul Romanzo (Dipartimento di Lettere e Filosofia – Università di Trento). Nel 2006 ha pubblicato il romanzo Un anno di corsa (Sironi Editore) e nel 2015 Un’altra scuola. Diario verosimile di un anno scolastico (Ediesse, prefazione di Eraldo Affinati). È uno dei collaboratori del manuale di letteratura italiana curato da Claudio Giunta, Cuori intelligenti (De Agostini/Garzanti Scuola 2016).

 

Sono solo pochi spiccioli

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di Fabio Franzin

A mesodì, parchejà ‘a machina,
me invie verso casa, pochi passi
drento el vìcoeo strent a lastre
de marmo ciaro. Davanti de mì
tre tosiòe che torna daa scuòea,
seconda terza media, i zainéti
‘carezhàdhi dae code bionde.
Tut un trato a una ghe casca
‘na scasseàdha de monédha
che ‘a se sparpàgna par tèra.

Le ciame, ‘lora, pensando che
no’e s’in èpie nianca incòrt
– i ‘à senpre ‘e cufiète fracàdhe
tee rece ,’sti tosàti! -: “ragazze,
hei, avete perso dei soldi”,
senza voltarse, continuando
a ‘ndar verso ‘a piazha, ‘e code
bèe che ghe bàea tee spàe,
“sono solo pochi spiccioli”.
‘A ‘na ociàdha sguelta i par
inmanco do, tre euro, e ‘lora
le ‘torne ciamàr, me par un vero
disprèzho. Senpre quea pì alta,
gins e Converse rosa, ‘a sbufa,
“li raccolga lei allora”.

Cussì me son caeà mì, co’a mé schena
rota da quaranta àni de fabrica; vintìn
dopo zhinquantìn, ‘ò contà squasi tre
euro. Lore za sparìe, voltra ‘e coeòne.

Varàe vussù dirghe che mì bisogna
che sgòbe mèdha ora pa’ ciapàr chii
schèi. Che da altre bande del mondo,
par tose come lore, costrete a lavoràr
o dar via ‘a só fresca beézha, l’é ‘a paga
de un dì da sfrutàdhe o vioentàdhe.

Ma ‘e ièra za sparìe, drio ‘e coeòne
de ‘sta era senpia, persa. Oh poesia!

***

“Sono solo pochi spiccioli”

A mezzogiorno, parcheggiata l’auto, mi avvio verso casa, pochi passi / entro il vicolo angusto lastricato in marmo chiaro. Davanti a me / tre ragazzine che tornano da scuola, / seconda terza media, gli zainetti / accarezzati dalle code bionde. / All’improvviso a una di esse cade dalle tasche / una manciata di monetine / che si spargono in terra. // Le richiamo, allora, pensando che non se ne siano neanche accorte / – hanno sempre gli auricolari schiacciati dentro / le orecchie questi giovani! -: “ragazze, / hei, avete perso dei soldi”, / senza voltarsi, continuando / a proseguire verso la piazza, le code / belle che le danzano sulle spalle, / “sono solo pochi spiccioli”. / A una rapida occhiata mi paiono / almeno due tre euro, allora / le chiamo di nuovo, mi sembra un vero / disprezzo. Sempre quella più slanciata, / jeans e Converse rosa, sbuffa, / “li raccolga lei allora”. // Così mi sono accucciato io, con la mia schiena usurata / da quarant’anni di fabbrica; ventino / dopo cinquantino ho contato quasi tre / euro. Loro ormai scomparse oltre il colonnato. // Avrei voluto dirle che io devo / sgobbare mezz’ora per guadagnare quei / soldi. Che da altre parti del mondo, per ragazze della stessa età, costrette a lavorare / o svendere la loro acerba bellezza, è la paga / di un giorno da sfruttate o violentate. // Ma erano ormai scomparse oltre il colonnato / di quest’era empia, persa. Oh poesia.

Unico viaggio

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di Danilo Laccetti

perché le cose che succedono non succedono
con un principio e una fine, si diramano in tutti i sensi
e vicino a una cosa ne succede sempre un’altra e un’altra ancora,
così le cose succedono in tutti i sensi e in tutte le direzioni
e non puoi tenergli dietro con la scrittura
e un mezzo per tenere dietro alle cose che succedono
gli uomini non l’hanno ancora inventato.

Luigi Malerba, Il serpente

Un estratto da
ARIOSO CON LENTEZZA – Armonia della notte

Fra noi quattro, gli unici rimasti dopo l’esodo dell’intera cittadinanza, l’unico con cui parlano sono io. Perché sono l’unico a parlare. Gli altri, chissà perché, fanno altro. Ma non per questo accennano a volersene andare, non demordono.
Uno di loro non fa altro che sniffare libri, tutto il tempo. Ha vegliato per una settimana, prima che gliela strappassero, la moglie, morta subito dopo quello che accadde un anno fa. Hanno tentato i parenti di trascinarlo via, anche a costo di sequestrargli la sua copiosa biblioteca, ma lui continua a sfilare i libri, a far scorrere le pagine, odorando le storie che ci stanno rinchiuse dentro. Saranno qualche migliaio, dicono, e di ognuno conosce la forma, l’odore della carta, il peso, tutto quello che contiene. Li ripone ogni volta dopo averli soppesati e annusati a dovere, e da tutto questo deve ricavare un segreto piacere che altrimenti non avrebbe.

Franco Cordelli – Una sostanza sottile

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di Domenico Pinto

 

Dopo La marea umana (2010), Franco Cordelli torna a pubblicare un’opera narrativa, e lo fa con quel che appare il suo romanzo più assorto, vertiginoso, consuntivo: Una sostanza sottile (Einaudi).

Un padre e una figlia si incontrano, compiono un viaggio senza meta in Provenza, l’uno per parlare, l’altra per ascoltare e scrivere. Scrivere o trascrivere cosa? Dell’ospedale, dell’attraversamento d’una malattia, di una ipotesi di felicità scaturita nel ’64 per l’assenza di mali, del ritorno della malattia nel 2009, del sentimento del tempo, inafferrabile e perturbato, insediato nel solo oggetto pensato per racchiuderlo, il romanzo.

Al suo fondo la vita, costituita da frantumi, torsi di ricordo, come non vi fosse il bisogno di terminarli, quasi non fosse possibile, come se ciascun ricordo fosse in certo senso illimitato. Come senza limite sono le voci del libro, del padre François e della figlia Irène, le quali stabiliscono una forma di identità, di scivolamento perpetuo dell’uno nell’altra, da chi racconta in chi scrive, da chi pensa in chi scrive, in un movimento che attrae le voci dentro l’occhio della narrazione, limatura di ferro verso una calamita. L’«io scrivo» appare così lungamente più problematico e indecidibile che l’«io mento» del paradosso cretese, garantendo un mistero non mai sciolto nel corso del romanzo, perché la parola dei due non viaggia nell’aria, ma solo nel pensiero, ci ricorda che il dialogo è il fantasma della persona, e che ha come argomento ogni cosa, la perdita definitiva di tutto.

Eppure, dice Irène, «non c’è nulla che non abbia possibilità di resurrezione, quale che sia la forma in cui si manifesta. Se ne deve dare l’opportunità, in specie il desiderio»; tanto che il romanzo, richiamando gli eventi, certamente creandoli, si dimostra il campo di una speciale metafisica, in cui il passato torna compresente, benché questo sia appunto lo spazio del fantasma, una diapositiva che ribolle, bruciando agli angoli prima di cancellarsi.
Nel dialogo a due vengono rischiarati, con andamento interrogativo, concessivo, dubitativo fin dentro la costruzione della frase, e contrappuntato invece da una spaventosa simmetria architettonica – recedendo dal ritmo ternario del libro rare volte: capitoli di tre pagine, con tre oggetti nel titolo, 81 capitoli complessivi come il Tao –, dicevamo vengono rischiarati nel dialogo le donne amate o non amate, le cliniche, i medici, i genitori, la molteplicità del desiderio, gli autori letti (ammirati come il Durrell del Quartetto di Alessandria, e quelli con cui si attua un confronto de lonh, come Petrarca), ogni cosa insomma che può essere trasfigurata da quella superstizione che è la letteratura e che compone la rete incostante, la «sostanza sottile» della vita. È senza che il racconto abbia le ambizioni della memoria, pure senza nostalgia, piuttosto come il pretesto per un’ispezione, una messa in rapporto, che si svolge il vagabondaggio in Provenza: entro le mura bianche di Avignone, dilatandosi poi a Saint-Remy – dov’è l’ospedale in cui un grande pittore trascorse cinquantatré settimane prima di uccidersi –, nei caffè di Sommiers, Aigues-Mortes, Les Baux. È forse il pensiero che la coscienza, l’acuirsi di essa, possa salvarci, che produce suo mal grado episodi luminosi e struggenti come quelli della morte del padre Piero, l’abbraccio dato alla traduttrice Manon, l’apparizione della scarna stanza di Van Gogh, la presenza solitaria e laterale di Adele (giovane donna amata da François, ferma al suo capezzale quando egli si trova per tre mesi fra la vita e la morte), o ancora gli inservienti che portano via i cadaveri dalla sala rianimazione, uscieri dell’oltremondo.
Una sostanza sottile, una materia di sogno, collega di lontano le precedenti stagioni della nostra esistenza, o ci avvicina, andando avanti e indietro lungo la linea del tempo, rafforzandosi per una corrente sotterranea, invariabile, informata dal desiderio, da tutti i desideri rimasti inespressi – la «jouissance è quello che non esiste», ancora una volta è Irène a parlare. Sarà senza dubbio un caso, allora, nel tavolo da baccarat che sono i romanzi di Cordelli, se l’espressione che presta il nome al romanzo appare in un unico punto, dove padre e figlia discutono del desiderio, e che il luogo rammenti fatalmente il Romeo e Giulietta: «È vero, io parlo di sogni,/ che sono i figli di un cervello ozioso,/ generati da nient’altro che una vana fantasia/ la quale è di una sostanza sottile come l’aria/ e più incostante del vento». È il momento in cui Mercutio, mentre declama le gesta della Regina Mab – divinità delle turbolenze erotiche, dei desideri negati e rimossi – viene bruscamente posto a tacere da un Romeo inorridito.

Ma in questa che potrebbe essere una biografia, un memoir, un «tristo documento», un diario, in qualunque modo si voglia chiamarlo, in questo romanzo si pone o non si pone il vecchio problema della verità? Oppure occorrerebbe dirsi, svolgendo una riflessione sulla scrittura e la vita che è sempre di Irène «Come non fossero precisamente la medesima forza: che poi vinca l’una o l’altra, che differenza fa?» Detto in altre parole è un quaderno di interrogazioni e traduzioni, al cui interno è scritta, nella forma mutata del romanzo, quel che si può trattenere, o immaginare, di una vita («per il poco che raccoglieva di un passato che si può giudicare noioso, non interessante, comune, ma esso erano le briciole che gliene rimanevano.») Ed è commovente come nelle incomprensibili distanze del tempo si precisi un continuo dialogo a due, che a questa voce eternamente domandante, dubitante, al nulla del pensiero risponda un contralto femminile, una voce umana.

Sappiamo da Seneca che il passato è quella parte del tempo, sottratta alla fortuna, che non può più cadere sotto il dominio di nulla, un libro aperto e comprensibile, tanto da poter essere richiamato in qualunque momento. L’altro grande polo, La Recherche, dice invece che il tempo distrugge, nulla viene a salvarsi, che nel romanzo – la dimostrazione, come Proust la chiama – non si può richiamare la vita, essendo per l’appunto un romanzo, la più clamorosa delle finzioni, in questo caso immaginaria quanto il Chisciotte, un prova dell’oblio, non un saggio della memoria e delle cause. Qui una sostanza sottile organizza il tempo di una malattia, quella che conduce François alla quasi morte nel 2009. Il racconto esplora il nembo di cause che porta alla distruzione della persona, come fosse infine necessario tenere insieme il filo degli eventi. Ma sono poi veramente cause? Oppure queste cause non sono che il contrario della causa, la mancanza di causa, cioè il Caso? Il romanzo (seppure non certamente il romanzo ottocentesco, quello ha fiducia nell’origine, che confida in un reale tangibile) potrebbe allora essere lo strumento che esplora il Caso. Cordelli – il narratore, è uguale – sembra non fare alcun assegnamento sia sul reale sia sul romanzo, al pari di quei linguisti che creano una lingua artificiale, perfettamente funzionante, non parlata da nessuno. Un prodigio di ingegneria senza mondo. E allora perché si affaccia in molte pagine il sospetto che l’anamnesi possa offrire una sia pur recondita forma di salvezza? Forse Una sostanza sottile si colloca in una fessura tra impossibilità del racconto e metafisica della salvezza o della guarigione. Un frammento di Walter Benjamin osservava: «Ci chiediamo, a questo punto, se il racconto non possa costituire il giusto clima, la condizione piu favorevole per una guarigione. Ovvero ci chiediamo se ogni malattia non possa guarire, purché essa venga portata via, lontano abbastanza, sino alla foce, dal corso del racconto».

A noi, a loro stessi, François e Irène non danno responsi, al più offrono delle confutazioni, l’accorta perplessità del possibile, un ragionativo musicale che è il timbro più intimo della prosa di Cordelli: «Sempre si dice che ciò che conta è la domanda, le risposte sono occasionali, transitive; permanenti, intransitive sarebbero solo le domande».

 

(Pubblicato su La gazzetta del Mezzogiorno il 30 settembre 2016)

Dai diamanti non nasce niente

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testadi

Carlo Grande

* La cremazione è la scelta migliore. La cenere torna cenere.

Così ci si risparmia la decomposizione e i vermi.

Perché, sai, i vermi mi preoccupano abbastanza.

(M. Caine a Jack Nicholson in “Blood and Wine”)

Dunque, la notizia è che l’ultima frontiera della pseudo-immortalità è comprimere le ceneri del caro estinto e trasformarlo in diamante da tot carati (più è compresso e più carati ci sono, più il procedimento costa). Lo fanno in Svizzera e Giovanardi s’è inalberato, teorizzando il vilipendio di cadavere.

E’ tutto grottesco.

Va bene che un diamante è per sempre, ma portarsi al dito la nonna, il cane o chissà chi altro mi sembra l’ennesimo atto di “Hybris”, di protervia contemporanea, un tentativo di far trionfare (ma non siamo ancora stufi?) la materia, l’apparenza contro la sostanza.

La sostanza è che quando uno è morto è morto… e morta lì, non vi pare? E comunque quel che resta non è propriamente la persona con cui si parlava, si scherzava, ci si insultava, si faceva l’amore o ci si prendeva a sberle. Gone, andato. Game over. Abbiamo altri modi per coltivare la memoria.

E invece no. Un diamante è per sempre, ma è pur sempre un oggetto, il trionfo della “roba” verghiana, dell’oggettistica… Allora perché non farsi impagliare, mummificare? Cinque miliardi di mummie, dove le metteremo?

Siamo polvere, cosa organica che va restituita all’Universo, facciamocene una ragione.

E poi il mercato dei diamanti viene falsato, i caveau rischiano di diventare cimiteri e regalare monili può obbligarci a macabre scoperte in gioielleria.

Quanto a me non voglio farmi portare al dito, al collo, non voglio apparire, voglio sparire ordinatamente, disciplinatamente, coltivando fin d’ora il senso del limite, il mistero, il rifiuto di quantificare tutto.

Voglio disperdermi, non esistere, deporre la volontà, come consigliavano Cioran e Carmelo Bene. Secondo me, caro Nanni Moretti, mi si vede di più se non appaio per niente.

Voglio essere un geroglifico, come direbbe Ivano Fossati ne “Il battito”, un graffito inesplicabile perché del tutto inutile.

Non è nemmeno umiliante non apparire, anzi, è così riposante…

“Dopo tanto teatro dopo tante guerre/ Dopo tanti libri dopo tanto cammino/ Dopo tante bugie dopo tanto amore/ Dopo tanti secoli”…

 Voglio accettare che la memoria non passa attraverso gli oggetti, con buona pace di Ugo e delle sue urne de’ forti. Noi non abiteremo più lì. Se siamo solo materia, allora siamo qualcosa di troppo vile, meglio scomparire e fondersi con il tutto.

 Non trasformatemi in diamante, vi prego. Al momento del trapasso, avvolgetemi nella bandiera della mia squadra più odiata, come consiglia Eduardo Galeano, per poter dire al pari del tifoso del Boca Junior che indossa la sciarpa del River Plate: “Muere uno de ellos”, “Così muore uno di loro”.

Lasciate che gli atomi si mescolino, liberi. Rivendico il diritto all’oblio.

