Antoine Volodine, Angeli minori, traduzione di Albino Crovetto, L’orma editore, Roma 2016, pagg 213, euro 15,00
Sorgevano dubbi che fosse ormai completamente oscurata e superata da cinema e serie televisive, soffocata da tonnellate di libri di consumo e di scarsa qualità, nascosta e talvolta introvabile negli stessi luoghi dove la si cercava, tradita da mecenati e investitori ad altro interessati, ignorata da sempre maggiori quantità di persone, strette dal bisogno e occupate unicamente da problemi di lavoro e sopravvivenza … ma nonostante le condizioni avverse resiste, anche se molti non lo sanno, non vengono informati. La letteratura è viva e lotta insieme a noi! Lo testimonia per esempio Antoine Volodine, autore francese di origine russa, col libro Des anges mineurs, Angeli minori, per cui è risuonata da più parti la parola ‘capolavoro’ (“Angeli minori ha tutte le caratteristiche del capolavoro: potenza, forza evocativa e visionarietà”, The Literary Review), tradotto in italiano da una piccola casa editrice, L’orma editore.
Che cosa mi fa esclamare con entusiasmo che si tratti di un’opera letteraria degna d’ammirazione?
Innanzitutto la forma.
L’autore non si è limitato a inserirsi in canali narrativi convenzionali e lineari. Ha inventato il genere narrat: “istantanee romanzesche che fissano una situazione, delle emozioni, un conflitto vibrante fra memoria e realtà, fra immaginazione e ricordo” (pag 6). Più nello specifico i narrat che compongono il testo, queste apparizioni degli angeli minori, che all’interno della letteratura italiana potremmo associare in qualche modo a Se una notte d’inverno un viaggiatore di Calvino o a Centuria di Manganelli, sono “immagini organizzate su cui si fermano, nella loro erranza, i miei mendicanti e i miei animali preferiti, nonché qualche vecchia immortale”. E con questo arriviamo a un altro generatore di potenza del libro: il mito inventato. L’invenzione intorno a cui ruotano le immagini, le sensazioni e narrazioni dei personaggi minori eppur protagonisti è la seguente: in un paesaggio desolato da fine del mondo, mentre l’umanità e molti animali sono in corso d’estinzione, per motivi imprecisati ma continuamente allusi come una guerra feroce mai finita fra capitalisti e comunisti, esalazioni o piogge di materiali tossici diffusi ovunque, un gruppo di donne pluricentenarie, divenute involontariamente e inspiegabilmente immortali, decide di unire le proprie forze magiche, sciamaniche o divine per dare la vita a un bambolotto di stracci “incubato” in un letto nel segreto di una casa di riposo semiabbandonata. Il futuro semidio, indottrinato fin nella culla, dovrà riportare nel mondo in pieno disfacimento un sistema sociale improntato alla solidarietà e alla fratellanza in grado di far rifiorire una vita vivibile sulla terra. Poiché vi è qualcosa d’imprevedibile nelle conseguenze delle nostre azioni, l’eroe farà tutto il contrario di quello che le sue madri-nonne desideravano, supponendo che sia la libera iniziativa, l’impresa capitalistica la forza capace d’imprimere dinamismo a tutto che è. Passati alcuni decenni, continuando a peggiorare le condizioni di vita sulla terra, le vecchie decidono di arrestare e condannare a morte la loro creatura. L’esecuzione però viene continuamente rinviata dal pentimento del colpevole e dai narrat che egli, novello Sherazade, comincia a raccontare. Il tempo trascorre in mezzo al bestiame e alle tende di queste dee nomadi tornate allo stadio in cui l’umanità era formata da gruppi sparsi nelle steppe e nelle pianure, mentre l’eroe narratore viene risparmiato e una anziana delle più convinte decide di partire per andare a uccidere gli ultimi capitalisti e portare a termine il suo piano salvifico. Sembra riuscire nel suo intento e dalla figlia di colui che è creduto l’ultimo capitalista verrà concepita una bambina, anch’essa messa insieme dalla sola madre in qualche modo con l’aiuto di un veterinario.
Nell’ultima pagina dell’opera si accenna a un concepimento fra uomo e donna, tuttavia in molti punti chiave del romanzo emerge l’idea che le maggiori (se non le uniche) portatrici della vita e del bene siano le donne, pur sempre nell’estrema precarietà del tutto.
Vi sono personaggi fra gli angeli minori che anelano a donne eternamente sfuggenti o scomparse, cercate, ritrovate, sognate, perdute di nuovo. Viceversa vi sono donne fra gli angeli minori che non smettono di ricordare e sognare uomini amati, un tempo scrittori, combattenti, perseguitati per la causa dell’eguaglianza. Fra gli innamorati si possono instaurare momenti di grande comprensione e fusione (“per il tempo di un’oscillazione eravamo posati sul confine delle parole, stando in silenzio e vibrando insieme, pronti al reciproco incontro mentale”, pag 86), ma anche d’improvvisa estraneità (“nella luce del sole nascente mi appariva di colpo animata da pensieri e da ricordi inaccessibili, estranei. E tutto era di nuovo come all’inizio, difficile da credere.” pag 88).
Sopravvissuti, sebbene a pochi passi dal nulla, compaiono diversi animali, considerati alla stregua degli uomini, di pari dignità, dotati di nome e cognome. L’unico amico, l’unico affetto che l’eroe Will Scheidmann ricorda della sua avventura fra gli uomini è un cane ed egli stesso in un narrat sostiene di essere morto nelle sembianze di un lupo. Qui si apre un altro ampio e profondo tema del libro: quello dell’identità. Abbiamo detto che l’eroe stesso in un narrat dice di essere morto in forma di lupo mentre all’apparenza, con gli occhi degli altri personaggi, egli è sempre più simile a una pianta, ricoperto come si ritrova di escrescenze cutanee simili ad alghe. In un altro narrat una narratrice di romance afferma di sognare di essere lei stessa Scheidmann, anzi di esserlo a un certo punto diventata. Altri personaggi entrano ed escono da sogni e da incubi che per loro sono più reali del reale.
Accanto ad essi, la regressione delle società umane a forme di vita povera e primitiva mostra scene orribili, come la brutalità delle continue uccisioni reciproche e un cannibalismo diffuso, soprattutto nelle città abbandonate, dove l’attraversamento di strade e quartieri assume perfino i caratteri di un’esplorazione in mari sconosciuti e mortali (con qualche ironia, poiché alcune azzardate esplorazioni, che costano vite e terribili atti cruenti, approdano in zone improbabili in cui la vita è rimasta come prima, come se non si profilasse all’orizzonte nessuna estinzione o guerra o carestia e non ne fosse giunta nemmeno notizia; così come in alcuni punti si parla di strade percorse da auto e da bus come prima: quasi che l’autore abbia voluto mostrare un rovescio della medaglia, la nostra società com’è ora, ignara di trovarsi sull’orlo di un baratro).
La comunità tribale delle anziane dee-pastore di pecore e cammelli in ogni caso rappresenta uno dei paradisi terrestri possibili. Qui regna la lentezza. Gli stessi narrat sono statici, dipingono situazioni più che storie e la fabula retrostante si intravede e compone molto gradualmente.
“Scheidmann,” domanda a un certo punto una delle giustiziere al figlio-nipote, “perché ci abbindoli con questi strani narrat? Che cosa sono? Perché strani, poi? Perché sono strani?”, alludendo forse all’incompiutezza e all’enigmaticità di alcuni di essi. Questi vorrebbe “urlare attraverso la notte calda che la stranezza è la forma che prende il bello quando il bello è disperato” (pag 93), ma preferisce tacere.
In un altro momento ne parla invece come di “luoghi in cui coloro che amo possono riposarsi un istante prima di riprendere il cammino verso il nulla” (pag 6).
Vi sono luoghi e momenti difficili da dimenticare anche sotto un assedio mediatico e una proliferazione visuale senza precedenti. Ho sempre immaginato, io ragazzino, l’otto agosto del 1991 come una scena dei Visitors, quelli del 1983 però. Famiglia bianca davanti alla televisione, edizione straordinaria del notiziario, il padre che alla vista degli alieni dal divano esclama: “Sono esattamente come noi, hanno due gambe, due braccia, due mani!”. Mai previsione si rivelerà più errata. In Italia invece si assisteva, per la prima volta in diretta, all’arrivo della nave Vlora al porto di Bari. L’Adriatico, allargatosi solo in apparenza, immediatamente si restringeva e diventava prima canale, poi prigione (con i corpi degli albanesi ammassati nello stadio di Bari, quasi a rendere ancora più ridicoli gli sprechi del Mondiale di calcio da poco concluso), infine frontiera respingente.
Doveva essere ancora più piccolo, l’Adriatico, il 28 marzo del 1997. E infatti era già quasi finito, giù per il Canale di Otranto, mentre la motovedetta albanese Katër I Radës veniva speronata e affondata da una nave della Marina Militare Italiana. 1991-1997, si era chiuso un cerchio. L’acqua del mare improvvisamente si faceva solida, fino a divenire un muro altissimo e gommoso, capace di adattarsi a qualsiasi tipo di corpo e provocargli un movimento contrario pari almeno alla stessa forza d’urto. Se qualcuno dovesse cercare un inizio e una fine (illusoria) delle centinaia di tragedie dei migranti, queste due date potrebbero essere usate come un’efficacissima sineddoche.
Ripenso a queste due immagini, secondo me cruciali per comprendere le politiche italiane sull’immigrazione a partire dall’inizio degli anni Novanta e la creazione di un preciso immaginario “migrante”, mentre guardo una fotografia di Agnese Purgatorio, Fronte dell’Est, in cui rielabora una foto ormai classica dell’arrivo degli albanesi al porto di Bari nel 1991. Fra i visi che guardano alla sinistra del quadro, quattro volti femminili colpiscono lo spettatore, volgendosi verso gli occhi di chi guarda e riflettendo un’immagine straniante: Anna Magnani, le artiste Marina Abramović e Carla Accardi, la stessa autrice bambina. Che cosa è diventata, Fronte dell’est? Una documentazione storica, una commistione di ricordi e identità, una pagina sbiadita del nostro archivio personale? Del 28 marzo 1997 invece mi rimane in testa una musica, tratta dall’opera da camera di Admir Shkurtaj sul libretto d’opera di Alessandro Leogrande: Katër I Radës. Il naufragio. Una musica che riporta ai reduci più che ai martiri, a chi è sopravvissuto e con quella memoria deve conviverci rispetto a chi non ce l’ha fatta.
Entrambe, fotografia e musica, sono analizzate da Cristina Lombardi-Diop e Giampaolo Chiriacò in un libro recente: S/Murare il Mediterraneo – Un/Walling the Mediterranean. Pensieri critici e attivismo al tempo delle migrazioni, curato da Luigi Cazzato e Filippo Silvestri ed edito dalla leccese Pensa Multimedia. Un libro molto diverso dalle numerose produzioni accademiche sull’argomento, innanzitutto perché nato da un’ottica militante decisa ed esplicitata, nonché dal lavoro a monte, fra gli altri, di Paola Zaccaria. Ne è prova il manifesto-zattera iniziale, che autodefinisce gli autori presenti nel volume come “gruppo” e rimanda al sito e all’account facebook, dove è possibile seguire le varie iniziative, dal crowdfunding per il nuovo film di Gabriele Del Grande fino alle manifestazioni, passando per le riflessioni su Fortress Europe e l’organizzazione di seminari e giornate di studio. Il libro ne costituisce un elemento decisivo, ovviamente, ma è solo una tappa di un percorso ben più lungo.
E giustamente manifesta, il volume, le diversità di approcci e vedute, a partire da un orizzonte teorico che spazia da Mignolo a Derrida, da Bhabha a Anzaldùa, dal postcoloniale agli studi di genere passando per il pensiero “meridiano” di Cassano e Mezzadra. Difficile riassumere in poche righe tutti gli spunti, alcuni peraltro acutissimi, che il libro fa nascere. Due sono le riflessioni più originali, al di là della parte dedicata all’uso del lessico e del linguaggio in ambito migratorio, su cui molto ci sarebbe ancora da scrivere. La prima è, naturalmente, un’inversione del punto di vista. Attraverso le parole di Raffaele Nigro, Vanna Zaccaro ribalta l’immagine classica dell’Italia come “nuova Merica” per gli albanesi negli anni Novanta. Già si intravedevano, in realtà, le crepe nelle ville sul mare della “terra promessa”, tanto che lo stesso Nigro, con il suo “occidentalismo imperfetto”, ne metteva in luce le contraddizioni. E colpiscono oggi le parole del Primo Ministro albanese Edi Rama sugli italiani come “albanesi vestiti di Armani”, in un intreccio identitario ulteriormente complicatosi con l’assottigliamento della frontiera adriatica.
L’altro articolo, a firma di Claudia Attimonelli, colpisce un cuore caldo della narrazione e della rappresentazione dei e sui migranti. Da Calais alla Turchia, attraversando tutto il confine settentrionale e meridionale del Mediterraneo, è doveroso chiedersi oggi che ruolo abbia l’immagine e che cosa sia lecito fotografare, e in che misura. Credo che sia qui, nello spazio labile e talvolta ambiguo della rappresentazione dell’altro, in una fotografia che ondeggia fra “empatia e sensazionalismo”, che si nasconda il vero nocciolo della questione. Quanto si sa realmente di frontiere difformi – poiché i confini mutano a seconda di chi può attraversarli -, quanto è possibile sapere dall’altro, quanto è lecito descrivere?
Identica, la domanda si potrebbe ripetere per il Mediterraneo: quanto conosciamo, oggi, di questo mare? Cosa sappiamo dell’acqua che è diventata muro? E di quel che è nascosto sotto le correnti?
Fatico non poco a comprendere lo stretto dialetto dell’Alpago che mi viene sparato addosso a folle velocità. Senti Cencio, dico con fare vissuto mentre sorseggio il vino rosso che continua a sgorgare da bottiglie nude, senza quell’etichetta che solitamente mi aiuta a fingere erudita cultura enogastronomica e mi permette di interpretare al meglio la ridicola parte del buongustaio elittario che sa abbinare il buon bere all’ottimo cibo stellato. ‘Scolta, dico cercando di mantenermi con difficoltà in bilico, all’altezza di questa inaspettata situazione da veri spartani di montagna; senti ma quell’enorme teschio di cervo che hai appeso al muro è finto o che?
Sono entrato per caso in questo posto, l’unico bar aperto in un paese che sembra abbandonato. Qui se ne sono andati tutti, quasi tutti. Lungo la strada che porta nella piazza del paese si affacciano case chiuse, abbandonate o abitate nel silenzio assoluto di una crisi che dura da troppo tempo, un disagio del vivere che si è conficcato a fondo sotto la dura pelle di chi insiste nel rimanere o non può più andarsene. Pensare che un tempo ci venivo in vacanza qui, ero molto piccolo ma i ricordi annebbiati che ancora vivono nei miei occhi sono quelli di un paese vivo, abitato. Lungo la stessa strada appena percorsa scorreva vita e noi ne facevamo parte, eravamo i malvisti intrusi veneziani in vacanza, i foresti che venivano ad invadere un territorio di cui nulla sapevamo, a parte forse che l’erba era verde e l’aria più sana. Ero tornato per cercare dei ricordi famigliari confusi, annientati dal tempo. Mia madre che mi raccontava quando a tre anni ero scomparso da casa per andare in piazza a comperarmi le gomme americane, quando a cinque avevo riempito la mia fidata pistola ad acqua nell’abbeveratoio delle mucche per poi spararmi in bocca il suo contenuto, provando il mio primo viaggio psichedelico, tra delirio e visioni provocate dalla febbre a 40. Stranamente avevo ancora ben presente spezzoni di ricordi, la pistoletta marziana con gli ingranaggi interni che si scorgevano nella trasparenza della plastica, il suo colore giallo, l’aia della casa dove c’era l’abbeveratoio. Ma erano semplici indizi, non bastavano a farmi ritrovare quei luoghi.
Buongiorno mi scusi, potrei avere un toast e una Coca Cola per cortesia, dissi all’unica persona presente in quel bar.
Un luogo altro, un grande stanzone in mezzo al quale troneggiava il bancone del bar che faceva a gara, per pesantezza di stile, con un enorme camino acceso sulla parete opposta. Quel luogo si lasciava vivere e non faceva nulla per tentare un guizzo di speranza necessario a ridare ossigeno e allontanare la disperazione. Una decina di tavoli di legno impiallacciato facevano compagnia ad altrettante sedie impagliate e sparpagliate in giro. Sul bancone bar erano posizionati un espositore con dei cioccolatini di una marca mai sentita e un vaso enorme colmo di caramelle Rossana. In una vetrinetta a parte faceva bella vista di sé un tagliere con un salame e un sacchetto di carta pieno di pane. Su tutto incombeva la mole enorme di una macchina per il caffè che risaliva agli anni ’70.
Un toast e una Cocacola?
La domanda imperativa mi giunse improvvisa, quasi fossi io il barista e non quel personaggio dietro al banco che sfoggiava un floscio cappello da alpino con la sua bella piuma affilata, piantata come una baionetta sul lato sinistro di un copricapo che si capiva esser molto più di un semplice berretto militare. Ciapa qua, bevi che ora te porte pan e salame, qua non se beve cocacola e non se magna tost! Si esprimeva con un dialetto che comprendevo ma parlava in modo ingarbugliato, le parole uscivano trasformando la sua parlata in un affascinante grammelot che ti teneva inchiodato sulla sedia ad ascoltare mentre i bicchieri magicamente diventavano due come le bottiglie sul tavolo.
Il suo nome era Egidio ma tutti lo chiamavano Cencio. Ex istruttore nell’arma degli alpini, tiratore scelto inviato in Alto Adige durante il periodo degli attentati ad opera dei gruppi separatisti sud tirolesi. Gran scalatore e cacciatore. Mi dava queste informazioni guardandomi diritto negli occhi, sapendo di riuscire a sorprendere l’insolito cliente giunto qui per caso, mi avvolgeva dentro storie che emanavano lo stesso calore emesso dal camino acceso da ore, un benessere che andava a sommarsi all’ebbrezza provocata dal vino che, duro e aspro, continuava ad esser versato nel mio bicchiere.
