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Brutti, sporchi e cattivi

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di

Attilio Del Giudice

( Da: “Epistolario povero”)

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opera dell’autore

Addì 24 Dicembre 1966

Cara madre io sto bene come spero di voi. A Darmstadt fa molto freddo e la mattina che è notte sull’impalcatura le mani si fanno di ghiaccio. La paga ce la danno domani che è Natale e ci danno pure una fetta di torta che fanno qua e un pezzo di cioccolata. Nicola Cardone, che è il capogruppo nel mio capannone per fare un omaggio ai padroni dopo la messa che si fa stesso nel capannone canta una canzone napoletana. Io ci ho consigliato quella che cantavi pure tu quando ero piccolo cioè Vierno che friddo into a stu core che a me mi veniva da piangere però Cardone vuole cantare fatt fa fatt fà fatt fotografà. Ti mando 18 mila lire per Ninuccio che ci compri il cappotto e le scarpe, che però deve studiare ce lo devi dire se no fa la fine mia che si deve faticare assai assai pure se c’è il vento di tramontana che sopra i pontili dell’impalcatura si sente brutto e nessuno parla per non fare entrare l’aria gelata nei polmoni. Cara madre, ho conosciuto una ragazza di qua che dice che se mi lavo bene sono bello. Però non sono sicuro che ha detto questo perché parla il tedesco che io non tanto. Però pure che non l’ha detto io domani che è Natale mi faccio il bagno col sapone tedesco che addora di cannella.

Un abbraccio a tutti voi e auguri per il Santo Natale dal Vostro figlio Rafele Aversano di Carmela Monaco e fu Ciro Aversano

 

Contropiano dalle cucine. Vite precarie

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femmes

di Deborah Ardili

segue da qui

Seguendo le traiettorie contemporanee che esplicitamente si richiamano all’esperienza iniziata quarant’anni fa, è facile arrivare alla conclusione che la questione della «cura» rappresenti l’eredità viva del patrimonio di idee che le femministe del salario rubricavano, per le ragioni sopra indicate, alla voce più ruvida di «lavoro domestico». Smorzata la carica antagonista degli anni Settanta e caduta la richiesta di salario senza contropartita, intorno alla «cura» si annodano oggi fili di ragionamento portati a sottolineare il «doppio carattere» del lavoro riproduttivo, individuandovi potenzialità di autovalorizzazione alternative alla logica di mercato. Anziché seguire questa linea, ed entrare nel merito delle analisi e proposte che vi si associano, vorrei tentare una deviazione. La prima tappa del percorso che propongo prevede un salto di vent’anni rispetto al periodo considerato finora e porta ad Amherst, Massachussets. È qui che, nel dicembre del 1996, nel corso di un colloquio sponsorizzato dalla rivista Rethinking Marxism, un’«esponente tardiva della seconda ondata» pronuncia un discorso dato alle stampe, l’anno successivo, con il titolo di Merely Cultural [Butler 1997].

«Meramente culturali»: il titolo dell’intervento riproduceva — citandolo ironicamente ― il capo d’accusa fatto pendere dalla sinistra ortodossa (si suppone ben rappresentata nella sala della conferenza) su movimenti che, nel frattempo, avevano visto ampliarsi lo spettro dei soggetti impegnati nella politica sessuale fino a includervi, oltre alle femministe, lesbiche, gay, transgender e intersessuali. Gli effetti di ingiustizia sociale riferibili all’incidenza del privilegio eterosessuale, evidentemente, non bastavano a indurre gli ortodossi a rivedere il pregiudizio portato a identificare nella new gender politics l’arma di distrazione di massa capace di distogliere l’attenzione dalle condizioni materiali di vita dei gruppi subalterni. Il pregiudizio in questione, come si è visto, aveva una storia alle spalle a cui poter attingere per aggiornare il proprio repertorio argomentativo. La teoria chiamata a sorreggerlo si basava, a propria volta, sul ricorso a una distinzione tra struttura economica e sovrastruttura ideologica talmente rigida da non poter far altro che alimentare i processi di scomposizione imputati al settarismo dei nuovi attori sociali.

A prendere la parola per chiedere ai puristi della lotta di classe se avessero mai seriamente esaminato le ragioni storiche che hanno determinato la nascita dei movimenti sociali così duramente criticati era — chiaramente è di lei che sto parlando — Judith Butler. Al suo attivo si contavano, in quel momento, i saggi che hanno gettato le basi della concezione performativa del genere come componente attiva della teoria queer e, a questi complanare, una partecipazione al dibattito femminista motivata dalla necessità di problematizzare la presunta evidenza ontologica della categoria «donna» in un contesto di critica alla politica della rappresentanza. La partita si giocava contemporaneamente, in questo modo, su due tavoli: da una parte, contro una frazione della sinistra ancora incapace di accorgersi che la regolazione sociale del sesso è sistematicamente legata al modo di produzione che fa funzionare l’economia politica. Dall’altra, contro aree del femminismo pervase da assunti eteronormativi portati non solo a istituire nuove forme di esclusione e gerarchizzazione, ma a precludersi completamente la comprensione del significato sociale della new gender politics.

Mi sembra importante soffermarsi su questo contributo, tardivamente tradotto in italiano, almeno per due ragioni. La prima: è significativo che una filosofa nota per aver mutuato una parte consistente della propria strumentazione concettuale dal post-strutturalismo francese, e spesso accusata di aver disertato il campo della materialità corporea precisamente per effetto di quell’apporto teorico, attinga in maniera tanto vistosa alla lezione femminista dei decenni precedenti per replicare ai fustigatori del «meramente culturale». È in effetti questo lo scritto che, in maniera più esplicita di altri, sembra dar compiutamente ragione dell’intenzione programmatica affidata alla prefazione di Gender Trouble:

Questioni di genere è stato anche un lavoro di traduzione culturale. Ho applicato la teoria strutturalista alle teorie statunitensi relative al genere e alle implicazioni politiche del femminismo. Se, in alcune versioni, il post-strutturalismo sembra essere un formalismo, lontano da questioni relative al contesto sociale e da finalità politiche, non così è stato per le recenti rielaborazioni nordamericane. In effetti quello che mi stava a cuore non era «applicare» il post-strutturalismo al femminismo, ma sottoporre quelle teorie a una specifica rielaborazione femminista [Butler 1990: VII].

Difficile non accorgersi, avendo Merely Cultural sotto gli occhi, che la «specificità femminista» di questo lavoro di traduzione va riferita allo sforzo di collocarlo al livello strategico della riproduzione sociale. Chiedersi per quale motivo «un movimento impegnato a criticare e a trasformare i modi in cui la sessualità è regolata socialmente non debba essere considerato centrale per il funzionamento dell’economia politica» e, contestualmente, ribadire che la produzione del genere deve essere intesa come parte del modo di produzione dell’umanità stessa secondo le norme che riproducono la famiglia eterosessuale, equivale a intercettare un aspetto importante del discorso che ho provato a ricostruire nei paragrafi precedenti. Significa assegnare un fondamento materiale alla genealogia che indaga la posta politica in gioco quando vengono designate come origine e causa quelle categorie identitarie che in realtà sono effetti di istituzioni, pratiche, discorsi. È in questo modo che la filosofa può ricordare tanto ai fustigatori del «meramente culturale» quanto ai cultori del «puramente identitario» che le lotte per trasformare il campo sociale della sessualità acquistano importanza economico-politica non soltanto perché possono essere direttamente collegate alla questione dello sfruttamento e del lavoro non pagato, ma anche perché non si lasciano nemmeno decifrare senza includere nella comprensione della sfera economica tanto la riproduzione di merci quanto la riproduzione sociale di persone. Ne discende che la marginalizzazione o il disciplinamento di sessualità non conformi rispetto alla norma egemone non possono essere trattate soltanto come questioni di mancanza di riconoscimento culturale, affrontabili tramite un risarcimento simbolico. Il fatto ― sottolinea Butler — è che la mancanza di riconoscimento culturale non può essere concepita, nemmeno analiticamente, senza tener conto dei suoi effetti di oppressione materiale.

Si potrà certo obiettare che non sono poi moltissimi, nell’opera di Judith Butler, i luoghi espressamente dedicati alla questione del lavoro riproduttivo gratuito. Eppure non è possibile minimizzare il rilievo teorico e politico di questi passaggi. Un’osservazione importante si trova per esempio in Che fine ha fatto lo Stato-nazione?, nel contesto di un ragionamento che prende polemicamente di mira la sopracitata Hannah Arendt per avere avvallato una nozione di politica pregiudicata, a giudizio di Butler, dall’oblio della sfera economica riproduttiva. Con quali conseguenze?

Questi umani spettrali privati di peso ontologico ― che non superano la prova di intelligibilità sociale richiesta per un riconoscimento minimo ― includono coloro che per età, gender, razza, nazionalità e status non solo sono squalificati per la cittadinanza ma sono attivamente “qualificati” per essere senza-stato. Quest’ultima nozione può ben essere significante, dal momento che coloro che sono senza-stato non sono semplicemente spogliati di status; è stato accordato loro uno status e sono preparati per il proprio spossessamento e dislocamento; diventano senza-stato proprio perché soddisfano certe categorie normative. In quanto tali, costoro vengono prodotti come senza-stato nello stesso momento in cui vengono gettati a mare dalle modalità giuridiche dell’appartenenza. Questo è un modo per capire come sia possibile essere senza-stato all’interno dello stato, come appare chiaro per coloro che vengono incarcerati, resi schiavi o che risiedono e lavorano illegalmente. In maniere differenti sono contenuti, significativamente, all’interno della polis come il suo esterno interiorizzato. La descrizione di Arendt ne La condizione umana lascia senza critica questa particolare economia in cui il pubblico (e la sfera propria della politica) dipende essenzialmente dal non-politico o, piuttosto, da ciò che è esplicitamente depoliticizzato; suggerisce che solo attraverso il ricorso a un’altra struttura di potere noi possiamo sperare di descrivere l’ingiustizia economica e gli spossessamenti dai quali dipende il sistema ufficiale della politica, che riproduce di continuo come parte dei suoi sforzi di autodefinizione nazionale [Butler, Spivak 2007: 38-39].