E poi dai diamanti non nasce niente, preferisco diventare pura memoria, seguire la sorte di una molecola borgesiana:

 “Questa pallottola è antica. Nel 1987 lo sparò contro il presidente dell’Uruguay un ragazzo di Montevideo, Arredondo, che aveva trascorso molto tempo senza vedere nessuno, perché si sapesse che non aveva complici. Trent’anni prima lo stesso proiettile uccise Lincoln, per opera criminale o magica di un attore che le parole di Shakespeare avevano trasformato in Marco Bruto, assassino di Cesare. Alla meta del secolo XVII, la vendetta se ne servì per assassinare Gustavo Adolfo di Svezia, nel mezzo della pubblica ecatombe di una battaglia. Prima la pallottola era stata altre cose, giacché la trasmigrazione pitagorica non è esclusiva degli uomini. Fu il cordone di seta che in Oriente ricevono i visir, fu la mannaia triangolare che tagliò il collo ad una regina, fu i chiodi oscuri che trafissero la carne del Redentore e il legno della Croce, fu il veleno che il capo cartaginese conservava in un anello, fu il sereno calice che un pomeriggio bevve Socrate . All’alba del tempo fu la pietra che Caino scagliò contro Abele e sarà molte altre cose che oggi neppure immaginiamo e che finiranno insieme agli uomini e al loro prodigioso e fragile destino. (J. L. Borges, “In memoriam J.F.K.”)

Gesti

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la-rocca

di Lella de Marchi

 

appendice per una supplica

omaggio a Ketty La Rocca

 

 

Ketty La Rocca non ha un corpo, Ketty La Rocca

ha tante mani. mani bianche che si muovono

su di uno schermo nero che si muovono in tutti i modi

possibili in tutte le direzioni. mani che cercano corpi

che presuppongono l’esistenza di altri corpi pronti

ad accogliere i loro gesti. mani che supplicano altri ipotetici

corpi di avvicinarle di riceverne i gesti. ipotetici corpi

che stanno al di fuori del suo corpo che stanno

al di fuori dello schermo nero.

si potrebbe supporre che esistano tanti corpi quanti sono

i movimenti delle sue mani tanti corpi che corrispondono

perfettamente ad ogni gesto compiuto dalle sue mani.

si potrebbe pensare a cosa accadrebbe se un gesto

compiuto dalle sue mani fosse raccolto da un ipotetico

corpo, non necessariamente predisposto ad accogliere

proprio e solo quel gesto.

 

 

Untitled 1975-80 Francesca Woodman 1958-1981 ARTIST ROOMS Acquired jointly with the National Galleries of Scotland through The d'Offay Donation with assistance from the National Heritage Memorial Fund and the Art Fund 2008 http://www.tate.org.uk/art/work/AR00357

fuori di me

omaggio a Francesca Woodman

 

il mio corpo esiste, ne sono sicura, nudo o vestito esiste.

lo posso toccare lo posso sentire. anche da fuori

del corpo mi arrivano informazioni vaghe, bisbigli

dell’esistenza del corpo.

ma è certo che non posso vederlo, il mio corpo, tanto meno

vederlo in azione, mentre si muove più o meno

spontaneamente. dovrei presupporre l’esistenza di un corpo

fuori di me,di un corpo fuori di sé. un corpo che è me

e che non è me. un corpo che è sé e che non è sé. un corpo

che non sono io.

ma è certo che non posso separarmi del tutto da me e non

potendo separarmi del tutto da me non posso far altro che restare

a guardarmi mentre sono fuori di me, mentre non sono io.

mentre sono fuori di me, mentre non sono io il mio corpo visto

da me è parte integrante del paesaggio fuori di me. è dentro

l’architettura che hanno le cose è dentro le cose è quelle cose.

il mio corpo è un camino il mio corpo è un catino il mio

corpo è un corpo sospeso ad un architrave il mio corpo

è un serpente dentro il catino il mio corpo è un altro corpo.

tutte cose che sono me in quanto le vedo tutte cose che

non possono essere me perché sono fuori di me.

il mio corpo è in tutte le cose che vedo, è vero, ma non tutto

intero, a pezzi, un po’ qua e un po’ là, in modo vago

e trascorrente.

persino lo specchio fallisce nel tentativo di rendermi il corpo

in azione. dovrei sorprenderlo quando non sa che ci sono

e mi sto specchiando. dovrei assumere in me inesistenti quanto

improbabili pose o movimenti.

 

 

goldinTempo Umano Minore

omaggio a Nan Goldin

 

soltanto un mese fa il mio corpo era qualcosa d’intero

e giustificato, la mia pelle era liscia, la curva seguiva

la curva la retta seguiva la retta.

soltanto un mese fa il mio corpo era un insieme di segni

con sottoinsiemi era un sistema efficiente e ben collaudato.

soltanto un mese fa sul mio corpo c’erano spigoli angoli

rientranze fessure macchie rigonfiamenti.

soltanto un mese fa nel mio corpo tutto era dove

doveva, anche un’imperfezione era dove doveva, era

un tratto era un segno che lo distingueva.

non è solo il tempo a cambiare il volto

alle cose, non c’è solo il tempo cosmico e universale, il tempo

crudele che impone a tutti il nascere e il morire, c’è un tempo

umano e minore un tempo brutale che spacca il tessuto

del tempo cosmico e universale che spacca la fibra che spacca

la faccia, che impone un’aggiunta posticcia e assai

dolorosa di spigoli angoli rientranze fessure macchie

rigonfiamenti. un surplus di dolore un surplus d’imperfezione.

con altro tempo sopra quel tempo umano e minore fino

a raggiungere il tempo cosmico e universale il corpo, persino

il mio corpo, da fuori ritorna intero com’era.

con altro tempo sopra quel tempo umano e minore fino

a raggiungere il tempo cosmico e universale potrebbe

sembrare che il corpo, persino il mio corpo, sia sempre stato

sempre e solo intero com’era.

 

 

Lo schiavista

1

schiavista(Silvia Castoldi ha tradotto per Fazi Editore un libro davvero interessante, Lo schiavista, di Paul Beatty, appena entrato nella short list del Man Booker Prize.  L’editore ce ne regala un estratto, il volume è in libreria dal 6 ottobre scorso. L’autore sarà a Milano, per Bookcity, il 20 novembre)

di Paul Beatty

So che detto da un nero è difficile da credere, ma non ho mai rubato niente. Non ho mai evaso le tasse, non ho mai barato a carte. Non sono mai entrato al cinema a scrocco, non ho mai mancato di ridare indietro il resto in eccesso a un cassiere di supermercato, incurante delle regole del mercantilismo e delle prospettive di salario minimo. Non ho mai svaligiato una casa, né rapinato un negozio di alcolici. Non mi sono mai seduto in un posto riservato agli anziani su un autobus o su un vagone della metropolitana strapieni, per poi tirare fuori il mio pene gigantesco e masturbarmi fino all’orgasmo con un’espressione depravata e un po’ avvilita sul volto. Eppure eccomi qui, nelle cupe sale della Corte Suprema degli Stati Uniti d’America, con l’auto, quasi per ironia della sorte, parcheggiata in divieto di sosta su Constitution Avenue, le mani ammanettate dietro la schiena, il diritto di restare in silenzio che mi ha detto addio da un bel pezzo; seduto su una sedia dall’imbottitura spessa che, proprio come questo paese, non è affatto comoda come sembra.

Sono stato convocato tramite una busta dall’aria ufficiale col timbro «IMPORTANTE!» in grossi caratteri rossi, come l’avviso di una vincita alla lotteria, e da quando sono arrivato in questa città non ho mai smesso di stare sulle spine.

«Gentile signore», diceva la lettera.

«Congratulazioni, lei potrebbe aver già vinto! Il suo ricorso è stato selezionato tra centinaia di altri per un’udienza di fronte alla Corte Suprema degli Stati Uniti d’America. Che grande onore! Le raccomandiamo caldamente di presentarsi con almeno due ore d’anticipo rispetto all’orario previsto per l’udienza, che si terrà alle ore dieci del mattino del 19 marzo, nell’anno del Signore…». Seguivano le istruzioni per raggiungere la Corte Suprema partendo dall’aeroporto, dalla stazione ferroviaria e dall’autostrada, e una serie di buoni da ritagliare per l’ingresso omaggio ad alcune attrazioni turistiche, ristoranti, bed and breakfast e simili. Non c’era firma. Solo una frase di commiato:

Cordiali saluti,


Il Popolo degli Stati Uniti d’America.

Il giudice capo presenta il caso. Il suo contegno spassionato da uomo del Midwest contribuisce parecchio ad allentare la tensione in aula. «Il primo dibattimento della mattinata riguarda il caso 09-2606…». Fa una pausa, si strofina gli occhi, poi si ricompone. «Il caso 09-2606, Me contro gli Stati Uniti d’America». Nessun subbuglio. Solo un po’ di risatine, qualcuno che alza gli occhi al cielo e qualcun altro che esclama, schioccando la lingua: «Ma chi si crede di essere quel bastardo?». Lo ammetto, «Me contro gli Stati Uniti d’America» suona un po’ come un’autoesaltazione, ma cosa posso farci? Io sono Me. Letteralmente. Un discendente non particolarmente orgoglioso dei Mee del Kentucky, tra le prime famiglie nere a stabilirsi a sud-ovest di Los Angeles. Posso far risalire il mio albero genealogico fino al primo bastimento che sfuggì alla repressione autorizzata dagli Stati del Sud: il Greyhound. Ma quando sono nato mio padre, seguendo la tradizione distorta degli intrattenitori ebrei che cambiano nome, e dei neri ansiosi con un impiego al di sotto delle proprie capacità che li invidiano, decise di abbreviare il nostro cognome, abbandonando quell’ultima e ingombrante come Jack Benny abbandonò Benjamin Kubelsky e Kirk Douglas Issur Danielovitch Demsky; come Jerry Lewis abbandonò Dean Martin, Max Baer mise al tappeto Schmeling, i 3RD Bass si convertirono ai brani impegnati e Sammy Davis Jr all’ebraismo. Non avrebbe permesso a quella vocale in più di ostacolarmi, come era successo a lui. Papà amava ripetere che non aveva anglicizzato né americanizzato il mio cognome, ma l’aveva attualizzato; che io ero nato avendo già realizzato pienamente il mio potenziale e potevo quindi saltare la piramide dei bisogni di Maslow, la terza classe e Gesù.

Consapevole che le stelle del cinema più brutte, i rapper più bianchi e gli intellettuali più stupidi sono spesso gli esponenti più rispettati della loro professione, Hamp, l’avvocato difensore che somiglia a un delinquente, posa con gesto sicuro lo stuzzicadenti sul leggio, passa la lingua sopra la capsula d’oro di un incisivo e si sistema il completo, un doppiopetto bianco come i denti da latte e cascante come un caftano, che gli pende dalla figura magra come una mongolfiera sgonfia e, a seconda dei vostri gusti musicali, si intona oppure fa a pugni con la permanente chimica nera come l’aspide di Cleopatra e la tinta scura della pelle da kappaò al primo round di Mike Tyson. Quasi mi aspetto che si rivolga alla Corte dicendo: «Cari amici magnaccia ambosessi, magari avrete sentito dire che il mio cliente è disonesto, ma è facile parlare così, perché in realtà il mio cliente è un criminale!». In un’epoca in cui gli attivisti sociali conducono spettacoli televisivi e guadagnano milioni di dollari, non ne sono rimasti molti come Hampton Fiske, fessi pro bono che credono nel sistema e nella Costituzione, ma rimangono consapevoli del divario tra la realtà e la retorica. E anche se non sono sicuro che lui creda davvero in me, ho la certezza che quando comincerà a difendere l’indifendibile non farà alcuna differenza, perché Hamp è un uomo che sul biglietto da visita ha scritto il motto: «Per i poveri ogni giorno è un casual Friday».

Fiske ha appena finito di dire: «Col permesso della Corte», quando il giudice nero avanza quasi impercettibilmente sul sedile. Nessuno se ne sarebbe accorto, ma il cigolio di una rotella della sedia girevole lo ha tradito. E a ogni richiamo a qualche oscura sezione del Civil Rights Act, o a un precedente legale, il giudice si agita con impazienza, e la sedia cigola sempre più forte mentre il peso di quel corpo irrequieto continua a spostarsi da una floscia chiappa diabetica all’altra. Si può integrare l’uomo, ma non la pressione sanguigna, e la vena che pulsa furibonda al centro della fronte lo tradisce. Mi sta rivolgendo quello sguardo folle, penetrante, arrossato, che a casa mia chiamiamo lo sguardo Wil- lowbrook Avenue, dove Willowbrook Avenue è il fiume Stige a quattro corsie che nella Dickens degli anni Sessanta divideva i quartieri bianchi da quelli neri. Ma ormai, in questi tempi post bianchi, post “chiunque abbia due centesimi in tasca se l’è svignata”, l’inferno si estende su entrambi i lati del viale. Le rive del fiume sono pericolose, e mentre sei fermo all’incrocio in attesa che cambi il semaforo anche la tua vita può cambiare. Qualche abitante di passaggio del quartiere, che rappresenta un determinato colore o una gang, o magari una qualsiasi delle cinque fasi del lutto, può sporgere lo shotgun fuori dal finestrino del passeggero di una coupé bicolore, lanciarti l’occhiata feroce da giudice negro della Corte Suprema e chiederti: «Da dove vieni, coglione?».

La risposta giusta, naturalmente, è: «Da nessuna parte», ma qualche volta non ti sentono in mezzo al baccano del motore senza marmitta, della rissosa udienza di conferma, dei media liberal che mettono in dubbio la tua credibilità, della subdola stronza nera che ti accusa di molestie sessuali. Qualche volta “Da nessuna parte” non è una risposta sufficiente. Non perché non ti credano, o perché “Chiunque viene da qualche parte”, ma perché non ti vogliono credere. E adesso, dopo aver perso la sua patina di civiltà aristocratica, questo giudice dal volto incazzato, seduto sulla sedia girevole dallo schienale alto, non è diverso dal gangster che scorrazza su e giù per Willowbrook Avenue, seduto sul sedile del passeggero solo perché ha uno shotgun in mano.

E per la prima volta durante il suo lungo mandato presso la Corte Suprema, il giudice nero ha una domanda da porre. Non è mai intervenuto prima d’ora, perciò non sa esattamente come fare. Lancia un’occhiata al giudice italiano come per chiedere il permesso, poi alza lentamente la mano paffuta, con le dita che sembrano sigari, ma è troppo infuriato per aspettare che gli diano la parola e sbotta: «Negro, sei pazzo?», con una voce sorprendentemente acuta per un nero della sua stazza. Ormai privo di obiettività ed equanimità, picchia sullo scanno il pugno grosso come un prosciutto con tale violenza che l’elegante, gigantesco orologio placcato d’oro appeso al soffitto proprio sopra la testa del giudice capo comincia a oscillare come un pendolo. Il giudice nero si avvicina troppo al microfono e inizia a urlare perché, anche se sono seduto a soli pochi metri di distanza dal suo scanno, le nostre differenze ci rendono lontani anni luce. Pretende di sapere com’è possibile che ai giorni nostri un nero possa violare i sacri principi del tredicesimo emendamento possedendo uno schiavo. Come ho potuto ignorare deliberatamente il quattordicesimo emendamento e sostenere che qualche volta la segregazione unisce le persone. Alla maniera di tutti coloro che credono nel sistema, vuole delle risposte. Vuole credere che Shakespeare abbia scritto davvero tutti quei libri, che Lincoln abbia combattuto la Guerra civile per liberare gli schiavi, che gli Stati Uniti abbiano partecipato alla seconda guerra mondiale per salvare gli ebrei e creare un mondo sicuro e democratico, e che Gesù e le proiezioni da due film al prezzo di uno stiano per tornare. Ma io non sono un panglossiano americano. E quando ho agito come ho agito non stavo pensando ai diritti inalienabili, all’orgogliosa storia del nostro popolo. Ho agito così perché funzionava, e da quando in qua un po’ di schiavitù e di segregazione hanno fatto male a qualcuno?, e anche se così fosse, chi cazzo se ne frega.

Qualche volta, quando uno è sballato come me in questo momento, il confine tra pensiero e parola si fa confuso. E a giudicare dalla bava alla bocca del giudice nero, evidentemente devo aver pronunciato l’ultima frase ad alta voce: «…chi cazzo se ne frega». Si alza in piedi come se volesse prendermi a pugni, con una bolla di saliva che gli sale dalle più remote profondità degli anni di studio alla Yale Law School sulla punta della lingua, pronta a partire. Il giudice capo urla il suo nome, e il giudice nero si trattiene e ricade sulla sedia, ingoiando la saliva, se non l’orgoglio. «Segregazione razziale? Schiavitù? Razza di bastardo senza palle, lo so benissimo che i tuoi genitori ti hanno educato meglio di così, cazzo! Avanti, andiamo a prendere la corda per impiccarlo!».