Tu non hai mai preso un’arma in mano eh? Non hai mai sparato in vita tua, ci scommetto altrimenti non mi avresti mai fatto una domanda del genere. Mi chiedi se il cervo sul muro è vero o cosa…il cervo appeso al muro ERA, vivo! Una bestia di un quintale e passa che mi ha fatto dannare per chilometri, su su fino alle pendici del Teveron e poi giù, lungo i boschi verso valle. Fatico a connettermi, non ho mai amato i cacciatori ma l’immagine che Cencio ha appena disegnato davanti ai miei occhi ha un che di primordiale, quasi fosse un duello ad armi pari per la sopravvivenza. Da una parte la bestia che sa come muoversi, dove nascondersi e quanto correre per non essere centrata. Dall’altra il cacciatore che il più delle volte preme il grilletto e fallisce, perché non è poi così semplice centrare un animale a 500 metri di distanza, per di più senza cannocchiale sul mirino.
Tu lo sai che le lepri riescono a correre sotto la sventagliata dei pallini? Sentono lo sparo e si appiattiscono al suolo continuando a correre velocissime, zigzagando alla ricerca di un nascondiglio sicuro. Quando spari devi tenere il fucile basso, le devi beccare sulle zampe altrimenti le perdi. Ancora più difficile quando corrono diritte davanti a te e poi all’improvviso scartano a destra e poi a sinistra, veloci come satanasse! Per non parlare della piuma, quello si è tiro difficile. Devi mirare al cielo, come volessi sparare a quell’angelo maledetto che non ha saputo mettere ordine nella tua vita. Devi capire esattamente dove si trova, in quale piccolo spazio tra una nuvola e l’altra, tra l’azzurro del cielo e l’ala che da lì a poco lo solcherà. In quei pochi centimetri devi mirare e sparare, credimi non è facile, ci vuole occhio ed esperienza, molta.
Più si allungavano le ombre della sera più cresceva l’empatia verso questo sconosciuto personaggio che sapevo nascondeva qualcosa, la serbava stretta dentro il cuore. Cencio doveva mantenere la sua immagine di vero uomo di montagna, anche se oramai confinato dietro un vecchio e pesante bancone da bar. Raccontami Cencio dai raccontami del cervo, gli chiesi con reale curiosità, totalmente perso in una dimensione lontana anni luce dalla mia, perduto tra i fumi dell’alcol e le immagini scatenate da quei racconti.
Il gran bastardo, come lo chiamo io? L’ho intravisto quando già ero in alto, sulle malghe. Se ne stava come un re con le sue enormi corna che accarezzavano la punta della montagna, lontano, ancora troppo lontano da me. Fu una marcia di avvicinamento lenta e silenziosa, non potevo far rumore e dovevo camminare cercando di non sollecitare la sua attenzione. Mi nascondevo di masso in masso, avvicinandomi pian piano mentre lui se ne stava a brucare l’erba dei pascoli alti. A tracolla avevo la Magnum acquistata da poco, una bella carabina che tutti al paese mi invidiavano, era già caricata e pronta. Arrivato a circa quattrocento metri mi fermo dietro un grosso masso, imbraccio e inizio lentamente a calcolare l’alzo. Scorge la mia espressione interrogativa e con fare supponente mi spiega. Quando spari a lunga gittata non puoi farlo ad alzo zero, la pallottola cadrebbe prima di arrivare a destinazione. Devi valutare la distanza, il tipo di traiettoria, l’alzo. Inizio a mirare come sempre alla spalla, mai sparare sulla pancia, lo faresti soffrire come un cane e la morte non sarebbe veloce. Scopro che esiste un’etica della caccia e questo mi rende ancor più simpatico questo strano personaggio con la perenne piuma piantata sul cappello. Inizio a mirare, bada bene senza cannocchiale, mai usato! Trattengo il respiro, mentre ogni cosa cessa di respirare assieme a me. Premo il grilletto. Lo sparo sembra un boato che fa esplodere la roccia sulla quale sono disteso. Mi alzo di scatto e lo vedo saltare di lato come imbizzarrito e poi volare giù, verso il bosco. Lo avevo mancato. Ricarico e riprendo il sentiero verso valle con ancora davanti agli occhi l’imponente sagoma del cervo che scarta e parte a razzo verso il folto rassicurante della boscaglia. Non voglioconfessarlo a me stesso ma sono felice di averlo mancato, il perché non lo so ma per la prima volta è la serenità che prende il posto della rabbia. Continuo la mia discesa inoltrandomi lungo il sentiero che conosco a memoria, una lingua di terra battuta che fa una curva ad angolo prima di sbucare in una piccola radura e poi scomparire del tutto nella fittissima boscaglia. Cammino accendendomi una sigaretta, aspiro quando all’improvviso me lo ritrovo davanti, sarà stato a cinque metri da me. Mi guardava diritto negli occhi, con un’espressione interrogativa, quasi volesse dirmi qualcosa. Uno sguardo talmente intenso che mi immobilizzò, mi trafisse, tanto che non riuscii ad imbracciare nuovamente la carabina. Durò forse un minuto poi lentamente si girò e scomparve tra gli alberi. La sensazione provata dopo averlo mancato tornò a farsi sentire più forte di prima tramutandosi in felicità. Era la prima volta in tutta la mia vita da cacciatore che incontravo da vicino una preda così maestosa, che riuscivo ad incrociare il suo sguardo. Ti posso assicurare che è come guardare negli occhi un essere diverso da te, un alieno giunto da chissà quale pianeta, una creatura che però sa parlarti usando semplicemente lo sguardo. Ancora imbambolato riprendo a scendere quando noto che i miei scarponi sono macchiati di sangue così come il fogliame attorno. Seguo la scia rossa sempre più visibile nell’intrico di alberi e cespugli. Da prima sento il suo ansimare e poi lo vedo, disteso a terra oramai sconfitto, senza più forze né speranze.
La vedi appesa lì in alto, tra il ritratto di mio nonno e quello dei due angioletti, la vedi la mia carabina? Da quel giorno non ho più sparato.
Pronunciò questa ultima frase ingollando d’un sol colpo l’ultimo bicchiere di vino contenuto nella bottiglia e sbattendo forte il bicchiere vuoto sul tavolo mi si avvicinò sussurrandomi con aria disperata: lo avevo centrato diritto al cuore, il gran bastardo.
> è uscito, per Carteggi Letterari, le edizioni, Assenza di Carlo Bordini; qui la postfazione di Viola Amarelli, e alcuni testi <
Un libro febbrile questo di Carlo Bordini, dove si affollano aporìe che si rivelano complementarità, pacate allucinazioni, rêverie, in un flusso semionirico che procede a cerchi, a ripetizioni, ma nello stesso tempo – che tempo, poi, non è – a scarti e squarci via va più increduli per la dimensione grottesca eppure assurdamente autentica della realtà che si delinea, sempre a sorpresa, in una scrittura liminale, tra sonnambulismo e trance esperienziale.
La componente parasurreale della poetica di Bordini si ostina esemplarmente in “Assenza”, il quasi poemetto eponimo che apre la prima delle tre sezioni che strutturano il libro. Qui la dualità assenza-presenza si gioca sul topos classico del ricordo eternante, salvo ribaltarsi, nell’indagine, sul logos del tempo, nella mirabile fuga, e sogno, del maratoneta che non vuole brioches non vuole la gloria ma continua la gara solo per non tornare all’assenza del presente. Questo tempo che non è tempo ma sogno, affine alle corde del taoismo (il tema della farfalla già bruco appare, lieve, in uno dei testi), si ripresenta anche nelle successive sezioni sia in una tensione di capovolgimento creativo (cfr Autunno), sia in un clinamen da teatro surreale (cfr Festa).
Il possibile parallelismo di tale ricerca con una poetica della rêverie alla Bachelard sembrerebbe confermata dall’apparizione, del resto frequente in tutto il lavoro di Bordini, di figure ed elementi femminili indizi di “Anima” junghiana, ma la torsione espressionista, le tonalità ironiche e l’affondo politico della scrittura dell’autore, anche nell’affrontare temi apparentemente privati, arricchiscono di corde mirabilmente diversificate e complesse la sua opera. Si vedano, ad esempio, i due testi incentrati su Roma e New York, non a caso centri “imperiali”, o Poesia che ha avuto successo e Arti marziali, questi ultimi giocati in senso antifrastico, nonché l’elenco, con palesi echi borgesiani, di rimedi omeopatici che virano al nero di una sottesa e puntuale tassonomia degli “umori” umani.
La capacità di cogliere chirurgicamente vizi e virtù, tipica di ogni autentico “moralista”, si avvale anche in questa breve raccolta di un’ormai consolidata strumentazione, fondata tra l’altro sul ricorso a una prosa che utilizza, parrebbe quasi senza soluzione di continuità, la stessa precisione scientifica dei versi nello scavare e dar nitido risalto a situazioni paradossali, a cavallo tra convenzioni sociali stantie (ma di “longue durée”, tanto per ricordare l’imprinting storico dell’autore) e incerte quanto mobili identità.
Assenza conferma la piena originalità del lavoro di Bordini nella poesia italiana contemporanea, con il suo intreccio lucidamente onirico, la tensione etica e l’indagine a scandaglio della “realtà”, rivoltata e amata, sezionata e ricomposta con un’autenticità di pensiero, oltre che di sguardo, che arriva limpida al lettore.
*
Provavo per te come una specie di nostalgia
come se tu non ci fossi
e questa mancanza era più dolce della presenza
un ricordo può darsi,
una presenza che è assenza e che per questo sembra presente
come se la presenza fosse infinita e non possa convertirsi in assenza
ciò che è stato può non ripetersi ma è come se si ripetesse
o non è necessario che si ripeta per ripetersi non ancora ma sempre
il presente è ghiacciato
il ricordo non è più necessario
ma incombe
esso è presente infinito e quindi continua assenza
presenza non necessaria ma comunque presente
presenza
presenza nell’assenza che è dolce come la presenza
esperienza presente ma ormai non più ripetibile
presenza immobile e dunque come fosse eterna
senza la necessità di una conferma il tempo dunque non esiste più
l’amore eterno è un amore senza tempo senza ripetizione
è come l’assenza
il cristallo divino del presente non può essere contaminato dalla presenza
è ricordo infinito e quindi assenza
non ha nostalgia e non può avere rimpianto
non può non essere e quindi è
prego che tu non ritorni per farmi finire queste righe
quando tornerai si fermerà
morirà la magia della presenza e assenza
il presente non sarà più assente e quindi morto
il foglio finito
il ricordo diventerà trance
avverrà una rivelazione improvvisa
la ragnatela del tempo si lacererà
tutto sarà movimento millimetrico
mistero o oblio
non ricorderò più nulla di ciò che ho ricordato
il presente banale sarà morte e il nulla
il ricordo dormirà sopra il cuscino
cristallo infinito che può muoversi senza essere presente e avere presenza alcuna]
assenza che è cristallizzazione dell’essenza
e morte.
morte divina che non ha bisogno di presenza
foglio che si stacca come se fosse l’ultimo
il quattro è il simbolo della morte secondo i greci
perché dopo il tre tutto è compiuto
e questo è il foglio numero quattro e quindi morte
una morte che non può morire perché morendo diverrebbe punto d’arrivo
punto d’arrivo che non può non deve esserci perché il ricordo è eterno
tutto è finito ma tutto non è finito e il presente è ghiaccio ghiacciato
come l’insetto nell’ambra
e l’immobilità del presente richiama il bisogno del sogno dell’assente
il vuoto è sogno è assente
è presenza vera e unica unica presenza vuota
spogliata del punto d’arrivo
il maratoneta corre in eterno per non esser morto quando si fermerà arriverà il punto di arrivo]
e tutto diverrà vuoto
presente vuoto casuale non eterno assolutamente
e l’insetto imprigionato nell’ambra si sveglierà e desidererà nuovamente dormire]
il maratoneta sa che vive in un sogno e che non deve assolutamente giungere al traguardo]
delle brioches tutto è divino tranne l’orrendo banale striscione di arrivo banale]
la sua corsa è continua assenza fuga egli fugge non corre non gareggia non partecipa alla gara]
lo striscione di arrivo le fanfare le odia, egli
vorrebbe non arrivare.
e sa che il suo arrivare è la sua condanna la fine del sogno la fine dell’assenza il ritorno al banale]
egli odia i discorsi del sindaco l’arrivo le fanfare dell’arrivo
egli non vuole assolutamente essere intervistato
non vuole assolutamente che qualcuno frughi il suo sogno
e lo deturpi con le sue parole
vuole essere solo l’assenza è una presenza continua
come il maratoneta che corre e vorrebbe che questa corsa fosse eterna
per non tornare all’assenza del presente
per poter ricordare
per non dover ripetere
per non dover sfidare il presente paragonandolo al suo ricordo
non vuole brioches non vuole la gloria
per favore lasciatelo correre
lasciatelo pensare al momento magico che non si ripeterà perché è magico
nel ricordo è magico nel ricordo non era magico è magico solo nel momento che lo sogno correndo]
il presente è assente quando arriverà si distruggerà perché non è ricordo
il maratoneta odia il presente l’orologio con cui controlla il tempo
è finito
Una ragazza abita in casa mia e dice di essere mia moglie
si comporta come una moglie mi abbraccia /dice che mi ama/
e assomiglia a una moglie.
assomiglia a quelle mogli carine che si vedono nella pubblicità in televisione
e che camminano sulle passerelle coi vestiti
e anche lei sorride sempre
e dice che siamo sposati
mi bacia
[è molto gentile].
in effetti io mi ricordo che una volta ci eravamo sposati.
ma non sapevo che era una cosa che durava tutti i giorni
ogni tanto penso un giorno o l’altro ci sposiamo poi scopro che lo siamo già
mi ricordo che è vero quello che dice che ci conosciamo da circa due anni.
lei dice che è innamorata e che siamo innamorati.
ed è vero
Questo amore fuori.
Questo amore senza.
Questo amore fuori del tempo
e quindi eterno
così difforme
o forse simbiotico
io, la mia prossima morte
tu i tuoi impulsi suicidi.
Questo amore assurdo, irrealistico e quindi
in qualche modo sublime
Poesia per Medellin
In una foto degli scampati a un’inondazione
un uomo cammina nell’acqua che gli arriva al petto
un cane gli nuota accanto, ma si vede che l’uomo lo tiene accanto a sé con una mano]
sulle spalle l’uomo ha una bambina
che tiene in una mano le scarpe dell’uomo
la bambina tiene una mano sui capelli dell’uomo
e guarda verso il piccolo cane con un’aria un po’ assorta
mi ricorda altre figure femminili
conosciute in Colombia
come se la vita fosse un gioco
da affrontare con leggerezza
Gli Stati Uniti di Fandonia sono un paese molto semplice: sono una federazione di due stati, lo stato Rosso e lo stato Blu. Lo stato Rosso ha 1000 abitanti, mentre lo stato Blu, leggermente più piccolo, ne ha 800. Per l’elezione del Presidente si sa che bisogna ricorrere ai Grandi Elettori: lo stato Rosso ne ha 20, mentre lo stato Blu, giustamente, ne ha solo 18. Ci sono due candidati, nominati dai rispettivi partiti, che sono T e C. Vale la regola che, se un candidato ottiene la maggioranza dei voti in uno stato prende tutti i Grandi Elettori di quello stato.
Vengono fatte le elezioni, con tutti i dovuti crismi e i risultati sono molto semplici:
Nello stato A votano per T 510 elettori, dunque T ottiene la maggioranza sui 490 del candidato C e guadagna tutti i 20 Grandi Elettori.
Nello stato B votano per T 100 elettori, mentre gli altri 700 votano per C, che quindi ottiene la maggioranza e prende tutti i 18 Grandi Elettori di B.
Risultato: T diventa presidente perché ha 20 Grandi Elettori, mentre C ne ha solo 18. Chi volesse invece, per qualche sua pignolesca mania, contare gli elettori e sommasse quindi gli elettori nei due stati, otterrebbe che mentre T ha preso in totale 610 elettori, C ne ha presi 1190, poco meno del doppio di quelli di T. Il nostro maniaco sarebbe un po’ stupito ma poi si acquieterebbe perché ogni paese, si sa, ha il meccanismo elettorale che si è costruito con le sue mani, la tradizione, i Padri Fondatori e via dicendo.
Questa favoletta ne sospinge a guardare cosa è successo pochi giorni fa negli Stati Uniti di America: mentre il candidato T ha avuto una forte maggioranza di Grandi Elettori. 306 contro 232, il candidato C ha avuto una buona maggioranza di votanti, il 47,8% del totale, contro il 47,3% del candidato T. Uno scarto di mezzo punto percentuale, non trascurabile. Ovvero, sono nettamente di più le persone che hanno votato per Hillary Clinton di quelle che hanno votato per Donald Trump. Così va il mondo.
[pubblico un estratto del testo che ho letto alla Festa di NI e su cui sto lavorando in questo periodo. Hope you’ll enjoy. gh.]
29.09.2015
Paolino, dal letto, si scavava un rifugio nella materia densissima del buio, spingendosi a fondo tra i suoi spessori, come tra le pieghe membranacee di un corpo gigante, immenso e deforme. Sentiva, tra le lenzuola, di avvicinarsi al cuore del sonno, che credeva fosse un lupo, alla scaturigine dell’altra vita, da cui a volte riportava dei ricordi quasi veri, delle parole, un sentimento di dolore familiare e cupo.
Non eravamo i primi e in fondo ai cassetti, persi sugli scaffali alti, nei particolari delle fotografie appese, scoprivamo i ruderi degli antichi insediamenti. Una volta, sulla parete della cucina, trovammo diverse serie di lineette, tracciate a quote distinte, in colori pastello sbiaditi col tempo, segnate da sequenze numeriche come 88, 90, 98, 103, 115. Una volta ci imbattemmo in una calamita smagnetizzata, alta diversi centimetri, abbandonata nella scatola degli attrezzi, presso cui sostammo per una stagione. Ci raccontarono di una scritta “MAVRI” avvistata in un angolo in ombra del corridoio, vicino al battiscopa.