Non è difficile riconoscere nei «senza stato» di Judith Butler un’eco dei «senza potere» e dei «senza salario» di cui parlavano negli anni Settanta le femministe. Tanto più che sono proprio considerazioni come queste — e vengo alla seconda ragione per cui è importante tener conto delle precisazioni contenute in Merely Cultural — che hanno permesso alla femminista statunitense di collegare in maniera originale la questione di genere a quella, più ampia, della vita precaria e indegna di lutto, trattenuta nella penombra della vita pubblica e ai margini dell’intelligibilità sociale. «Il motivo per cui qualcuno non sarà pianto o è già stato giudicato indegno di lutto» scrive Butler «sta nel fatto che non esiste una struttura di supporto per quella vita. Questo implica che essa, secondo gli schemi dominanti di valore, è svalutata e non considerata degna di sostegno e protezione» [Butler 2012: 21-22]. Muove da qui l’esigenza butleriana di ripensare il politico a partire dalle condizioni precontrattuali, mai espressamente stipulate, della relazione sociale: che cosa c’è dietro la svalorizzazione e la distribuzione differenziale della precarietà? Quali operazioni consentono di cancellare il retroscena della politica e quali invece consentono di convertirlo nel suo oggetto esplicito? Che cosa espone allo sfruttamento la condizione di vulnerabilità e di dipendenza da cui è impossibile evadere una volta per tutte? Come controllare i fattori sociali che consentono di condurre una vita che possa essere vissuta? Sono queste le domande poste con maggiore urgenza dalla filosofa statunitense [Butler 2004b; 2009; 2013]. Dopo quarant’anni, per le femministe forse è arrivato il momento di ripensarci: tenendo a mente di avere una storia alle spalle.

vendemmia

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La legge del buio

1

di Francesca Canobbio

I PARTE

La legge del buio non è dettata da notte alcuna.
Il riposo non è paura degli occhi,
ma spesso la vista è così vasta che il buio vince la notte.
Ecco che l’eco di una o più voci, un ritornello che ritorna
richiama alla memoria quel tanto di nero che ebbero le pupille
sganciate dagli occhi, senza colore, o, se si vuole
temporale d’iride, tutte le iridi non fanno una pupilla
quando il riflesso è solo nel vetro di un quadro,
sia esso l’universo di un pavone come un poeta
che stacca una piuma a favore dello sguardo animale
che soprassiede ogni cosa che siamo
ed il primitivo nero si fa percossa agli sguardi
e non posso dirmi cieca
se leggo fra le righe del tempo
ciò che sono stata, ciò che sono,
quando arriva ciò che sarò
nella tempesta delle statue che portano i copioni
a svolgersi come deve svolgersi un copione
anche dietro ai cori più alti, non sarà che commedia
una cosa ridicola, sempre più imbarazzante per quanto semplice
nel proprio orrore perpetuandosi.
Dite a colui che mi ha scritta che ogni verso si ripiega
e torna.
Dite che le lettere non trovano più spazio nel foglio:
è caduto l’inchiostro sulla parola “Amore”.
Non c’è copista che mi legga intera
sin da quando sono venuta alla Luce
ci sono bozze e brogliacci da recitare a braccio
ed ecco che io perdo la tua mano.
Li ho visti sulle scale a bestemmiare su tornei
di lancia, a tirarmi i dadi dell’esistere,
fino a moltiplicarmi i punti sui dadi affinché non avessi pace.
Le finestre parlano chiaro.
Le finestre parlano scuro.
Se mi ritiro per un giorno di dadi forse non cadrà nessun punto.
Se la macchia sul foglio ha consumato ogni favola, non ha cancellato la leggenda.

***

II PARTE

Ci sono occhi che riparano occhi.
Buchi neri come di pupilla che attraversano ogni superficie
senza copiare felicità, versano la moneta degli occhi
come vogliono le mosche agli astanti
per lasciarti solo nel vitreo
dell’occhio di bue
se la luce è ancora amica
di qualche proscenio
se hai ancora la tua parte di buio da colorare
con un cono da parentesi teatrale,
prima che ogni buca parli
la lingua di ogni buca
sgretolando i fossi dalle croci trapiantate nelle corde
della memoria, nel sovrasuolo parlante che odi nelle feste dei morti
che sono i nostri secondi e terzi nomi
che sono i nostri secondini a noi antecessori
stretti nei palmi non più i visi, ma le voci
nella balera che sovrasta la camera
ed ancora non puoi salire
a nessuno scatto è data l’apertura di una porta
sulle terrazze di coloro che furono i vicini.
Ma chi di scala perisce di scala ferisce
innalzando il tuo essere all’epopea dei superstiti
vai sganciando gli occhi da Euridice
ad ogni quasi notte della tua vita.
E’ la legge del buio
specchiarsi negli spettri di ciò che non siamo
abitare tutta la galleria di un museo
senza conoscerne il pittore.
Solo il nero fra le mani
fra mille soli neri fra le pagine
con la medesima successione di numeri irrevocabili
voto d’altri tempi
per il miracolo della vita
ad ogni immagine e somiglianza
d’occhio e croce

***

III PARTE

Sagoma di un soggetto smarrito nei ritagli di un teatro
maschera che non maschera
l’opera della platea
di cui ogni viso è il tuo viso nell’arena della battaglia
dove sgorgano furenti le urla e di baccano invidioso,
si perde la vista nell’occhio del ciclone, ad ogni palco
che rifugge la grazia di un sonno ombroso,
quando Domino domina la scena e l’occhio è tutto
tutto ciò che si può tradurre in originale ed in origine
poi cosa non è
se non buio
sin dal principio,
cuore nero trafitto di pallidi strali di sole
ricadente nel letto di Notte
narcisistico amante di etoile
stella cadente dal primo respiro
autodesiderante
che l’emisfero su cui poggia
ricolmi un secondo emisfero
piedistallo o colonna
di un nuovo Mondo
nato da un buio capovolto
in Pace.
Prestami la pace, come la luna si presta al buio
e come essa nasconde ogni stella diurna
riposami il respiro quando esso finirà
di consumarmi la vita.

***

IV PARTE

Come ringraziare la legge del buio se il buio mi legge?
Diremo che al buio io sono una presenza, un fantasma.
Il buio è più luminoso della luce del sole,
per quanto siano sole tutte le presenze che distano più dal
Sole che dal Buio.
E’ questione di statistica.
Siamo i figli del buio e ci brillano gli occhi, al Pensiero.
Nel buio il pensiero è fantasia, inesauribile.
Nella fantasia il buio si colora di ricami di originale fantasia.
Nei miei occhi brillano le stelle che cadranno al buio.
Il buio mi legge quando sto per cadere.
Basterebbe una spinta e giù,
perderei ogni luce che abita i miei occhi scavati nel grembo buio
di ogni madre,
che mi precede nel buio e che nel buio trova rifugio.
Chi fotografa il buio una volta
lo porta nel cuore per sempre.
Il buio mi morde, ma il buio mi dona.
Mi dona alla luce che non mi morde come il buio,
ma che mi scava una porta per rifugio.
Siamo i profughi del buio, alla luce, e combattiamo la nostra guerra
da illuminati, se conosciamo la legge del morso del buio.
Ho un capo buio addosso, quando mi parla l’Amore
Ho una corona di stelle sul capo del buio quando sono Amore.
Se spengo la luce sono certa di ritornare alla luce,
attraverso il buio.
Attraverso buio.
Sono di buio se tu mi leggi la notte in pieno giorno
ed io mi accendo di fuoco vivo per cibarci,
Mangiastelle, occhi grandi,
pupille.

Vir y One

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di Eugenio Lucrezi

 

Te, qui pontifex es, do al tuo Signore. Vado dai tuoi vicari, y sin embargo… non mi trattengo dal dirti la mia cosa. In principio era il verbo, è stato scritto a inizio del gran book; e dunque, pater sancte, il Grande One è una Grande Parola, una sequenza di segnali, di simboli, che decodificata, e tradotta di poi, è già miracolo en la palabra detta e nell’aminoacido, e presto, poi, per successive aggregazioni di semplici unità, nell’inrearsi in entità più vaste chiamate frasi, dette proteine, poemi, speechs and tales, cuerpos y membra.

22 dicembre 2015: silvia tripodi al teatroinscatola, blitzvorlesungen / gammm

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2006—2016

BLITZVORLESUNGEN PER I PRIMI DIECI (e i prossimi cento) ANNI DI

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GAMMM

BLITZVORLESUNGEN letture lampo  _  in un numero imprecisato di date

PRIMA DATA :

martedì 22 dicembre, h. 21:00

Teatroinscatola
Roma, Lungotevere degli Artigiani 12-14 (qui)

Silvia Tripodi

presenta l’ebook

L’architettura è piena di problemi ed è anche gratuita

(cfr. qui)

Con la partecipazione di

Luca Venitucci

Allmenn e le dalie

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Martin_Suter

di Gianni Biondillo

Martin Suter, Allmenn e le dalie, Sellerio, 2015, 215 pagine, traduzione di Emanuela Cervini

Credere che in un albergo ci si stia lo stretto tempo necessario significa non conoscere lo Schlosshotel, grande albergo svizzero un po’ in decadenza, dove, oltre ai fruitori di passaggio, è normale designare la propria residenza e viverci anche per molti e molti anni. Fra i clienti affezionatissimi c’è anche Dalia Gutbauer, una quasi centenaria arcigna ereditiera di una fortuna immensa che in gioventù ha vissuto nel jet set internazionale e che negli ultimi decenni del secolo scorso ha deciso di ritirarsi a vita privata. In un albergo, giustappunto, dove vive in una suite del quarto piano col suo seguito di servitù e assistenti personali.

E proprio nel suo appartamento scompare un dipinto di Fantin-Latour, una natura morta ritraente un vaso di Dalie, dipinto che vale una fortuna immensa e che la milionaria vuole ritrovare non per il suo valore materiale, ma per quello affettivo. Le fu donato in onore al suo nome, mezzo secolo addietro, da un ladro spasimante.