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I perfetti conosciuti de “L’amore e altre forme d’odio” di Luca Ricci

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© Stephan Schmitz
© Stephan Schmitz
© Stephan Schmitz

di Matteo Pelliti

Nel settembre del 2006 usciva un libro strambo, racconti urticanti su coppie in procinto di scoppiare, gioghi coniugali retti dall’esasperazione del silenzio, bambini dallo sguardo spietato affacciati sulle inadeguatezze di un mondo adulto costantemente in affanno nella gestione degli affetti, delle relazioni, delle emozioni. Il quotidiano portato al parossismo, ai limiti del fantastico. Sintassi chirurgica, per una anatomia patologia dei rapporti di coppia.

Salentitudini tondelliane – seconda parte

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Trent’anni dopo Ragazzi di piazza. Che cos’è diventato il Salento di Tondelli

Edi Brancolini: PIER VITTORIO TONDELLI
Edi Brancolini: PIER VITTORIO TONDELLI

SECONDA PUNTATA / Lecce. L’età dell’innocenza

qui la prima tappa

 di

Giorgia Salicandro

 

«Mi ricordo bene quando ne parlammo. Ci siamo incontrati per caso al Dada, un club teatro a Castelfranco Emilia, a metà strada tra Bologna e Modena. Doveva essere un concerto di Philippe Glass. Scrivevamo entrambi su Rockstar, io di musica, lui teneva la rubrica “Culture club”. Mi raccontò di questo suo reportage. A quel tempo collaboravo con Lei, che in seguito sarebbe divenuto Glamour, e lì avevo pubblicato un articolo – lo ricordo perché fui preso in giro dai miei amici leccesi – che si intitolava, un po’ provocatoriamente, Lecce come Berlino. Naturalmente, Berlino era molto di moda, Lecce invece non se la filava nessuno. Eppure non era uno scherzo, io ci credevo davvero nella creatività leccese, ecco perché consigliai a Pier di andarci. Gli diedi indicazioni, allertai le persone che lo avrebbero guidato. Sì, fui io a dirgli che avrebbe trovato a Lecce quello che stava cercando».

Lecce – Piazza Mazzini- Daniele Coricciati

Pierfrancesco Pacoda è già al bar della Sala Borsa quando arrivo spettinata, reduce da una corsa in autobus e da una multa staccata all’ultima fermata. Lui sorride, nella sua t-shirt bianca con un logo che sembra disegnato a pennarello, non si scompone per il ritardo, ha sistemato un pezzo per Il Resto del Carlino, nel frattempo. Trasalisce solo quando, candidamente, gli confesso che io non lo conosco, il fumetto della t-shirt. Mi sento un’anziana di provincia a confronto con i suoi quarant’anni a Bologna. Fai un’altra scuola, quando cresci al Livello 57, al Link e tra le posse dell’Isola del kantiere, che hai visto nascere e hai trasformato in qualche migliaio di battute, decine di volte, per raccontarle. Se sei andato via dalla provincia ma a diciotto anni eri già abbastanza adulto da non barattare l’unicità di quella fame di voi ragazzi con un sogno rampante, seppure in salsa freack. Se sai fiutare i tuoi riferimenti dove le cose si fanno, e dove ancora non hanno un nome, perché sarai tu a darglielo. Se non ti senti provinciale. Esattamente come Pier. Lecce come Berlino, è partita così.

Alberto Giorgino e Toni Robertini furono i suoi agenti in zona. Non a caso: l’uno studiava a Pisa, l’altro s’era laureato in Filosofia a Urbino, e facevano parte del popolo che calava a casa una volta al mese per piazzarsi in assemblee e concerti all’Università di Lecce, importando long playing e programmi radio. Tra andate e ritorni, Toni aveva anche fondato i Band Aid, il gruppo che – narra il mito – si era inventato il primo album autoprodotto della storia della musica italiana.

Pier era arrivato in treno una mattina di inizio giugno.

Lecce – Piazza Mazzini- Daniele Coricciati

«Non è che avesse un tema – racconta Alberto Giorgino congedandosi per un quarto d’ora dal bibliotecario che è oggi, alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università del Salento – telefonò a casa mia che era già a Lecce. Chiesi a Toni: Dove portiamo Tondelli? Allora a chiunque venisse da fuori, si faceva fare il tour turistico-culturale-cazzone lungo la litoranea adriatico-jonica in un solo giorno, senza aria condizionata. Non c’era altro modo. L’idea era di andare a zonzo liberamente per i luoghi che frequentavamo, del resto non era questo il criterio di Pier? Il primo appuntamento fu piazza Mazzini. Ah, già, il “salotto sudamericano”».

Negli anni Sessanta, se compravi casa a Piazza Mazzini qualcuno avrebbe ghignato, stretto tra i denti, «sta costruendo tra le pecore». Non c’era che un fuori porta allo stato brado, quando il Piano regolatore del ’34 aprì il varco alla conquista di quel far west, ed esattamente come nelle steppe americane, virili costruttori a cavallo segnarono i confini di maschi palazzoni che divorarono il cielo pezzo a pezzo. E solo più tardi, molto più tardi, si pensò ad accudire la vita ordinata da quella sorta di eiaculazione costruttoria. Non c’erano bagni tra le pecore, gli alberi furono divelti per lasciare spazio agli appartamenti di bancari, avvocati e commercianti. Restarono una teoria desolata di palme e due aiuole.

«Un salotto sudamericano, così ci sembrava, tra quelle palme e le ombre lunghe dei palazzi. O una sequenza di Deserto rosso di Antonioni». Eppure anche i giovani leccesi, a proprio modo, fecero casa lì.

«C’erano i bar, era quello il riferimento. E due aiuole, fondamentali le aiuole». Pennarello e taccuino presi in prestito, Mauro Marino traccia la propria mappa con una precisione giapponese. Prima del Fondo Verri, che dirige da un ventennio, prima di entrare nella crew del Teatro Valdoca, e prima ancora di condividere con Toni Robertini la stagione dell’Università a Urbino, c’era stata piazza Mazzini.

Lecce – Piazza Mazzini- Daniele Coricciati

«Questa è la piazza, questa via Trinchese, questa via Oberdan. Il Bar Poker era nell’angolo, qui c’era il Bar Roberto, e il Bar Prato, sotto la galleria. Il Raphael era figo, lo frequentavano i più grandi. Sì, c’era pure l’Arnolds, il ritrovo dei paninari, una sorta di Mac Donald ante litteram. È cominciato tutto intorno all’aiuola che dava su via Trinchese. Perché? Era un ottimo sgabello, ci si sedeva sul bordo e si stava. “Che facciamo stasera? Che facciamo domani?”: alla fine si rimaneva là, sull’aiuola. Poi è arrivato il tempo in cui ci è spostati sull’altra, vicino al Bar Roberto. Un passaggio di storie».

Un po’ hippy, un po’ freak, di sinistra di sicuro, chi ortodosso, chi non praticamente, il gruppo della prima aiuola. L’eroina mischia le carte, e ci si ritrova a condividere il bordo persino con i fascisti, là, non lontano dal Bar Poker. Un popolo di ragazzi affamati come dieci anni prima, ma con gli occhi gialli, si mescola nel gorgo degli altri, a piazza Mazzini. Tutti sulla stessa giostra, ognuno a proprio modo.

Il reportage ha potuto godere del prestigioso patrocinio della Città di Correggio e dell’Università del Salento.

 

mater (# 7)

4

di Giacomo Sartori

Eri bella mentre morivi

eri bella

all’ospedale

senza rossetti e fronzoli

senza plateali

parole

 

eri bella

avviata alla morte

Sororità di Claudia Iandolo

1

di Daniele Ventre

 

Quello che Claudia Iandolo presenta ai lettori, con la sua corona di venti poesie, raccolte nella silloge Sororità (LietoColle, 2014) è un monumentum dedicato a un’amica scomparsa. Già il titolo rende ragione dell’affetto per la creatura sorella appena perduta, ritratta in modo indiretto in un’opera che  nella delicatezza dell’espressione del dolore, non scade mai nella retorica chiassosa del planh. Ovviamente, la decisione di connotare l’omaggio poetico con una precisa identità, sotto la bandiera della sorellanza, rimanda a una scelta di campo politico ma anche di campo semantico, vista la necessità impellente dell’autrice di fornire alla scomparsa dell’amica una cornice di senso che la inquadri e ne elabori il lutto, garantendo al contempo, come nella dedicatio di ogni monumentum che si rispetti, la  permanenza della persona perduta in una sorta di parusia minimale, che al di là della morte possa perdurare. Attraverso la forma della commemoratio la rappresentazione della morte acquisisce anzi la funzione di preservare l’essenza e la valenza figurale dell’amica che è venuta a mancare; in tal modo, questa poesia riacquista, in netta opposizione al tema del nulla che domina l’epoca a cui appartiene, quella antica funzione di rito evocativo e rievocativo che è proprio di un arcaico kléos àphthiton, frutto dell’arte di mantenere perpetua l’eco di una individualità uscita dall’orizzonte dell’esistenza sensibile. Si tratta però di un’eco perdurante in una dimensione squisitamente privata e intima, quella in cui l’amica perduta, Lina (il cui nome, come è stato altrove notato, rimanda per ominosa concomitanza al contesto familiaris della poesia sabiana), continua ad agire oltre il velo del nulla come un’ombra compagna, in un rapporto in cui l’opposizione ontologica fra vita e non vita è rovesciata, una volta denunciata l’illusorietà del tempo e dello spazio che sono struttura apparente dell’esperienza comune (bisognerebbe che ci fossero/ davvero// lo spazio e il tempo e i luoghi/ a contenerci// allora saresti morta/ ed io viva), rivelata, di questa esperienza, il tessuto virtuale, perché il mondo, lo sai,/ è quello che hai in testa, e affermata una dimensione metafisica in cui l’assenza definitiva si traduce nell’essere morti/ al qui ed ora/ e viaggiare di possibilità.

In Sororità, l’interazione fra l’autrice e l’ombra compagna dell’amica assume sistematicamente, con tenacia, senza intermissione, il connotato di un dialogo, di un dramma lirico, in cui il femminile assume, in consonanza con il presagio insito nel titolo, l’ossimorica facies di una spensieratezza volitiva, tesa a creare un nuovo ordine metafisico del mondo e una nuova forma di mistica tangenza con il suo fondamento: così appare nella terza poesia di Fotoromanza, la prima sezione (che era di luna/ la tua lingua rampicante // cavaliera disarmata/ della notte), così il discorso poetico della Iandolo si palesa nella terza lirica della seconda sezione, Medusa, ed è questo un brevissimo componimento in cui la permeazione reciproca fra l’autrice e l’amica scomparsa si trasforma in un reciproco sogno di notti segrete/ indeate, nel quale si sottende una dimensione ultraterrena tesa fra una sorta di psicopannichismo e la possibilità di fusione con un assoluto femminino, lunare, una sorta di Eterna –di qui fra l’altro, nel componimento che abbiamo appena citato, l’hapax “indeate”, participio medio reciproco ricavato da dea e ricalcato sul dantesco indiarsi, epperò lontanissimo, nella sua mutualità paritartia, dal tradizionale processo mistico di indiamento, gerarchico e maschile. Questo fondamento, questa deità selenitica, si trasforma in un corpo mistico della affermazione della sorellanza (dove ci sorprende la luna/… ci saremo tutte/ figlie mancate/ di Lilith l’ubiqua, incipt della IV lirica di Train de Vie), in cui la comunione con l’amica perduta si inserisce in una dimensione etica che trascende, e perciò supera, la separatezza e la separazione insite nel lutto individuale. In questo orizzonte, l’amica ormai proiettata in questo immaginario ultraterreno è fatta oggetto di una preghiera laica tesa fra affettuosità ironica e liturgia dell’assenza (ora che ti affacci su scale sospese/ mandaci lune come perle da infilare/ e sogni che non franino al mattino// nunc et in hora che verrà comunque/ aspettaci agli arrivi e alle partenze/ tu in mulieribus splendida e lunare).

Sezione dopo sezione, scandito secondo simmetrie interne ben dissimulate ma ineludibili, Sororità ricorre a una lingua che appare quotidiana e colloquiale, ma è tanto più complessa nel suo gioco di equilibrio espressivo, quanto più riesce a dissimulare, in una sorta di profilo stilistico medio deliberatamente cercato, la presenza di neo-conii ed elementi linguistici allotrii, che si palesano come piccole ierofanie, piccoli prodigi di manifestazione quasi soprannaturale.  Sul piano metrico-verbale, la coesistenza di questo duplice piano espressivo si traduce in un andamento di fondo al limite della prosa ritmica, in cui però balenano in modo calcolato endecasillabi e settenari, sia che si profilino come unità metriche compiute, sia che si ricompongano all’orecchio al di là della pausa dettata dal silenzio dello spazio bianco. Ne viene fuori un impasto formale in cui stile e ritmo convergono nel dipingere un mondo che lascia affiorare, al di là del bianco e nero del quotidiano e dei suoi smottamenti ontologici, un potenziale sbocco nel totalmente altro: una poetica e una visione che potrebbero sconcertare, nella loro alterità, il bon ton intellettuale del mainstream poetico, e che tuttavia meritano ascolto, al di là di ogni incidentale pregiudizio critico e di ogni possibile precomprensione, e incomprensione, di sorta.

 

A proposito di SMart – cooperativa per lavoratori atipici

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SMart, letteralmente “società mutualistica per artisti”, è una cooperativa che si rivolge ad artisti e freelance che operano nel settore culturale e creativo. Il progetto è nato nel 1998 in Belgio e oggi conta più di 75.000 soci in nove paesi europei. Nel 2014 SMart ha aperto una sede a Milano e ha da poco un ufficio anche a Roma.
Ho chiesto a Chiara Faini, responsabile per lo sviluppo del progetto italiano, di spiegarmi come funziona. [ot]

A chi si rivolge SMart?

SMart è un progetto nato a Bruxelles nel momento in cui un ingegnere nucleare ed un commercialista si sono resi conto che i loro amici musicisti si trovavano spesso a lavorare in nero, a non sapere quando (e se) sarebbero stati pagati, e a navigare spesso in un buio senza risposte quando sorgevano problemi con la loro attività. Così hanno deciso di pensare a una soluzione per semplificare e tutelare il lavoro degli artisti, e per riconoscere la loro professionalità: se hai fatto della musica il tuo mestiere, questo non significa che puoi permetterti di essere pagato con quattro mesi di ritardo. In seguito si sono accorti che anche grafici, traduttori, editor, giornalisti, formatori, fotografi chiedevano di aderire, perché si trovavano a fare fronte a situazioni molto simili. Oggi SMart si rivolge a tutti i cosiddetti “lavoratori atipici”, a coloro che non si riconoscono nella dicotomia classica impiegato-imprenditore vecchio stampo, sebbene queste purtroppo restino le due principali categorie cui il legislatore fa riferimento.

Nella pratica, come funziona?

Quando un lavoratore atipico diventa socio, SMart lo assume tramite contratto, gli versa il compenso sotto forma di stipendio, al netto dei contributi e delle tassazioni dovute, ed emette per lui o per lei la fattura al committente, con il quale ha stipulato un altro contratto. Il lavoratore, dunque, è legato contrattualmente solo a SMart. Inoltre, i soci sono sempre pagati il giorno 10 del mese successivo al termine del loro lavoro, indipendentemente da quando il committente paghi: ci assumiamo quindi il rischio di ritardi o del mancato pagamento. Se il lavoro in questione è spalmato su più mesi, SMart paga il proprio socio mese per mese.
In sostanza, SMart funziona sul modello della sharing economy; artisti e creativi condividono la stessa partita IVA (la nostra), lo stesso legale e commercialista. In questo modo evitano di pagare lo scotto della loro atipicità professionale con la precarietà delle condizioni di lavoro. È un’alternativa all’apertura della partita IVA individuale, ma non solo: ricevendo il compenso netto, i nostri soci non devono più farsi carico degli aspetti amministrativi e contributivi legati alle loro attività, né preoccuparsi di inviare richiami al committente per essere sicuri di ricevere quanto pattuito. E questo, specie se si lavora in determinati settori, ad esempio con le pubbliche amministrazioni, può fare la differenza!
Ovviamente questo sistema ha un costo. SMart preleva l’8,5% del fatturato dei suoi soci (o il 5% in casi particolari, come spiegato più avanti, ndr), per coprire i propri costi di gestione. Trattandosi di un progetto senza scopi di lucro, quello che avanza di questo 8,5% è reinvestito per organizzare formazioni, incontri, bandi, oltre che per stipendiare noi lavoratori SMart. Applicare una percentuale implica inoltre che tutti, indipendentemente dalla riuscita commerciale individuale, abbiano gli stessi diritti ed accesso agli stessi servizi. È un modo per creare una rete solidale fra professionisti che vengono spesso lasciati da soli.

Cosa succede con le categorie professionali pagate in regime di diritto d’autore, come i traduttori letterari?