30.09.2015
Non c’era sogno che resistesse all’inverno, che lo superasse, se non nella forma di un’acuta paura del domani. Le regioni più interne delle camere ci assicuravano un riparo dalle urla e dal clamore dei giorni in continua successione. Non era tanto il futuro che ci costringeva a un continuo tragitto e al disfacimento quotidiano, tra le ombre e le luci dell’appartamento, ma gli stessi volumi delle camere, incolmabili e prodighi di nuovi angoli, di luci mattutine, di reperti, di sentimenti.
I muri erano i contrafforti di un mondo escluso dai nostri tragitti. Li costeggiavamo ciclicamente, percorrendone i battiscopa, superando le piccole scaglie di intonaco ai loro piedi, la polvere arenata contro il loro spigolo. Sulle pareti sentivamo scorrere le correnti convettive che muovevano i nostri sogni, i pensieri distratti e sentimentali che ci spingevano da una camera all’altra. Il loro spessore era interminabile. In un’epoca lontana, tentammo di scavarlo, di penetrare le sue misure e accedere all’altra parte. Procedemmo per anni sempre più a fondo nei laterizi, tra le tubature e gli impianti elettrici, le assi di legno, le intelaiature catramate e non arrivammo da nessuna parte. Trovammo solo un pupazzo, un pinocchio di pezza incastonato tra qualche mattone, che torreggiava sulle nostre teste e ci chiese della notte e del giorno.
La Luna accompagnava Paolino, nella traversata delle notti che lo attendevano. Spesso sostava, come un palloncino, a mezz’aria ai piedi del letto, complicando la cameretta in un sistema di ombre, chiarori e illusioni, attraversato dai tragitti irresoluti dell’Omino del Sonno, delle Compagnie dei Sogni. Una volta Paolino la vide, convinta di non essere vista, aprire degli occhi da alieno verso di lui, occhi sfaccettati e iridescenti come quarzi, come opali, come il cuore tremendo di una montagna. La luce per poco si attenuò e, per un attimo, Paolino sentì il tremito di un sussurro irripetibile.
Non c’è apprendimento significativo senza coinvolgimento emotivo degli studenti ed esso sarà tanto più facile quanto più l’insegnante sarà sentito dagli studenti appassionato e vicino a loro. Questo ovviamente non significa rinunciare alla naturale asimmetria che c’è in ogni processo di apprendimento, dove chi insegna ha più sapere ed esperienza di chi impara. Però se l’insegnante si mette in gioco, ad esempio con riferimenti alla sua esperienza di apprendimento, renderà più autentico e fecondo il suo sapere. Non ho mai creduto all’insegnamento che trasforma l’aula in una sorta di laboratorio asettico dove l’insegnante siede in cattedra e distribuisce nozioni; meno ancora credo alla valutazione oggettiva, quella che ignora anima e corpo degli studenti con le loro emozioni e i loro odori, le loro storie e le loro esperienze, il loro punto di partenza e le loro provenienze sociali.
C’è una competenza che ritengo centrale nella professione insegnante e che non viene minimamente considerata nel nostro bagaglio formativo, in parte è qualcosa che dipende dal carattere e dalle esperienze personali, ma in parte è qualcosa che si può sviluppare o migliorare, prestandovi la giusta attenzione: la relazione. Credo che l’insegnamento sia innanzitutto e soprattutto relazione con gli studenti, capacità di farsi ascoltare e capire, capacità di ascoltare e mediare. Prima di pensare a cosa insegnare, ogni insegnante dovrebbe domandarsi come farlo, cioè come rendere gli studenti attenti, interessati, appassionati a quello che insegnerà. Ci sono tanti insegnanti preparatissimi, laureati con ottimi voti, che magari hanno fatto il dottorato di ricerca e scritto saggi su riviste accademiche, però quando entrano in aula non sono in grado di farsi ascoltare o di farsi capire: gli studenti si fanno i fatti propri, oppure fingono di ascoltare, mentre in realtà non capiscono nulla di quello che l’insegnante spiega. Questo perché l’insegnante non si pone il problema di costruire una relazione con gli studenti, non si preoccupa di conoscere chi ha davanti.
La relazione con gli studenti
Ho insegnato per diversi anni al Centro di Formazione Professionale della Provincia di Bolzano, un luogo dove arrivavano quasi esclusivamente studenti apatici, demotivati e che avevano in odio la scuola e gli insegnanti, avendo collezionato più provvedimenti disciplinari che regole di grammatica. Al CFP di Bolzano – dove ho insegnato per sette anni, quasi tutti nel corso per elettromeccanici e per automeccanici, con una parentesi con i grafici e le estetiste – non volevano sentire la parola scuola, quello che i ragazzi dovevano imparare era solo una professione. A me, invece, sembrava che i futuri elettricisti, automeccanici, estetiste avessero bisogno di essere scolarizzati e liberati dalla condizione di perdenti con la quale giungevano dalla scuola media. Prima ancora avevo insegnato alla Scuola alberghiera di Merano, dove ero arrivato direttamente dall’università e senza alcuna esperienza di insegnamento. Quando misi piede in aula, non avevo assolutamente idea di cosa fare, l’unico modello di insegnamento di cui avevo esperienza, ma da studente, era quello universitario. Difatti, dopo qualche giorno mi convocò il coordinatore di classe per dirmi che gli studenti di quarta, dove insegnavo italiano e storia, non capivano le mie lezioni, usavo parole e concetti troppo difficili. Semplifica, mi consigliò. D’altronde la parola d’ordine al CFP era descolarizzare, anche se il direttore della Scuola alberghiera disattendeva volentieri quella richiesta. Come tanti altri colleghi, ero arrivato in classe senza nessuna formazione didattica e pedagogica, tutto il mio sapere disciplinare non bastava per costruire una relazione educativa efficace con gli studenti. Cercai di fare del mio meglio, ma sicuramente commisi molti errori. Quando da Merano arrivai a Bolzano e mi trovai davanti ad un’utenza ancora più difficile, capii che dovevo costruirmi degli strumenti e allora m’inventai un “progetto accoglienza” per le prime e che ancora adesso utilizzo nel liceo dove insegno.
Progetto accoglienza
Quando arrivo per la prima volta in una classe, soprattutto se è una prima, mi presento e racconto di me, soprattutto delle mie difficoltà e dei miei insuccessi scolastici. Ho frequentato il liceo classico, ma di cultura classica ne ho respirata davvero poca, parte per colpa mia, parte per colpa degli insegnanti: freddi, distanti e autoritari. Della maggior parte di loro non ricordo neppure il nome. Della scuola, a dire il vero, non me ne importava molto, in testa avevo soprattutto le ragazze, la musica rock e la politica. In quarta ginnasio faticavo a parlare e scrivere in lingua italiana, la mia lingua madre era il dialetto siciliano, i miei compagni di gioco erano per lo più figli di pastori e di contadini. Al ginnasio, la gran parte dei miei compagni di classe, alcune ragazze in particolare, parlavano un buon italiano e mi mettevano soggezione. Avevo quattro nello scritto, ma mi tiravo su con l’orale, grazie all’ottima memoria e alla voglia di non sfigurare, nonostante la mia paralizzante timidezza. Di studiare, però, non m’importava nulla. Quasi tutti i giorni, quando entro in classe (insegno al Liceo delle Scienze Umane/Artistico “Pascoli” di Bolzano), ripenso allo studente che sono stato e cerco nei miei allievi quel ragazzo annoiato, disinteressato e inquieto che sono stato. Parlo soprattutto a lui attraverso di loro e cerco di salvarli dalla noia, dall’apatia, dal disinteresse.
Dopo essermi presentato, chiedo agli studenti di presentarsi e raccontarmi i loro interessi, se fanno sport o se suonano uno strumento musicale, se sono mai stati bocciati, dove sono nati e dove vivono, se leggono libri e se guardano il telegiornale, dove sono stati in vacanza, ecc. Poi mi faccio raccontare una loro esperienza di apprendimento non scolastico: sciare, giocare a tennis o a calcio, andare in bicicletta, suonare la chitarra o il pianoforte, fare la pizza, danzare, dipingere, ecc. Quindi gli chiedo di raccontarmi per iscritto come hanno fatto ad imparare, man mano che loro leggono quanto hanno scritto, io riempio la lavagna di parole chiave. Quasi sempre viene fuori che hanno imparato da uno più grande di loro e che ne sapeva più di loro (i genitori, l’allenatore, un cugino, ecc.), uno che aveva esperienza; a questo punto emerge facilmente che per imparare serve ascoltare e avere fiducia nell’altro che insegna, serve mettersi alla prova, provare e riprovare. Allora domando loro se per imparare la matematica o l’inglese, l’italiano o la storia il meccanismo non sia lo stesso. In questo modo oltre a riflettere su come funziona l’apprendimento, ci conosciamo, si costruisce un clima d’aula, ci scaldiamo, cominciano a passare le prime emozioni. Nel mezzo ci metto qualche battuta spiritosa, li prendo in giro e mi prendo in giro, umanizzo l’aula, possibilmente muovendomi tra i banchi e usando poco la postazione difensiva dietro la cattedra. Negli anni ho imparato l’importanza di insegnare con il corpo e con la voce, usando bene le diverse tonalità e la gestualità. Molto spesso mi sento un “rianimatore” che cerca di portare ossigeno dove ce n’è poco. E se nessuno di voi andasse a scuola, domando, che ne sarebbe della sua vita? Rimando le risposte a dopo la visione di un film certamente non in sintonia con i loro gusti e i ritmi con cui sono costruiti i film che sono abituati a guardare: Padre padrone dei fratelli Taviani, la storia autobiografica di Gavino Ledda, dalle sue esperienze di quando era un bambino di 6 anni sino ai ventiquattro anni compiuti. Il 7 gennaio 1944 Gavino comincia la scuola, ma dopo solo un mese, il padre lo strappa alla maestra per portarlo a governare le pecore. Dopo aver visto il film, gli studenti fanno un tema e rispondono alle domande che ho preparato. Gran parte di queste attività sono scritte e le utilizzo anche come test d’ingresso, per misurare le loro competenze linguistiche e capire quali lacune sono da colmare.
Motivazione e fiducia
Attraverso questo progetto accoglienza che occupa le prime settimane di scuola, cerco di motivare gli studenti, aggiungendo anche alcune attività sull’ascolto e sul metodo di studio. Per motivarli uso una pratica che ho battezzato “effetto placebo” e che impiego costantemente nel corso dei cinque anni di scuola superiore. Di fronte alle difficoltà io sprono gli studenti come in una sfida, confidando nelle loro capacità. Faticherete, dico loro, ma sono certo che raggiungerete il risultato. Li sottopongo ad iniezioni di fiducia per potenziare l’autostima, utilizzo quello che in farmacologia si chiama effetto placebo. L’aspettativa positiva nei confronti di un farmaco influenza l’atteggiamento che il paziente ha verso la terapia, nel suo cervello, infatti, aumentano i neurotrasmettitori che mediano le sensazioni di piacere e dolore e si riducono quelli coinvolti nell’ansia. Oggi sappiamo che anche gli affetti e le motivazioni personali possono produrre gli stessi risultati. Io lo sperimento tutti i giorni, ovviamente i risultati cambiano in base al clima di classe e sono direttamente proporzionali alla stima e alla fiducia che lo studente ha nei confronti dell’insegnante.
Tuttavia, affinché uno studente abbia fiducia nell’insegnate, deve stimarlo, deve sentire che la sua professione è vissuta con passione e con impegno, che quello che insegna per lui è davvero importante. Come può appassionare un insegnante che non crede in quello che fa? Tra un insegnante severo ma che svolge con serietà ed impegno il proprio lavoro e uno che pretende poco ma è demotivato e fannullone, gli studenti preferiranno di gran lunga il primo, perché un adolescente ha bisogno di adulti autorevoli e modelli credibili. Per troppo tempo questa professione è stata un ripiego per tanti, magari perché in passato offriva tanto tempo libero (Umberto Galimberti sostiene che l’insegnante è sempre stata la professione delle mamme), oppure perché bastava semplicemente inserirsi in graduatoria per essere chiamati a svolgere una supplenza annuale.
Quanti di questi insegnanti demotivanti e conflittuali abbiamo conosciuto? E quanti danni hanno fatto alla scuola e agli studenti questi insegnanti frustrati e incompetenti? Si può dirlo senza essere giudicati presuntuosi o arroganti? Si può pretendere, pensando al futuro dei nostri figli e al di là di ogni retorica, che questi insegnanti cambino mestiere oppure si formino adeguatamente, acquisendo le necessarie competenze didattiche, pedagogiche e psicologiche?
Conclusione
Ho parlato di relazione, ma in realtà bisognerebbe usare il plurale, perché c’è anche quella con i colleghi, dunque la capacità di lavorare in gruppo, e con i dirigenti, ma anche con i genitori e persino con il territorio in cui la scuola è inserita. Si tratta, insomma, di una professione che mette alla prova costantemente la capacità di ascoltare e confrontarsi, di mediare e proporre, di individuare problemi e ipotizzare soluzioni, di costruire percorsi condivisi. E nel diluvio di riforme che costantemente si abbattono sulla scuola, forse sarebbe il caso che il Ministero se ne occupasse, curando la formazione e la selezione degli insegnanti.
(questo articolo è stato pubblicato sul numero di ottobre della rivista “Uomo, Città, Territorio” (Trento); la fotografia è a cura del laboratorio fotografico Liceo Artistico “Pascoli” di Bolzano, dove insegna Accardo)
*
Le acque migliorano di molto
se chiamo o se resisti al telefono.
Per fissazione, l’inascoltato
si regge su elementi di musica.
La materia macchia, esce, avvolge il giorno.
Non c’è nessuna energia nelle ostilità:
i pomeriggi sono pieni di apparizioni,
polveri sottili.
Impercettibili aquiloni segnano il caldo,
i numeri imprecisati di un contatto.
Si segnalano con l’amore delle massime.
*
Vorrei riferirti le cose:
il punto, le soluzioni, l’apertura improvvisa
dopo la strada maestra e quanti sono e fingono di essere.
Quanti vorrebbero segnarsi i modi:
chi si aggiusta l’abito, chi tace silenzioso
con il suo coltello, chi rantola,
chi preme.
*
Sarei il sogno a te presente,
l’azzurro spinto al massimo
e saprei che l’anima è cercata.
*
Gli stili ci precedono, temuti e assenti.
I solidi della notte, così spenti e ritirati si espandono
pronunciano i loro nomi.
Ogni cosa si confonde, questi palazzi interni e verticali
dove non c’è borsa e i traguardi collidono
e niente è attuale tranne le superfici,
i registri materializzati.
Spingi le precisazioni, la ricerca non tace più
l’ossigeno si alza dalle vie, riempie le ossa.
Si perlustrano le strade, i grandi dormitori.
Segui la traccia, la reliquia parla…
*
Ascolta, le radio muovono il vuoto
e l’immagine si è estesa.
Piccole luci entrano dalle vetrate,
la fonte in un giorno di pioggia.
Scarti il latte, la cucina si riempie di idee.
Parli delle sedi avanzate dove saremo esempi,
visitatori costanti e ombre per un futuro di volti.
*
L’attesa della casa.
Nessun varco, nessuna nebbia
se non il tuo seguire
un armonioso e strisciato buio.
*
Dopo non serve più nessun classico,
nessuno che misuri la notte in metri,
che riceva rassicurazioni, facili progetti.
Con i venti a intermittenza sui lati
e la schiuma della pioggia che scende
come quel caldo blu che sprigiona la notte.
Nemmeno queste bucce d’arancia
riassorbite dal tavolo servono
questa natura morta che riporta il rito,
l’azione che si stempera contro le finestre
in brevi flussi e immagini a campione.
Tutto visto e riportato, quanto basta
per smussare con precisione i marmi
e rendere cartelle e protocolli inutili.
Come se il reale fosse questo stonare di dita,
il movimento, le azioni disciplinate:
l’apertura di un corpo e il suo molle riposo.
*
Vuoi dire la luce che avanza.
Segna qualcosa di intravisto: l’ipotesi di altri giorni.
Resterai fuori. I ritmi di sottofondo si aprono.
Ogni cosa spinge con la voce attuale.
Gli alberi si placano nel loro impero,
una seconda notte.
Sparisce ancora per poco un tempo.
*
[Nell’immagine: la Stahl House di Pierre Koenig fotografata da Julius Shulman nel 1960]
Lorenzo. dopo l’uscita dell’ultimo pezzo ho dovuto fare un po’ di controcomplottistica, cioè il corrispettivo digitale della prepugilistica. Mi sono dedicato a un esercizio complesso: combattimento cinguettante. Che la forma dialettica naturale di Twitter sia labagarre è evidente: quel social non è fatto per dialogare e articolare un ragionamento complesso in una serie di pensierini da 140 caratteri è semplicemente impossibile. Dunque è un’ottima palestra: sono passato di livello, credo, e ho maturato l’idea che la controcomplottistica sia una disciplina a sé stante, che necessita di un training ad hoc – ad esempio esercizi di empatia gratuita – e che abbia come fine l’elisione della contrapposizione.
Anatole. Mi stai dicendo che puoi vincere battaglie ma non le guerre: devi fare la pace. Ma la pace è una forma di adesione leggera alla forma del complotto. Cioè, che la forma dialettica naturale della contemporaneità è in sostanza un complotto.
Lorenzo. Sì, è così. L’esercizio mi ha portato a pensare a 2 cose:
c’è da approfondire questo discorso delle catene causali. I complottisti non li convinci perché, di fronte a una evidente debacle, risalgono in su, sulla catena causale, che risulta essere quasi infinita e, spesso, circolare: insomma non si arriva mai. Definirei questo processo “sindrome dei duemarò”. I complottisti fanno un po’ come i salmoni. Quando li vedi saltare indietro entri nel dominio della controcomplottistica. Se il salto non riesce hai la possibilità di ripartire dicendo una cosa come “e allora i duemarò?”.