A cercarlo ci penserà Johann Friedrich von Allmen, esperto in ritrovamenti di opere d’arte. Lavoro che Almenn s’è in un certo senso inventato per evitare di lavorare per davvero. Mestiere che riesce a fare persino bene, grazie all’aiuto di due improbabili assistenti, il guatemalteco Carlos e la colombiana Maria, entrambi clandestini in terra elvetica.

Allmenn e le dalie, di Martin Suter, è una specie di delitto a scatola chiusa sui generis, manchevole delle morbosità e della violenza dei romanzi di genere di questi anni. Suter, anzi, insiste nei dialoghi a ripristinare una lingua elegante, quasi retrò. Il motore autentico del romanzo però non è la semplice descrizione di un mondo altolocato. È la dimostrazione che siamo tutti schiavi, più che del denaro, di chi il denaro lo possiede. Possedendoci.

(pubblicato su Cooperazione, numero 13 del 24 marzo 2015)

Giovanna Marmo, Oltre i titoli di coda, Aragno 2015

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di Paola Nasti

Cosa si cela/rivela oltre le palpebre? oltre la cortina chiusa/aperta dell’occhio? questa domanda potrebbe essere una delle chiavi d’accesso per questa raccolta di poesia. L’occhio, del resto, era già parte costitutiva, fin dal titolo, di un precedente libro di Giovanna Marmo. La recente silloge, edita da Aragno, porta il nome di Oltre i titoli di coda. E’ una raccolta costituita da tre sezioni molto differenti, ad un primo sguardo; ma molto coese; quasi una narrazione. Paradossalmente, proprio dove più forte è la spinta che dissolve il tessuto narrativo e lo frammenta in lacerti di immagine – spesso, in questo caso, sanguinolenti – è più forte l’avvertimento di un respiro che tiene insieme le parti, quasi come un organismo. Forse non vivente.
Al di là delle palpebre è la prima sezione. Parla di due cose: forze elementari e spettri. Cosa connette un terrificante spettro con la nuvola, il sole, il cielo, l’oceano? la visione, la visione soprattutto dei bambini e dei selvaggi. Un modo di essere al mondo popolato dalle angosce più profonde ed ancestrali. Dove l’occhio è perfetto, ma la mente disarticola la visione, la infetta di schemi sbagliati (non ti do colpa, occhio,/ di questo difetto della mente). Lo sguardo di primitivi e bambini è uno sguardo in-fans, che non parla, che non può dire; ed è per questo sopraffatto dal terrore. Lo stesso terrore dell’animale. Le prime poesie della raccolta quasi disegnano un paesaggio preistorico, in cui passeggia l’animale/bambino/poeta, con gli occhi sbarrati. Cosa terrorizza il protagonista preistorico/in-fantile? sono le forze, gli elementi naturali primordiali: sole, nuvola, stella… con la loro misteriosa capacità di deviare dal loro rassicurante corso, dall’orbita prestabilita; di rendere vana ogni intenzione ed ogni certezza (Allora le stelle scivolano / verso l’alto. In direzione diversa // da quella dove/ davvero vado). Ma forze elementari sono anche le parti del corpo. I pezzi, del corpo, bisognerebbe dire. L’intero dell’organismo si frammenta in elementi che hanno perso il respiro del tutto, che agonizzano, singolarmente presi: occhio; mano destra; mano sinistra; bocca. La danza macabra delle parti senza più il tutto, la danza orfana di ogni armonia, spettrale, anatomica, costituisce essa stessa una delle forze elementali di cui il protagonista è al cospetto, terrificato. Il corpo, in alcune opere della più recente produzione italiana, o è una forza annichilita dalla schizofrenia che lo tagliuzza nelle sue parti – come in questi versi della Marmo; o è l’essere tutto-pensiero, macigno che non lascia filtrare spiraglio di luce, senza parti, senza respiro tra membro e membro, come nella raccolta, che di poco anticipa questa della Marmo, di un altro bravo poeta contemporaneo, Biagio Cepollaro. In entrambi i casi – tutto intero, plumbeo; o spezzato in frammenti – il corpo “resta”, immobile come le pietre sospese nei cieli densi di Magritte. Queste poesie di Giovanna Marmo sono terrificanti: Guardo verso l’alto. Un mostro/ trascina nuvole, / tutto il giorno. Sono poesie del terror-panico, onniavvolgente. Il terrore è la medusa – come nella poesia che chiude la raccolta – che paralizza e rende ciechi. Ed ecco il tema dell’occhio. La poesia della Marmo è una poesia della cecità, della visione che scappa, sfugge nella distorsione e nella rifrazione: Remo. nell’oceano ciò che giace immerso/appare sempre spezzato. Oppure – ma è la stessa cosa – di una visione che si nasconde, terrificata, sotto la cortina delle palpebre. Il mondo comincia oltre la cortina dello sguardo, che permane bloccato, ben chiuso nel corpo. Il mondo è vicinissimo eppure irraggiungibile: Al di là delle palpebre/ Vediamo. Ma ogni angolo/sfugge ai sensi.
Scomparendo dallo schermo, la sezione intermedia, riprende questo tema dello sguardo bloccato dal terrore, dello sguardo intransitivo; e lo porta ad una intensità parossistica. Lo fa utilizzando una metafora potente, quella cinematografica. Meglio sarebbe dire: filmica, nel senso anche letterale – riguardante il film, la pellicola; il supporto trasparente, e quasi immateriale, su cui l’immagine lascia il segno. O almeno dovrebbe. Perché anche qui il verso costantemente rimanda ad una impotenza, ad una incapacità di lasciare/serbare traccia, che caratterizza ogni vissuto, individuale o collettivo. La pellicola e le lamine staccate sono le massime consistenze possibili per la figura che cerca appiglio – nella memoria, nella visione. E pellicole e lamine sono taglienti. Come taglienti sono le effigi che tentano di passare oltre e raggiungere l’occhio che vorrebbe guardarle. Lo scenario della memoria muove, tra le quinte del ricordo originario e di quello ultimo, figure sospese ad una corda, funeree come impiccati (sullo schermo si proiettano solo memorie/ la prima e l’ultima immagine coincidono// una lamina impiccata su vuoto gira su di sé…) . La memoria è allora caratterizzata dalla perdita – dal fallimento – della sua tendenza al custodire. Il palcoscenico su cui volteggiano i fotogrammi del ricordo, le pellicole sospese, è pieno di botole e di tranelli. L’assito teatrale riceve lo sprofondo delle parole/corpo. E questa rappresentazione, caratterizzata dall’impossibilità di trattenere, dal precipitare, costituisce, appunto, La curva dell’oblio. Il film che si proietta è un film rotto; la pellicola di celluloide trasparente continua a sbattere, sciolta da ogni aggancio, ad ogni giro del proiettore. Viene da pensare alla pellicola usata in alcune opere dal grande maestro Carlo Alfano: in alcune tele – ma anche in pergamene acquarellate – gli inserti di pellicola costituiscono una soglia entro cui si avventano/escono figure umane, come a costituire un altrove momentaneo, sospeso, determinato solo dal passaggio – e quindi resistente, l’immagine, ad ogni suggestione metafisica, ad ogni tentazione ontologizzante di definire un altrove/sostanza. Il tema, in Alfano come in Giovanna Marmo, è quello della scomparsa/epifania, del transito in zone diverse dello spazio/tempo, nell’inusitato che si apre ad ogni passo. E l’ombra trans-corre i limiti, i confini, tra due territori egualmente ignoti e inesplorabili. Un entrare/uscire dal nero e del nero – la trasparenza della celluloide di cui la pellicola è costituita mima l’inconsistenza della vita che vi è impressa in singoli fotogrammi. Scompare dallo schermo l’esistenza incorporata sulla soglia, che distingue – senza distinguere – l’essere vivi dall’essere morti. Si accede con un segno di benvenuto a questa proiezione di un corpo denudato, composto unicamente di luce. Il corpo dell’immagine, che si incide nella pellicola e lì sa consistere molto meglio del corpo che si mostra stampato sul supporto di carne-muscoli-ossa. Benvenuti/arrivederci (Scomparendo dallo schermo): il campanello del giorno e quello della notte, le due parentesi entro il cui arco si svolge la giornata della protagonista di Giorni felici.
Dicevamo, all’inizio, della paradossale, complessiva, narratività di questo testo poetico, attraverso lo snodo delle sue tre sezioni. Nella prima, dunque, la nascita terrificante nel mondo elementale; e il conseguente, subitaneo ritrarsi oltre la cortina della palpebra. Nella seconda un proiettarsi fuori, ma vivendo una vita puramente immaginale, come in una pellicola, come in un film. Il cinema, dicevamo, come metafora. In particolare: il cinema muto – vero paradigma dell’immagine insonora, della parola senza voce. Il sentimento, ma oscuro, di una vita che scorre senza appartenerci e senza che noi possiamo appartenerle. Un film che scorre da un passato immemorabile – ogni fotogramma con una bruciatura al centro che rende indecifrabile la successione, lo scorrimento del senso, del ricordo di ere primordiali – di quando la voce era sostituita da un fascio luminoso che si alzava dal basso, come dalla buca del suggeritore, per bisbigliare senza suono e senza accorgimenti di significato; di quando la parola, sovrascritta, era estranea all’immagine, certo più estranea della musica e della luce. Il film muto metafora di un’afonia molto più radicale (Senza corde vocali). Il montaggio degli istanti di una vita che avviene fuori scena – Fuori, nel mondo, il montaggio…, e senza corde vocali. Ma cosa ci sarà “fuori campo” (…ciò che conta/ è già avvenuto fuori campo), nel luogo esterno del montaggio? il mondo oltre la superficie blindata delle palpebre, come sarà? si costituisce, in questi versi, un altrove metafisico che sembra uscito da un film, appunto – la mente corre alla “zona” di Stalker, con la sua muta e impenetrabile opacità, quintessenza di ogni rappresentazione aniconica. E poi ci sono gli incontri. L’incontro può avvenire solo in un punto virtuale, posto in un orizzonte sconfinato (Prigionieri in due riprese distinte…. erano le comparse di un film… girato in due piani sequenza paralleli) – è il punto in cui si incontrano i piani paralleli, il punto sfocato, la “zona” che si apre nel non-luogo-e nel non-tempo del film finito. Solo oltre la fine, oltre i titoli di coda, c’è contatto. Forse.
Nelle ultime poesie della sezione lo scenario diventa, se possibile, più cupo. I versi sono agglomerati di orrore puro: fiale tappate con il cotone; qualcuno che viene assassinato; lo sparo; la macchia del sangue; il corpo che viene ritrovato; gli elicotteri che sinistramente ronzano sulla scena. Si pensa all’orrore maestoso dell’impresa di morte, alla cattura di Bin Laden, per esempio. La vittima/killer che si copre di peli (sono ricoperta di peli bagnati e alghe/ umide, odoro di animale imbalsamato) – si pensa a certe opere di Nitsch, alle sue garze sporche di sangue. Chi è il killer? chi la vittima? il teatro interiore, il palcoscenico dell’assassinio quotidiano, come nel funereo teatro della Bachmann di Malina. I testi finali della seconda parte assumono toni landolfiani – le pagine di Cancroregina sembrano evocate in una improvvisa fantasmagoria spaziale, apocalittica. Il finale, l’oltre i titoli di coda, assume la caratteristica di un occhio rapito nella contemplazione di un unico fotogramma, senza più attese vane di sviluppi, di storie. Finalmente non succede più nulla – oltre la fine, oltre i titoli di coda. Cosa è cambiato? c’è stato forse il varcare di una soglia, di un confine tra il prima e il poi, tra la memoria afasica dell’origine, immemore di significati; e questo nuovo orizzonte, in cui, da qualche parte, in uno spazio sconfinato e nero, un cuore batte? è l’approdo, questa contemplazione del buio spaziale, in cui il vuoto amplifica il silenzio che era prima del film senza voce? è l’approdo ad un luogo ulteriore; o è solo un’altra trasformazione dell’occhio che non vede? dello sguardo retroverso dietro la palpebra serrata? la domanda è atroce: è un ricordo o cicatrice visiva (Una cicatrice visiva). Gli invidiosi del Purgatorio dantesco: con le palpebre cucite da filo di ferro. Preclusa ogni possibilità di sguardo, di distinzione.
E in finale, quasi inatteso, l’appello, che recupera la voce del grido infantile, quello delle origini: Vorrei che mi guardaste (Lampada fatta di aria). La disperazione del bambino che chiede, da un nuovo luogo, questa volta la casa desolata dell’infanzia (sezione terza, Case riflesse ) – che con la mano afferra il volto della madre per rivolgerlo verso di sé. Vorrei che mi guardaste. Nei testi dell’ultima sezione la stessa ospitalità, la casa, si fa nemica (i titoli suonano ora: casa senza vita; casa in prestito; casa ombra….). La casa non è fatta per accogliere, ma per svuotarsi. E’ immersa nell’acqua, gelida e limacciosa, come in un incubo, è prigioniera del ghiaccio e le transizioni nelle sue stanze provocano la morte. Il movimento nella casa è anzi il procedere di un morto su un tapis-roulant: il movimento è solo fittizio, una illusione di spostamento, morte che però non provoca caduta, come giustamente, beneficamente accade negli uccelli colpiti in volo. Lo scenario del viaggio astrale, che chiudeva la seconda parte, si trasforma, nella fine della terza, in un nuovo habitat dell’orrore, in uno sprofondo marino, nell’oblò che esclude chi guarda dal “mondo” – ciò che adesso si configura oltre e fuori la muraglia delle palpebre serrate è un altro tipo di buio/silenzio. Il “mondo” adesso si situa in alto, a pelo d’acqua, e infinitamente distante. Il buio/silenzio acquatico comporta una diversa maniera di sparizione – un nuovo mood di esistenza, una nuova soglia tra l’essere e il niente (La cabina sommersa ). Il grido infantile diventa, nelle ultime poesie, l’invocazione di una spettrale Regina delle Nevi (Bisogno di sopravvivere: devo sopravvivere / a questo eccesso di vicinanza, / al calore del mondo). L’ultimo testo, Una medusa, che chiude l’intera raccolta, rantola: baciatemi presto/ sto lottando contro il crepuscolo. / Posso resistere fino a quando la luce nella casa/ di fronte si accende. Non c’è tempo,/ baciatemi. L’infanzia si ripropone, nelle ultime scene, ritrovando quasi l’eco di una favola. E l’angoscia del bambino, della principessa agghiacciata, non perde neanche per un momento la sua funerea forza di trasfigurazione: “Voglio la notte senza suono, pressione, /ossigeno. Nello spazio privo di luce/ ogni cosa si muove senza incontrarsi. / Non sono io, è l’universo/ intero a essere abbandonato.// All’alba i serpenti escono dalla foresta/ per scaldarsi con il primo sole” (Emisfero muto).