Anche in questi casi è SMart che fattura al committente, ma poi i traduttori vengono pagati in regime di diritto d’autore. Inoltre, la percentuale di applicazione è il 5% e non l’8,5%. Le ragioni di questa percentuale più bassa risiedono sia nella gestione semplificata di questo regime, che a noi risulta molto meno onerosa, sia nel rivolgersi a professionisti che non hanno necessità di aprire una partita IVA o di versare contributi, ma utilizzano i nostri servizi esclusivamente per tutelarsi dai ritardi di pagamento.

Quali sono gli eventuali vantaggi per il committente?

Beh, anche per il committente non è mai gradevole ritardare i pagamenti e relazionarsi con professionisti scontenti, rischiando poi di farsi cattiva pubblicità. A maggior ragione se vi è interesse ad instaurare una collaborazione non sporadica con il lavoratore in questione. Con SMart il committente da un lato si assicura che i suoi collaboratori vengano pagati subito, mentre dell’altro può negoziare con noi dei tempi decisamente più lunghi entro i quali saldare la fattura. Infatti, avere tanti soci che condividono lo stesso sistema ci garantisce una liquidità molto flessibile, e possiamo perciò pagare con ampio anticipo rispetto a quando incassiamo.
Un altro vantaggio per il committente è di non doversi più occupare degli aspetti contrattualistici ed amministrativi legati a queste collaborazioni, perché è Smart che se ne occupa.

Come si finanzia SMart?

Si autofinanzia. Sono gli artisti ed i freelance soci che finanziano il tutto, attraverso l’8,5% che pagano su ogni fattura. Nello specifico, per ora, sono principalmente i soci belgi (che sono 60.000 sui 75.000 totali) che sostengono il tutto. È grazie a loro che il modello di SMart ha potuto essere esportato, adattandolo, negli altri paesi (Francia, Italia, Germania, Austria, Ungheria, Svezia, Olanda, Spagna), che mano a mano, crescendo, si stanno rendendo o si renderanno finanziariamente autosufficienti.
Il progetto italiano fa un po’ eccezione in questo senso, perché all’apporto di SMart Belgio si è aggiunto anche il sostegno di Fondazione Cariplo, il che ci permette, in questa fase iniziale in cui non siamo ancora autonomi, di non appoggiarci solo su Bruxelles.

Quali sono i progetti futuri di SMart?

Nella prima metà del 2016 abbiamo lanciato un bando i cui vincitori hanno ricevuto un anticipo sulle spese di produzione per un loro progetto. Ad esempio siamo molto contenti di aver sostenuto Lecittàhannogliocchi, del collettivo Lele Marcojanni, che racconta attraverso un video il rapporto tra il fumetto e Bologna, e che sarà presentato al festival Bilbolbul.
Sempre in primavera, in collaborazione con SMart Belgio, abbiamo creato SMartWays, un progetto che facilita la mobilità internazionale nel settore artistico e creativo: per la prima edizione, un musicista italiano ha suonato a Liegi, mentre due musicisti belgi si sono esibiti a Torino e a Milano. A parte il fatto che erano i giorni di sciopero degli operatori di volo, tutto è andato molto bene!
In entrambi i casi sono state esperienze positive, e che vogliamo riproporre e fare crescere.
Insieme ad ACTA abbiamo poi sviluppato un’iniziativa rivolta ai freelance, che permette loro di usare SMart per non sforare dal regime dei minimi.
Ora stiamo definendo, attraverso varie collaborazioni, delle formazioni su alcuni temi sensibili (crowdfunding, diritto d’autore, negoziazione dei prezzi). Questi corsi sono già proposti da SMart in Belgio e in Francia, e sono molto richiesti.
Infine un cantiere importante è lo sviluppo del nostro ufficio di Roma, che esiste da aprile e che deve man mano farsi conoscere.

Qual è il vostro bilancio dopo un anno di attività con SMart Italia?

In una intervista apparsa di recente, il pioniere della peer to peer economy Michel Bauwens ha citato SMart come modello positivo di sharing economy, perché offre una risposta mutualistica e solidale a quei professionisti che rappresentano l’evoluzione più recente del mercato del lavoro. In Italia, le condizioni di questi lavoratori sono particolarmente precarie, e mi pare che un progetto come SMart sia davvero pertinente, anche in un’ottica di semplificazione. Basti pensare che in Belgio SMart ha 60.000 soci ed utilizza 2 tipi di contratto. In Italia abbiamo 370 soci e ne usiamo 8!
C’è poi chiaramente un grosso lavoro da fare per farci conoscere, adattare il progetto ai bisogni dei nostri soci attuali e potenziali, per aiutarli a far valere la loro professionalità, costruire collaborazioni con altre realtà, ma in generale possiamo dire che SMart sta incontrando entusiasmo e curiosità. Di recente una nostra socia ci ha chiesto di fare uno stage da noi per capire bene come funziona il progetto e darci una mano… ci è sembrato un ottimo segnale!

 

Scegliere il punto di vista di una donna. Sul presunto smascheramento di Elena Ferrante

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di Tiziana de Rogatis
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C’è qualcosa che nessun esattore delle imposte, nessun conto in tasca, nessuna illazione sulla privacy o sulle verità biografiche, nessuna ombra di maritale e patriarcale sostegno potranno mai togliere a Elena Ferrante, e a noi lettori (mi riferisco all’inchiesta di Claudio Gatti apparsa domenica sull’inserto culturale del Sole 24 ore e simultaneamente su varie testate internazionali). Non importa che Ferrante sia una donna o un uomo, travestita/o o transgender, etero o omosessuale, che sia un singolo essere vivente o un collettivo. Quello che conta è che lei, nei lunghi anni oscuri (e probabilmente felici) in cui ha scritto L’amore molesto, I giorni dell’abbandono e La figlia oscura, anni in cui i suoi lettori erano pochi, anni in cui il suo futuro successo era imprevedibile, ha scelto di rappresentarsi come autrice e quindi anche come donna in tutte le sue dichiarazioni pubbliche e in tutti i suoi autocommenti (basta leggere La frantumaglia).

Gli Scomparsi

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di Maria Grazia Calandrone

I muschi pavimentano le primavere

Era buio, quella sera – un buio
molto lento e tranquillo – dal quale apparve
la vecchia con lo scialle e la lunga gonna
nera. Disse se vuoi salvare
la tua bambina, lasciala digiuna
tutto il giorno, e la notte le devi
solamente parlare
della grande distanza del paradiso.

Di lei mi resta
il lapsus sulla lingua tra figlia e vita mia.

***

Lo spiegamento di forze all’apparire del chiaro
Gli alberi occupano l’aurora della famiglia. L’animale
è una massa di attenzione, musica che sale
dai gomiti appoggiati alla terra. La campagna, quel grumo essenziale
di rondoni e polvere serena, è ora tavola, macero
e orinatoio, principio attivo dell’anima.
Lei trasformata
dalla scoperta che l’amore vibrava come un timpano d’acqua dalla base del tempo. Lo rivelano
le tracce ritrovate successivamente in mare – sulla città di pietra degli scogli
e l’impronta caucasica della scomparsa.

Mamma – mi sento come se volassi – davanti
a queste statue che ti somigliano. Indagine
della sbordatura plantare, la luce – poco incline – sulla spalla:
rosa vinosa
d’alba fiorentina. Non mi hanno ridato l’impermeabile
che avevo offerto
per coprire il suo eccesso di opacità.

Domando cosa non l’abbia fatta risplendere: il mio corpo da latte
era carico di misericordia. Sovrastate – restituite
allo stato di cose, le sue ossa dolevano grandiosamente, mute
come respira muto dalle origini il neutro.

17 febbraio 2004

***

Vendemmia delle spade

Lui veniva attraverso il tramonto con le coperte militari e il corpo di ragazzo
frastornato – ma io l’ho visto dritto sulle scale
come una spanna di salute, spasmo
di calore nel lago bianco del vento
elettrico, pronto alle piogge e ad assecondare
le bolle d’erba del terreno. Diceva appena: io ricordo tutto
della fonderia – tutti i camion, che invece sono
cose solide, cose alle quali si deve prestare attenzione come a un flusso autodisciplinato del pensiero.

Mamma, tutti i malati – tutti
i moribondi – ciò che era vivente perché respirava e ora soffre e ancora
resta unito – o durante
la severa scissione della morte:
tutti quelli che parlano ancora, la loro ultima
parola in vita è
quella – e io
la sento, la schiena china sul lavatoio dei corpi per debolezza, non più
per amore.

Io dichiaro di non riconoscere. Avevo
la fabbrica chimica della sua voce fortemente infusa
nel pensiero
nella clausura dove si parla a gesti
come per una distratta evoluzione che fa chiudere gli occhi
come per una grande stanchezza sul pavimento della terra
che ci ha sostenuti e mette un sentimento
che tende alla lentezza ed è dotato come un’ala di strutture leggere
nel raccoglierci: adesso, dopo la vendemmia che le spade hanno consumato per calare sull’erba
il vuoto verde dei cieli.

13 ottobre 2004

***

L’altare della specie

Era facile amarla ma era destinata
ad andarsene frettolosamente e insieme ad aderire
a certi preparativi che gli indizi rivelano
meticolosi. Di pomeriggio si prendeva cura del giardino
in silenzio. Non capivamo quello che pensasse, era
tranquilla. Oppure
trafficava su un notes. Tutte le notti – rivestitosi
l’ultimo cliente – comprava un dolce per la colazione della madre.

Nell’acqua viaggiano i rifiuti e vengono
trattenuti a intervalli regolari dalla grata sepolta
nel buio e nel silenzio che si formano molti metri sotto
l’aspetto superficialmente aereo dell’acqua
che dipende dall’attardarsi del sole alla sommità come una lacca
democratica, un getto straripante di ottimismo
anche nelle orticaie disossate dall’urto delle fabbriche.
Si chiama strada del canapificio e porta
in una mescolanza di fanghiglia e zolla
resistente all’imprimersi del cascame animale alla centrale
idroelettrica – è un sentimento interrotto, una deriva dei continenti e dei relativi disastri sommersi
nell’isola del corpo che finisce
alla porta del grande casamento: c’è soltanto un custode e controlla
l’andirivieni tra le due parti d’acqua e fiamma serpentina o forse
trasmigrazione.

La trovammo in uno strano abbandono
come se tutti scissi i legamenti:
quasi niente dell’acqua del canale
nessun cattivo pensiero
nessuna ironia
non una goccia d’acqua nei polmoni, neppure
diatomee – il corpo sostenuto da una luce critica
oltre il proprio abbandono – pulsava al sole come in preda a un’estasi.

25 ottobre 2004

***

Non avrai che la vita

Le scarpe non vennero ritrovate.
Ma la luce batteva coitale sul corpo della ragazza
cristallizzato nella testimonianza.
Tra gli occhi e il ventre
tracce di lavatoio – un percorso a ritroso per stabilire gli alibi.
Il portone risultò chiuso con molte mandate.

Ardeva come un’ostia nella materia
lacrimale del tardo pomeriggio – con il capo impigliato tra gli arbusti
e la pervicace ripetizione dei giri. Per cause sconosciute
non ha potuto compiere i suoi anni
qualsiasi funzione avessero singolarmente ma un immobile
addio alla bellezza del mondo
riscaldava la fibra che resiste
grido di gioia del corpo senza dolore.

***

Deposto il nome

Diceva sempre
ditele che la amo
e ditele che ho fatto tanta strada
per amarla.

Ditele che se uscivano
angeli e diavoli dalla sua bocca,
io vedevo soltanto la sua bocca.

Ditele che mi abita
per sempre.
Diteglielo, vi prego. Diceva sempre.

30 aprile 2016

___

Testi tratti da Maria Grazia Calandrone, Gli scomparsi, Lietocolle-pordenonelegge, 2016

Esplorazioni a Wadi Roja

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[Una storia di frontiere e migranti.]

di Francesco Migliaccio

 

Alla foce del Roja ho lanciato un ramoscello nell’ultima acqua del fiume. Davanti a me i bagnanti s’apprestavano a lasciare la spiaggia, qualcuno approfittava di un’ultima doccia – presto l’oscurità sarebbe calata su Ventimiglia. Solo la tenda blu di due ragazzi neri rimaneva eretta fra i ciottoli. Ero nel punto estremo dove il torrente diventa mare. Il frammento leggero era trascinato dalla corrente sino alla linea mobile delle onde. Qui iniziava un’oscillazione indecisa, una turbolenza lungo la frontiera vaga della foce. Il ramo s’infrangeva contro un’onda, poi contro un’altra, ma poco a poco si spostava verso destra alla ricerca di una via di fuga. Infine è passato e s’è perso nel mare aperto. 

Zeno iper-personaggio e l’esperienza moderna

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di Giovanni Palmieri

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Nei giorni scorsi è uscito in libreria Svevo, Zeno e oltre. Saggi, ed.G.Pozzi, Ravenna di Giovanni Palmieri, testo che raccoglie gran parte della produzione sveviana di questo studioso. Presento qui  a titolo d’anticipazione alcune pagine (265-270), g.m.

 

Fingere di scrivere di sé per il tramite di un personaggio che a sua volta sembra scrivere la propria storia è forse qualcosa di più di una pur geniale struttura narrativa. È forse un’intera poetica le cui articolazioni essenziali potrebbero essere così schematizzate: Schmitz inventa l’eteronimo Svevo; Svevo, a sua volta inventa il personaggio Zeno la cui “autobiografia” sembra ricalcare in parte quella del suo autore, cioè Svevo (e non Schmitz). Tuttavia, non solo Schmitz non coincide con Svevo, non solo Svevo non coincide con Zeno ma neanche Zeno coincide con se stesso dato che – come ben sappiamo – la sua è un’autobiografia reticente e freudianamente mendace.

Andando ora a ritroso nell’opera sveviana possiamo scorgere le tracce o meglio gli embrioni generativi di questa complessa e raffinata struttura. In Una vita – prima ancora di tentare di scrivere un romanzo a quattro mani con Annetta che dovrebbe raccontare “quasi” la loro storia d’amore – Alfonso aveva cominciato a stendere un velleitario trattato di etica dal titolo L’idea morale nel mondo moderno.

In Senilità, Emilio Brentani cerca due volte di scrivere di sé, della propria storia con Angiolina e non ci riesce…

[…]

Anche dopo la Coscienza i testi sveviani, in toto o anche solo parzialmente, risulteranno spesso scritti metatestualmente da personaggi narrati o da personaggi narratori come il vecchione nell’abbozzato quarto romanzo. Anche nella Novella del buon vecchio, il protagonista tenta, senza riuscirvi, di scrivere una conferenza “morale” sui suoi rapporti con la bella fanciulla e, in seguito, un vero e proprio trattato sui rapporti che dovrebbero intercorrere tra i giovani e i vecchi.

Attenzione, però: il vecchione non è più Zeno ma un falso Zeno, uno pseudo Zeno. Il lettore incappa così in un’altra identificazione fuorviante: se Schmitz è diverso da Svevo e Svevo è diverso da Zeno, anche il vecchione è diverso da Zeno. Non ci sono dunque «continuazioni» ma biforcazioni d’uno stesso ramo, biforcazioni cioè d’uno stesso personaggio. Il fatto che sia Svevo a parlare nelle lettere di «continuazione di Zeno» è depistante ma si spiega per due ragioni: da una parte il nuovo Svevo si attacca al carro vincente di Zeno e dall’altra non fa che proseguire, complicandolo, il gioco di identificazioni fuorvianti che aveva inventato scrivendo la Coscienza. L’idea era forse quella di creare una specie di ciclo narrativo. Ma si tratta di finte continuazioni, o meglio di continuazioni divergenti sin dalla loro origine. Zeno, infatti, in quanto vecchione, diventa lettore di se stesso, cioè lettore della Coscienza. Sì, Zeno deve rileggersi perché ha dimenticato molta parte della sua vita ma rileggendosi si reinterpreta e davvero non coincide più con il primo Zeno. Egli non è più lo stesso uomo. Eppoi manca il tempo ultimo al vecchione, gli manca il futuro. Insomma tra i due Zeni c’è uno iato, una frattura.

Il gioco delle identificazioni fuorvianti diventa così a quattro e non più a tre perché Zeno si sdoppia nel vecchione.

[…]

 

Insomma: il rapporto cruciale di Schmitz con il proprio scrivere è stato

fatto rientrare nella pagina (abreagito) in forme “poetiche” particolari e del tutto originali. Zeno non è dunque – come pure è stato scritto – il fratello maggiore di Emilio e di Alfonso. Credo, al contrario, che sia esistito un solo personaggio, un iper-personaggio se vogliamo, che Svevo ha costruito pazientemente per tutta la vita e che si è sviluppato ontogeneticamente dall’ “infanzia” di Alfonso ed Emilio sino a giungere alla maturità di Zeno per finire con la vecchiaia nel vecchione. Insomma,  Zeno personaggio ha assorbito in sé, assimilandoli, tutti i protagonisti sveviani precedenti. L’evoluzione di questi ultimi mi pare sia andata nella direzione di un riscatto: se Alfonso ed Emilio erano dei letterati falliti e pericolosamente inadatti alla realtà della vita, Zeno, pur inetto ma solo nel senso rilkiano di “uomo senza qualità”, da scrittore per caso è riuscito a diventare un ottimo narratore, un abile speculatore e infine un uomo “non malato”. Tutto ciò grazie ad un rovesciamento della sua primitiva debolezza e della sua (inesistente) malattia in uno straordinario punto di forza: la consapevolezza, o meglio la conquistata coscienza, che i sani (il suocero, Guido ecc.) non sono meno “malati” dei cosiddetti “malati” e che solo questi ultimi possono capire qualche cosa della vita. Non “vivendo”, infatti, essi possono riflettere sulla vita (ecco l’intervento della psicoanalisi) e infine possono o meglio devono scrivere. Così riflettere e scrivere hanno finito in Zeno per identificarsi.