Tra le 5 “W” del giornalismo (what, who, when, where, why) ce n’è una, la quinta, attorno a cui si gioca tutto il mondo del complottismo. Cioè: una notizia ti dovrebbe dire cosa, chi, quando, dove e perché. E su questo perché a livello teorico si è ragionato moltissimo, essendo che puoi spiegare la presenza di un cane rosa di fronte ai Vigili del Fuoco di via Marmorata come un “abbandono di cani” o come un “preciso disegno che Loro mettono in atto per danneggiare il Sindaco”. Cioè: il “perché” del giornalismo (ovvero la causalità della cosa) sarebbe da intendere in un senso estremamente terra terra. Il cane rosa era lì perché è stato abbandonato, basta. Qualsiasi altro tentativo di spiegazione non pertiene al campo del giornalismo, se non in forme ben codificate: editoriali, fondi ecc.
Anatole. In quell’esempio che facevi l’altra volta (le Toyota americane in mano all’ISIS) la cosa era rivoltata. Prima c’era un lunga spiegazione del perché, e alla fine la notizia, che poi non era una notizia.
Lorenzo: Sì, questo allungarsi sul perché ha un inquietante risvolto rispetto a quello che nella puntata precedente vedevi come un “mischione” fra fatti e invenzioni. In un complotto sono i perché ad agire. In una struttura complottista (cioè quella dell’immagine che avevamo riportato) tutte le notizie possono essere tutte vere, basate su fatti, sono i legami a essere falsi. Certo, si fabbricano falsi per confermare catene false, ma al centro della cosa c’è la catena, non il fatto. Sento che hai bisogno di discutere attorno a una delle caratteristiche fondanti di queste catene causali.
Anatole. Mi permetterei di proporre un significativo sviluppo delle cose importantissime che ha detto Segre a proposito del tempospazio letterario, anzi l’ho già fatto in un articolo di Critica del Testo che hanno letto tipo in cinque nel mondo. Che cioè etichettiamo quotidianamente come “fiabesco” o “medievale” o tutt’e due il fattore di sincronicità grazie al quale in realtà diamo ancora senso a determinati fatti in base alla loro concomitanza. Questo perché la sincronicità non sarà una struttura profonda della nostra psiche nei termini junghiani, ma di sicuro rappresenta un meccanismo di grande efficacia quando dobbiamo dare shensho alla nostra vita, che in realtà non ce l’ha.
Lorenzo: [pensa] Per esempio?
Anatole: Esempio. Se io mi trovo di fronte ad un terremoto devastante ho la scelta tra l’arrendermi al fatto che questa cosa non ha nessun senso e attaccarmi al cazzo, oppure elaborare un sistema retorico che gliene conferisca uno. Se devo vendere le copie di un giornale o attrarre l’attenzione su di me in qualche maniera, è ben evidente che la prima soluzione funziona meno della seconda. Adesso non so se al corso di Narrazione della Scuola Holden te lo insegnano così, ma la sostanza è questa, da Chrétien de Troyes a Harry Potter, dal romanzo medievale in versi fino a Hollywood. Col complottismo si arriva al punto che la ragione, la motivazione, il significato non si limita a spiegare un fatto, ma lo determina proprio, ne caratterizza lo stato ontologico, secondo modalità narrative caratteristiche di quello che abbiamo etichettato come racconto di finzione. Se poi i racconti di fiabe dei cacciatori neolitici fossero costruiti in base ad una provvidenzialistica interpretazione della coincidenza di due o più fatti irrelati, la cosa potrebbe anche non stupire, perché loro stessi magari provavano a darsi un senso così, anche se a me apparirà sempre più probabile che la filologia romantica abbia rielaborato i loro racconti secondo codici romanzeschi.
Lorenzo. Ok, ora è chiarissimo. Nel giornalismo – del quale sono allibito osservatore – sta cosa si fa con la quinta W. E il volano che permette sulla rete di avere tanti click è di fatto su quel perché. Ma il web 2.0 non è fatto di giornalisti, è l’antitesi del giornalismo. I click arrivano quando quella notizia trova un perché nelle narrazioni di una massa di persone che si raccoglie attorno a casse di risonanza social. Questo è il motivo per cui la Siria sta perfettamente dentro Povia anche se un Povia probabilmente non sa nemmeno dove la Siria stia di casa.
Anatole. Cioè Povia il cantante? Quello dei bambini che fanno oh?
Lorenzo. Racconto solo questa, ché Povia l’ho incrociato per via della Siria. È il 22 settembre 2015 e la pagina Facebook di Arianna, l’editore del già citato Daniel Estulin pubblica questa cosa qua:
Le donne siriane hanno gli stessi diritti che hanno gli uomini, nello studio, nella salute e nell’educazione. In Siria le donne non hanno l’obbligo di portare il Burqa. La Sharia (legge islamica) è incostituzionale. La Siria è l’unico paese arabo con una Costituzione Laica e non tollera i movimenti estremisti islamici. Circa il 10% della popolazione siriana appartiene ad una delle tante denominazioni cristiane presenti da sempre nella vita politica e sociale. In altri paesi arabi la popolazione cristiana non arriva al 1% a causa delle discriminazioni subite. La tolleranza religiosa siriana è unica nella zona. La Siria è l’unico paese del Mediterraneo che è ancora proprietaria della sua impresa petrolifera, che non l’ha voluta privatizzare. La Siria ha un’apertura alla società e cultura occidentale come nessuno degli altri paesi arabi.. Prima della guerra, la Siria era l’unico paese pacifico nella zona senza guerre ne conflitti interni. La Siria è l’unico paese arabo che non ha debiti con il Fondo Monetario Internazionale. La Siria è l’unico paese del mondo che ha ammesso rifugiati iracheni senza nessuna discriminazione sociale, politica o religiosa. Bashar Al Assad ha un’approvazione estremamente popolare. Lo sapevate che la Siria ha riserve di petrolio di 2.500 milioni di barili, il cui sfruttamento è riservato alle imprese statali? FORSE ADESSO PUOI COMPRENDERE
Ora: potrei fare qui un po’ di debunking, un bel po’ di debunking, giusto per riavviare la cirrosi epatica, ferma da un po’. Meglio però soffermarsi su questo “forse adesso puoi comprendere” (il debunking lo trovate in fondo al pezzo, la cirrosi è ripartita, in effetti). Diciamo: ammesso che sia tutto vero, che cosa mai dovremmo forse comprendere? Ovvio: dovremmo comprendere che è tutto un complotto contro la Siria, che Loro hanno preparato da tempo per motivi che hanno a che vedere col Fondo Monetario Internazionale e il petrolio.
Ma la cosa non finisce qua, anche se poi quel post fece 1.4k di like. Lo stesso 22 settembre 2015 scopro che Giuseppe Povia ha fatto un video che mette in musica il testo. Il video stava su facebook ma ora non c’è più. La cosa davvero molto divertente è che il 29 settembre sul blog “Siamo la gente” esce un post dal titolo “Giuseppe Povia – ECCO PERCHÈ ATTACCANO LA SIRIA, ALTRO CHE ISIS… Video da vedere prima che venga eliminato (sia il video che Povia) !!”. Nel post leggevamo “Obama disperato non sa proprio come fare per entrare in Siria” ma in effetti in Siria Obama ci era già entrato da qualche anno, anche se non nella forma auspicata quelli di “Siamo la gente”. Ma, soprattutto risalivamo la “catena delle cause”: anche in base a tutto questo discorso sulla Siria noi dovevamo continuare “a diffondere il brano: CHI COMANDA IL MONDO”, cioè un brano che ci spiegava non solo la situazione della Siria ma anche tutto il resto e che secondo testate come Informarexresistere raccontava una certa qual verità, tanto da rischiare di essere censurato. Il fatto è che in questo video si diceva che Gesù Cristo (che ricordiamolo, fino a prova contraria era ebreo) era stato ammazzato in Israele, cioè in un paese nato più 1900 anni dopo Gesù Cristo stesso, e la cosa aveva sollevato – mettiamola così – un certo moto di repulsione nei confronti del cantante che dopo iniziò a farsi ritrarre incatenato e imbavagliato. Ironia della sorte: “Chi comanda il mondo” è ancora lì, il video sulla Siria no.
Anatole. Ci sono dei veri e propri operatori del settore, che fungono da transponder delle varie argomentazioni complottistiche. Citavamo nella puntata precedente il cantante Marco Carta, che forse cerca di seguire le orme di questo grandissimo genio della telepredicazione social che citi, Il Grande Povia, anche lui originariamente cantante. È probabile che stia nascendo una nuova professione di entertainer a tutto tondo, ispirata all’idea (sbajata) che il patetico contemporaneo si debba fare giulleria medievale (non ritorniamo sulla matrice bachtiniana della scatologia populista, di cui parlavo qua). Ad ogni modo, seguendo la tua pista Povia mi capita di vedere che già a proposito delle scosse del gennaio 2014 costui, rispondendo ad un seguace che adduceva varie possibili cause del terremoto, quali «esperimenti militari in mare», «test nucleari sotto l’Appennino», rispondeva che «molte cose non tornano», rimbalzando la faccenda dei «test a 1000 metri sotto L’Aquila». Il rimbalzo tra social network e media ufficiali, che si fanno eco gli uni con gli altri al fine di creare un rumore abitabile attorno agli eventi catastrofici, era già tale che questa storia finiva sul Corriere della Sera. Cronologicamente congrua è la lettura in filigrana della clamorosa cazzata diramata dal Ministero dell’istruzione, dell’Università e della Ricerca del governo Berlusconi ai tempi della Gelmini, che definiva la «scoperta del Cern di Ginevra e dell’Istituto nazionale di fisica nucleare» sui neutrini, «un avvenimento scientifico di fondamentale importanza», aggiungendo che «alla costruzione del tunnel tra il Cern ed i laboratori del Gran Sasso, attraverso il quale si è svolto l’esperimento, l’Italia ha contribuito con uno stanziamento oggi stimabile intorno ai 45 milioni di euro». Era il settembre 2011 e l’hashtag #tunnelgelminì scalò rapidamente tutte le classifiche del pubblico ludibrio social. Ora, a cinque anni di distanza, la stessa storia colpisce ancora. Ne parlava già un articolo de Il Fatto, riassumendo i complottismi vari sorti a seguito delle scosse di agosto e in questi giorni riemerge il famoso tunnel con tanto di mappa dell’autostrada di neutrini lungo la quale al CERN «eseguono esperimenti sparando materia oltre la velocità della luce», che poi sarebbe tipo il tracciato della E35-A14. Poi, come se non bastasse, ci sono quelli che trovano la conferma del “sisma indotto” da «forti emissioni elettromagnetiche ed onde ELF ed ULF di ritorno dalla ionosfera». Sostanzialmente «l’ipocentro poco profondo e la genesi del sisma avvalorano la tesi del terremoto artificiale, scientificamente voluto» per ragioni di carattere politico. Uno penserebbe alla SPECTRE e invece no: «in un periodo politico difficile per il Governo Renzi […] sarebbe venuto utile un nuovo evento che distraesse l’opinione pubblica dalla questione “Referendum” e da altre mille magagne di questo Governo illegittimo e dittatoriale». Cioè il terremoto “ce lo siamo fatto da soli”, come gli amerikani con le torri gemelle. L’aspetto fondamentale di questo genere di visioni complottistiche è la “plausibilità” del discorso, che alla lettura di un ignorante in materia di geologia o astrofisica può sembrare perfettamente “scientifico”. Tipo così:
Si chiama effetto rimbalzo o “bunching”. La ionosfera viene riscaldata (e quindi gonfiata verso l’alto) con l’emissione di impulsi ad alta frequenza sfasati di tempo e frequenza (es. 10.000 hz e 10.006 hz) e che creano una risonanza ELF ed ULF verso terra. Quindi, una volta interrotto il segnale, la ionosfera ritorna velocemente alla sua forma naturale, creando un effetto domino verso gli strati di atmosfera sottostanti nonché sulle faglie, già sollecitate dalle bassissime frequenze che risultano dallo sfasamento di fase creato da due impulsi inviati con piccola distanza di tempo l’uno rispetto all’altro.
Lorenzo. Insomma Quelo, il predicatore pugliese di Guzzanti, aveva ragione: “ti chiedi quasi quasi, e miagoli nel buio, ma le risposte non le devi cercare fuori, la risposta è dentro di te epperò è sbagliata“. Ma vorrei fare un passo avanti anche rispetto a Quelo, perché secondo me in molti, invece, dentro di sé non hanno nemmeno una domanda a cui rispondere. Mi riferisco all’universo degli analfabeti strumentali e funzionali, quelli che Tullio De Mauro studia da circa 53 anni. Nel 2014 sono usciti i risultati del Programme for International Assessment of Adult Competencies che suddivide le popolazioni in età da lavoro (16-65) di 30 paesi, fra cui l’Italia, in cinque livelli di alfabetizzazione e “numeracy”. Più di due terzi della popolazione italiana in età da lavoro rientra nei primi due livelli (analfabetismo strumentale, cioè totale, e analfabetismo funzionale “insufficiente alla comprensione e scrittura di un breve testo”). Ecco io penso che questo 70% non sia in grado di elaborare una teoria del complotto e neanche di porsi una domanda. La qual cosa mi rimanda molto ad una delle costanti della letteratura complottista, che suona: «ti sei mai chiesto perché…» o, per riprendere i simpatici “editori” di Arianna: «forse adesso puoi comprendere».
Anatole. quindi quel 70% sarebbe un bacino di utenza che poi, nei social, come nel telefono senza fili, gonfia la “teoria” finché tutto si trova imprigionato dentro di essa. A scrivere e rielaborare i complotti sono sostanzialmente gli opinion lìder, che fanno evidentemente parte del 30% sopra il livello dell’analfabetismo funzionale. In altre parole la complottogenesi è fatto elitario, presentato come sapere diffuso di massa, secondo modelli caratteristici delle teorie sull’origine popolare dei fatti culturali. Il “popolo” non ha mai inventato niente, manco le famose fiabe, questa è la verità, le ha solo ritrasmesse male, cosicché il filologo le ha poi dovute riscrivere, come si diceva prima.
Lorenzo. Oggigiorno la maggior parte di quel 70% ha un telefonone, cioè lo strumento di diffusione del complottone. E chiariamoci su come funzioni il telefonone: il mondo dell’informazione è pieno di questi personaggi che ti dicono che ci sono bebè che usano i tablet e i telefononi come e meglio degli adulti. Quelli che dicono questa cosa dimenticano o non percepiscono che tablet e telefononi sono oggetti di consumo, sono fatti per essere comprati. Sono pensati, dunque, per chi può comprarli: persone dotate di danaro. Per far sì che questi oggetti siano acquistabili da queste persone, che nella stragrande maggioranza sono quasi incapaci di leggere, bisogna fare degli oggetti che “potrebbe usare anche un bambino”. Insomma: capito il tema? Se i bambini sanno perfettamente cosa fare con un telefonone e ci si divertirebbero per moltissimo tempo se li lasciassimo da soli con essi, essendo persone aperte alle esperienze, la maggior parte degli adulti che acquistano quei telefononi, coi telefononi non sanno davvero che farci. In realtà se non li si inducesse a pensare che questi oggetti servono, essi li userebbero come clave.
Anatole. L’acquisto di tecnologia sottoutilizzata al centro commerciale nel weekend è un mio tema, mi trovi perfettamente sintonizzato. In sostanza, “dacci oggi il nostro complotto quotidiano”, così diamo un senso al fatto che ci siamo comprati sto telefonone col quale non sappiamo, in sostanza, cosa cazzo fare. Il telefonone risponde a domande che lui stesso ha formulato. Brillante. Praticamente diventi spettatore del tuo stesso telefonone, mentre l’idea di fondo sarebbe quello di metterti in condizione di comunicare meglio. Questa cosa riporta un po’ indietro alla società dello spettacolo, in realtà, a dispetto delle promesse di emancipazione dalla produzione dei contenuti di massa. Non ci si emancipa, perché i contenuti che la massa produce alla fine sono ridondanti e rompono il cazzo: quanti gatti sulla poltrona, torte, tramonti, cani che sbavano, culi, tette e cazzi puoi reggere prima di accendere i pacchi su RAIUNO? La massa di prosumer alla fine abbisogna di un senso, non per sé, ma per quel coso da cinquecento euro che si ritrova in tasca.
Lorenzo. C’era questo articolo uscito su Vice dal titolo “Ho usato Facebook come un cinquantenne per una settimana”. Racconta di un universo in cui si augura “un buon martedì” a tutto il mondo e si può stare a dire cose qualsiasi, in forma profondamente sgrammaticata, di fronte a una vecchia fotografia. La vera sfida di chi vende il telefonone è far sì che degli adulti tendenzialmente analfabeti siano indotti a passare del tempo sul telefonone, affaccendati in un’attività qualsivoglia che faccia dir loro: “guarda, uso il telefonone”. Avere il telefonone fa sì che queste persone pensino di essere tecnologicamente “in tune” – motivo per cui si indignano quando vedono un profugo che ne ha uno (e che magari lo usa davvero) – cioè che siano veramente parte di qualcosa che succede al di fuori della (sterminata) community di candy crush. Di fronte a un panorama del genere una letteratura del complotto è sostanzialmente l’unica possibile.