Poesie per farsi coraggio e per ricordarsi che non si è un esubero nel mercato mondiale

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Giuliano Scabia, Bobo Rondelli, Manuela Dago, Cesare Basile, Mariangela Gualtieri, Francesca Matteoni, Alberto Prunetti, Massimo Giangrande, Elisa Biagini, Marco Simonelli, Compagnia Archivio Zeta, Compagnia Teatro Patalò, Fabio Franzin, Pino Marino, Peppe Voltarelli, Emilio Rentocchini, Umberto Maria Giardini, Oscar De Summa, Claudio Carboni, Carlo Maver, Vanni Santoni, Alessandro Raveggi sono i primi poeti,scrittori, attori, musicisti, cantautori che hanno accettato il nostro invito ad incontrare gli operai e gli abitanti dell’Alta Valle del Reno in questo momento di grande crisi.

La situazione:

L’Alta Valle del Reno, realtà montana nella provincia di Bologna che comprende vari comuni, sta vivendo un periodo di gravissima difficoltà: dopo la chiusura del punto nascita dell’ospedale di Porretta Terme, la chiusura del Tribunale, continue difficoltà di collegamento lungo la tratta ferroviaria Porretta-Bologna, la crisi delle Terme –comparto essenziale per la vita non solo economica e sociale ma anche identitaria della zona – arrivano preoccupanti notizie dalle fabbriche locali come Metalcastello e la storica Demm. A queste notizie si aggiunge l’annuncio, risalente a fine novembre, di Philips Saeco di Gaggio Montano,  ditta specializzata nella produzione di macchine da caffè, di oltre 240 esuberi. Esuberi che significano 243 vite, 243 lavoratori della Saeco, acquisita da Philips nel 2009, spaventati dalla prospettiva di un futuro incerto e oscuro. Purtroppo nonostante le intercessioni del Governo, la multinazionale non ha riveduto le proprie posizioni,confermando gli esuberi e non ha neppure manifestato l’intenzione di presentare un piano di rilancio di un prodotto italiano che dà lavoro a tutta la comunità. A Gaggio Montano i dipendenti sono in presidio permanente; una mobilitazione che va avanti dallo scorso 26 novembre con il sostegno dei sindaci della montagna, i cittadini della zona.

SassiScritti, associazione apartitica affiliata ad Arci, non  può  e non vuole  rimanere in silenzio, il nostro lavoro inizia in queste valli, si nutre della bellezza ruvida dei borghi e della dignità dei suoi abitanti.

E occupandoci ormai da anni di portare i linguaggi dell’arte in luoghi “ai margini”, ci è sembrato importante ribadire il valore della poesia e dell’arte soprattutto in momenti d’emergenza, in cui idee nichilistiche sembrano oscurare i progetti.

Crediamo in una repubblica ideale fondata sulle parole, una lingua  che possa  ridare forza alla coscienza pubblica, a un linguaggio che non resta inerte ma che  rilancia sempre di nuovo il senso dello stare insieme.

 

Quello che proponiamo:

Abbiamo chiesto a tutte le realtà artistiche interessate di creare un cartellone di appuntamenti che siano da sostegno al presidio attualmente organizzato dai lavoratori e dal sindacato davanti alla Philips Saeco (stabilimento loc. Torretta). Un sostegno non solo simbolico a tutte queste realtà in crisi ma anche  morale e concreto. Una vicinanza a coloro che stanno vivendo un momento di difficoltà, un momento fatto di freddo, preoccupazione, senso di smarrimento. Poesie per farsi coraggio in  questi giorni  sfiancati dal pessimismo e dalla solitudine.

A queste sensazioni e a questi pensieri, che tutti i lavoratori della cultura purtroppo conoscono bene, l’arte può dare risposte forti. La musica, la letteratura, il teatro, la poesia, possono diventare non solo spazio di confronto e momento di conforto ai lavoratori, ma anche e soprattutto amplificatore a livello locale e sovralocale di unione e di forza, di pacifica ma determinata voglia di avere risposte che siano rispettose dei diritti e della dignità delle persone.

Intendiamo dunque dare vita a un calendario mutevole e vivo di incontri insieme a tutti coloro che lo desiderino, semplicemente coordinando le forze in modo da non disperderle, dando un aiuto logistico e soprattutto di comunicazione – qualcosa che è parte del nostro lavoro quotidiano e che mettiamo a disposizione della nostra valle con entusiasmo e voglia di vicinanza.

Ad ora tante sono state le adesioni, totalmente gratuite, che dimostrano la grande generosità degli artisti che hanno “risposto sì” al nostro invito.

Iniziamo Domenica 20 dicembre alle 21 con un piccolo live acustico del cantautore Pino Marino che si terrà davanti al presidio di Gaggio Montano (Bo), loc. Torretta.

In allegato il calendario dei primi appuntamenti, un programma sempre in movimento di piccoli incontri, letture, live, che prevederà anche la realizzazione di una maratona artistica (in data ancora da definire) ideata dall’associazione. Un calendario “in emergenza” vicino a un comunità che non si vuole arrendere.

 

Info:

Per seguire le nostre iniziative vi invitiamo a seguire l’hastag #poesieperfarsicoraggio;

adesioni e comunicazioni saranno lette e vagliate scrivendo a  sassiscritti@gmail.com

Il calendario aggiornato su sassiscritti.wordpress.com e su fb:SassiScritti – L’importanza di essere piccoli

L’EVENTO SU FACEBOOK

GRAZIE!