[…]

Dalla progressiva identificazione sveviana tra riflessione e scrittura è così scaturita una poetica generale in cui la vita narrata del personaggio narratore e quella degli altri personaggi si è intrecciata indirimibilmente con una descrizione-riflessione analitica sulle loro azioni. Svevo non riflette tanto sulla propria narrazione (semmai questo lo farà solo Zeno), ma costringe i personaggi a riflettere costantemente e spesso dubitativamente sul senso del loro agire nel tempo. Questo è il vero collante che unifica tutta la letteratura di Svevo, includendo l’attività epistolare, la critica, gli appunti, le pagine di diario, gli abbozzi e la scrittura teatrale.

La riflessione sulle azioni comporta, però, la presupposizione logica di un immediato passato di tali azioni, anche quando queste sono espresse al presente. Così l’illusione affabulatoria della narrativa tradizione è del tutto abolita. Svevo narra infatti sempre un commento alla vita (di tutti) perché la vita per lui non ha senso al di fuori di una sua immediata descrizione. Una descrizione però analitica e direi fenomenologica.

La forma di questa costante riflessione critica (morale, psicoanalitica, filosofica, sociologica, pedagogica, fisiologica, politica ecc.) che non interrompe la narrazione ma la segue determinandola, è costituita in molti casi dalla scrittura del personaggio. È questo ciò che fa scattare il processo delle false identificazioni autobiografiche. Può trattarsi della scrittura quasi dell’intero testo (come nella Coscienza o nello Specifico del dottor Menghi) oppure di brevi frammenti metatestuali e non tradizionalmente metanarrativi, dato che interviene esplicitamente il verbo “scrivere”.

In altri casi in cui il narratore o nessun altro personaggio scriva, tale riflessione è espressa nel testo sotto forma di pensiero del narratore. È un pensiero che non è qualificato come scritto ma è come se lo fosse. È un soliloquio del narratore a partire dall’atto presupposto della scrittura. È il caso di Senilità, ad esempio, dove la voce narrativa, che formalmente risulta in terza persona, anche quando non ricorre allo stile indiretto libero, assume spesso i pensieri o il punto di vista del suo personaggio.

Insomma, nei testi sveviani non si dà vita o vissuti senza il loro ricordo e sono solo i ricordi e le riflessioni che li accompagnano costantemente a rivelare la vera vita e le azioni dei personaggi. Il presente a Svevo non interessa se non come rivelatore del passato o preannunciatore del futuro. Ma non è tutto: alla riflessione critica sugli eventi dei personaggi o dello stesso narratore si accompagna spesso anche una metariflessione cioè una riflessione teorica sul senso del processo riflessivo in sé e in particolare su quello imposto dal tempo.

Nei testi narrativi di Svevo, soprattutto dopo la Coscienza, non vi sono quasi mai azioni pure, scevre da aloni commentativi e interpretativi riferibili alla voce narrativa (personale o impersonale). L’esemplarità dell’azione narrata, cara ai naturalisti, non basta più a Svevo o addirittura non esiste del tutto.

 

Ciò è dovuto al fatto che questo autore e i suoi eroi, a partire da una città paradigmatica come Trieste, registrano e vivono in modi diversi il sentimento dell’espropriazione dell’esperienza nel mondo moderno della civiltà delle merci. Nella società del tardo Ottocento, infatti, l’uniformità della vita nella società di massa, l’accelerazione dei ritmi di produzione e dei ritmi sociali, il declino morale delle autorità globali (Dio, la Chiesa, l’Imperatore), la tecnologia dei trasporti, l’avanzamento delle scienze ecc. avevano contribuito a sminuire il valore dell’esperienza vissuta. La merce stessa, non essendo più solo il prodotto necessario al consumo ma anche il risultato di un valore di scambio, aveva imposto di fatto una distanza tra l’uomo e l’uso diretto dei suoi stessi manufatti. Ciò ha finito per determinare una sorta di singolare sostituzione: ad un tipo di esperienza non più esperibile, che si può solo avere per accumulo e non fare in direzione d’una maturità e d’una crescita individuale (avrebbe detto Kant) è stato sostituito lo sguardo introspettivo del soggetto su se stesso, l’inquisizione, il “sospetto” niciano e la riflessione analitica. Si pensi ad esempio alla Novella del buon vecchio… dove il protagonista vive un’esperienza che capisce solo in parte e alla quale non sa e forse non può dare alcun senso, neanche teorico.

Insomma la carta geografica ha sostituito il territorio.

Si pensi in tal senso all’Ulrich di Musil. Io vedrei, pertanto, l’inetto sveviano non come un incapace ma piuttosto come un’inattuale niciano che tende però al riscatto. Il sentimento di eccentricità degli eroi di Svevo rispetto al conformismo ipocrita della struttura sociale è stato inizialmente incarnato nella figura dell’artista. È infatti questi che, non ancora sufficientemente alienato, può riflettere e analizzare meglio di altri la crisi moderna dell’esperienza. In seguito è arrivato Zeno che è posto dal suo autore ben oltre l’orizzonte di rimpianto tragico dell’artista nei confronti del mondo pre-moderno ormai perduto.

Così al crollo della poetica romantica e dannunziana del grande gesto e dell’azione esemplare, o al venir meno dell’oggettivismo rappresentativo dei naturalisti, Svevo nella sua letteratura ha reagito sostituendo all’esperienza vissuta la sua rappresentazione scritta, alle azioni la riflessione sulle azioni, alla vita la descrizione della vita e, infine, all’Io l’Es. Compito dello scrittore modernista, all’interno di un’ontologia negativa, è stato dunque essere quello rivoluzionario di additare il vuoto e la mancanza di un’esperienza autenticamente vivibile. «Io non sono colui che visse ma colui che descrissi»,[1] dirà Svevo, anzi scriverà lo Zeno vegliardo.

Ecco perché il postulato romantico «la vera vita non è quella vissuta ma quella sognata» (cioè l’Ideale nel progetto dei romantici di Jena) è stato radicalmente sostituito da Svevo e da Proust, sia pure in modi molto diversi, con un altro e ben diverso postulato: «la vera vita non è quella vissuta ma quella scritta, quella raccontata sulla pagina». Un esempio decisamente modernista.

 

[1] Italo Svevo, [Le confessioni del Vegliardo], in Id., Romanzi e «continuazioni», a cura di Nunzia Palmieri e Fabio Vittorini, Mondadori, Milano 2004, p. 1116.

Il corpo del Rialto. Resilienza artistica di un luogo.

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marilisa-mastropierro2Può un luogo nella chiusura trovare una nuova forma? Può trovarla pur mostrandone i segni profondi che ne annullano la sua primaria funzione di accoglienza?

Al Rialto Sant’Ambrogio di Roma, un evento di tre giorni (7-9 ottobre) intende porre l’attenzione sulle dinamiche culturali, messe in atto nella capitale dalle giunte comunali che si sono susseguite negli ultimi anni, che stanno portando lentamente ma inesorabilmente alla chiusura di tutti gli spazi “indipendenti” di produzione e creazione artistica e di aggregazione sociale e culturale.

Due anni fa capitò proprio all’associazione culturale Rialto, tuttora con i sigilli della questura che ne delimitano le possibilità di fruizione ed utilizzo. Da allora infatti sono chiusi il Teatro, l’Auditorium e molte delle sale in cui il Rialto ospitava le compagnie teatrali che non riuscivano, per carenze di fondi e miopia pubblica, a trovare spazio altrove.

Cosi proprio da questa mutilazione, il corpo del Rialto si rigenera. L’associazione Rialto torna ad animare il complesso del Sant’Ambrogio della Massima presentando il progetto temporaneo Il corpo del Rialto – Resilenza artistica di un luogo. Si tratta di un percorso esplorativo che indaga uno dei luoghi di produzione culturale più peculiari della capitale, aprendo la sede associativa ad opere d’arte, installazioni, performance e concerti, che ne ricercano un senso nuovo, di utilizzo e di vita, nonostante l’indefinita e quasi totale chiusura avvenuta a febbraio 2015.

La chiusura della storica sede dell’associazione, le continue interruzioni delle attività di incontro, socializzazione e produzione artistica, ci regalano, per ossimoro, la possibilità eccezionale di raccontare ciò che dello spazio non è stato secretato, quel limite invalicabile che ne sancisce la chiusura, aprendo, attraverso le arti, il restante spazio a una nuova vita. Prosecuzione del progetto del Rialto come corpo resistente e autonomo.

Senza alcuna aggettivazione si guarda ai segni della chiusura, alle porte rimaste chiuse da anni, alle loro risultanti, allo spazio che limitano e che definiscono, aprendolo a un progetto d’arte che ne manometta l’attuale forma pur non cancellandola.
Un luogo chiuso è una “forma aperta”, sintesi che radicalizza il nuovo come il vecchio Rialto Sant’Ambrogio, da sempre luogo di accoglienza, accoglienza delle arti, dell’incontro e del confronto politico e sociale.

Da venerdì 7 a domenica 9 ottobre, il Rialto Sant’Ambrogio ospiterà

Le mostre fotografiche:
> “Per tutti i Busti” di Marilisa Mastropierro
> “A/C” di Lorenzo Pisani
> “Par Hasard sur la ZAD – Notre Dames des Landes” di Dario Davide Vegliante

Le opere installative:
> “Le belle arti” di ADR
> “Genius loci” di ADR
> “Solum” di ADR
> “ESTATE 2016” di Cinzia Colombo e Alessandro Riva
> “OZ” di Sara Davidovics
> “A Further Migration” di Maurizio Gualdi
> “Radiografie/Cartografie I Sequenza di bocche per voci mancanti” di Fabio Orecchini **
> “112_113_115 I Sequenza di voci per bocche mancanti” di Fabio Orecchini **
> “Still Life” di Adriano Padua & “Senza paragone” di Gherardo Bortolotti
> “Visione amplificata” di Fabio Pennacchia
> “Latte” di Louise Roeters
> “In divenire. Trittico” di Donatella Vici

Le live-performance:
> “Franswers” di Giulio Carè VS “Veil” di Giovanni Tancredi e Andrea Veneri
> “Le Porte. Pane play Doors” di Pane in concerto
> “Filografie I Ananke” di Kate Louise Samuels **
> “Inquadrature” di Luca Venitucci in concerto

 

** Lavori tratti dall’installazione TerraeMotus di Fabio Orecchini. Performance di Kate Louise Samuels

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Il corpo del Rialto – Resilienza artistica di un luogo

Da venerdì 7 a domenica 9 ottobre – dalle 18 alle 22 (domenica dalle 16 alle 21)
Rialto Sant’Ambrogio – via di Sant’Ambrogio 4, Roma

Ingresso libero

Venerdì 7:
apertura mostra – h 18:00
live-performance “Franswers” VS “Veil” – h 18:30/19:30
live “Inquadrature” – h 21:00

Sabato 8:
apertura mostra – h 18:00
live “Le Porte. Pane play Doors” – h21:00

Domenica 9:
apertura mostra – h 16:00
live-performance “Franswers” VS “Veil” – h 18:00/19:00
incontro aperto al pubblico “CorpOrale” – h 19:00

L’evento è organizzato dall’associazione Rialto, ideato e progettato da Anton de Guglielmo, Rosa Martino, Marilisa Mastropierro, Fabio Orecchini e Tiziano Tancredi.

 

Info: Anton de Guglielmo – 329 1553105
Rialto – Produzione
Via di S.Ambrogio, 4 – 00186 Roma
www.facebook.com/RialtoRoma

 

Lombroso e le carte mancate

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Venerdì 16 settembre si è svolta la Notte degli Archivi presso il Palazzo degli Istituti Anatomici con la lettura di Giorgio Vasta dedicata alle collezioni del Museo Lombroso e del suo archivio. Così ho chiesto a Cristina Cilli, curatrice delle collezioni, e a Giorgio di poter pubblicare il suo intervento su NI.

Il testo è presente anche sul sito del museo, qui.(effeffe)

 

 

 

Di uova, ochette, pellicole, pagine bianche

di

Giorgio Vasta

Qualche tempo fa sono entrato nello sgabuzzino di casa dei miei genitori, a Palermo, ho appoggiato una scala alla struttura metallica che fa da dispensa, mi sono arrampicato fino in cima, impolverando maglietta e pantaloni mi sono allungato fin dove riuscivo, ho portato giù un paio di scatoloni, ho frugato al loro interno e mi sono ritrovato tra le mani due scatole piatte, grigie, scalene, le ho aperte e ho tirato fuori altrettante bobine di plastica nera, rotonde, la pellicola color petrolio avvolta stretta. Nelle scatole, schiacciati sotto le bobine, c’erano due pezzetti di carta: su uno c’era scritto ROMA 1969 VIAGGIO DI NOZZE, sull’altro BATTESIMO GIORGIO 1970. Ho continuato a cercare dentro gli scatoloni, ho controllato e ricontrollato ma niente, non sono riuscito a trovare la terza bobina, quella che precede temporalmente le altre due, il filmato del matrimonio dei miei genitori.

Quello che volevo era portare le pellicole in un negozio di fotografia per farle riversare su un supporto più stabile. Il vecchio proiettore che quando ero bambino veniva usato per proiettare i filmini – un vocabolo che se ha avuto senso per alcuni decenni sta adesso del tutto scomparendo – si è rotto qualche anno fa e nessuno ha avuto voglia di farlo aggiustare, e in ogni caso mi sembrava più sensato che quelle immagini fossero conservate in modo più sicuro, sincronizzandole con la tecnologia del presente. Il presente di vent’anni fa era il nastro magnetico, e infatti già allora avevo provveduto a far riversare le pellicole in una videocassetta (a sua volta, negli anni, sparita), mentre stavolta volevo salvare tutto su un dvd. Non ritrovare la terza bobina mi aveva però innervosito, al fotografo volevo poter portare tutti e tre i reperti, la striscia che simbolicamente collega il matrimonio al viaggio di nozze e poi alla mia nascita, dunque la linea dell’orizzonte dalla quale all’inizio del 1970 ero sbucato io (anche perché sapevo che – secondo tradizione abitudini inerzia del tempo – il mio concepimento era avvenuto proprio durante quel canonico viaggio di nozze, non so se a Stresa o a Parigi).

Come accade quando si ha a che fare con qualcosa che manca, mi sono trovato a ripercorrere mentalmente quei pochi minuti di filmino scomparso: 16 aprile 1969, Palermo; all’inizio l’inquadratura della facciata dell’Oratorio di Santa Cita, la pietra tufacea bruna e porosa, un drappello di invitati che poco a poco raggiunge e percorre la scalinata, le donne che sulla testa hanno i cappellini con la veletta, gli uomini dagli occhiali con le montature nere, e poi le riprese all’interno, uno scampolo di cerimonia in una sala dalle pareti fasciate di scene della battaglia di Lepanto e di amorini che sbucano tra ghirlande di fiori; più in là, smarriti immobili nel bianco incandescente degli stucchi di Giacomo Serpotta, una ventitreenne e un ventiseienne impercettibilmente pallidi, la tensione che trapela dai lineamenti, lui che ascoltando il sacerdote continua a strofinare piano tra loro i polpastrelli di pollice e medio della sinistra, come se schioccasse le dita al rallentatore, lei che a un certo punto si osserva stupita gli anulari, forse cerca di ricordarsi in quale dei due andrà infilata la fede, negli sguardi neppure la minima idea di tutto quello che accadrà da lì a qualche minuto, di che cosa sarà fatta la distesa degli anni che li attende; a rito concluso, gli invitati in conversazione lungo il ballatoio con le maioliche, una cravatta allentata, una veletta sollevata, nelle mani qualche bicchiere, sul pavimento di pietra i luccichii microscopici dei chicchi di riso.