Anatole. Di sicuro siamo sempre più dentro una storia, forse anche proprio dentro una Storia, che prevede vari livelli di soluzione dei problemi, trascendendo la forma del poliziesco classico, che alla fine vuole una verità, un colpevole, una soluzione chiara e condivisa, ma forse anche quella del più ardito dei film di spionaggio. Da una parte il meccanismo di proliferazione dei livelli fa in modo che ne possa affiorare sempre uno nuovo, dove due fatti irrelati finiscono per trovare una qualche addentellato che li collega. Dall’altra sembrerebbe di vivere dentro una narrazione autoconsapevole, ad ingegneria inversa, in cui il giudizio arriva a produrre il fatto, secondo un capovolgimento dell’ordine naturale delle cose. Entrambi questi fattori puntano in una direzione molto interessante, che riporta alle origini della cosiddetta “finzione” moderna, cioè a quelle del romanzo medievale in versi, dove il conflitto sulla verità si gioca ad un livello che trascende la sostanza dei fatti, investendo piuttosto il loro significato emotivo. È più importante ciò che si prova, del fatto che lo si prova perché qualcosa è davvero accaduto, come se ci fosse quasi un desiderio di provare una determinata rabbia o indignazione a fronte di circostanze che devono prodursi perché quel sentimento possa protrarsi. Nel prologo del Chevalier au lion Chrétien de Troyes lascia intendere in maniera allusiva che la verità della sua storia non va cercata nella topografia della foresta di Broceliande, dove difficilmente il viaggiatore troverà la meravigliosa fonte di Barenton (e Maistre Wace in un celebre passo del Roman de Rou dice appunto di non averla trovata). Piuttosto dovrà interrogarsi sulla verità del sentimento amoroso che caratterizzava la disposizione affettiva dei cavalieri del buon tempo antico, cioè della corte di Artù, a fronte di quelli dei tempi suoi, la fine del XII, che di amore hanno fatto fable e mensonge. La verità dei sentimenti, la stessa sulla base della quale sono confezionati i film hollywoodiani, è l’unica vagamente appagante, mentre quella dei fatti è noiosa, vagamente nichilista, ci rilancia continuamente problemi che non siamo in grado di risolvere, ci costringe a riflettere fuori dalle polarizzazioni dicotomiche.
Lorenzo. Sì, è un forse po’ la differenza che passa fra la noiosissima geografia amministrativa di Ibn Khurdadhbih (IX-X secolo, e cito Wikipedia perché so chi ha scritto la voce), funzionario statale dell’impero Abbaside – il cui libro probabilmente non uscì mai dalle mura di un palazzo governativo – e l’esaltante ciclo di Sindbad il marinaio (stesso discorso di prima: so chi è il revisore della voce) ne Le Mille e una notte – la cui genesi Calvino collocò, correttamente, in un contesto “borghese”, sebbene la diffusione di quella narrativa arrivò a toccare, attraverso l’oralità, lo strato popolare. Con in mezzo una cosa come “Il libro delle meraviglie dell’India” che, forse, potrebbe funzionare come parametro per misurare quello che vediamo oggi sui telefononi: una cosa che suscita meraviglia basandosi su fatti, fattoidi e veri e propri falsi. Comunque: Quattrociocchi e Vicini, al capitolo 5 di Misinformation, lo dicono chiaramente: “In fondo anche coloro che credono di essere bambini indaco, con un’aura particolare e con speciali attitudini (extra)sensoriali, cosa fanno se non alimentare speranze illusorie e collettive in una nuova e migliore umanità?” (p. 108)
Anatole. sempre tenendo conto di Quelo, però.
Lorenzo. ovviamente.
Anatole. Potremmo concludere che, più dei gattini, delle tette o del cazzo in DM, il complottone riesce a dare senso al telefonone, il quale da solo non basta a distrarre il disadattato e il fallito dalla noia che scaturisce dall’ignoranza.
Lorenzo. Come dice Rust alla fine di True detective: “Una volta c’era solo l’oscurità. Se me lo chiedessi, ti direi che la luce sta vincendo”.
Anatole. Poi ti svegli e ha vinto Trump: chiediamo a Rust se sia ancora di quell’opinione…
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* Le donne siriane hanno gli stessi diritti che hanno gli uomini, nello studio, nella salute e nell’educazione? Sì, ma non nel matrimonio, che si stipula su basi confessionali. Lo Statuto personale in Siria è materia religiosa. In Siria le donne non hanno l’obbligo di portare il Burqa? Sì, ma in nessun paese musulmano vige l’obbligo di portare il burqa, che è un indumento afghano. Nei territori dei talebani vige l’obbligo di portare il burqa. La Sharia (legge islamica) è incostituzionale? Eppure l’articolo 3 (versione del 2012) si legge: 1. Il Presidente deve appartenere alla religione islamica. 2. La dottrina giuridica islamica è fonte principale della legislazione. 3. Lo Stato rispetta tutti i credi religiosi e garantisce la libertà di praticare tutti i riti, purché non contravvengano all’ordinamento generale. 4. Il benessere personale e lo statuto delle confessioni religiose sono rispettati e tutelati.La Siria è l’unico paese arabo con una Costituzione Laica e non tollera i movimenti estremisti islamici? Non mi sembra. Oltre ad aver fatto transitare per anni (dal 2003 in poi) i jihadisti diretti in Iraq e aver dato un pulpito a personaggi come Abu al-Qaqa, predicatore jihadista (salvo poi ammazzarlo quando era diventato scomodo), nell’arco di 50 anni ha inaugurato 18.000 nuove moschee, ha chiuso migliaia di cinema e teatri. Circa il 10% della popolazione siriana appartiene ad una delle tante denominazioni cristiane presenti da sempre nella vita politica e sociale? Vero. In altri paesi arabi la popolazione cristiana non arriva al 1% a causa delle discriminazioni subite? In Egitto i copti sono il 6% della popolazione. In Libano circa il 40% della popolazione è cristiana. Ma mettersi a dare i numeri è riduttivo. Ogni paese ha una sua storia e di certo discriminazioni ci sono state, ma ciò significa quasi nulla. In Siria la gestione delle confessioni è parte di un quadro più ampio in cui le minoranze sono in una forma o in un’altra asservite al potere. Ai curdi, ad esempio, non è concessa la cittadinanza fino al 2012 quando Asad, messo alle strette dalle proteste, decidere di “includere” i curdi nel suo progetto di mantenimento del potere. Dunque: la tolleranza religiosa siriana è unica nella zona? Formalmente sta molto meglio la Turchia, ad esempio. Ma l’intolleranza politica, sia in Siria che in Turchia è la regola. Questa, comunque, è un’opinione non un fatto, basata su affermazioni false. Andiamo avanti. La Siria è l’unico paese del Mediterraneo che è ancora proprietaria della sua impresa petrolifera, che non l’ha voluta privatizzare? Ma come cazzo scrivi, Arianna Editrice? Vabbene, nel merito: il suo regime clanico-mafioso possiede tutta l’economia, un’economia di mercato. La Siria ha un’apertura alla società e cultura occidentale come nessuno degli altri paesi arabi? Questa è un’opinione non un fatto, si vedano ad esempio Tunisia, Egitto, Algeria e Marocco. E comunque non è affatto detto che un’“apertura alla società e cultura occidentale” renda la Siria e questi altri paesi migliori di altri. Cioè: non è affatto automatico che “il bene” stia dalla parte di qualcuno, per finta o per davvero, si apre alla società e allla cultura occidentali. Prima della guerra, la Siria era l’unico paese pacifico nella zona senza guerre ne conflitti interni? Ma davvero? E perché allora in carcere stavano decine di migliaia di dissidenti, regolarmente torturati e a volte uccisi? La Siria è l’unico paese arabo che non ha debiti con il Fondo Monetario Internazionale? Può essere, ma ha tanti debiti ad esempio con l’Iran, che sta colonizzando il paese. La Siria è l’unico paese del mondo che ha ammesso rifugiati iracheni senza nessuna discriminazione sociale, politica o religiosa? Questa vorrei capirla meglio, ma lascio perdere, diciamo “può essere, chiedetelo agli iraqeni”. Bashar Al Assad ha un’approvazione estremamente popolare? E’ lingua italiana questa? Comunque è così popolare che un intero popolo gli si è rivoltato contro mentre lui trucca le elezioni e brucia le anagrafi. Lo sapevate che la Siria ha riserve di petrolio di 2.500 milioni di barili, il cui sfruttamento è riservato alle imprese statali? Lo sapevate che una riserva del genere è microscopica? Leggete i dati sulla produzione annuale di petrolio per Stato.
Preso posto sulla corriera per Caprasottana, il geometra P. Prensotti aprì il suo libretto su Santa Maria Maddalena.
Pensò a un torrente lontano, ma poi successe una cosa che gli tolse il sorriso: si era accorto che i passeggeri maschi usavano uno strano protettore di cuoio, un cinturone, evidentemente a doppio uso, che reggeva regolarmente i pantaloni e nello stesso tempo proteggeva i genitali.
Prensotti notò che anche l’uomo salito alla fermata successiva era dotato di un cinturone simile.
Essendoglisi costui seduto accanto, con la coda dell’occhio, Prensotti si dispose a studiare la cosa.
Il cinturone era di pelle scadente, logora, e dove avvolgeva la zona dei genitali era rinforzato da uno strato di pelle scamosciata sul quale brillavano le lettere M e F.
Saranno le iniziali, pensò il Prensotti.
L’uomo si sentì osservato e sorrise. A quel punto Prensotti tornò sul libretto. Non leggeva, o leggeva qualche riga e poi pensava a come far venire il discorso per saperne di più, ma quando era lì per dire qualcosa si bloccava. Come si fa a chiedere a uno: perché, brav’uomo, sente il bisogno di proteggersi i genitali?
Lasciata l’Aurelia, lungo l’asfalto s’alternavano vigne e orti a paesini con un solo negozio, il palazzo del municipio al centro e le mura del cimitero fuori dell’abitato.
Il motore si spense in una piazza circondata dalle palme.
Prensotti aspettò che la corriera si svuotasse e s’avvicinò al posto di guida.
«Cosa bisogna fare per attirare un po’ di turismo» disse l’autista notando lo stupore di Prensotti nel vedere che anch’egli si stava allacciando un orribile cinturone.
Prensotti si presentò: «P. Prensotti, geometra della Regione, devo andare in Comune perché ho un appuntamento».
L’autista, con quel gesto dissimulato che viene naturale quando le mutande stringono, si abbassò quattro dita, le dita sistemarono meglio il cuoio. Poi scese dalla corriera per spiegargli dov’era il municipio.
E comunque, disse ancora, se si perdeva, ad ogni angolo di strada trovava un contenitore pieno di opuscoli con la piantina di Caprasottana e alcuni cenni storici sul castello dei Crosalis.
Era un ometto ben disposto, Prensotti lo ringraziò pensando che a quel punto poteva chiedergli apertamente come mai portavano tutti quanti quel genere di cintura.
L’autista sorrise.
«Da dove viene lei, geometra?»
«Da Genova, sono un funzionario della Regione.»
«Allora in Comune le racconteranno tutto, io non sono neanche della valle, ma cosa vuole, qui anche gli autisti devono stare alle regole.»
Di là della piazza c’erano un paio di supermarket, con agenzie immobiliari e diversi bancomat.
Prensotti seguì le indicazioni dell’autista, quando successe una cosa strana: una macchina dei carabinieri, giunta a grande velocità, gli frenò accanto con stridio di gomme, e scese un maresciallo, un omaccione barbuto.
«Faccia presto» suggerì il carabiniere rimasto alla guida.
Il maresciallo si diresse al bancomat ma, quasi subito, accorgendosi della donna che gli correva incontro, balzò nuovamente a bordo e la Uno blu schizzò via, inseguita dalla donna.
Un battito di ali alle spalle spaventò Prensotti. Un paio di pappagalli, uno variopinto e l’altro tutto verde, rasentavano l’asfalto. Poi un terzo pappagallo, spellato e grassottello, a larghi giri planò sul gioco delle bocce.
Il sindaco in municipio non c’era.
«Avevo un appuntamento» si lamentò Prensotti.
«Vuole che le chiami il vice?» disse il messo.
«Mi chiami il vice.»
Al di qua del bancone venne un signore abbronzato, indossava un bel completo di tela bianca, e un gran proteggiballe ricamato.
«Il sindaco non dovrebbe tardare. Io sono il vicesindaco.»
Prensotti gli diede la mano.
«P. Prensotti, geometra della Regione, sono qui per esporre al sindaco il progetto della strada dei Ballei.»
Il vicesindaco sbadigliò: «Lei, geometra, non deve esporci proprio nulla, avendo noi stessi, il sindaco ed io, caldeggiato quel progetto, il suo compito semmai è di convincere chi a quel progetto si oppone…».
E finì picchiando col piccolo pugno sul bancone.
Il geometra Prensotti restò calmo, aprì la borsa e tirò fuori e aprì una mappa.
Il vicesindaco gliela tolse di mano. «Ecco vede, geometra, chi si oppone? Il maledetto è il proprietario di tutta questa roba qui.»
Prensotti cercò nella borsa altri fogli, visure catastali e mappali. La sorpresa fu grande: le terre di cui parlava il vicesindaco appartenevano a una sola persona. Arturo Testina Crosalis.
«È un discendente della dinastia Crosalis?»
«Esatto, e vive a Caprasoprana, e oltre alle terre alte possiede i palazzi e il rudere del castello e colline di ulivi, ma si oppone alla strada.»
«Non c’è la possibilità di far passare la strada accanto alle sue terre?»
Il vicesindaco mosse gli ossetti delle guance. «Vuole una bastonata sulla faccia? Lei pensa che se fosse possibile non avremmo già provveduto?»
Ma poi cambiò tono.
«Dia retta a me, torni fra un’ora, così parla col sindaco.»
…
…
Questo è l’incipit del racconto lungo (incompiuto), o romanzo breve (incompiuto) che dir si voglia, “Aren’Aria”, di Marino Magliani, ovvero Fernando Guglielmo Castanar (per capirci meglio si veda la bella introduzione), pubblicato recentemente da Fusta Editore, Saluzzo (Cuneo). Il testo è bilingue (italiano e tedesco), e è accompagnato da lunghe e precise note dello storico dell’arte Alessandro Giacobbe, e da fotografie di Ariodante Calvini. Un libro, tutto ligure, come solo Magliani può ideare e realizzare, insomma.
Glenn Gould da sempre ha suscitato una grande attenzione da parte di studiosi, biografi, musicologi, ma anche di semplici appassionati che hanno trovato nel pianista canadese la combinazione ideale di eccellenza interpretativa ed eccentricità. La vecchia, ma sempre efficace, accoppiata genio e sregolatezza.
La maggior parte delle pubblicazioni a lui dedicate si concentrano sulla peculiarità del suo repertorio pianistico, sulla postura, sulla sua prodigiosa memoria o sulla spasmodica ricerca del pianoforte perfetto . Poco, troppo poco, sulla sua attività di autore radiofonico.
È giunto quindi il momento di mettere in luce la qualità della sua produzione radiofonica, in particolare del primo episodio della Trilogia della Solitudine , The Idea of North, trasmesso il 28 dicembre 1967 dal secondo canale della Canadian Broadcasting Company, in occasione del primo centenario della Confederazione Canadese.
Il programma presenta caratteristiche formali innovative, sintetizzabili nella formula del contrappunto radiofonico, che segnerà la successiva produzione radiofonica di Gould. Si tratta di un docudramma sulla regione settentrionale del Canada: quattro personaggi in viaggio per Fort Churchill, la località canadese più a nord raggiungibile in treno, si confrontano sulla loro esperienza nel grande Nord. Un quinto personaggio Wally McLean – realmente conosciuto da Gould proprio su quel treno qualche anno prima – ha la funzione di narratore e di sintesi.
The Idea of North è un’occasione per riflettere sull’idea di solitudine, che non è un’esclusività del Nord, né la prerogativa di coloro che vi si trasferiscono, ma che accomuna chiunque decida di vivere isolato. Si tratta di un’idea astratta del Nord realizzata raccontando le esperienze di vita di quattro personaggi reali che per ragioni differenti hanno deciso di spendere parte della loro vita nel Nord, con aspettative e reazioni diverse.
Il programma radiofonico di Gould è una vera e propria opera musicale, in cui gli interlocutori costituiscono le voci di una complessa tessitura che sembra raccogliere l’eredità della Sprechstimme del Pierrot Lunaire di Schoenberg e del contrappunto, realizzando così una forma originale di composizione.
In fondo Gould poteva davvero definirsi «uno scrittore, compositore e produttore radiotelevisivo che suona il piano nei ritagli di tempo». Un compositore.
La genesi Nel giugno del 1965, abbandonata la vita da concertista , Gould si concesse un viaggio di oltre mille miglia, da Winnipeg e Churchill, nel Manitoba, sulla riva sud-ovest della Baia di Hudson. Il viaggio fu una vera fonte di ispirazione. Tornò a Toronto con un entusiasmo per il Nord che lo aiutò ad «attraversare un altro detestabile inverno di vita cittadina» , cominciò a documentarsi sulla regione del Nord del Canada e a considerare come poter utilizzare gli spunti e le idee frutto del viaggio in una forma artistica, qualunque essa fosse.
Nel 1967, anno del centesimo anniversario della Confederazione Canadese, la CBC ebbe a disposizione un budget straordinario per la produzione di programmi celebrativi dedicati al Canada.
All’inizio dell’anno, la produttrice del programma, Janet Somerville, chiamò Gould ed egli immediatamente le suggerì il titolo del programma: The Idea of North. Gould passò buona parte dell’anno a concepire il programma e a selezionare le persone da intervistare. L’intero programma era già concepito nei minimi dettagli. Glenn Gould intendeva realizzare un’opera di «stati d’animo» con gli interventi di un gruppo di persone che, per scelta o per necessità, avessero vissuto l’esperienza del Nord e sperimentato diversi livelli di solitudine.
Dopo aver pensato a un numero maggiore di interlocutori, la scelta si limitò a quattro personaggi più un narratore, simulando delle conversazioni nella carrozza ristorante del treno diretto a Churchill. L’ascoltatore avrebbe svolto il ruolo del cameriere, passando accanto ai viaggiatori, cogliendo brani di conversazioni, a volte sovrapposte, a seconda della distanza dai tavoli.
La sovrapposizione delle voci è l’aspetto che caratterizza maggiormente i documentari di Gould e il percorso che porta il compositore a una scelta così singolare è ancora oggi poco chiaro. Gould pensava di dividere il programma in cinque episodi, uno per personaggio, senza dubbio una «cattiva eredità dei modelli ascoltati in gioventù» e raccontare cinque storie servendosi ogni volta di un personaggio, mentre gli altri quattro avrebbero avuto diritto a una battuta o poco più. Era quindi già prevista una certa dose di contrappunto, ma ancora troppo legata a un andamento monofonico e lineare.
Poco più di un mese prima del termine dei lavori Gould si accorse di essere lontano da ciò che intendeva realizzare e di non riuscire a differenziare sufficientemente i personaggi né a creare situazioni drammatiche all’interno della forma documentaria.