Associazione SassiScritti

Daria Balducelli: 349 3690407/ Azzurra D’Agostino :349 5311807

 

Pauli e la psiche #2

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di Antonio Sparzani
C.A. Meier

Come ricordavo qui, fin dalla fondazione nel 1948 del C.G. Jung Institut a Zurigo, il grande fisico Wolfgang Pauli, per espresso volere di Jung, ne fu il garante scientifico, la persona cioè che doveva assicurarsi e assicurare nel tempo che la prassi seguita nell’Istituto avesse caratteristiche conformi a quella che veniva comunemente considerata la prassi scientifica; naturalmente, diremmo noi col senno di poi, con tutta l’incertezza legata a questa solo apparentemente rigorosa espressione.
Come s’è detto, negli anni successivi lo scontento di Pauli crebbe fino a quando, il 22 luglio del 1956, non riuscì più a star zitto e scrisse a Carl Alfred Meier, direttore dell’Institut (nella foto) dalla fondazione al 1957 quando si dimise. Ecco a voi il seguito della lettera che ho pubblicato il 28 novembre scorso.

«Un secondo problema più particolare è legato a questo. C.G. Jung ha nei suoi scritti ripetutamente posto l’esigenza che il medico stesso debba sottoporsi all’analisi. Dunque chiedo un ulteriore chiarimento su quali misure l’Istituto C.G. Jung intenda prendere per garantire il soddisfacimento di questa richiesta per tutti i suoi membri (presidente compreso), dato che il prof. Jung, che gode nella sua vecchiaia di un meritato riposo, non può egli stesso assolvere questa funzione.

A questo proposito vorrei suggerire che la risposta diventata ormai stereotipo degli analisti “non mi viene in mente niente a questo proposito” va a sua volta analizzata, negli analisti, nel senso degli stessi metodi diagnostici mediante gli esperimenti di associazione di C.G. Jung. Ciò condurrebbe a sorprendenti scoperte sugli analisti e sul loro stato psichico e farebbe anche sì che questa troppo comoda risposta sarebbe meno frequentemente data da questi signori e da queste signore.
Potrei facilmente estendere questo memorandum fino a farne un trattato più lungo, ma mi aspetto che nessuno avrebbe il tempo di leggerlo.
Richiedo che Lei, signor Presidente, porti a conoscenza di tutti i membri del Curatorium questo scritto in quanto espressione di sfiducia del garante scientifico dell’Istituto C.G. Jung rispetto alla conduzione dello stesso, e mi aspetto una risposta ufficiale circa all’inizio del semestre invernale.

Con distinta stima
[firmato] W. Pauli

Verso la fine di luglio Pauli si reca da Jung nella sua “torre” a Bollingen, insieme con Meier; quello che sappiamo di questa visita è contenuto nell’ultimo capoverso di una lettera del 10 agosto, sempre 1956, di Pauli a Markus Fierz, che era stato suo assistente nella seconda metà degli anni ’30, e poi sempre fedele amico. Così si esprime Pauli:

«Di Bollingen stavolta non ho un piacevole ricordo, ci sono andato a luglio insieme con C.A. Meier (il nostro primo incontro nel 1956); l’atmosfera era opprimente e lui mi sembrava pieno di sé e pieno di ostilità nei confronti miei e anche della psicologia. Dopo questo incubo mi è sorto il vivo desiderio di rinunciare al mio ruolo di garante dell’Institut

Dopodiché, sempre più convinto della sua decisione – ne accenna ad Aniela Jaffé, la segretaria di Jung con la quale Pauli aveva ottimi rapporti – scrive, il 22 agosto, una lettera ufficiale a Meier, dal quale richiede una risposta ufficiale con espressioni molto dure tipo: «la rottura è là e non c’è più modo di rattopparla». In particolare chiede che il Curatorium si riunisca ed esamini la questione.
Ma poi i fatti si svolgono in modo meno drastico: Il Curatorium, l’organo responsabile della conduzione dell’Istituto, rimanda per qualche mese la cosa, ma alla fine si decide a indire una riunione cui viene invitato lo stesso Pauli, il 31 gennaio 1957. Di questa riunione abbiamo una vivace descrizione da parte dello stesso Pauli, che ne scrive piuttosto allegramente in una lettera alla Jaffé del 25 febbraio 1957; ecco la parte che riguarda l’incontro:

«. . . vi andai completamente impreparato, improvvisai liberamente e più volte interruppi, rivolgendogli domande, il silenzio di C.A. Meier (che durante tutta la riunione stava seduto in fondo imbronciato e silenzioso). [. . .] Ero di buon’umore e facevo continuamente battute (di solito a spese degli psicoterapeuti). Il signor Baumann-Jung [all’epoca vicepresidente dell’Istituto] presiedeva la riunione e cominciò dicendomi: «Non la lascerò andar via», al che prontamente replicai: «Lei parla come Sarastro: “Zur Liebe will ich dich nicht zwingen,/ Doch geb’ ich dir die Freiheit nicht» [“Io non ti voglio costringere all’amore / Tuttavia non ti concedo la libertà.”, Flauto Magico, atto II, sc. 19]. Tutti (tranne Meier) risero (e anch’io) e si creò un clima amichevole. Palesemente il mio rapporto personale con C.A. Meier non esprimeva più la mia relazione con la psicologia analitica».

La lettera, intesa dichiaratamente a divertire la Jaffé, prosegue in tono abbastanza possibilista. Non risulta che Pauli si dimettesse formalmente, fino alla morte, prematuramente avvenuta nel dicembre 1958.

L’asino e gli specchi

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di Orazio Labbate

20140411_142626All’età di quattordici anni il nonno usava portarmi con sé e il suo asino nella casa di campagna della nostra famiglia, ché vi dormissimo e l’indomani raccogliessimo le olive. L’asino del nonno si chiamava Notte.

Gli aveva dato questo nome poiché affermava che la stessa notte ragliasse come un asino a causa dello scirocco che quando attraversa i canneti pare emettere il verso di quella bestia. Ricordo che durante il viaggio io e il nonno ci accorgevamo come lentamente arrivasse la sera per mezzo del cielo che scuriva i nostri volti. Allora accendeva la fiaccola e illuminava la mia faccia per dirmi che non dovevo avere paura. Teneva la fiamma alta in avanti così da schiarire le stradine buie dove pensavo si nascondessero diavoli, cani cattivi condannati ad ammazzarci, Gesù Bambino scappato dal presepio pronto a portarmi in quel cespuglio e poi chissà dove.

Trottava dimesso l’asino e io mi attaccavo ai fianchi del nonno stringendogli il bacino con tutta la forza. Mentre guidava l’animale nonno mi diceva: “Non preoccuparti presto arriveremo. Respira piano e se vuoi addormentati”. Non riuscivo a prendere sonno poiché ero disturbato da tutto quel silenzio, dai grilli che mi risvegliavano, dal vento che mi penetrava alle orecchie come se mi raccontasse le maledizioni delle famiglie di campagna, morte nelle loro case. Avevo sempre creduto che nella nostra abitazione di campagna ci attendesse qualcheduno nel buio pronto ad ammazzarci, così come era accaduto agli amici del nonno sorpresi dalla morte mentre dormivano nelle loro case. Il nonno di tanto in tanto oscillava la fiamma lungo i lati dell’asino per accertarsi che nessuna serpe aggredisse la bestia. Durante quei movimenti deglutiva e io lo sentivo perché attaccavo la testa alle sue spalle. Era una cosa suggestiva saperlo vivente. A metà del cammino, non appena mi sentiva tremare per via del vento freddo che era più intenso in quelle zone prive di alberi, copriva le mie spalle colla sua mantellina di lana di pecora, e io gli dicevo: “Grazie nonno. Spero che Gesù non si nasconda dietro i cespugli e invece scelga di proteggerci. Padre figlio e Spirito Santo”. “Nipotino mio, Dio non ha suo figlio dietro le piante, ma alla sua destra tra le nuvole del cielo. Guarda verso le stelle che sono quelle cose minute sopra la tua testa, e vedrai che da lassù ci spiano Dio e suo figlio Gesù mentre noi non ce ne avvediamo.”

Rassicuratomi continuavamo a percorrere nuove stradine sterrate, piene di rovi, di alberi bruciati e di pietre che nonno svelava con la fiamma e poi nascondeva poiché non più accese dal fuoco. Ai primi sentori di stanchezza fermava l’asino e conficcata la fiaccola alla terra ci sedevamo per mangiare il pane. Il pane al fuoco pareva una mano combusta.

Non mancava molto perché raggiungessimo la casa di campagna. Erano quelli gli istanti in cui io e nonno fissavamo in silenzio l’orizzonte ormai nerissimo e ci rendevamo conto di quanto fossimo oggetti genuflessi alla morte. Io nella mia adolescenza, che vedeva la morte distante eppure tanto incombente, lui nella sua vecchiaia che sentiva la morte terribile. Lo guardavo senza parlare e gli tenevo la mano, poi gli accarezzavo piano la faccia per paura di fargli male. Il suo viso sembrava quello di una statua che si stava svelando.

Nonno che succede?”, gli chiedevo. “Nulla.” “Non è vero, cosa stai pensando?” “Penso che tra pochi anni non vedrò più la notte. Tutto questo paesaggio muto chissà come sarà quando chiuderò gli occhi. Ci sarà profumo d’incenso nell’Aldilà? E quando potrò vederti, nipotino mio? Non ci vedremo mai più?”

Non sapevo cosa rispondere giacché quello che diceva era a me razionale, benché orribile. Sentivo la mia schiena gelare mentre un torpore innaturale, come se mi addormentassi per l’ultima volta, consegnava i pensieri alla notte che avrebbe allontanato me e il nonno, insieme.

L’unica cosa che potevo fare era tenergli la mano, più sostenuta. Lo facevo con uno sconforto che non riuscivo a dirimere.

Siamo davvero condannati a un infinito allontanamento, nonno?”, pensavo guardando il profilo corvino di lui. La fiaccola intanto si stava spegnendo come la luna dietro le rocce dell’altopiano circonvicino. “Perché allora ci siamo conosciuti in questa vita? Per amarci e poi disconoscerci una volta morti o una volta tu morto io dimenticarti a causa degli anni che stanno macerandosi?”, continuavo a pensare.