Ripensando a quel filmino sparito ma ricordato – così come agli altri due ritrovati e in generale a tutti i filmini di quell’epoca – mi rendo conto che nella ripresa non c’è continuità. Nel senso che quanto è stato filmato procede per frammenti: trenta secondi di ripresa, uno stacco, un’altra ripresa di venti secondi, un altro stacco, quaranta secondi, ancora un altro stacco e così via. Raramente si tratta della scelta di chi manovrava la cinepresa; a determinare quello che oggi, a posteriori, può venire considerato come un vero e proprio ritmo della memoria, era una ragione strutturale. Le cineprese familiari commercializzate soprattutto durante gli anni Sessanta prevedevano che la bobina fosse inserita nello chassis, agganciata al fuso rotante e poi caricata manualmente tramite una manopola a farfalla; raggiunta la massima lunghezza caricabile, si teneva premuto un pulsante in corrispondenza dell’impugnatura della cinepresa stessa e la pellicola scorreva; esaurita la carica occorreva dunque interrompere e imprimere di nuovo una rotazione alla manopola. Al di là delle proprie intenzioni, questa tecnologia generava una specie di montaggio immediato delle immagini, disseminando la ripresa di lacune di misura variabile durante le quali, mentre le cose, non filmate, continuavano ad accadere, l’operatore doveva riazionare la carica a molla. In sostanza l’opposto di quello che accade oggi quando a filmare qualcosa è una telecamera a circuito chiuso: nessun limite di tempo e una ripresa fissa che documenta un pezzetto di spazio.

I documenti visivi che illustrano la mia origine sono dunque strutturalmente discontinui, cosparsi di interruzioni, di assenze e mancanze, non sono lineari ma puntiformi: per arrivare a una conoscenza di ciò che accadde è necessario – come nel gioco della Settimana Enigmistica – unire tra loro i puntini e scoprire cosa viene fuori. Una circostanza che per un filologo, per uno storico oppure – per avvicinarci al contesto nel quale ci troviamo – per un conservatore museale può costituire un problema oggettivo; meglio sarebbe avere a che fare con documenti che somiglino a un occhio che implacabilmente guarda senza mai dimettersi dal proprio sguardo, vale a dire a un pieno. Per un narratore invece le cose stanno in un altro modo: a un narratore i vuoti tornano utili, le fratture sono il suo patrimonio, la mancanza il suo nutrimento naturale (non essere riuscito a trovare la terza bobina mi innervosisce, certo, ma allo stesso tempo mi sta bene, crea un’occasione).

Tutto questo mi è tornato in mente quando lo scorso giugno ho visitato per la prima volta il Museo Lombroso, e ci ho ripensato ancora quando, nelle settimane successive alla visita, ho continuato a dialogare via e-mail con Cristina Cilli, la conservatrice del museo: pur essendo colpito da tutto ciò che avevo visto e che mi era stato raccontato, vale a dire da tutto ciò che costituiva, nel discorso, il pieno, ero altrettanto colpito, in realtà molto di più, da ciò che non c’era e che non era ricostruibile, da tutte le domande alle quali non corrispondeva una risposta precisa o alle quali era possibile rispondere soltanto Non lo so, non c’è, non sappiamo dove si trova. Sentivo che i vuoti erano i miei complici.

A questo punto, prima di proseguire, mi permetto un breve intermezzo. Da qualche giorno è uscito un libro che ho scritto, parla di deserti nordamericani e di sparizioni, più precisamente dei modi in cui spariscono i luoghi, di come sparisce il tempo e di come spariscono le persone. L’altro ieri mattina un’amica, appena acquistato il libro, mi manda un sms: Nel tuo libro, dice, mancano alcune pagine, e poi mi fa l’elenco delle pagine che non ci sono (o meglio, ci sono ma sono bianche, senza scrittura). Nel pomeriggio dello stesso giorno un amico mi chiama e mi comunica la stessa cosa: È fatto apposta, vero?, mi domanda. Del resto, dice, se parli di sparizioni… Questo stesso amico mi ricorda che anche quando anni fa uscì il mio primo romanzo ci fu lo stesso problema: una parte, seppure minima, della prima tiratura presentava una serie di pagine bianche, sempre le stesse, una decina in tutto. Chi aveva comprato una copia fallata lo aveva segnalato alla libreria che aveva sostituito quella copia con una intera, la libreria aveva fatto presente il problema alla casa editrice e la casa editrice aveva chiesto spiegazioni al tipografo che, dispiaciuto, aveva allargato le braccia dicendo che non succede quasi mai, ma può succedere. E in effetti era successo, ed è successo di nuovo. Le lacune, evidentemente, mi perseguitano. Sempre lo stesso amico mi ha ricordato anche che quando ci si trovò davanti a queste copie orfane di pagine Alice, la ragazza con cui stavo allora, aveva contattato Gipi, il disegnatore – sapeva che mi piaceva molto – e gli aveva chiesto se poteva spedirgli una copia fallata del romanzo in modo che lui potesse illustrare le pagine bianche, non gli chiedeva di indovinare il frammento di narrazione mancante ma di riempire la pagina come preferiva: non doveva fare altro che colmare – disegnando – le lacune. Gipi aveva risposto di sì, Alice gli aveva mandato il libro, però poi non se ne era fatto niente, forse il libro non era arrivato a destinazione o Gipi se n’era dimenticato, fatto sta che, anche se non si è realizzata, quell’idea resta bellissima. In generale – seppure mi auguro che questo riguardi il meno possibile il libro appena uscito perché un ragionamento come quello che sto facendo non verrebbe accolto, e giustamente, molto bene – penso sia utile non farsi scoraggiare dai vuoti, ma al contrario provare a usarli, disegnare sulle pagine bianche, immaginarsi che cosa è successo quando l’operatore stava ricaricando la cinepresa e non filmava.

Fine dell’intermezzo, torniamo a parlare del Museo Lombroso, e facciamolo prima di tutto cercando di capire che cosa c’è al suo interno. In che cosa consiste il suo essere documento. Partendo da una precisazione: questo museo – lo noterete subito – è lucido e scrupoloso nella sua impostazione e nella scansione del percorso; direi persino che è torinesemente – se mi si passa l’avverbio – sobrio, meglio ancora cauto; consapevole di proporre una collezione composta in buona parte di abbagli, di equivoci, di forzature, di esasperazioni di cui è indispensabile prendere atto, affinché esserne coscienti serva da antidoto, da controveleno all’impulso che a volte avvertiamo a semplificare le cose. Su tutto questo tornerò più in là.

Tra le sale espositive che visiterete da qui a poco e ciò che è conservato nel suo archivio, il Museo Lombroso contiene una molteplicità di reperti. Vi troverete davanti a un congegno di legno e metallo che si chiama tachiantropometro, a una cassettiera estesiologica, alle trenta maschere in cera cosiddette «del Tenchini», ai crocifissi-pugnali che una banda di finti monaci usava per compiere le proprie rapine (una cosa del genere l’avevo vista solo – ed ero convinto non fosse altro che un’invenzione narrativa – in un film di Luis Buñuel del 1961 che si intitola Viridiana), a un mobile realizzato da un recluso del manicomio di Lucca che si chiamava Eugenio Lenzi (tra parentesi fate attenzione a dove, in quel mobile, è posizionata la specchiera, irraggiungibile da qualsiasi sguardo), e poi ancora all’abito-armatura di quarantatré chili che Versino – un ammalato di demenza precoce – aveva fabbricato poco per volta sfilacciando gli stracci che usava ogni giorno per le pulizie per poi intesserli tra loro. Osserverete gli orci provenienti da Le Nuove, incisi dai carcerati con scritte e disegni, tra i quali ce n’è uno con occhi naso bocca e la scritta Viva la libertà, leggerete la ricostruzione del caso del brigante Villella, e del clamoroso errore che condusse Lombroso a immaginare che la fossetta occipitale fuori misura del brigante potesse spiegarne biologicamente la delinquenza, e poi ancora vedrete un busto di Caligola e una testa frenologica, così come un altro busto di marmo di un uomo con i baffi la cui identità permane ignota (perché dal pieno del documento affiora a volte la lacuna).

Tra ciò che è contenuto negli archivi è utile citare – e mostrare in questa sede – una serie di disegni di cosiddetti «mattoidi», ritratti di criminali, tassonomie che nella loro elementarità risultano oggi tragicomiche – per esempio Ladra Tedesca, Assassino Tedesco, Brigante Italiana, Maschio Pederasta Tedesco –, fotografie di Lombroso e delle sue figlie (e vale la pena ricordare che Paola Lombroso Carrara, la primogenita – che Ada Negri descrisse così:

«Porta veramente in sé l’anima di una donna, pura e serena, consolatrice e materna, gioiosa delle piccole cure casalinghe […]»– contribuì nel 1908 alla nascita del «Corriere dei Piccoli», dove tenne la rubrica della corrispondenza, firmandosi Zia Mariù), e ancora album di anarchici e di briganti, di uomini tatuati, e poi una serie di spettri bizzarri che fanno capolino dall’angolo di alcune foto tratte dal libro che Lombroso dedicò ai fenomeni ipnotici e spiritici (un libro che da piccolo, tirato fuori dalla libreria di mia nonna, passavo il tempo a sfogliare affascinato da quelle immagini e allo stesso tempo perplesso perché non riuscivo a non accorgermi che quei presunti fantasmi erano solo figurine di carta ritagliate e incollate). L’archivio del museo contiene anche le lettere che Edmondo De Amicis inviò a Lombroso in un arco di tempo compreso tra il 18 agosto 1883 e il 5 gennaio 1893 («Caro Lombroso» è l’incipit con cui l’autore di Cuore inaugura ogni suo messaggio).

versino-2Buona parte di tutto ciò che il museo conserva al suo interno riguarda – lo accennavo prima – quelli che in sintesi possiamo descrivere come strumenti di misurazione dell’umano; qualcosa il cui principio è riassunto nella storia di Procuste, che, si narra, appostato lungo la strada che conduceva da Eleusi ad Atene, costringeva i viandanti a distendersi su un letto scavato nella pietra che gli serviva da unità di misura: a chi era troppo alto Procuste tagliava i piedi, chi invece non era alto abbastanza subiva una trazione delle gambe fino a raggiungere la lunghezza del letto. Procuste era cioè un uniformatore, qualcuno che riportava l’eterogeneità delle cose a una dimensione omogenea avendo ben radicata in mente un’idea fisica di umano alla quale pretendeva che ognuno – nonostante ognuno sia naturalmente differenza – si conformasse.

In un suo testo del 1878 Lombroso esprime una fiducia incondizionata «nel trionfo delle cifra sulle opinioni vaghe, sui pregiudizi, sulle vane teorie». A determinare parte del suo pensiero, in continuità con l’idea di conoscenza titanicamente onnicomprensiva propria del positivismo, era il bisogno di ridurre se non addirittura di estinguere l’incoerenza, il non poter sopportare che se ci si confronta con le cose dell’umano è inevitabile (e giusto) che i conti non tornino mai. Dell’umano, Lombroso sembrava non riuscire ad accogliere la strutturale ambiguità, il fatto che ciò che siamo esiste sempre nell’oscillazione, nell’instabilità, nel brusio, e che per quanto si possa esasperare il desiderio di estorcere alle cose significato – persino presumendo, o meglio pretendendo, che possa e debba esistere, nelle nostre esistenze, un ideale equilibrio vitruviano – le cose restano incerte, tenacemente spurie, irriducibili a un sistema di misure dato.

Ed è proprio questo ciò che del Museo Lombroso mi sta più a cuore e che proverò adesso a condividere con voi: non l’apparentemente misurabile ma lo smisurato, l’umano incontenibile; quella sostanza vulnerabile che solo a stento, e in modo sempre incerto, si può provare a dire.

Raggiunta la sala numero 5 vi troverete davanti a una serie di teche di vetro. Chinatevi in avanti, forse sarà necessario piegare leggermente le ginocchia e flettersi sulle gambe; è una postura che addolora la schiena, è vero, ma ne vale la pena. In uno dei ripiani inferiori, oltre i riflessi del vetro, vedrete una scatola di ferro scuro; dalla scatola affiora un brulichio colorato di forme piccolissime, un magma lieve, volatile, si ha addirittura la sensazione che la teca protegga questa miriade di minuzzoli dal rischio di essere spazzati via al primo soffio di vento. Restate chini, continuate a guardare; vi accorgerete che quelle impercettibili morfologie composte di parti piatte e di spigoli sono frammenti di carta piegati e ripiegati e ripiegati ancora a formare, secondo un origami rudimentale, minuscole ochette. Nient’altro che questo: una covata di ochette, poco meno di seimila, che viene fuori da un cratere di ferro (un contenitore che, guardandolo bene, è un lago davvero troppo piccolo per accogliere questa massa pulviscolare di uccelletti). Una nota informa che le ochette sono state costruite usando quadratini di carta di tre centimetri per lato, su un quadratino c’è un timbro che reca la data del 30 ottobre 1887. Autore unico di questa nidiata di carta modellata è un ricoverato del manicomio di Collegno di cui si ignora il nome.

A questo punto non modificate la vostra postura. Lo so, la regione lombare duole, ma davvero ne vale la pena. Lasciate le ochette e spostate lo sguardo verso sinistra; dovreste vedere qualcosa che somiglia a un fiore bianco screziato di giallo e di azzurro; più precisamente, sostenuto da una piccola base di legno, c’è una specie di bocciolo di camelia, volendo essere ancora più precisi potrebbe essere il bocciolo di una camelia japonica, una varietà bianca che fiorisce tra febbraio e aprile, vive quieta nelle penombre, teme i ristagni d’acqua e soprattutto le gelate. Il bocciolo trapiantato oltre il vetro della teca ha un che di ambiguo, i petali sono elegantemente incurvati ma rivelano una specie di rigidità, sembra che nel disegno di quella corolla il morbido e il duro si siano improvvisamente combinati, a imporsi è la percezione di qualcosa di extratemporale. Continuando a guardare questo bellissimo fiore fossile vengono in mente i versi – dedicati non ai petali della camelia ma a quelli della rosa – che Rilke fece incidere sulla sua lapide: «Rosa, pura contraddizione: piacere d’essere il sonno di nessuno sotto tante palpebre».

Solo adesso ha senso accostarsi ancora un poco al vetro e leggere la nota informativa. Sul micropiedistallo di legno non c’è nessun fiore, per lo meno nessun essere vegetale, ma ciò che M. – non se ne conosce il nome per intero – una donna di Ginevra affetta da monomania persecutoria, costruì assemblando tra loro gusci d’uovo. Non petali, dunque, ma lembi calcarei decorati.

Scrive Lombroso:

7° Un carattere comune a molti è la completa inutilità dei lavori a cui attendono; così una tale M., ginevrina, affetta da monomania persecutoria, consumò interi anni in lavori sopra fragili uova e su limoni, lavori che, malgrado fossero bellissimi, non poterono giovarle nella fama, perché essa li teneva gelosamente nascosti; né io, a cui pure ero affezionata, potei vederli, se non quando morì.

A questo punto dobbiamo fermarci un momento per fare una cosa che non è né immediata né scontata.
Mi spiego.
È naturale che davanti alle ochette del ricoverato del manicomio di Collegno e ai fiori d’uova di M. proviamo un senso di stupore, così come un senso di divertimento nonché di tenerezza. A colpirci non è soltanto che qualcuno abbia lavorato con il fragile conferendo valore all’irrilevante, accogliendo e risignificando i rifiuti, ma soprattutto – credo – che tutta questa delicatezza e tutta questa cura provengano da due persone alle quali tenderemmo a non attribuire la capacità di dare forma a qualcosa del genere – oppure sì, siamo disposti ad attribuire loro questa capacità considerandola però la parte lieve, amorevole, creativa (per usare un termine che ci rassicura) di una patologia psichica: il residuo dolce di una sostanza cupa e amarissima. In un certo senso, fatte – come si dice – le dovute proporzioni, il modo di pensare di Lombroso.

Proviamo allora a non limitarci al nostro stupore, alla registrazione intenerita dell’anomalia, al compiacimento davanti al bizzarro. Proviamo cioè a pensare che quei pezzetti di carta e quei gusci d’uova non siano qualcosa che si esaurisce in una contemplazione commossa o sorridente, ma qualcosa che rimanda ad altro, reperti che guardano fuori scena, in direzione di un altrove reale al quale non è scontato che prestiamo attenzione. Dunque non confondiamoci, non distraiamoci, facciamoci carico della nostra immaginazione, decidiamo di vedere quello che non si vede. Tornando al discorso da cui siamo partiti, penetriamo nelle lacune e trascorriamo un po’ di tempo al loro interno.

E allora prima di tutto stacchiamoci dalla carta e dal calcare e risaliamo lungo le mani – significa che è arrivato il momento di inventarle – che quella carta e quel calcare hanno modellato. Le mani del ricoverato di Collegno sono chiare, coniche, hanno il palmo largo, le nocche brune leggermente screpolate (sembra che nei solchi di pelle che sormontano le nocche sia caduta una pioggerella di limatura di ferro), le dita sono sottilissime, falangi falangine e falangette sono cosparse di piccoli tagli scuri, le lunette delle unghie insistenti. Quando per prendere qualcosa, o per piegare la carta, le dita si richiudono a becco, il movimento è saldo tranne per il mignolo della destra che prende a tremare autarchico, frenetico, separato dal resto della mano, come la coda di un cane in miniatura.