Dopo un primo e intenso lavoro di montaggio si trovò di fronte a circa ottanta minuti di trasmissione, mentre il programma ne prevedeva solo sessanta. Si rendeva necessario eliminare una scena, ma nessuna sembrava essere sacrificabile; l’idea di far parlare simultaneamente due o più personaggi fu quindi dettata tanto dalla necessità di contenere i tempi di trasmissione quanto dall’esperienza musicale e sensoriale di Gould, capace di comprendere distintamente più stimoli acustici simultanei. Ma anche lo spettatore medio sarebbe in grado di assimilare informazioni complesse, comprenderle e di reagire di conseguenza: la fiducia di Gould nelle capacità critiche del pubblico è riscontrabile anche nei celebri articoli relativi al processo di registrazione e di montaggio pubblicati sulla rivista «High Fidelity» . Egli pensava che si potesse lavorare con le voci dei narratori come se corrispondessero alle singole linee vocali di un componimento contrappuntistico, tanto da poterle distinguere, anche nei momenti di sovrapposizione.
La sfida era quella di lavorare sulle prospettive, sul senso dello spazio e della prossimità. The Idea of North era registrato ancora in mono e non era quindi possibile assegnare una posizione nel panorama stereofonico ai singoli personaggi. Gould volle creare invece una serie di caratteri drammatici, utilizzando una serie di accorgimenti per dare rilievo alle voci in modo dinamico e renderle comprensibili anche in caso di sovrapposizione.
Per realizzare ciò fu indispensabile la collaborazione con il tecnico del suono Lorne Tulk. La loro collaborazione al tempo di North fu estremamente intensa: lavorarono al missaggio per circa tre settimane, spesso fino all’alba, ad un ritmo insostenibile ben oltre le ore previste dal contratto. Tulk nutriva una totale devozione per Gould e, guardandoli lavorare fianco a fianco, Janet Somerville non poteva fare a meno di pensare a Don Chisciotte e Sancho Panza.
La loro sfida contro i mulini a vento era appena cominciata.
I personaggi L’intera idea narrativa di North ruota attorno al numero cinque. Cinque scene, cinque personaggi, cinque punti di vista differenti sul Nord. Vi è inoltre un sesto personaggio che resta in scena per tutta la durata della trasmissione: si tratta del suono del treno che, a guisa di basso continuo, accompagna le conversazioni dei personaggi, dando loro un forte senso di continuità. Gould riteneva che questo aspetto costante dei suoi documentari radiofonici (in North è il treno, in The Latecomers è il rumore del mare, in The Quiet in the Land, la funzione religiosa dei Mennoniti) fosse derivata dalla sua esperienza di organista, dal conforto e dalla stabilità che i bassi organistici consentono .
Per la stesura della sceneggiatura del documentario Gould utilizzò i personaggi nello stesso modo in cui si scrive una pièce teatrale. Voleva poter disporre di punti di vista differenti: un entusiasta, un cinico, un funzionario preposto al controllo del bilancio e un disilluso dal Nord. Voleva inoltre qualcuno la cui esperienza potesse racchiudere le posizioni di tutti gli altri personaggi. Naturalmente la voce di questo narratore sarebbe stata quella di Wally McLean, i cui discorsi sul treno avevano ispirato la sceneggiatura di The Idea of North.
La partitura
Gould trovò dei personaggi particolarmente espressivi e rappresentativi di ciascun punto di vista: un’infermiera, un geografo, un antropologo e un funzionario governativo.
Nessuno dei personaggi si incontrò durante la produzione della trasmissione: furono intervistati e registrati separatamente. McLean per primo, nel fine settimana del giorno del Ringraziamento, a Winnipeg; in seguito vennero intervistati gli altri quattro, tra Toronto e Ottawa, con un Ampex 350 mono, allora utilizzato presso gli studi della CBC.
La prima voce a prendere la parola in North è quella di Marianne Schroeder, l’infermiera che incarna la disillusione di chi va al Nord alla ricerca del proprio avvenire. Schroeder inizia il suo intervento dichiarando di essere affascinata dal Nord; si nota un entusiasmo quasi puerile nei confronti del paesaggio nordico e la rassicurante ricerca di luoghi comuni come la presenza di orsi polari o foche. Nell’arco di poco più di un minuto, però affiorano le prime avvisaglie del disincanto che accompagnerà sempre più il suo racconto. Marianne ha l’impressione di addentrarsi nel nulla e più avanzava verso il Nord, più il paesaggio le appare monotono.
Nella terza scena Marianne Schroeder riconosce il fallimento della propria permanenza nel Nord.
L’apice della sua disperazione viene toccato nel punto centrale del movimento di Rondò della terza scena. Schroeder è sempre più insicura, non sa più quale sia il suo scopo e si interroga se, andando al Nord, abbia effettivamente compiuto la scelta migliore.
In quanto donna è molto attenta alla condizione e alla funzione femminile nella società del Nord. Osserva con amarezza che la donna occupa un ruolo marginale nella società degli Eskimo – dove la nascita di una figlia femmina è vista come una disgrazia, tale da essere chiamata Karmala, “parassita” –, comprendendo a fondo la loro ostilità nei confronti del sesso femminile, soprattutto della donna bianca e con una carica autorevole.
Frank Vallee è il secondo personaggio in ordine di apparizione in The Idea of North. È un sociologo incaricato del governo federale nell’Artico Centrale che, a parte un breve intervento nel prologo, occupa solo la parte centrale dell’opera.
Il Nord gli sembra irritante e si mostra insofferente nei confronti delle idee romantiche dei suoi interlocutori. Si sente a disagio nei grandi spazi del Nord, soffre di una sorta di agorafobia e trova nell’immensità dei paesaggi del Nord il concreto pericolo di perdersi.
Vallee ha un’idea assolutamente anti-romantica dell’impegno al Nord. Lo paragona a una brutta fidanzata della quale tutti vedono i difetti tranne lo sposo, che dopo poco ne rimarrà profondamente deluso. L’innamoramento nei confronti del Nord dura poco ed è frutto di una visione idealizzata e romantica, che svanisce al primo contatto.
Il terzo interlocutore a prendere la parola è Bob Phillips, un funzionario federale e membro del Consiglio della corona. Ha un atteggiamento decisamente pragmatico ed è convinto che il governo possa contribuire a migliorare le condizioni di vita della popolazione attraverso l’istituzione degli insediamenti e la politica di sviluppo del Nord.
Il pragmatismo di Phillips si manifesta in tutta la sua forza quando riconosce che tutte le idee romantiche che si trovano sui libri di scuola sono vecchie illusioni. La vera integrazione e il vero successo del programma di sviluppo del Nord sarà raggiunto quando il primo Eskimo si alzerà per difendere la propria identità, piuttosto che farsene attribuire una gradita ai bianchi.
Gould, nella quinta scena, assegna a Phillips un lunghissimo intervento che la occupa quasi per intero. Ha una visione decisamente realistica del futuro dei territori del Nord. Li immagina – con estrema soddisfazione – simili al resto del Canada e alle periferie delle grandi città, soprattutto per gli aspetti deteriori.
Jim Lotz è un geografo e antropologo inglese, docente presso l’università di St. Paul a Ottawa. È l’ultimo dei personaggi a prendere la parola. Il suo è un atteggiamento entusiasta, utopico e a tratti ingenuo nei confronti del Nord. In un paese dove la possibilità di sfruttamento agricolo è pari a zero, la (r)esistenza dell’uomo nel Nord per lui è quasi grottesca.
Nel 1960 partecipò per il Ministero del Nord ad una ricerca sugli squatters di Whitehorse nello Yukon, riuscendo a dimostrare che non si trattava di delinquenti, ma semplicemente di persone con un differente punto di vista sul mondo.
Il Nord non è semplicemente un luogo, ancorché eccezionale. È uno stato mentale, un processo. Come per i cercatori d’oro: non si tratta di possedere il prezioso metallo, la sfida è la ricerca stessa. L’esperienza di vita nel Nord è questo. Una ricerca.
Lotz si scontra con la posizione di Phillips, vede nel Nord la grande potenzialità di diventare un laboratorio all’aria aperta dove gli studenti potranno sperimentare la biologia, la botanica e studiare complessi problemi di cambiamento sociale.
Il personaggio più emblematico e in buona sostanza il responsabile dell’ispirazione di Gould nella stesura di North è Wally McLean, l’unico tra gli interlocutori del programma che si trovava realmente sul Muskeg Express con Gould nel viaggio dell’estate 1965.
McLean ha una posizione di spicco rispetto agli altri personaggi. Nonostante non sia il primo a prendere la parola, è colui che apre effettivamente l’opera: il prologo ha la stessa funzione dell’ouverture in un’opera lirica, ci suggerisce il tema, qualche motivo, nel caso specifico la particolarità della forma del contrappunto radiofonico; l’introduzione di Gould, poco più di un paio di minuti, ha una funzione di mera presentazione e di contestualizzazione al pubblico radiofonico.
Possiamo così affermare che l’intera opera viene aperta e chiusa da McLean. È la cornice, il fondamento e il coronamento di North. Non è difficile quindi trovare nella persona di McLean l’alter ego di Gould.
L’idea del Nord per McLean è come un viaggio, un lungo viaggio che costringe a confrontarsi con sé stessi. E la monotonia del viaggio e dello stesso paesaggio è parte del sentimento di infinito che caratterizza il Nord e le sensazioni di chi vi si confronta.
L’epilogo è completamente occupato da un lungo e intenso intervento di McLean, sottolineato dall’ultimo movimento della Quinta Sinfonia di Sibelius. È una lunga riflessione sul profondo significato del Nord, una sintesi che rappresenta pienamente il pensiero di Gould.
Lettura della traduzione italiana del prologo di North in occasione della presentazione del graphic-novel Glenn Gould, una vita fuori tempo di Sandrine Revel
La struttura I documentari di Gould richiedevano un tipo di ascoltatore esperto, molto diverso dal pubblico dei notiziari e dei programmi di intrattenimento della CBC. Ciò è vero soprattutto per North, che fu il primo esempio di contrappunto radiofonico e che, di conseguenza, generò il più profondo smarrimento tra gli ascoltatori .
Egli era profondamente consapevole e orgoglioso di ciò che aveva realizzato con i suoi documentari radiofonici, tanto da dichiarare, nel programma televisivo The well-tempered listener, che riteneva irrealistico non considerare il lavoro di montaggio radiofonico una vera e propria composizione musicale.
Già Marshall McLuhan, in un’intervista con Gould, aveva espresso il profondo convincimento che la parola è sempre musica, è una forma di canto e che, d’altra parte, nell’esperienza della musica concreta e aleatoria ogni elemento acustico ha dignità di materia musicale. Non era solo Gould, quindi, a essere pronto per un’esperienza così innovativa. Janet Somerville, la produttrice della serie radiofonica Ideas, dichiarò che North era vera musica, una «Finlandia» per il Canada. Nientemeno.
L’opera si divide in cinque sezioni, anticipate da un prologo – una forma di sonata-trio – della durata di circa tre minuti e da una breve introduzione dell’autore, con la presentazione dei personaggi e del contenuto, seguite da un epilogo di nove minuti, in cui – unico caso in tutta la trasmissione – è presente un brano di musica convenzionale: il terzo movimento della Quinta Sinfonia di Sibelius, diretta da Von Karajan.
Qui Wally McLean riassume magistralmente i temi toccati nel programma e propone un’originale sintesi, che possiamo considerare come la posizione dello stesso Gould.
Prospettive La messa in onda di North provocò lo sconcerto di molti ascoltatori, ma anche l’unanime consenso da parte dei critici, che ne apprezzarono la tecnica estremamente raffinata e la coraggiosa innovazione formale.
Il documentario radiofonico tradizionale era stato completamente reinventato. I critici se ne accorsero immediatamente e Barbara Frum, nelle pagine del «Toronto Daily Star» mise in guardia sul pericolo di un’imitazione puramente formale del nuovo linguaggio, relativamente facile da ottenere, ma con ogni probabilità priva del senso di equilibrio e della raffinatezza di cui solo Gould era stato capace. Egli passò gli ultimi anni della sua vita diviso tra le incisioni pianistiche e la realizzazione di questo nuovo tipo di composizione musicale, del quale poteva a ragione considerarsi il precursore.
Oltre a North Gould portò a compimento, dal 1967 al 1977, altri due documentari radiofonici legati al concetto di solitudine e riguardanti territori e popolazioni del Canada, come l’isola di Terranova a cui dedicò The Latecomers e la comunità dei Mennoniti, protagonista dell’ultimo episodio della trilogia della solitudine, The Quiet in the Land.
La lungimirante volontà di incidere i documentari radiofonici su disco ha facilitato la loro diffusione e la possibilità di farne materia di studio e di ispirazione. Gould aveva ridefinito la forma del documentario radiofonico, creando un docudramma, una sintesi di tre discipline: documentario, teatro e musica, con una potenziale influenza su ciascuna di queste arti .
La notorietà di Gould scrittore, saggista, compositore e produttore radio-televisivo non è paragonabile alla sua fama di pianista. Tuttavia Gould era tutto questo e la sua complessa personalità artistica non può prescindere da nessuno di questi aspetti che si influenzano profondamente l’un l’altro . L’intera sua produzione esecutiva, compositiva e musicologica presenta ancora oggi una visione estremamente personale e innovativa su repertori e musicisti a volte trascurati.
In particolare, l’eredità dei documentari radiofonici di Gould è ancora lungi dall’essere esaurita e l’originalità delle idee formali e delle riflessioni contenute nelle sue trasmissioni è estremamente attuale, sebbene poco indagata. A più di trent’anni dalla morte del compositore, il contrappunto radiofonico deve ancora rompere il muro della diffidenza di coloro che faticano a considerarlo musica a tutti gli effetti. Musica la cui forza ci ispira e sorprende ancora oggi e chissà per quanto tempo ancora.
In occasione della presentazione del recente graphic-novel Glenn Gould, una vita fuori tempo di Sandrine Revel, gli attori Massimiliano Grazioli, Alberto Branca e Francesca Grisenti hanno dato vita alla lettura del prologo di Nord davanti ad un ammirato Bruno Monsaingeon. La reazione di attento stupore del pubblico presente ha dato prova evidente della vitalità dell’opera di Gould.
(Questo articolo è la riduzione e adattamento di un testo precedentemente pubblicato sulla «Nuova Rivista Musicale Italiana», n. 4/2012. Ringraziamo Giacomo Verri per averlo segnalato a Nazione Indiana)
(In libreria dal 10 novembre, Io in te cerco la vita. Lettere di una donna innamorata della libertà, raccolta epistolare di Anna Kuliscioff, a cura di Elena Vozzi per L’orma editore, nella collana I Pacchetti.
Di seguito, un estratto.)
AD ANDREA COSTA
Napoli, 4 dicembre 1884
Mio carissimo,
la tua lettera buona e affettuosa m’ha fatto del bene, ma… c’è sempre quei ma e se maledetti, che inciampano e che avvelenano ogni gioia, ogni speranza. Io non dubito e sento che mi vuoi bene come me l’hai voluto, come forse me lo vorrai sempre, il guaio è solamente che questo bene se avesse potuto rendere felicissima un’altra donna, a me, infelice disiquilibrata, mi lascia tanto e tanto a desiderare che mi fa perfino cattiva ed ingiusta, incapace d’apprezzare quel poco di bene che posso ricevere, e che tu, presa la tua natura, le tue occupazioni ed il resto, puoi darmi. Ti ricordi una tua frase significante prima della tua partenza nel mese di ottobre, quando ti scongiuravo istericamente piangendo di lasciarmi per la tua e mia tranquillità? Tu mi dicesti «siamo infelici ambedue» e qui è la sintesi delle nostre relazioni. Tu cerchi in me il riposo, io in te la vita. Io sono per te poco donna, tu per me sei un’astrazione. Io non ho la maternità. Tu non mi dai l’umano del contatto fra i sessi diversi. Tu non vuoi o non puoi capire che l’abbandono e la pienezza non sono che la conseguenza d’una vita reciproca piena di comprensione dei pensieri, dei sentimenti, delle aspirazioni. Questo concetto è una vera mosca bianca, che non si è trovata nemmeno nella nostra relazione. L’uomo non sente questo bisogno; tu pieno di vita, d’attività, d’ingegno e di ricchezza morale proprio è naturale che non puoi sentire il bisogno d’un salice piangente, i cui rami sono già piegati a toccare presto la terra, che cosa puoi tu trovare in questa decrepitezza fisica e morale? Lo riconosco, purtroppo, lo sento fino a piangere nel momento in cui ti scrivo, ma non voglio illudermi, non voglio illuderti. Ho portato la mia critica fino a sviscerarmi completamente, e qui è la ragione d’essermi trovata come perduta. Sì, ho perduta l’illusione di me stessa, ho perduto l’illusione che possiamo mai esser soddisfatti. Tanto più che tu sai quanto in una donna un poco non volgare è forte il lato morale nell’amore; Gretehen perfino s’informa al Faust se crede alla religione, e perciò capirai che svanita questa armonia morale, questo legame non esistendo più, quanto doloroso è di conservare il convivere per semplice abitudine, per semplice memoria del passato. Adesso sento per te maggiore tenerezza, sento per te un affetto profondo, ma sento più tranquilla la mia coscienza, quando non pretendo più d’essere la tua amante, e non esigo da te le attenzioni d’un amante… Dimmi sinceramente non consideri anche tu l’amore, come lo sento io? Tu sei per me sempre quello che fosti prima: dire che sei il padre della mia salvezza, della Ninuccia, è dir tutto. Tu sai quanto poco entra la sensualità nelle mie relazioni con te, non voglio che rimanga essa sola l’ultima cosa nell’amore quando non v’hanno tutti gli altri attributi che costituiscono l’essenza dell’amore. Non sono romantica, ma desidero la realtà umana, questo è impossibile; perché dobbiamo dunque battere la strada tradizionale dei mariti e delle mogli? So che sono forse crudele verso di noi ambedue, ma la critica inesorabile di due mesi ha maturato questo frutto, è amaro per noi ambedue ed io piango. Ti bacio di cuore anche per la nostra adorabile Ninuccia.