Ricordo che non avevamo la forza di alzarci perché eravamo impietriti e la notte ci aiutava a esserlo ché così vicina all’idea della morte che tutti e due condividevamo nel nostro immaginario.

Alla fine però il nonno usciva dalla melanconia grazie a un gufo della zona che soleva bubolare sopra uno dei tanti cavi della luce piegati verso il suolo. L’uccello pareva ascoltare in silenzio, tutte le volte in cui sostavamo a riflettere.

Ci separavano solo due chilometri dalla casa di campagna. Cominciavo a fiutare l’odore del nostro uliveto mentre il sale del Mediterrano, portato dal maestrale, avanzava contro le nostre facce. Allora mi pulivo la bocca con la lingua percependo le labbra invase dai pigmenti salini che il mare aveva lasciato morire. Poi la torcia del nonno schiariva il cancello del nostro podere e giratosi mi faceva cenno di aprirlo come uno sconosciuto che suggerisce l’entrata di un castello a un viandante.

Eravamo arrivati. Quel cancello era per me il cancello del buio. Una volta che varcavamo quella soglia infatti iniziavo a supporre di rimanere intrappolato lì dentro per l’eternità, o di addormentarmi in quella casa di campagna per sempre. Nonno si accorgeva dei miei timori fantastici e per tale ragione accendeva una candela cerimoniale che posizionava all’ingresso della casa affinché gli spiriti maligni non mi sconvolgessero. Custodiva la candela nel sacco delle mandorle; gli era stata donata dalla madre, da bambino, con l’avvertenza di utilizzarla solo nel caso in cui la mia paura, lo spavento di un nipote, nascesse a causa di fantasmi immaginifici.

Dove dormiamo, nonno?”

Dove accenderò il fuoco. Vicino a esso. Non dormiremo dentro la casa”

Perché?”

Perché ne hai paura e perché ne ho paura anche io.”

Non me l’hai mai detto nonno, per quale ragione?”

Perché adesso ho paura che non ci vedremo mai più, dopo questa notte.”

Dicevo allora:”Ti sbagli, noi abbiamo il sangue del fuoco nonno, non ci spegneremo mai. Siamo potenti.”

Lui non mi rispondeva. Da quella notte, in verità, non mi rispose più.

Non potevo sapere che il giorno dopo sarebbe morto, vicino al fuoco spento, mentre io insieme all’asino piangevamo davanti alla casa di campagna, come se fossimo rinchiusi, disperati, io e la bestia, in una camera di specchi senza uscita.

Do you remember Francesco Mastrogiovanni?

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di Alberto Garlini

(sulla vicenda leggere anche qui)

Un uomo esce dalle acque, quasi come in un mito primordiale. Quello che sappiamo di lui ci viene narrato dalle voci fuori campo, i testimoni. Sono voci accorate che provano empatia per quell’uomo tranquillo, che canticchia una canzone anarchica ed è inseguito dalla polizia. Lo fermano, non oppone resistenza, viene sedato, sale sull’ambulanza. Dice che lo ammazzeranno. L’uomo si chiama Francesco Mastrogiovanni, viene ricoverato per un TSO, e la sua profezia risulterà esatta.

Ora vediamo il mare, e poi un’ambulanza, e poi entriamo nel reparto psichiatrico di Vallo. E da questo momento in poi la morte di Mastrogiovanni verrà in gran parte raccontata dall’occhio asettico delle telecamere di sorveglianza, che non testimonieranno (perché la testimonianza presuppone uno sguardo umano) ma documenteranno un uomo che si agita, che viene contenuto con cinghie in un letto, che viene bucato dalle flebo, quasi sempre nudo, sofferente oltre la nostra capacità di tollerare, fino alla sua morte avvenuta in 87 ore per edema polmonare. La visione a tratti è terribile, la freddezza delle telecamere entra in cortocircuito con le immagini del dolore e della morte di un uomo. Lo stomaco si attorciglia, abbiamo paura. Siamo tentati di distogliere lo sguardo. Ma non possiamo. Anzi, attimo per attimo, spinti dalla potenza della struttura tragica in cinque atti, diventiamo via via più lucidi. È come se la regista, Costanza Quatriglio, ci chiedesse questa lucidità. Ma su questo torneremo.

Il reparto di psichiatria dove viene curato Mastrogiovanni è diviso dal mondo da una porta gialla. La porta avrebbe una finestrella, ma il vetro è tinto di bianco, a sancire perfino l’invalicabilità allo sguardo. Di qua c’è il mondo normale, di là l’universo concentrazionario. Sulla scorta di Backzo sappiamo che un’utopia, come una distopia – la città del sole, come il castello di Silling -, ha bisogno di un luogo separato, una camera stagna dove non possa entrare nulla del mondo, dove il movimento sia bandito. Che all’ingresso ci sia scritto “Fa ciò che vuoi” o “Arbeit macht frei”, modifica poco la sostanza strutturale. Quando si vive in un mondo perfetto, o medico o politico, il cambiamento è bandito. Così si inventano isole o luoghi lontanissimi divisi dal resto del consorzio umano da catene montuose, fiumi, ponti levatoi, deserti. Bisogna essere separati per vivere dentro le regole perfette. Ma sappiamo dagli innumerevoli saggi sui campi di concentramento, come un universo concentrazionario (in sostanza: una distopia realizzata sulla terra, con le sue reti elettrificate, i cani lupo, le mitragliatrici sulle torrette) non abbia alcuna regola perfetta, che l’ordine sia una finzione; e, come ci ha raccontato Pasolini in Salò: il potere assoluto è un assoluto arbitrio. Si compilano regole ferree per disfarle un attimo dopo, i crimini vengono graziati e le inezie punite ferocemente. La porta gialla del reparto, la porta con la finestra oscurata, è la porta verso questo mondo. Il mondo dell’arbitrio, un arbitrio che ha dietro un linguaggio di potere e che, proprio per questo, è ancora più arbitrario.

 

C’è un momento del film che mi pare un colpo di genio narrativo: il giorno successivo al ricovero, la nipote di Mastrogiovanni e suo marito vanno a chiedere notizie dello zio. Il medico non li fa entrare nel reparto. Dovranno rimanere fuori. Dice che non si devono preoccupare e aggiunge che lo zio sta riposando serenamente. Quando la nipote testimonia con voce fuori campo di questa visita, vorrebbe dire che dalle telecamere di sorveglianza, visionate dopo la morte, non vedeva lo zio riposarsi e tantomeno serenamente (Mastrogiovanni si agita, è l’immagine del dolore primordiale); ma poi non riesce a dirlo, e dice invece che in realtà non vedeva suo zio, che in quel letto non c’era più la persona che conosceva e amava. Questo snodo narrativo ricorda ovviamente le forme di allontanamento retorico del soggetto. Il primo passo verso la costruzione del “nemico” uccidibile è togliergli la possibilità di una narrazione (oggetti, vestiti, parenti) tutto ciò che forma la sua storia. Quando entri in un lager vieni allontanato dai tuoi famigliari, ti vengono tolti i vestiti, vieni rasato a zero, disumanizzato attraverso una serie di pratiche mediche. Per essere nuovo, devi essere privato della tua vecchia storia. A quel punto non sei più un soggetto empatico, e quindi sei uccidibile. Un homo sacer, svincolato dalla legge (ma pur sempre nella legge). A Mastrogiovanni vengono tolti i vestiti, viene negata la visita dei parenti, viene negato il movimento. È uno dei tanti corpi nei tanti letti delle corsie. Pochi minuti e da uomo diventa altro, un corpo. Un soma. Qualcosa su cui non può essere riversata empatia. E sappiamo che la forma perfetta del soma, è il cadavere.

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La scelta di raccontare questa storia tramite le telecamere di sorveglianza è la chiave di volta del film. Ha implicazioni, in chi guarda, di grande portata. Coinvolge l’intera esistenza dello spettatore. E questo per un elemento strutturale immediatamente evidente. Lo sguardo delle telecamere non permette di identificarsi con l’altro sguardo in gioco, lo sguardo che ha tolto i vestiti e immobilizzato un uomo, e cioè quello sguardo che abbiamo introiettato e che ci pare quasi normale, quello cioè che si identifica con il potere del medico, e dei valori sociali che stanno dietro la posizione del medico (valori sociali di controllo che non ci sono estranei, ma che anzi, volenti o nolenti, sono parte di noi). L’oggettività e la verità ci vengono restituite pure, senza la fiction narrativa vittimaria. Cosa intendo per fiction narrativa vittimaria? Tutte quelle forme di narrazione cospiratoria, le retoriche dell’ordine che diventano arbitrio o contagio violento (gli ebrei che avvelenano le acque o uccidono i bambini ecc ecc). In sostanza, come bene ci racconta René Girard, la ricreazione narrativa della paura ancestrale verso la hybris sociale che, attraverso movimenti mimetici, sviluppa un sistema di selezione vittimaria, in alto e in basso nella scala sociale: tra i re e i potenti, o tra gli stranieri o i pazzi o i poveri (le zone-limite in cui la possibile disgregazione sociale è più evidente). La vittima smette di essere un essere umano vicino e sofferente, un essere umano che può provocare empatia, e diventa allora un oggetto retorico. (La demonizzazione dell’avversario è il primo passo verso la guerra, quindi la ridefinizione cospiratoria di un soggetto: Isis e Occidente usano quasi gli stessi termini per narrarsi l’uno contro l’altro).

 Ciò che mette in discussione questa narrativa, il punto di svolta quindi di ogni vera narrazione, è lo scandalo del corpo della vittima, con la sua più evidente simbolizzazione e cioè il corpo di Cristo. La narrazione cospiratoria, la fiction in cui siamo ogni giorno immersi nel flusso delle notizie mediatiche, delle assurdità, dei giochi delle parti, delle finzioni di potere, è messa in crisi da una narrazione sacrificale, dal corpo del sacrificio, dal riconoscimento di una sofferenza e quindi dal ripristino dell’empatia verso la vittima, ora sottratta alla narrazione demonizzante. In questo senso i vangeli sono tremendamente “reali”: perché raccontano la sofferenza di una vittima che è irriducibilmente vittima. Se dobbiamo fare un paragone, il film di Costanza Quatriglio somiglia al vangelo di Marco, il vangelo più duro, è la Palestina scabra e desertica, è la morte di cristo per indifferenza. Sono le donne che vanno al sepolcro e lo trovano vuoto, mentre c’è un uomo vestito di bianco, che dice che Gesù non è più lì, e ordina di avvisare gli apostoli, mentre le donne scappano impaurite. Questo era il vero finale del vangelo, prima che aggiungessero qualcosa di più consolatorio.