Le mani di M. sono invece scure e annodate, cartilaginee, ossificate, talmente magre che del metacarpo sembra di percepire, sotto un velo di pelle, l’accrocco degli ossetti che ne regolano l’articolazione; l’impressione, continuando a guardarle – a immaginarle, ma immaginare è solo un altro modo di guardare – è di trovarsi al cospetto di una rovina, nel senso che delle mani di M. si riconosce in filigrana quella che fu un’architettura magnifica, una gloria della struttura di cui sono sopravvissute le vestigia; l’anulare della sinistra – lo notiamo adesso – è lesionato in due punti, dove le falangi si articolano, tanto che nel ritagliare i gusci in petali quel dito se ne sta tra le altre dita per conto suo, estraneo, dissociato, il compagno ottuso che non sa accordarsi al lavoro degli altri intorno a lui. Ci sarebbe da chiedersi quando M. si è procurata quelle lesioni – a undici anni oppure a trentaquattro o a cinquantadue, o magari a ventitré – e in che modo – se la lama di un coltello le è scivolata fino alle dita mentre incideva una forma di pane duro, o mentre al lavoro in una filanda immergeva a mani nude i bozzoli dei bachi da seta nell’acqua bollente, oppure estirpando tenacissime radici dai solchi terrosi di un campo da ripulire per la semina, o nel maneggiare senza protezione il fosforo bianco in una protofabbrica di fiammiferi di fine Ottocento.

Adesso che del ricoverato senza nome di Collegno e di M. di Ginevra abbiamo inventato le mani, sappiamo che ancora non basta. Dai loro polpastrelli dobbiamo risalire lungo i polsi e poi percorrerne gli avambracci continuando a fare attenzione a tutto ciò che c’è – dunque a tutto ciò che decidiamo ci sia, per esempio quella vena lunghissima che solca il braccio di M., di un verde che in alcuni punti diventa blu, irregolare, tortuosa, un serpentello di sangue fisiologico che ogni tanto M. si sorprende a guardare, e una volta le è anche successo di sognarselo, quel frammento di vaso sanguigno, del sogno non si ricorda più niente se non che a un certo punto la vena si sollevava oltre la pelle dell’avambraccio e se ne andava via proliferando nello spazio intorno a lei –, e dopo gli avambracci dobbiamo risalire lungo le braccia e le spalle e dilatare la nostra immaginazione fino a percepire le schiene – su quella del ricoverato di Collegno una nitidissima costellazione di nei sembra il riflesso cutaneo del Grande Carro dell’Orsa Maggiore, soltanto che, al di là di noi in questo momento, nessuno la guarda, nessuno lo sa, soltanto una volta, una sola, è successo che una donna (non sappiamo chi sia, dovremmo decidere di inventare anche lei) abbia osservato questi corpuscoli bruni sulla schiena dell’uomo e senza averne una consapevolezza precisa ha pensato proprio alle stelle, poi si è chinata su quel cielo di carne e ha baciato un punto intermedio tra Alcor e Mizar –, e ancora dobbiamo comporre le loro teste, i loro visi, gli occhi il naso la bocca, i corpi interi, i loro nomi, e dobbiamo farci carico delle loro storie individuali, vale a dire di tutti quegli accadimenti logici o assurdi che li hanno modellati incisi modificati, che ne hanno assecondato il percorso o che lo hanno reso insostenibile, dobbiamo poco per volta comporre le loro biografie senza trascurare neppure uno strato, neppure un sedimento, neppure un pigmento, immaginando le situazioni, la fatica, il piacere, tutto quello che ha dato forma a un’epoca della loro vita o che non è andato oltre il barlume, ogni istante possibile, e soprattutto dobbiamo immaginare il tempo necessario a fabbricare una per una quelle figurine animali e quella camelia d’uovo, un tempo in cui c’è la passione ma c’è anche la noia, la concentrazione e il nulla, tutto ciò che ha a che fare con il senso e ciò che resta pura e semplice umanissima dissipazione.

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Totò in Lo Smemorato di Collegno di Sergio Corbucci

Solo allora, immaginato l’immaginabile di quelle esistenze così da renderle il più possibile reali, ha senso tornare a guardare gusci e ochette, a quel punto percependoli in un altro modo, non tanto con un senso di benevolo stupore e neppure con un senso di pietà – perché non si tratta di avere pietà – ma con un senso di rispetto, perché il rispetto – riuscire a percepire quello che non c’è, chi non abbiamo mai conosciuto, percepire l’altro e l’altrove ad altezza occhi, senza condiscendenze, con uno sguardo radicalmente terrestre – è una forma di conoscenza, e allora adesso ha senso tornare anche a quel 16 aprile del 1969, o meglio a ciò che di quel giorno dovrebbe essere la testimonianza, e dunque alla pellicola scomparsa, al documento che manca, al tempo che non risponde all’appello, al mio tentativo di ricordare – che è ancora un altro modo ancora di immaginare – dove non ero, ciò che è accaduto quando non esistevo, mio padre e a mia madre seduti uno accanto all’altra dentro l’Oratorio di Santa Cita, intorno a loro lo strepito muto della battaglia di Lepanto e gli amorini meditabondi, mio padre che continua a strofinare pollice e medio della sinistra, sembra voglia suscitare una scintilla da una pietra focaia, tra qualche secondo il sacerdote se ne accorgerà e non saprà cosa pensare, mia madre che non smette di fissarsi gli anulari mentre sua madre – mia nonna, che però per il momento è ancora soltanto la madre di mia madre che non è ancora mia madre – la fissa a sua volta, vorrebbe intervenire, domandare a sua figlia di darsi un contegno, decenza, equilibrio, di non avere così tanta paura, ma non c’è tempo per dire qualcosa e forse non c’è proprio niente, mio padre e mia madre se ne stanno lì, nel bianco barocco, introvabili, trasformati in lacuna, indistinguibili dal ricoverato senza nome di Collegno e da M. ginevrina, un’unica stirpe di genitori e progenitori dispersa nello spazio e nel tempo, Paolo e Lilla concretissimi in quell’istante di fine anni Sessanta eppure anche loro, come tutti, come le vite degli altri che ininterrottamente siamo, eternamente dileguati – piacere d’essere il sonno di nessuno sotto tante palpebre –, e dunque o mi rassegno al fatto che di mio padre e di mia madre io non so niente oppure devo vestire d’invenzione anche le loro lacune, devo strategicamente mentire anche le loro esistenze, dare forma alle loro espressioni incerte che precedono il sì, al viso quadrato di mio padre quando non era ancora mio padre, alla fronte larga e al naso adunco di mia madre undici mesi prima di partorirmi, e devo arrivare a comprendere che in tutto questo non c’è niente di strano, tanto meno di male, perché quello da cui proveniamo è sempre l’incongruenza, l’ambiguità, la sfasatura, il tremolio autarchico di un mignolo, un anulare dissociato dalle altre dita della mano, ciò da cui proveniamo sono quei secondi di ripresa mancanti durante i quali la vita reale continua ad accadere, secondi che diventano minuti ore giorni anni una vita intera, e a quel punto, anche se è l’aprile del 1969 e non sono ancora nato, quello che devo fare è penetrare anch’io nella lacuna, percorrere l’interno dell’Oratorio guardando le forme curvilinee degli stucchi, le battaglie, gli amorini, e inoltrandomi in tutto quel bianco devo superare gli invitati seduti sulle loro panche e raggiungere quei due fermi davanti all’altare; poi, chinandomi, raccoglierò in una mano le dita di mio padre per sentirne il tremolio, nell’altra quelle di mia madre, toccherò il suo anulare rotto, mi avvicinerò ancora di più e dirò loro sottovoce che va tutto bene, va tutto bene, perché nessuno ha idea di che cosa c’è più in là, nell’umano smisurato e vulnerabile, e di che cosa accadrà, neppure la minima idea, e a quel punto, a chi sarà mio padre e a chi sarà mia madre e adesso è solo un grumo di esitazione e di futuro, chiederò di alzarsi e di muovere un primo passo, un altro, un altro ancora, e di rischiare, di fidarsi, e poi mi allontanerò con loro nel silenzio da cui avrò origine.

 

Salentitudini tondelliane – prima parte

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Trent’anni dopo Ragazzi di piazza. Che cos’è diventato il Salento di Tondelli? Con questa prima tappa si inaugura il tour-reportage di Giorgia Salicandro, realizzato questa estate per Nazione Indiana e illustrato magnificamente da Daniele Coricciati. effeffe

PRIMA PUNTATA / Non è più l’ora dell’aperitivo

Edi Brancolini, titolo: PIER VITTORIO TONDELLI
Edi Brancolini, titolo: PIER VITTORIO TONDELLI

di

Giorgia Salicandro

Attorno al salotto sudamericano di Piazza Mazzini, a Lecce, all’una e mezzo non è più l’ora dell’aperitivo. Arrivo puntuale a un appuntamento che io sola ho deciso. Il luogo è lo stesso, quella l’ora. Trent’anni più tardi. 1986, era estate. L’appuntamento di Pier Vittorio Tondelli con il Salento era partito da qui. La fauna giovane del capoluogo salentino si raduna a varie ore del giorno e della notte con una particolarità: la rotazione.

Non la vedo, oggi.

Un filippino senza età su una panchina di pietra, in ciabatte. Una statua africana, treccine sino ai fianchi e collo ritto sulla schermata di uno smartphone. Si alza il primo, arriva un uomo sui cinquanta, si guarda intorno, si rialza. Piazza Mazzini non è un salotto, ma una sala d’attesa. Al più, è uno spazio sufficientemente dismesso da dare asilo a due quindicenni in incognito – sulla panchina accanto – braccia dritte per tenersi saldi alla propria ora comune, gambe parallele, sorriso schermato dagli occhiali da sole.

Un gruppo di tre inglesi in shorts e capelli rossi ondeggia spaesato, tenta di capire se sia richiesto, da una guida rossa o verde d’occasione, di attivare il proprio equipaggiamento di fotocamere. Se ne va. Due cani al guinzaglio. Quattro giostrine a gettoni addormentate in un telo di plastica blu. No: non è questo il luogo. Non è più l’ora. L’appuntamento con la fauna giovane non è più qui.

foto di Daniele Coricciati

Persino la grande fontana centrale, altissimi getti d’acqua iridescente alla luce, all’una e trenta in punto – è straordinario – si arresta d’un tratto.

Quest’estate il viaggio di Pier Vittorio Tondelli nel Salento conta trent’anni. «Scrittore (“Altri libertini, “Pao Pao” e il best seller “Rimini”), attento osservatore dei fenomeni giovanili», aveva esattamente trentun’anni – li compiva proprio quel 14 settembre – quando L’Espresso presentava il reportage della sua giovane stella, inviata a registrare sul proprio taccuino il tam tam dei nuovi raduni, il silenzio dei vecchi indirizzi degli anni Settanta, i decibel delle discoteche, il brulicare di artistoidi e altri viventi indaffarati a costruire i nuovi itinerari culturali degli anni Ottanta.

A snidare i «Ragazzi di piazza» del decennio. Gli indirizzi scelti furono cinque, non convenzionali le ragioni. Bologna regina decadente, Firenze “dilettante” d’alto bordo, una Venezia indie da tre del mattino, una Napoli da “scena” che faceva scuola. E poi lei, tirata fuori come un coniglio immacolato dal cappello, una domanda aperta che sapeva di provocazione.

Sì: Lecce. Trent’anni fa.

Il Salento d’amare era lontano, nel 1986. Sceso dal treno, nel piazzale della stazione, non c’era lo schermo luminoso con la teoria di pomodori essiccati e onde verde acqua a guisa di benvenuto che oggi accoglie chi arriva a Lecce. Nessuno dei taxi bianchi e minivan pronti a fagocitare i turisti a beneficio di alberghi e bed and breakfast, veri o presunti, del centro storico.

Alla stazione di Lecce, i primi di giugno, oggi e non allora torna a ripetersi come in un tempo circolare il rito d’iniziazione del Salento d’amare. Arrivano in gruppi di dieci, in costumi da bagno e zaini resi enormi dai sacchi a pelo, e sai che li troverai sulla banchina dell’autobus a consultare i geroglifici di una pensilina elettronica, mentre tre signore minute con solo il carrello della spesa scompaiono, arto dopo arto. nel gorgo dei loro trolley.

Arrivano da Torino e da Milano e no, se glielo chiedi ti diranno che non sono vecchi emigrati ma veri turisti che hanno letto un articolo del Lonely Planet postato su Facebook. E hanno trolley abbinati al beauty case, i capelli ordinati in una piega, bianco il vestito di lino e bianco il colore dominante delle loro figure lattee, innocenti, cariche di speranze riposte nel paradiso terrestre del Salento. A fine agosto saranno sodi e bruni e risplendenti di olii solari, i capelli ondulati, seccati dal sole, decorati da treccine africane fatte in spiaggia e cappellini di paglia, felpe e scarpe allacciate l’una all’altra esplosi dagli zaini, i trolley e i beauty case carichi di felicità in barattolo, fichi secchi e pomodori, e orecchiette e altri sogni di quiete primordiale sotto vuoto.

Lecce – Piazza Mazzini- Daniele Coricciati

La macchina della felicità abita qui. «machenesannoagallipoli?» si smarca un ashtag bardato di foto con giostre notturne e piadine sul lungomare di Riccione.

Al termine dell’estate 1986, la giovane stella sarebbe tornata ancora, di certo, sulle spiagge della Riviera, a soffrire e godere insieme l’inconfondibile sausade dell’anno precedente. Improvvisamente quella che è stata la più grande città della notte, una città che dai lidi di Ravenna al promontorio di Gabicce si estende per circa centotrenta chilometri, si spegne.

Nel 2016 è la Riviera Romagnola, leccandosi le ferite da antica gloria, a dover ingaggiare una sfida di marketing contro la città jonica – lei, la “Rimini del Sud”, come si diceva un tempo.

A Gallipoli, turisti stipati anche nei garage. Il Salento scoppia, scrivono i giornali. Il Salento è tutto esaurito fino a settembre. «Salento affollato? Un bel soppalco e tutti in spiaggia» ghigna Daniele Rielli dalle pagine di Nuovo Quotidiano di Puglia.

Salento da bere, Salento d’amare, Salentu lu sule lu mare lu ientu, finita l’età dell’innocenza, Salento disceso dal Cielo e fattosi brand per noi tutti. Il Salento.

Non c’era nessun Salento, trent’anni fa. Il brand non aveva ancora tessuto la sua tela di ragno. Sorprendeva, il giovane del Nord, che esistesse vita a Sud di Bari.

«Lecce, all’epoca forse la leggevi sui cartelli stradali quando andavi a Brindisi per prendere il traghetto per la Grecia» sorride Alberto Giorgino mostrandomi una copia di Rimini con dedica, segnata Lecce, giugno 1986. Quella pagina è l’unica cosa che resta. Non ci sono altri documenti di quel viaggio.

A Correggio, al Centro Tondelli, c’è una cartellina numerata «3.3», arancione, La realtà giovanile. Trovo solo articoli pubblicati e lo schema del nuovo ordine per Un weekend postmoderno. L’armadietto dei feticci di Milano, ambito da ogni tondelliano, non restituisce un biglietto, non una lettera, mi risponde Fulvio Panzeri, curatore dell’opera di Pier.

Lecce – Piazza Mazzini- Daniele Coricciati

Recupero una sola foto, per caso, a Carpi, a casa di Edi Brancolini, il pittore che – lo sanno i tondelliani – ha ritratto Pier in posa dandy e panciotto nobiliare. Abbronzato, sneakers ai piedi, seduto su un lastricato in pietra davanti a una porticina di legno dismessa, il sorriso rivolto a destra, fintamente distratto, il dandy della foto. Nel Salento, sì, con i compagni di sempre Enos Rosa e Giuliano Giuliani, in uno dei molti viaggi che solitamente finivano a Dubrovnik. Non, tuttavia, quello dell”86.

Nient’altro.

2016, trent’anni più tardi. Il mio compleanno è il 15 settembre, trent’anni dopo quello di Pier. Gli stessi lembi della mia pelle stirati dal tempo trattengono lo scarto che separa il qui e ora di questo Salento, dall’altro.

Prendo anch’io quel treno, entro in una carrozza vuota, come nell’utero del passato.