L’incontro fortuito con Robert Desnos [Parigi, 4 luglio 1900 – campo di concentramento di Theresienstadt, 8 giugno 1945] avviene tramite L’étoile de mer di Man Ray, che, ispirandosi a una sua breve omonima poesia, nel 1928 gira un film delicato e misterioso di evanescenze, filtrato da un vetro smerigliato che a tratti copre l’obbiettivo, nel non dover dire, spiegare simboli e mostrare tutto per forza.
Da piccola guardavo con la lente d’ingrandimento le immagini di paesi lontani che trovavo tra le cartoline o nei libri di geografia. Cercavo i particolari non visibili a occhio nudo, ma che pure dovevano essere rimasti impressi nella pellicola. Scrutavo negli angoli delle strade, tra gli alberi o dentro una finestra, per cogliere qualcosa di più di quel mondo ignoto, quasi per entrarvi dentro. Ovviamente, ingrandendo, ottenevo solo la sgranatura della fotografia, non la vita che credevo ci fosse dentro. Ma io insistevo. E se non vedevo niente, sognavo di vederlo, fantasticavo.
L’idea che la fotografia abbia una vita rappresa dentro di sé, che aspetta di essere tirata fuori e fatta rivivere sotto i nostri occhi, la ritrovo ora guardando queste fotografie di Patrizia Posillipo elaborate dallo scultore Francesco Alessio. La prima impressione che ne ho avuto è stata fortissima. Ho subito immaginato che lo scultore avesse fatto su quelle foto qualcosa di simile a ciò che io cercavo di fare da piccola con la lente d’ingrandimento: ne ha fatto venire fuori qualcosa che stava imprigionato là dentro, lo ha reso visibile a occhio nudo, e non solo all’occhio ma anche al tatto, e all’occhio tattile che c’è in ognuno.
Le barche di sasso
Guardo per prima quella intitolata Carghi. E’ una costa marina in controluce. So che è stata scattata in Islanda. Al centro tre faraglioni neri si stagliano da una striscia nera sottile, perfettamente orizzontale, in mezzo a altre due strisce di costa di maggiore altezza, anch’esse orizzontali. Tutto qui dentro ha un andamento orizzontale, anche i solchi neri che rigano lo specchio d’acqua antistante. Tutto, tranne quelle tre sagome bizzarre che si stagliano invece verso l’alto. Così, per quella loro verticalità contrastante, mi paiono di colpo incominciare a muoversi, lentissime, in quieta processione. Sono tre figure che avanzano calme, da sinistra verso destra: la prima in posizione avanzata e fallica, la seconda più tranquilla e bonaria nella sua massa panciuta, la terza, quella che chiude il corteo, premurosamente inclinata in avanti.
Carghi – particolare Posillipo/Alessio
E poi, sopra tutto questo, ecco stagliarsi altre sagome dai profili bizzarri, altre ombre, ma chiare invece che scure, come se fossero il positivo delle figure nere che stanno dietro. E soprattutto più pesanti, corporee, intagliate nel marmo. Come barche di sasso.
Anch’esse paiono muoversi lentamente, raddoppiando la processione. Solcano trasversalmente la fotografia, ne superano i bordi, fanno ponte con un fuori. Dove staranno andando questi fantasmi di pietra? Forse sono gli spettri di tutte le imbarcazioni che hanno solcato o che solcheranno quel tratto di mare nel tempo, nel passato e nel futuro, le cui tracce sono rimaste imprigionate nella foto? E che ora si rendono visibili, prendono letteralmente corpo, acquistano una consistenza materica, tridimensionale.
La fotografia non è solo immagine.
Quando vidi per la prima volta il famoso dagherrotipo che ritrae Balzac in camicia, con il collo nudo e la mano appoggiata sopra il petto, non potei fare a meno di pensare al tempo che c’era voluto affinché il corpo dello scrittore, immobilizzato per diversi minuti, lasciasse tracce di sé su di una lastra di rame ricoperta d’argento. Balzac era convinto che il dagherrotipo trattenesse qualcosa del corpo fotografato, e che questo perdesse nel processo uno dei suoi “spettri”, cioè una parte della sua essenza costitutiva. Noi oggi non lo crediamo più. I pixel hanno sostituito l’immaginazione alchemica. Eppure quella credenza, ormai superata, è più vicina al vero di quanto si pensi. La fotografia non è solo immagine. E’ anche corpo, è anche materia incanalata nella luce, pulviscolo d’atomi precipitati su di una superficie sensibile.
E’ questo che ho pensato guardando questi oggetti, chiamati fotosculture.
Mondi dischiusi
Ma è appropriato chiamarli così? Certamente lo è, visto che qui fotografia e scultura si incontrano, e a un’immagine piana, bidimensionale, si sovrappongono dei corpi dotati di tre dimensioni. Ma nello stesso tempo fotoscultura è anche un termine generico, che nei due secoli passati è stato usato per indicare tecniche disparate, e operazioni artistiche tanto diverse da questa e anche tanto diverse tra di loro. Dalle statue in argilla realizzate a Parigi da François Willème a partire dal 1859, e ottenute per mezzo di un pantografo che ricalcava in successione profili dello stesso soggetto, che erano stati prima ripresi contemporaneamente da diverse angolazioni, ai bassorilievi in plastilina degli inizi del Novecento realizzati e fotografati da Domenico Mastroianni. Oggi si chiamano fotosculture tutti gli oggetti tridimensionali ottenuti inserendo fotografie in supporti disparati. Perciò c’è bisogno di un nome nuovo per suggerire la particolarità di questi interventi scultorei su foto. Ne azzardo uno: fotografie dischiuse, oppure – perché no? – sculture di spettri.
Ciò che le contraddistingue è che la fotografia qui è presente nella sua figuratività originaria, senza alterazioni né ritagli, distesa sul suo fondo piano. Ad essa lo scultore aggiunge una sorta di commento materico dell’immagine: un complemento di creazione, che sprigiona un ulteriore senso possibile, implicito oppure nascosto nella fotografia.
Tumuli- Posillipo/Alessio
Il dentro è fuori
Guardo ora il paesaggio con cascata intitolato Ponti. Anche questa foto è stata scattata in Islanda. L’acqua si è scavata un solco tra due lembi di terra arida e rocciosa. Nessun ponte lo attraversa. I ponti – se ve ne sono – li ha aggiunti lo scultore. E sono sezioni di mattoni da edilizia in parte smaltate di azzurro, dello stesso colore del cielo. Nella loro forma fantasiosa vagamente ricordano le arcate sovrapposte di antichi acquedotti. Ponti irrealistici, che del resto non collegano i due orli di terra della cascata. A cosa fanno ponte allora? Forse agli elementi: all’acqua, al cielo, alla terra (del resto rappresa nella stessa materia aggiunta, nei mattoni da edilizia di terracotta) che vengono legati senza tuttavia congiungersi nel mondo rappresentato .
Molte cose qui si intersecano senza congiungersi. Così anche la scultura e la fotografia. Se qui esse si avvicinano è per dar luogo a un incontro sospeso, che produce qualcosa di più della loro semplice ibridazione. Invece di fondersi restano due attività autonome, individuali, mentre tendono entrambe verso qualcosa che le trascende.
O forse i ponti collegano il micromondo fotografato con tutto ciò che gli sta fuori. Anche qui infatti, come nelle altre fotografie dischiuse, Carghi, Strade, Tumuli, Porta, Solco e Vascelli, la struttura aggiunta oltrepassa lo spazio della fotografia, esce dal suo bordo, dando un senso di continuazione e di infinito.
In Tumuli si vedono sul fondo delle semplici tombe comuni di cemento chiaro, cilindriche, prive di scritte. So che la foto è stata scattata nel cimitero ebraico di Fez, in Marocco (lo stesso che si vede anche in Porta, ma là se ne vede la parte monumentale, con le tombe importanti recanti scritte in ebraico). Sopra è stata aggiunta una griglia di ferro che chiude le tombe in un fuori, oppure in un dentro. In un certo senso li contiene, li mantiene al loro posto, ma senza impedire loro di ricadere fatalmente di qua, anche nel nostro mondo, con frammenti di pietra che sembrano staccati da quei tumuli, e rimasti impigliati tra le maglie della grata. Sono ossa che sporgono fuori da un armadio a rete metallica, come nella chiesa di San Bernardino delle Ossa a Milano?
Se al posto della fotografia avessimo un dipinto, in quanto entrambi raffigurazioni bidimensionali, potremmo allora paragonare queste fotosculture a ciò che già avveniva nell’arte antica o in quella arcaica. La plasticità della materia che si mescola al disegno, l’oggetto ‘reale’ che si aggiunge alla rappresentazione piana del dipinto, sono procedimenti che appartengono all’arte, soprattutto a quella religiosa, fin dalle sue origini. Al Sacro monte del Varallo ad esempio, nelle diverse cappelle-stazioni che raffigurano scene della passione di Cristo, scultura e pittura si integrano con effetti sorprendenti. Davanti vediamo statue a grandezza naturale, dietro di esse, a proseguire la scena e a farle da fondale, c’è un affresco. E a volte capita che un cavallo dipinto sporga fuori dal muro con la testa, non più dipinta ma in rilievo, modellata in terracotta. O che una statua esca camminando da una porta dipinta con tutto il volume plastico della sua figura, in scala uno a uno. Oppure si pensi agli ornamenti in vero oro o in vero argento che si possono vedere incollati sopra molti dipinti antichi, a decorare volti di Madonne, di Cristi o di Santi.
L’ibridazione di tridimensionale e bidimensionale è qualcosa che appartiene all’arte fin dalle sue origini, e che forse la pittura postrinascimentale, nella sua via maestra, e purista, ha scartato, quasi si trattasse di un procedimento impuro. I dadaisti la ripresero in chiave trasgressiva, quando incollavano sopra i loro quadri pezzi di oggetti trovati. Nelle fotografie dischiuse di Posillipo e Alessio il procedimento ritorna ma in tutt’altra forma, innanzitutto al posto della pittura c’è la fotografia. Inoltre l’invenzione è in chiave poetica, non ironico-trasgressiva. Infine, a differenza di quel che avviene in certe installazioni, come la Caduta di Berlino, un diorama con macerie ‘reali’ collocate proprio di fronte all’immagine, le aggiunte materiche qui non sono realistiche, non mirano all’illusionismo realistico della rappresentazione, ma alla costruzione di un senso maggiore che trascende l’immagine fotografica e l’idea stessa di rappresentazione.
Oggi più che mai l’immagine sembra aver perduto la propria innocenza. In piena epoca, la nostra, di réalité augmentée, con la fine dell’asservimento della “figura rappresentata” alla realtà – per la fotografia ancor più che per la pittura- sembra essere svanita, sfocata anche la purezza che attraverso il dispositivo\artificio del verosimile veniva custodita. Tale affrancamento dalla sua subalternità ha comportato la fine dell’innocenza in nome di una spietata “nuova realtà” senza complessità, sbavature, senza più umanità, senza tempo. Il passaggio dall’analogico al digitale ha sicuramente giocato un ruolo fondamentale in questo strappo e se i nostri immaginari oggi sono condizionati anche in altri campi, da quello letterario a quello politico-sociale, e soprattutto nel linguaggio, dall’eterno presente, sarebbe da idioti non collegarlo a questo mutamento della percezione.
In altri termini è come se si fosse rovesciato il mito della caverna del buon Platone; a credere ai fantasmi non fossero più, soltanto, i prigionieri incatenati alle ombre proiettate sulla parete ma proprio le cose, d’improvviso dotate di coscienza, che proiettavano se stesse attraverso la luce del gran fuoco alle loro spalle.
Cosa succede, invece, quando la realtà decide di irrompere nel paesaggio? Quando rivendica la propria materica autenticità rispetto alla semplice e guasta percezione che viene imposta dalla nostra epoca digitale? Succede esattamente quanto Patrizia Posillipo e Francesco Alessio hanno realizzato con il proprio laboratorio “Mondi dischiusi”.
Scala – Posillipo/Alessio
Laboratorio e non semplice azione perché il progetto è stato a lungo maneggiato, articolato, rifondato, montato, smontato all’inverosimile e soprattutto in un’azione quella della scultura sostanzialmente in differita, in alcuni casi, rispetto a quella della fotografia. I paesaggi di Patrizia Posillipo definiti da una scansione temporale, cronologica oltre che geografica, componevano già un flusso vitale posto in essere prima della sovrapposizione degli interventi scultorei di Francesco Alessio. Altre opere venivano ricomposte in tempo reale ma nell’uno come nell’altro caso parlare di sovrapposizione sarebbe limitato oltre che ingiusto. In realtà le forme “concrete” di Francesco Alessio agiscono sui paesaggi di Patrizia Posillipo solo perché agiti dalle forme immateriali che ne determinano l’orizzonte di significato.
Felice allora il titolo “Mondi dischiusi” che ben rappresenta questa esperienza epifanica dell’arte, tanto dalla parte della creazione che da quella della semplice fruizione, ovvero di un’arte in grado di recuperare la propria innocenza sostanzialmente attraverso nature, materie, cose, per statuto uniche e allo stesso tempo soggette alla trasformazione del tempo; esperienza della realtà che nuovamente si offre in tutta la sua caducità .
Infos: la mostra “Mondi dischiusi” è stata inaugurata il 28 ottobre alla galleria aA29 Project Room, Via Leonetti 29, Caserta. La mostra, a cura di Carla Benedetti, Federica de Stasio, Luigi Fusco resterà aperta fino al 25 novembre.
«Non ho bisogno che le persone capiscano,
voglio solo che non siano scortesi»
«”Le cose come sono” vogliono essere notate»
Certo la cosa fu ben più complessa, ma per me – così disattenta agli scioglimenti – tutto aveva avuto inizio quando “Ella”, a contrastare “l’impoverimento affettivo che si verificava in lui”, gli aveva inviato in dono una piantina di trifoglio, quasi che la vita di questa unità di misura dell’insignificante coincidesse con quella del loro amore, e “Lui” per un po’ l’aveva curata, la piantina, ben consapevole delle attenzioni e protezioni che una creatura tanto debole e mite reclama.
Poi però entrambi avevano deciso di “perderla in un vasto campo di trifogli”, perchè insopportabilmente simbolica, ormai: fu proprio allora che, di ritorno, “Lui” colse un’altra piantina, questa volta però scelta per il Dolore:
“E sembra che fu per quel che vedevo, per questa formulazione di tedio, di non senso delle cose, di non finalità, di tutto è lo stesso, dolore, piacere, crudeltà, bontà, che si fece strada in me il pensiero di diventare il torturatore di una piantina”, così da “ottenere il suicidio del Cosmo per la vergogna che nel suo seno prosperasse una scena così ripugnante e codarda”
Io invece, nel mio piccolo, quella mattina lo guardavo – assemblaggio imprevisto, apparizione onirica persino – come si vede il mondo la prima volta, e nella sua amabilità lui si offriva turgido della sua bellezza disparata: sei foglie, e non tre, come norma dispone, e per giunta ipertrofiche, e con un che di sanguigno ad orlarle. Secondo logica, un trifoglio mutante contagiato da un fungo – viceversa ai miei occhi un’esorbitanza, un’esuberanza di differenze non sconfitte, e cariche anche di tonalità affettive, sature di informazione.
Abitatore di confine, creatura dei crocicchi, monstrum di belle speranze proliferante inquietudine e vita, forte della sua tara il mio esafoglio aveva potuto scartare dall’abitudinario, esibendo il cambiamento:
“la mutazione presuppone la diversa lettura di un messaggio – un errore? -, come se il lettore, mancino, o il trascrittore, zoppo, avesse dato anche segni di strabismo”.
E’ logico dunque che in tempi andati sia stato un fabbro giustappunto strabico, nonché mancino (di quel di Tula), a riabilitare portentosamente l’onore degli artigiani russi agli occhi dello zar Nicola, quando questi si trovò in mano l’omaggio che il suo predecessore Alessandro aveva ricevuto in dono dagli inglesi: una pulce d’acciaio a grandezza naturale – custodita in una noce di brillante racchiusa in una tabacchiera d’oro contenuta in uno scrignetto di madreperla avvolto in un panno verde -, una pulce che, se opportunamente sollecitata da sette giri di una microscopica chiavetta, prendeva a saltare come si conviene. Solo lui, il fabbro strabico e mancino, poteva calzarne con scarpette d’oro le zampette pressochè invisibili, costruendone e ribattendone i chiodini tanto piccoli da dover essere osservati al microscopio… .
– Ora so cosa fare. Caricami, subito! Hai sentito o no, trasportami come un uccello!
– Dov’è che andiamo? – fece tristemente il diavolo.
– A Pietroburgo, dritti dalla zarina!, e il fabbro allibì dal terrore, sentendosi sollevare nell’aria.
Nikolaj Andreevič Rimskij-Korsakov
da La notte prima di Natale [1894-1895] Polonaise [Atto Terzo Scena III]
D’accordo che “le storie non hanno pretese di dimostrazione né di verità” , il fatto è che Vakula si riprende ben presto, tanto da divertirsi a canzonare il diavolo – che tra l’altro non fa che tossire e starnutire -, e a stupire qua e là uno stregone e varie streghe che come lui stanno volando per l’aria trasparente, salvo fermarsi a guardarlo, prima di ritornare alle loro faccende; e che, una volta toccata terra, e messosi il diavolo in tasca, si rivolge con linguaggio alato alla sovrana (dama alquanto pingue, incipriata e sorridente), lodandone i piedini di puro zucchero, e deliziandola con la sua richiesta; e che, infine, potrà tornare trionfante al villaggio con le scarpette d’oro della zarina, conquistando una buona volta il cuore della riottosa Oksana.
Esilio di qualunque tassonomia, di ogni razionalità surcigliosa, queste figure – figlie dell’iperbole – a mio parere invitano, impudenti, ad entrare nel regno dell’indecidibile, nell’oltrepassamento dei confini dell’appropriato.
“Fenditure e varchi via via aperti verso i possibili”
una cartografia azzardosa e in espansione
uno spartito di eventualità estensive
uno spazio poetico di scambi e di intaglio, fitto anche di cespi di dissennatezza.