 Ma Costanza Quatriglio fa tornare indietro le donne impaurite, recupera il corpo, e lo recupera in un modo straordinariamente efficace. Ci fa sentire il corpo, nella sua estrema povertà nudità crudezza e sofferenza, proprio scegliendo la telecamera di sorveglianza come sguardo privilegiato. Una zona non ancora invasa dalla narrativa delle giustificazioni. Restituendoci intero lo scandalo di quella morte e di quella sofferenza. Costringendoci a guardare, fino a quando quell’occhio diventa il nostro occhio. E fino a quando quel corpo diventa il corpo di cristo, il corpo di tutte le vittime, di tutti i perseguitati, di tutti coloro che stritolati da qualunque potere ancora oggi muoiono dentro carceri e ospedali, agli angoli delle strade, nei bordelli o nelle fabbriche.

 Quel corpo diventa il nostro corpo. (E per sentire fino in fondo questa affermazione basterebbe la scena del film dove il corpo spogliato e violentato che abbiamo visto nella corsia dell’ospedale diventa, in un disegno di uno dei suoi scolari, il maestro più alto del mondo).

 Adorno fece e disfece la sua celeberrima affermazione per cui dopo Auschwitz fare poesia è una oscenità o una barbarie (e forse citare questa frase troppo nota è una banalità e una barbarie); lui stesso la criticò dicendo che la sofferenza incessante deve essere espressa. Seguendo sempre Girard, se nella storia e nella coscienza dell’uomo ci sono due antagoniste, verità e violenza, l’espressione della sofferenza della vittima rimette in movimento le narrazioni di verità su di noi e sul mondo.

 Giunti a questo punto, posso raccontare quello che secondo me è il nodo centrale del film. Il perché la “poesia” di Costanza Quatriglio ci è necessaria (come quella degli evangelisti, o di Primo Levi). Proprio perché mette in scena la storia nuda del corpo di Francesco Mastrogiovanni, ma coinvolge anche la nostra storia, di noi che guardiamo, e dopo che abbiamo guardato non siamo più gli stessi. Sono convinto che la realtà sia difficile da conoscere ma ci presenti spesso il conto, sono convinto che ognuno di noi abbia delle narrazioni o semplificazioni narrative da carnefice, e che sia sempre la realtà del corpo, la realtà vittimaria a costringerci a rinarrarci, a ripatteggiare la nostra narrazione abitudinaria con una narrazione più aderente alla realtà. È in questo respiro narrativo che sta la natura l’uomo: narrazione fallace, scontro-incontro con la realtà (sacrificale), ripatteggiamento della narrazione per una nuova narrazione più aderente. Nuovo scontro con la realtà, e così via.

 In questo senso è straordinaria la sequenza in cui la sorella di Mastrogiovanni dice di non riuscire a guardare le scene della telecamera di sorveglianza. La vita ordinaria della donna viene rappresentata da una soap opera di sottofondo che simbolizza il mondo finzionale in cui siamo immersi. Lo schermo della soap opera si vede come da fuori, filtrato da un vetro, e subito dopo vediamo la nipote guardare l’agonia dello zio dallo schermo di un computer o di un tablet, in una sequenza che richiama visivamente la sequenza della soap opera. Le due narrazioni: quella sacrificale e quella cospiratoria si confrontano. Verità contro violenza.

 Ma sono convinto che il ripatteggiamento della nostra narrazione con una narrazione più aderente (o del conflitto in noi fra verità e violenza), non possa avvenire senza una spesa (senza un sacrificio). La nostra spesa, guardando 87 ore, è sentire lo stomaco attorcigliarsi, il cuore battere all’impazzata, e comunque, nonostante tutto, non distogliere lo sguardo. Così, quando arrivano le ultime parole dell’autopsia, dette da una voce che accentua col suo marcato accento meridionale la realtà dell’evento, noi ci identifichiamo con quel corpo oltraggiato, come ci identifichiamo col corpo di cristo. Qualcosa di profondamente umano ci è stato svelato:  il mistero stesso della transustanziazione nell’eucarestia (quel qualcosa che fa dire a Elizabeth Costello, meraviglioso personaggio creato da John Coetzee che gli animali non possono essere uccisi, perché la comune sofferenza implica l’impossibilità di un calcolo). Insomma, identificandoci con quello sguardo, con la cruda realtà, siamo costretti a ripensarci, e riscrivere la nostra stessa storia. Perché appunto ogni storia realmente raccontabile parte da qui, dal respiro umano, dalla spesa individuale, e da una crasi che costringe a un diverso piano di valori e narrazioni.

E fin dalle origini dei tempi cosa è, se non questo, raccontare una storia?

 Il corpo di cristo risorge, così viene narrato, e un cristiano crede veramente che quel corpo nella sua carne e nel suo sangue sia ancora vivo. Per noi, che non crediamo, il corpo può risorgere in un solo modo, col ricordo venato di empatia, un ricordo ancora vivo, che influisce sulle nostre vite, che determina alcune nostre scelte. Guardando 87 ore respiriamo una storia, ma respiriamo anche noi stessi, purtroppo anche nella nostra miseria, nel nostro conformismo, dentro le nostre paure più arcaiche. Ed ecco che uno shock salutare ci costringe a trovare un modo nuovo per narrarci.

Francesco Filia, “La zona rossa”

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Francesco Filia, La zona rossa

Francesco Filia, La zona rossa

Piazza Municipio

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Un solo un unico immenso vortice

di teste e corpi tra cantieri infiniti

della metro e cespugli radi di birra e piscio,

l’umanità di tossici e barboni è scomparsa

– per quest’evento di inferriate e plexiglas

proiettili che rimbalzano sull’asfalto

e strie di gas e lacrime nell’aria –

Scuola: elogio del ritardo

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quaderno di scuola anni 50

[Questo saggio è incluso in Almanacco alfabeta2 2006, cronaca di un anno POST-FUTURO (Alfabeta edizioni – DeriveApprodi 336 pagine illustrate a colori) a cura di Nanni Balestrini, Maria Teresa Carbone, Andrea Cortellessa, Nicolas Martino.]

 

Di Andrea Inglese

Me lo spiegava il gestore della vineria di Matera, che gli interessava la cultura, e voleva associarla alla riuscita economica, ospitando eventi musicali, letterari, gli sarebbe piaciuto davvero, ma ne diffidava, perché era forse impossibile per via della domanda inesistente, anche se lui, ad esempio, pur avendo fatto economia e commercio, amava il jazz.

Un autore in cerca di personaggi – Di avanguardia, di ricerca e di altro – Gilda Policastro e la cella dei nostri anni

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di Cetta Petrollo

A pochi mesi di distanza escono, fra maggio e settembre 2015, due libri di Gilda Policastro, una raccolta poetica, Inattuali (Transeuropa) e un romanzo, Cella ( Marsilio), per i tipi, dunque, di una minimale casa editrice, quasi del tutto fuori dal circuito della distribuzione libraria e della commercializzazione, e di una casa editrice affermatasi, negli ultimi anni, nella traduzione e diffusione di narrativa di successo, basti pensare alla fortunata trilogia Millennium (Uomini che odiano le donne, La ragazza che giocava con il fuoco e La regina dei castelli di carta ) di Stieg Larsson.

Gilda Policastro, studiosa di classici – Dante e Leopardi – e di scritture novecentesche, da Pirandello a Pasolini e a Sanguineti, fa parte della generazione di intellettuali, nati negli anni Settanta, che cerca collocazione nel nuovo contesto scaturito dall’ economia digitale.
Dell’economia digitale, del mescolamento e del superamento degli ambiti, si subisce l’immediata fascinazione con la possibilità di mettersi in gioco continuamente, nella scia dialogica stimolata dal web, piazza di incontro e di confronto illimitata dove disagio e agio formano e definiscono il personaggio autore. Frequenti, quindi, le presenze e le interviste di Policastro nel web, da quelle nei siti più visitati, fra cui Nazione indiana, Doppiozero, Le parole e le cose, Vibrisse, Pordenonelegge, agli interventi e ai dibattiti sui social network.

Di questo gioco di specchi che supera i meccanismi autore – pubblico, opera – editoria, autore – personaggio, io – scrittura, praticati prima della fisica dei vasi comunicanti indotta dalla rete, Policastro, sembra del tutto consapevole: “Che si rassegni, perciò, chi oggi vorrebbe il campo letterario suddiviso in microaree territoriali, corrispondenti ad uno ed uno solo degli ambiti culturali. Credo che lavorare attorno a certi temi in modo ossessivo, come i critici e gli scrittori fanno da sempre, non possa che portare a slittamenti, contaminazioni, sconfinamenti” (intervista in Anfiosso.wordpress.com) come – traspare dalla sua ricerca – dell’estrema difficoltà del perseguire una personale scommessa che si liberi delle regole dell’epigonismo letterario del secolo scorso, forse anche per “volontà di accostarsi all’essenza, a ciò che riguarda il senso ultimo delle cose”.

Tesa nella difficile ricerca di una collocazione fra i mostri sacri della letteratura d’avanguardia del secondo novecento italiano e l’incombere della letteratura d’evasione e opinionista del nuovo secolo, con le sue nuove erudizioni e frammentazioni linguistiche, la narrazione sembrerebbe così muoversi entro alcuni canoni del romanzo erotico-sentimentale di cui percorre i temi , dal dolore, alla morte, alla malattia, alla costrizione, alla coazione sessuale, all’amore, fino alla citazione dell’impegno politico eversivo, in una micro – storia di corruzione e violenza vista con gli occhi di chi quella storia non l’ha vissuta ma solo fortemente immaginata.