 

In ordine di citazione:

P:V: TONDELLI, Ragazzi di piazza, «L’Espresso», 14 settembre 1986, ora in Opere. Cronache, saggi, conversazioni, a cura di F. PANZERI, Milano, Bompiani, 2001, pp. 251.254

Id., Quando Rimini si spegna. Il fascino della Riviera d’inverno, «L’Illustrazione italiana», novembre 1985 ora in Opere…, cit., pp. 124-127

BLANCO, Riccione stida il Salento con #machenesannoagallipoli? La risposta non si fa attendere, http://www.quotidianodipuglia.it/lecce/riccione_gallipoli_turismo_sfida_machenesannoagallipoli-1662849.html, consultazione: 11 aprile 2016

CELLINI, Boom di B&B abusivi. A Gallipoli i turisti ospitati anche nei garage, «Nuovo Quotidiano di Puglia», 20 agosto 2016

COLACI, Pienone a settembre, spiraglio per i treni, «Nuovo Quotidiano di Puglia», 22 agosto 2016

RIELLI, Salento affollato? Un bel soppalco e tutti in spiaggia, «Nuovo Quotidiano di Puglia», 19 agosto 2016

Il reportage ha potuto godere del prestigioso patrocinio della Città di Correggio e dell’Università del Salento.

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Moshe Kahn: come ho tradotto Horcynus Orca

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testo raccolto da Davide Orecchio

horcynus*** Moshe Kahn è il letterato e traduttore che per primo ha portato Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo in un’altra lingua. Nella sua carriera ha tradotto in tedesco, oltre a D’Arrigo, autori come Primo Levi, Pier Paolo Pasolini, Roberto Calasso, Luigi Malerba, Beppe Fenoglio, Giuseppe Tomasi di Lampedusa e Andrea Camilleri. Il lavoro su D’Arrigo ha una lunga storia: prima di approdare alla Fischer Verlag (il romanzo è stato pubblicato nel 2015) Kahn ha lavorato a lungo sul testo, sin dagli anni Ottanta, confrontandosi prima con D’Arrigo, poi con altri intellettuali che, come leggerete sotto, l’hanno accompagnato nella decifrazione e resa per la lingua tedesca. Un lavoro durato più di trent’anni, in emula simmetria al tempo che si prese D’Arrigo per creare Horcynus Orca.

Nonostante il prezzo elevato (58 euro) l’Horcynus tedesco, uscito inizialmente con una tiratura di duemila copie, è arrivato a venderne in un anno quasi diecimila: «9.577, anche grazie a una prima critica entusiasta, quasi delirante, alla radio (di 22 minuti!)», precisa lo stesso Moshe Kahn. «Il libro ha ricevuto critiche molto favorevoli, non ne avevo mai viste tante in vita mia – prosegue Kahn –. Ho letto circa cento recensioni, e neanche una negativa. È stato lodato D’Arrigo come un’autentica rivelazione della letteratura europea del XX secolo, è stato elogiato il mio testo come un monumento di ricchezze linguistiche e musicali non ritenute più possibili al giorno d’oggi, ma questo è tutto dovuto all’ispirazione di D’Arrigo».

L’Horcynus Orca di D’Arrigo e Kahn ha vinto tre premi nel 2015: il Premio Italo-Tedesco 2015 dei rispettivi ministri degli Affari esteri per la migliore traduzione dall’italiano; il Premio Jane Scatcherd della Fondazione Ledig-Rowohlt per il coraggio linguistico; il Premio Paul Celan per la straordinaria applicazione di un tedesco ricco e inventivo. Un modo migliore per celebrare il romanzo, a quarant’anni dalla sua pubblicazione, non poteva esserci. Adesso si attendono nuove traduzioni: in francese, spagnolo, inglese. Ma restiamo al caso tedesco. Vediamo com’è andata, nella ricostruzione dello stesso Moshe Kahn. ***

Mi si era rivelata la grandezza e l’unicità di questo romanzo
Un caro amico, Donato Sanminiatelli, mi aveva parlato dell’Horcynus Orca già nel 1975, poco dopo la sua pubblicazione, e mi aveva raccomandato caldamente di leggerlo. Ma lo trovai ancora troppo difficile e complesso per la mia conoscenza della lingua italiana che, comunque, all’epoca era già piuttosto vasta. Solo verso la tarda primavera del 1979, quando ormai mi ero trasferito da Roma in campagna a Anticoli-Corrado, in provincia di Roma, e Sanminiatelli era morto da poco, decisi di riprendere la lettura del romanzo – considerandola una specie di sua eredità – e mi dedicai a questa lettura per ben tre anni intensi, durante i quali mi si rivelò la grandezza e unicità di questo romanzo gigante, non solo nell’ambito della letteratura italiana.

Terminata la lettura volli conoscere quest’autore così radicalmente diverso dagli altri, perché mi interessava sapere com’è fatto uno scrittore capace di produrre un libro di tale portata, un’opera che per me segnava una nuova epoca della narrazione. L’ufficio della Mondadori a Roma m’aveva chiesto di presentarmi da loro perché mi potessero dare tutte le indicazioni necessarie. In questa occasione mi domandarono pieni d’ammirazione se avessi letto veramente Horcynus Orca fino in fondo. Io confermai, un po’ confuso dalla domanda alquanto bizzarra, e la segretaria si congratulò con me dicendo: «Beato lei, io ho smesso a pagina 17».

D’Arrigo insisteva
sulla musicalità del linguaggio

A Roma incontrai D’Arrigo, che mi accolse con un calore del tutto sorprendente per me. Ero abituato a intellettuali distanti e superbi. Lui, invece, niente di tutto questo: era immediato, caloroso, molto comunicativo. In seguito tornai a trovarlo molte volte, mi parlò della sua vita, del suo nuovo romanzo (Cima delle nobildonne), sul quale stava ancora lavorando, degli artisti e pittori che aveva conosciuto. Ma soprattutto parlammo molto di come tradurre il linguaggio unico di Horcynus Orca, in vista di una possibile edizione in tedesco. D’Arrigo insisteva sulla musicalità del linguaggio e mi raccomandava di non attaccarmi fanaticamente al senso filologico di una determinata parola, ma di produrre sempre una musicalità analoga in tedesco, anche a costo di allontanarmi dalla precisione filologica. Ma mi raccomandava pure con insistenza di non tradire mai il senso della frase e del racconto, di non tradire mai il pensiero. Sotto la sua guida ho sviluppato poco a poco un preciso concetto della funzione della traduzione in genere, ossia che le due colonne maestre di una traduzione sono la libertà e la responsabilità dal e verso il testo e il suo autore – due princìpi fondamentali per tutto il mio lavoro di traduttore.

Una pausa lunga vent’anni
Avevo realizzato le prime cinquanta o sessanta pagine – parte dell’incipit del romanzo, parte dell’episodio di Ciccina Circè –, la mia idea era di interessare le due case editrici tedesche più idonee a una tale impresa, cioè la Suhrkamp/Insel e la Hanser. Siamo nel 1982.

Anche Leonardo Mondadori venne a conoscenza del mio interesse e del mio impegno, e mi propose uno stipendio mensile per la durata della traduzione, così da convincere gli editori tedeschi. Ma poco dopo sopraggiunsero profondi cambiamenti all’interno della Mondadori, col risultato che Leonardo lasciò il suo posto e fondò la casa editrice Leonardo. E mentre questo succedeva, gli editori tedeschi decidevano di non accogliere la mia proposta: uno sosteneva che il rischio era troppo grande, dato che D’Arrigo era completamente sconosciuto fuori dall’Italia e il romanzo era troppo voluminoso; l’altro faceva riferimento alle critiche negative apparse all’epoca della pubblicazione in Italia, con nessun accenno a quelle positive che invece abbondavano, e poi scritte da persone di valore. A quel punto il mio progetto si fermò per ben ventitré anni, quando…

L’incontro con un nuovo editore
… quando, nel 2005, incontrai l’editore svizzero Egon Ammann, che mi offrì l’occasione di parlargli di questo romanzo e del suo autore. Dopo alcuni mesi di riflessioni, di consultazioni e di calcoli Ammann mi fece sapere che ci saremmo «imbarcati insieme in quest’impresa avventurosa». Concluse un contratto con la Rizzoli [che nel 2003 ha pubblicato una nuova edizione italiana di Horcynus, ndr.], e io nell’ottobre 2006 ho potuto riprendere il mio lento lavoro di traduzione, trasformazione, assimilazione, acquisizione al tedesco.

Ammann e sua moglie erano i fondatori e gestori della Ammann Verlag, una piccola casa editrice di Zurigo, ma molto prestigiosa. Da sempre lui e la potente S. Fischer Verlag facevano grandi progetti insieme, Ammann le edizioni hardcover, S. Fischer le edizioni tascabili. Nel 2010 lo stato di salute di Ammann si è aggravato a tal punto da costringerlo a chiudere bottega. Io all’epoca ero nel pieno della traduzione e ho temuto il peggio per il mio lavoro. Ma Ammann mi ha tranquillizzato assicurandomi che il progetto Horcynus sarebbe passato direttamente alla S. Fischer Verlag. Ammann, invece, avrebbe continuato ad affiancarmi nel ruolo di editor. E così è stato.

Tradurre Horcynus come se fosse un testo greco
La traduzione procedeva molto lentamente, a volte con belle trovate, ma più spesso con gravissimi dubbi sulla tonalità che stavo cercando di dare al testo tedesco. Intanto D’Arrigo non c’era più, perciò non potevo rivolgermi a lui per chiedere delucidazioni o ottenere incoraggiamenti. Perciò il mio lavoro procedeva a tentoni.

A D’Arrigo si sostituì Stefano Lanuzza, un suo conterraneo, un uomo molto dotto e colto che abita e insegna a Firenze: ha scritto un saggio dal titolo Scill’e Cariddi – Luoghi di “Horcynus Orca”, pubblicato nel 1985, che D’Arrigo aveva molto apprezzato. Quando, dopo anni di lavoro, arrivavo a un punto di totale esaurimento, quando non trovavo più la mia strada all’interno dei periodi sintattici di D’Arrigo, era lui, Stefano Lanuzza, che mi salvava in continuazione e mi rimetteva sulla giusta strada.

Improvvisamente mi è stato chiaro
che il siciliano porta con sé un’eredità greca

In una di queste occasioni ho cominciato a riflettere sull’idioma siciliano, sulla sua storia e sul suo sviluppo nei secoli e millenni. E improvvisamente mi è stato chiaro che il siciliano porta con sé una eredità greca non indifferente. Quando me ne sono reso conto, ho cominciato a tradurre l’Horcynus come se fosse un testo greco, senza più trovare difficoltà nei grovigli sintattici quando si presentavano. È stata come una carica di ossigeno per il mio testo. E così ho portato avanti il lavoro. Ovviamente più tardi, in fase di revisione, ho dovuto adattare i vecchi strati della traduzione alle nuove conquiste linguistiche.

La comparatista Isabella Horn ha scritto un saggio su come e con quali tecniche ho trasformato il testo italiano in tedesco (consultare Google!). Qui osserva che, nonostante certe libertà, ho mantenuto alla perfezione lo spirito e il ritmo darrighiano del linguaggio e della narrazione.

Eppure, a lavoro concluso, non ero ancora contento, c’erano molte pagine da riconsiderare, alcune anche da riscrivere, certe espressioni non mi sembravano riflettere sufficientemente l’intenzione di D’Arrigo. Quindi mi sono messo per due anni a ritoccare, e per ben nove volte, l’intera traduzione.

Quasi dieci riscritture 
All’inizio di settembre 2014 avevo rielaborato la nona versione, ma per un ennesimo scrupolo volevo dare un’ultima, veramente ultima occhiata a tutto il testo. Passò a trovarmi Ammann. Mentre gli preparavo un espresso mi chiese cosa stavo facendo in quel periodo. Gli risposi che mi preparavo a revisionare l’Horcynus per la decima volta, giusto per essere sicuro che fosse tutto a posto prima della consegna all’editore. A quel punto Ammann mi abbracciò e disse con calma che dovevo preparare una valigetta col necessario. Quando gli chiesi perché, mi rispose con un largo sorriso che era giunto il momento di ricoverarmi in un reparto psichiatrico: «Nove versioni sono al limite ancora accettabili, ma dieci fanno un caso patologico».

Il rilancio del romanzo in Italia, e altrove
Sono stato a Cagliari alla fine di febbraio 2016. Sono entrato nella libreria più importante della città. Ho chiesto notizie dell’Horcynus e il libraio mi ha detto che, stranamente, le richieste da parte dei lettori erano aumentate dopo anni di oblio. Non so se sia dovuto al successo in Germania, ma so che alcuni giornali e riviste italiani ne avevano scritto e forse avranno creato un’eco che ha influito. Sarebbe augurabile. Vediamo cosa avverrà quando, alla fine del 2017, verrà pubblicata la versione francese del romanzo, curata da Monique Baccelli e Antonio Werli; e poi tra qualche anno anche quella spagnola curata da Miguel Angel Cuevas, e quella americana curata da Stephen Sartarelli. Forse allora gli italiani capiranno che Horcynus Orca è un monumento della loro cultura, e ne saranno fieri.

La Germania conquistata da un’opera del sud. Un’altra Europa è possibile
Sono del parere che non solo un’altra Europa sarebbe possibile, ma addirittura un altro mondo, se solo la cultura fosse portata sempre al centro dell’attenzione di tutti i popoli e se questi fossero più potenti dei politici che formano una casta dannosa, poco affidabile e di bassa cultura. I soli campi che, dopo tutto, non conoscono frontiere, nazionalismi, odio religioso o razzismo sono quelli della cultura, dell’arte, della scienza: cioè il meglio dell’umanità. Quindi: più cultura significa più comprensione e rispetto e più pace. Ma la cultura ha pochi sostenitori tra coloro che hanno il potere di decidere sul suo finanziamento. Loro, purtroppo, calcolano il «rendimento» e l’«utile» non secondo criteri genericamente sociali, ma in base a categorie prevalentemente economiche. In questo senso la cultura non ha un futuro roseo, perché richiede per forza degli investimenti in modo che il beneficio perduri per secoli e millenni e renda grande una civilizzazione, cosa che i politici d’oggi non sono neanche lontanamente in grado di fare e tanto meno di capire.

Chi è Moshe Kahn
Sono nato nel gennaio 1942 da genitori che da due generazioni non erano più ebrei, ma che i nazisti hanno considerato ebrei lo stesso; fuggirono in Svizzera, dove sono cresciuto e dove ho frequentato il liceo classico. Poi, da adolescente, mi sono convertito alla religione dei padri, sotto la guida del rabbino Robert Raphael Geiss, un allievo di Franz Rosenzweig; seguirono studi in orientalistica antica, filosofia e giudaistica. Dopo gli studi mi sono occupato di teatro lirico e di prosa in qualità di aiuto regista. Nel 1966 sono venuto a Roma per starci per sempre; dopo alcuni anni di pratica teatrale e televisiva, mi sono ritirato «dalle scene» per dedicarmi alla traduzione (assieme a Marcella Bagnasco) della prima grande scelta di poesie di Paul Celan in italiano, per la quale Celan ci aveva scelto personalmente tra tutti gli altri che si cimentavano; la raccolta venne pubblicata nella collana Lo Specchio, ma sparì dopo l’ultima ristampa, perché Mondadori non volle farsi concorrenza all’interno dopo la pubblicazione delle poesie di Celan curate da Giuseppe Bevilacqua. Comunque, ricevetti una breve lettera di Eugenio Montale nel 1977, scritta di suo pugno, con la quale si complimentava con noi per la bellezza del nostro lavoro che per lui rappresentava «l’incontro poetico più importante degli ultimi trent’anni» della sua vita.

Da allora mi sono dedicato alla traduzione in tedesco di grandi autori italiani, tra i quali Andrea Camilleri, Primo Levi, Pier Paolo Pasolini, Roberto Calasso, Luigi Malerba, Fenoglio – per nominare solo alcuni – fino all’Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo, in tutto circa cento titoli. L’ultimo, ma non ancora pubblicato, sono i Racconti di Giuseppe Tomasi di Lampedusa nella nuova edizione critica della Feltrinelli, curata da Nicoletta Polo e Gioacchino Lanza Tomasi. In futuro pubblicherò ancora due mie traduzioni: le poesie di Stefano D’Arrigo dal titolo Codice siciliano e il romanzo Cima delle nobildonne. Poi più niente. Mi dedicherò esclusivamente alla pubblicazione di libretti lirici di opere del Settecento (Mozart) e dell’Ottocento prevalentemente italiano, in versione Text Score – un sistema di «partiture dei testi» da me inventato e sviluppato per tutti coloro che non possiedono un’acuta nozione musicale, ma molta passione per l’arte della lirica –. Le partiture saranno disponibili sulla app Operafans of Text Score Systems.

blue rooms (più ripido è il fondale più alta è l’onda)  

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 di Alessandra Cava

«Or come faremo a sapere le nuove del mondo?»

«ci sono pur sempre le rose, / ci sono pur sempre i gerani…»

 

uno spostamento, non un passo, più volte, questa mattina, anche i massi, più volte, causando, rischiando di inghiottire, causando la demolizione, delle correnti

 

si è reso necessario, questa mattina, uno spostamento di forme, queste barriere, figuriamoci cosa accadrà, si ammette che le cose possano cominciare, si ammette che le cose, più volte, possano cominciare prima, anche i massi, ma non che possano finire, questa mattina, dopo di noi