In questa topografia dai margini incerti – dove gli ostacoli esistono solo per essere superati -, anche se lo ignora il mancino di Tula – che pure ha perfezionato nell’oro della sua opera il ben più vile acciaio della pulce -, può vantare impegnative ascendenze, e contiguità strabilianti: “nati nello stesso nido”, a fabbri e sciamani si riconosceva un tempo la padronanza di tecniche esoteriche e, in particolare ai primi, il “potere di guarire e perfino di predire l’avvenire” … Non solo: possedendo il dominio del fuoco, erano loro a forgiare gli ornamenti metallici essenziali per il costume rituale degli sciamani.
La forgia dunque, fortemente simbolica, assume anche un aspetto iniziatico, mentre la “magia dei metalli”, che come il fuoco dimorano nelle viscere della terra, mette potenzialmente i fabbri in contatto con le potenze demoniache, dando loro la reputazione di “temibili stregoni”…. e intanto lì, nascosti sotto il suolo, nella loro crescita lenta
“i metalli stessi desiderano ardentemente di ritornare allo stato superiore dal quale sono decaduti” ,
pronti perfino alla propria tortura e messa a morte, pur di “perfezionarsi” e trasformarsi in oro, il che equivale a dire l’elemento iniziatico dell’alchimia, oltre che il punto di incontro della fede di antichi metallurghi e alchimisti nel carattere vivo e sacro della materia, e nella possibilità di operare una sua trasmutazione, tramite il fuoco.
E se
“l’alchimia è l’arte del fuoco e gli alchimisti, come molti testi ripetono, sono ‘artisti del fuoco’” ,
l’incombustibilità degli sciamani rivela che essi hanno superato la condizione umana, che essi partecipano ormai della condizione degli spiriti.
Di più: come il linguaggio alchemico con le sue opposizioni tipiche da ricondurre a congiunzione, anche quello sciamanico si nutre di un pensiero dell’iperbole e del paradosso, di un’articolazione dalle conseguenze estreme.
Durante i rituali lo sciamano mette in gioco simultaneamente le sue diverse identità, ed è insieme guaritore e stregone, umano e divino, uomo e animale, e, grazie al processo di androginizzazione, maschio e femmina, per “giungere, attraverso mezzi concreti, fisiologici, a una totalità paradossale dell’essere umano” . A una sua trasmutazione.
L’androginia non è la ricerca del controllo del rapporto tra gli opposti, è semplicemente il procedere tra di essi: “non c’è bisogno di cavalcare la corrente, si può diventare la corrente” .
Dal canto suo – deragliando dai parametri della riconoscibilità, sfuggendo al principio di non contraddizione e alla coercizione degli opposti -, nel suo sporgersi dal mito tra di noi “l’androgino lascia che la vita sia non intenzionale, che le cose accadano” :
“Non sono un maschio, pensavo di esserlo perchè non sono interamente una femmina”
“Non sono un maschio o una femmina. Sono non binario, sono nel mezzo”
“Dunque non sei nessuno dei due?”
“Non credo. Io sono entrambi”
Alessandro Leogrande, La frontiera, Feltrinelli, 2015, 316 pagine
Semplificando all’estremo la letteratura italiana sembra in questi anni polarizzata fra il mainstream del romanzo borghese da una parte e l’universo del “genere” dall’altra, indipendentemente dalla (alta o bassa) qualità espressa. Anche per questo libri d’altra natura, come quello di Alessandro Leogrande, riescono a portare un po’ di bibliodiversità all’asfittico paesaggio letterario nazionale.
La frontiera punta tutto sul suo valore testimoniale. Ci racconta di quel cambiamento, non solo storico ma addirittura epocale, che stiamo attraversando, senza che lo si stia intuendo per davvero. A leggerlo si comprende come non potrà mai esistere alcuna frontiera artificiale che possa bloccare al di fuori una specie, quello umana – indifferentemente dalle etnie e dalle culture – che cerca una emancipazione dalla guerra o dalla fame.
Nessuna tesi buonista, solo una presa d’atto da parte dell’autore che ha deciso di raccontarci questo esodo non attraverso cifre o statistiche, ma con la voce delle persone – afgane, eritree, curde – che ha incontrato strada facendo e che gli hanno confessato le loro tragiche e assurde traversie.
Ma Leogrande guarda anche alle reazioni delle classi sociali più povere dei paesi che stanno vivendo questa “accoglienza forzata”, consapevole di come il mutamento provochi tensioni sociali e rigurgiti razzisti. Da che parte si ponga l’autore è evidente, alla sua scrittura manca l’asetticità del saggio sociologico. La partecipazione emotiva è esplicita, persino il senso di frustrazione del suo ruolo di “semplice” testimone.
D’altronde, al di là della resa letteraria, quello che conta è come questi libri riescano a farci ragionare fuori dalle urla e dalle banalizzazioni televisive su un tema, quello dell’emigrazione, che o sapremo governare con intelligenza o che ci travolgerà tutti. E il primo passo sta nel non perdere l’umanità. Di chi arriva e di chi accoglie.
(pubblicato su Cooperazione, numero 52, del 21 dicembre 2015)
Buoni propositi
Fare di tutto per non scrivere un libro.
Fascino e repulsione
Gli autori estremamente prolifici, come quelli estremamente parchi, affascinano e respingono: nei primi si sospetta il poco nel molto e nei secondi il molto nel poco. Ma dei primi basta leggere poco per indovinare molto e dei secondi bisogna leggere tutto per indovinare quello che manca.
Il mistero della scrittura
Quando si scrive è necessario sentirsi unici, quando si legge è bello sentirsi affini.
«Andate, ma non lo troverete. Un palazzo a due piani, un lungo balcone, una saracinesca. Sembra una casa privata: lo è. Forse solo il numero civico è lo stesso».
No, in via Spallanzani, a Tricase, neanche il civico è sopravvissuto alla stagione del Tam Tam. Era il 13, ora è il 33. La nostra spedizione a ritroso lungo la storia vertebrale di un decennio si avviluppa su se stessa in giri a vuoto. In via Spallanzani, a Tricase, il silenzio più certo avvolge la notte. Agglomerati ben piantati in terra riposano di un sonno domestico, pesante, nella tranquillità del paese, nella periferia della notte.
Arriviamo in quarta con la radio accesa, due birre chiuse e l’illusione che le nostre presenze da sole bastino a riattivare la storia. Al numero 13 c’è una villetta con una graziosa buca delle lettere. Dal palazzo di fronte di avvicina un uomo, pare esser sceso per gettare la spazzatura. «Il Tam Tam? Non è qua, deve essere quell’altro, sulla strada principale. Un locale di balere, non è così?».
È sabato notte, il 30 luglio 2016, e in via Spallanzani non è rimasta neppure la memoria dei ragazzi dell”86. Restiamo disarmati con le nostre birre e le nostre attese fuori luogo. Solo ora mi rendo conto di aver scelto un vestito inutile all’inchiesta, buono invece per non si sa quale sabato sera. Ripercorriamo come ciechi il subbuglio di anni e numeri civici. Al 33 troviamo la saracinesca, il balcone, e pareti che sembrano rosa alla luce dei lampioni. È lui – tristemente, è lui.
Tricase- foto di Daniele Coricciati
Al tempo del Tam Tam, così si dice, l’uscita di sicurezza valeva più della porta d’ingresso. Qui pagavi il biglietto per salire a bordo del tour, lì te lo giocavi offrendo una sigaretta a Massimo Urbani, a Steve Lacy, agli altri alieni finiti da queste parti. Appena girato l’angolo lo vediamo, il nostro star gate in Anticorodal. Impolverato, la maniglia traboccante di depliant arancioni che chiariscono la nuova agenda: prosciutti, asciugatutto, pacchi famiglia di pasta Divella. Buoni, da soli – come se l’ingresso non bastasse – a raccontare la storia di un disfacimento, una lunga notte scintillante in dismissione. Una resa.
Dall’ultimo sabato al Tam Tam, sono trascorsi venticinque anni.
I weekend in discoteca sono stati un’invenzione degli anni ottanta, sosteneva Pier. E con questo termometro tarato su neon e fari e migliaia di corpi impegnati nella memorabile impresa del proprio storytelling, gli anni Ottanta andò a cercarli anche nel Salento. E li trovò.
A Tricase, a Casarano, la stagione d’oro delle scarpe era iniziata da un decennio. Piccole fabbriche nascono, in pochi anni avranno mille, duemila operai. In settimana si taglia e si cuce, il sabato sera è degli anni Ottanta. Con la macchina di famiglia in prestito – che tanto madri e padri non escono di certo – ci si sposta come falene, dove c’è luce. Il Capo è un unico tessuto reagente. Una farfalla sbatte le ali a Maglie, l’uragano arriva a Leuca, a Parabita, a Scorrano. E poi, chi invece di lavorare ha trascorso gli ultimi cinque anni a capire che cos’è la vita a Firenze, a Padova, e a Bologna nel tempo di un weekend, ha voglia di tornare. Eccolo qui, il gruppo di Carmine Zocco.
«Si poteva fare qualcosa. C’era questo locale dismesso, noi lo prendiamo e lo trasformiamo del tutto. Una cabina di regia fissa, un baretto di fronte, un palco con un fondale che fa da maxi schermo. In tv avevamo visto Mister Fantasy di Carlo Massarini, e la cosa ci aveva impressionato. Il palco lo puoi smontare e toh, si trasforma in una passerella, la pista da ballo, con qualche decina di tavolini, diventa una music hall. Eccolo, il Tam Tam. Tutto partì così, pezzo dopo pezzo, in maniera rudimentale».
“Bologna rock dalle cantine all’asfalto” era il titolo di una rassegna nata sulla scia del ’77, capace di richiamare all’appello l’intero firmamento del garage punk. Quando, nell”86, in via Spallanzani si diede corrente agli amplificatori e almeno tre isolati di famiglie intorno ebbero cognizione che la quiete domestica era finita, quella stagione si chiamò “Onde rock”, «che era come portarsi dietro un po’ di Bologna, come dire On the road, con questi gruppi che venivano fuori dal reggae, da rivisitazioni rockabilly, dal garage rock. On the road, o se vuoi On the rock».
Tricase – Daniele Coricciati
Ma fu quando arrivò l’onda del jazz, che iniziò la stagione del mito.
«Riuscimmo a entrare nel circuito che passava da Reggio Calabria e da Bari, dove c’erano i locali che contavano. Chi suonava lì, finiva da noi per ammortizzare i costi. Una fortuna. Da queste parti non c’era stato nulla di simile fino ad allora. Il nome cominciò a girare, arrivò gente anche da Brindisi, da Taranto, qualche volta da Bari se l’ospite era autorevole. La rassegna fu seguita dai giornali, Toni Robertini scrisse un bellissimo articolo per il Quotidiano di Lecce – chissà dov’è. E soprattutto, ne scrisse Pier Vittorio Tondelli».
Al telefono, mentre tengo ancora lo sguardo fisso sulla saracinesca di via Spallanzani, Carmine Zocco fa una pausa.
«Avevo letto Altri libertini all’Università. Facevo il militare mentre usciva Pao Pao, le nostre vite sembravano andare avanti in contemporanea. Poi una sera me lo ritrovo lì con Toni e qualcun altro. Domande ne fece, ma avevo l’impressione che gli interessasse soprattutto raccogliere suggestioni. Aspettai l’articolo, presi l’Espresso appena uscì. Era una piccola consacrazione. Avevamo aperto quello stesso anno, in inverno».
Il resto, è storia. Massimo Urbani, Steve Lacy, Lee Konitz, Paolo Fresu, Kassandra Wilson. Persino Chet Baker arrivò al Tam Tam.
Ma la cosa più stupefacente accadde fuori, tornati a casa, finito il weekend. La domenica mattina, il lunedì, persino il venerdì sera fino a notte, il tema divenne lo stesso. Si faceva a gara per procurarsi i vinili, qualcuno iniziò a strimpellare un paio di standard, poi si prese il coraggio del palco. Prima di allora, sorride Carmine Zocco, a Tricase non c’era nessuno che suonasse jazz.
«Ed eccoci qui. Nel ’92 siamo stati sfrattati. Io mi convinco a fare il concorso, inizio a insegnare filosofia. Poi divento anche assessore alla Cultura. Il Tam Tam, invece, diventa un garage».
Tricase- Daniele Coricciati
In via Spallanzani è ormai notte fonda, quando rientriamo in macchina. La telefonata è finita, la nostra notte invece continua. Il 30 luglio a Marina Serra, Tricase, per il terzo anno il Locomotive jazz festival approda qui.
L’aria è turchese e liquida, come uno specchio d’acqua, quando mi sporgo dal muretto che separa la strada dallo strapiombo di roccia. Sulla scogliera, ai piedi del palco, mi sembra di scorgere una migrazione di minuscoli granchi. Teli, birre medie, ciabatte, zampette che si affannano a trovare una concherella in cui annidarsi. Altri, vestiti ancora per il sabato sera, traballano sui tacchi, si accovacciano. Migliaia. Una teoria infinita di segni scintillanti, mentre Raffaele Casarano chiude l’ultimo giro di sax.
«Vedi ciò che conosci», riflette Daniele Coricciati, un secondo prima di scattare. E io riconosco loro, i ragazzi dell”86. Come esplosi dalla storia, portati qui in risacca, granchietti sulla spuma degli anni.
All’ex Tam Tam, accanto all’uscita di sicurezza ingozzata dai volantini, c’è un altro ingresso. Due gradini che danno su un’enorme superficie bianca, nessuna porta. Eravamo rimasti a lungo a fissarla, prima di andarcene. Immobili, nel silenzio della notte, a interrogarci se fosse possibile per gli anni passati migrare lì, a diecimila giorni di distanza, nell’immensa platea di un concerto jazz su una scogliera, all’alba.
Citazioni
P.V. TONDELLI, Il weekend postmoderno, «Uomo Harper’s Bazaar», n. 69, maggio-giugno 1991, ora in Opere. Cronache, saggi, conversazioni a cura di F. PANZERI, Milano, Bompiani, 2001, pp. 619-622.
Il 19 agosto 2005 ero appena entrato in Nazione Indiana e non sapevo ancora bene, io, un fisico piombato in un mondo di letterati e poeti, cosa avrei potuto e saputo fare, ovvero pubblicare. Ma in quei giorni del luglio avevo appena conosciuto la poesia di Jolanda Insana e ne ero entusiasta, come del resto rimango tuttora, così che per tutto l’agosto pubblicai suoi testi, il primo qui.
Jolanda Insana (Messina 1937) ci ha lasciati il 27 ottobre scorso.
Per cui ripubblico qui con grande dolore la prima poesia (che dà il titolo a questo post) che avevo allora pubblicato, e poi un’altra di vari anni dopo. Notizie sulla poetessa si possono trovare qui e più diffusamente qui, ma il meglio è ovviamente leggere le sue varie raccolte.
1
non dovea pigliare latte
ma restare con la bocca secca
avvoltolata in spine santare
2
m’avventai con la zapponella
per farti glinglòn
ma eri della cosca
e io finii coglibosca
3
nericata e smorfiosa
rùmmicarùmmica
continua camorrìa
sarà un modo nuovo di fare
poesia
4
malanova pigli e quagli il sangue
all’orba d’una minchiona
che chiamata in aiuto
apri gli occhi e m’atterri
5
culoperciato
ho la legna a malo
passo
e il fiato grosso
6
per non dare sazio a quella rompina
rompigliona rompiculo d’una morte
la vita se ne va
con gli occhi aperti
7
che scanto
quando la minchiababba e babbannacchia
ci prende per stanchezza con il fiato di fuori
8
faccia di sticchiozuccheràto
non aspettarti gioie
da minchiapassoluta
[da Sciarra amara, nell’antologia di poeti Guanda 1977]
L’offerta
la smania di dire i mesi e i giorni
quando la macchia è più odorosa e annoda le parole
e poi è la casa dello scontro dove disfatto il nodo
tre volte sigillato resta il nome
nell’offerta del sonno e del sorriso
ma la mano getta sale e spezzando l’incanto
spezza la schiena
e così scopro che i ruscelli vanno dov’è
il loro cammino
davanti a sé
e non contenta acchiappo il primo piccone che trovo
per segnare la traccia del letto e però sbaglio
e scavo una cateratta
dove saltare o non saltare è questione di acqua
attratta dal suo fuoco tambura e ramazza
nel varco costruito togliendo
attiva l’aria bianca e nel poco rampollare
gran piacere sentono le piante e a ogni animale
chiedono conto del loro sangue e della vita
per non lasciarsi né sfasciare né sfaldellare
dove potrebbe tramontare la luna
se non ci fossero montagne
e non ci fossi tu a credere che le montagne esistono
perché la luna possa tramontare
dopo il turbamento dell’alveare
si sbarazza della spoglia e ridiventa giovane
l’anima prima gelata e rannicchiata
e non è per meraviglia di un momento
che pernotta in orazione
per banchettare alle mense del sole
ho abbandonato il nero nadìr e l’insulto
e fattami una nella mano e nel cuore
ho perso la doppia vista
il meglio che ho perduto fu la lama del coltello
soperchiata per lusinga più che per minaccia
e incontro a sì bella sorte
uscita da una via oscura e addormentata
vado a cogliere anemoni azzurri in buone terre
leggere e non sassose
dimenticando la lama e ogni ferimento
poiché non c’è nessuna colpa nella raccolta
disse una parola
e ne fui bruciata
perché non c’è nulla di nascosto e tutto è rivelato
[da Medicina carnale, Il Nuovo Specchio Mondadori, 1994]
Segnalo l’uscita dell’antologia in lingua inglese Italian contemporary poets, a cura di Franco Buffoni. L’opera si rivolge a chi è interessato alla cultura italiana ma non conosce la lingua. Concepita per gli Istituti Italiani di Cultura, le Ambasciate, i Consolati, le Fiere del libro, è la prima antologia di poesia italiana redatta esclusivamente in lingua inglese. 40 autori ciascuno con 4 testi ben tradotti e nota bio. L’antologia si può scaricare e leggere qui.