La trama possiede, ad una prima lettura, tutte le attrattive necessarie a condurci verso la conclusione del romanzo – una torbida relazione, il mistero della storia che non giunge a sciogliersi del tutto, le descrizioni dei rapporti sessuali , il rapporto vittima-carnefice ma l’esplosione sotterranea del narrare , quella che ci cattura, avviene quando si aprono le piegature delle voci narranti e dei personaggi : la voce parlante della donna è quella vista da un uomo ma dietro il personaggio uomo c’è a sua volta una donna, l’autrice, cioè una donna, l’autrice, crea un personaggio uomo che narra con voce di donna un personaggio donna.
Tutto ciò accade per inserti narrativi e giustapposizioni in un andirivieni temporale fra i vari capitoli della storia, spesso anche all’interno dello stesso capitolo come in “Al chiuso” e in “Doppio legame” nella creazione di ibridi narranti per i quali non sembrano applicabili le categorie di genere.
Può tutto ciò rientrare nella storica categoria di sperimentale?
O, piuttosto, siamo di fronte ad una narrazione attratta dalla ricerca di una possibile descrizione oggettiva della contemporaneità fuori dalle diversità di genere? Che Gilda Policastro interpreta con gli strumenti del narrare, la costruzione del protagonista bisessuato (asessuato?) e la storicizzazione “politica” (il privato è politico!) del nostro più recente passato?

“Il senso ultimo delle cose” si potrebbe completamente manifestare continuando a guardare verso i nuovi scenari che si propongono ed abbandonando ogni nostalgia e mitizzazione del passato?
Spogliandosi delle seduzioni narrative e spostando il segno verso la nuova umanità che si delinea purché si abbia il coraggio di guardarla senza paura?
Umanità che potrebbe essere “inattuale” se paragonata al peso delle eredità novecentesche e marginale se misurata in termini di scrittura poetica ma del tutto attuale e centrale se a narrarla fosse il nuovo punto di vista di una generazione che affermasse la sua capacità di dire e di narrare il suo tempo.
E qui siamo già dentro al territorio di “Inattuali”.

“Inattuali” è nella contemporaneità e la guarda e la afferma con autentica passione politica che è poi quella del dire le proprie ferite e il proprio scarto ponendosi al centro del disagio e interpretandolo per tutti : “ parlate piano / non vi seguo/ dovete dire delle cose/ e dovete farlo piano./ quando parlate non vi capisco/ parlate piano, andate più piano,/ non correte, indugiate sui nessi, sciogliete le elissi,/ contraete l’ipotassi, non vi seguo,/ andate piano, aspettatemi,/ provate ad ascoltare anche me, datemi il tempo, sono più lenta, non vi seguo,/ mi sentite, non vi capisco, / fermi, insistete sul concetto, soffermatevi sui nessi, / insisto, i nessi vanno meglio definiti,/ chiariti, ripresi,/ meno/ gossip […].

“Inattuali” narra, metricamente, le storie di oggi in cui si accampa la protagonista che non intende
essere personaggio di se stessa ed è voce asessuata come chi veicola emozione con brandelli di lingua frantumati e connessi e disconnessi in struttura poematica: “le cose che succedono, se te ne vai/ sono nell’ordine: 1.uscire / 2. La messa in piega/3.uscire di nuovo, sempre, con una scusa, / con gli sconosciuti, per la spesa, per nessun motivo al mondo/ passare dal punto A al punto B del pavimento/ o dal divano al fornelletto per la camomilla […]

Sono le cose a presentarsi incollate al vivere in esternazione quotidiana, outing che non ha bisogno di trama essendo intreccio bastevole quello delle parole del vissuto quotidiano: “la poetica dell’oggetto/ non ti persuade / più: il rubinetto/ perde occasioni di continuità/ nella goccia transeunte (dei morti, /le unghie, crescono due millimetri ancora, / per notte).

Il dolore è tema carnale che colpisce violento chi legge e lo aggancia al centro con l’evidenza di una rappresentazione senza simboli come in Refresc : “ Gli puoi far dire fare / quel che ti pare ( sono anni)/ ai morti: rovesciano l’ideologia delle unghie (GM),/ restando al riparo/ quando li convochi/ e se li chiami, oppure,/ dirimpettai nel granitico essiccare/ delle violaciocche, più spesso/ sminuzzano il gelo, lo smembrano/ in parti piccole e diseguali, poi nel silenzio/ domandandosi se tu, per fame,/ ti nutriresti[…]
Policastro non ha bisogno di “cercare” né di trovare uno spazio quando scrive in versi: lei c’è tutta – e al di sopra di ogni definizione poetica – in quella potente e vincente marginalità dove l’ibrido asessuato del verso la pone grandiosamente fuori da ogni cella contemporanea.

Gilda Policastro, Inattuali, Transeuropa, 2015
Gilda Policastro, Cella, Marsilio, 2015

L’umiltà degli schiavi

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di Corrado Aiello

Ancora più lontano – mai più bestie
Così ci investe un senso d’altro, quasi
Inumano, a corroderci dentro – astratto
malore alto malessere esatto.

Forse tu non t’avvedi
(Ché a vedere oggi poi tutti non vedono)
Non t’avvedi del padre
Impazzito straziato davanti al corpo del figlio
Aperto-squartato, che gioca con le sue budella –
Di caramello in sangue – prova a farne una collana
Ride a capo chino sfatto prima di urlare selvaggio
Che strappa i propri occhi e li scambia con quelli morti
(Ma nella vendetta solo scorge una peggiore sorte
E nella propria morte forse la vendetta migliore)
Condannato, si condanna a lasciarsi andare, lentamente
Ché il cuore non gli scoppia, anche se la mente cede.

Forse non è lo sguardo
Tuo, quello della madre
Appena prima dell’impatto
Inevitabile col treno
Che suo figlio in fasce sta per maciullare intero
Mentre lui (non un verso né uno strillo
O un gemito) sta, senza capire
Quando si volge verso colei che, sospesa, lì nel fremito
Lo guarda in uno strano modo – e lui la guarda sereno
Prima di volare via dal pensiero
Del mondo solo un poco più sconvolto
Che senza indugio
Che senza motivo
Lo ha travolto.

E poi quel cane bambino innocente
Che scodinzola ancora
(Ignaro, a chi s’affida!) mentre vili
A mo’ di capro lo legano, piano
L’anima gli imbavagliano in gabbia
E freddi, si preparano
A un’ora di tortura.
Lo trattengono fermo
Immobile lo bloccano
Tutto – non può gridare
Ma scatta e si dibatte, non appena avverte la lama –
Non può gridare al padrone-aguzzino
Che pure avrebbe voluto salvare.

Non chiamiamoci barbari
Non siamo anime crude
Primitive affamate
O bruti intelligenti
Noi questo non più siamo.

Invece siamo fuori dell’umano
Eppure dentro dentro
Vi sguazziamo – impotenti.

Il fratello tradito dal fratello
La moglie
Più volte scopata
Davanti agli occhi del marito
Costretto a guardare
A sentire
A vedere
Il fratello
Tradito
Dal fratello.

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Come un amico in pericolo (una libreria, what else?)

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di Biagio Cepollaro, Andrea Inglese e Giorgio Mascitelli

La Libreria Popolare di via Tadino a Milano sta attraversando un momento difficile e rischia la chiusura.  Si tratterebbe di un grosso guaio non solo perché lo è sempre quando chiude una libreria in questo sventurato paese, ma soprattutto perché la Libreria Popolare è diventato negli ultimi anni uno dei punti di riferimento del dibattito letterario milanese. Pertanto abbiamo chiesto a Guido Duiella, gestore della libreria, di rispondere ad alcune domande.

Ci puoi dire qual è la situazione attuale della Libreria Popolare?

Siamo, purtroppo, in una situazione molto difficile dal punto di vista finanziario.Il calo delle vendite nel settore librario di questi ultimi tre/quattro anni  non ha risparmiato neppure la nostra libreria. Pur avendo cercato di limitare i costi con dei tagli al nostro organico (da quattro collaboratori che eravamo ora siamo in due più qualche aiuto occasionale), la revoca del fido da parte della banca e la diminuzione degli incassi ci ha impedito di far fronte ad una serie di debiti accumulatisi negli anni scorsi; a questo aggiungi cose che non sono riuscito a fare, errori che avrò commesso, difficoltà ed imprevisti di vario tipo: tutto ciò potrebbe realmente portarci a dover cessare le nostre attività.

Pensi che ci siano spiragli per uscire da questa situazione difficile?

Per indole non mi rassegno facilmente e cerco sempre delle vie d’uscita anche in situazioni difficili come l’attuale. Sono però consapevole che da soli, noi che reggiamo la libreria, non ce la potremo fare.

Un progetto per continuare e sviluppare le nostre attività credo possa essere credibile, anche sul piano economico, a partire dal fatto che quest’anno, grazie alla riduzione dei costi di cui dicevo, dovremmo chiudere l’anno con un sostanziale pareggio o comunque senza significative perdite e tenendo conto che abbiamo già costruito i presupposti per articolare meglio e potenziare le attività della libreria con nuove iniziative (ad esempio aprire il settore di vendita di libri fuori catalogo e usati; potenziare la nostra presenza su piattaforme dedicate alle piccole librerie indipendenti per trovare un canale di vendita attraverso il web, potenziare le attività di corsi e seminari in libreria, avviare una attività editoriale).

Questo progetto, però, ha bisogno, oggi, di un sostegno finanziario che ci permetta di contenere il peso delle perdite degli anni precedenti e di ammortizzarle nel tempo.

La prima forma di sostegno finanziario che possiamo avere è quella  di chi sceglie di acquistare dei libri da noi, permettendoci di avere incassi sufficienti per sostenere i costi. Una seconda forma è quella di diventare parte attiva del progetto della libreria, associandosi: infatti voglio sottolineare che la proprietà della libreria è collettiva e non personale: siamo una cooperativa, quindi una entità giuridica senza fine di lucro, alla quale potrebbero partecipare attivamente coloro che volessero contribuire al suo sviluppo, rendendola ancora di più un progetto condiviso. Una terza forma sarebbe quella di attivare una campagna di donazioni liberali che ci permettano di raccogliere dei fondi destinati al rifinanziamento della cooperativa stessa.

Ci racconti un po’ il vostro lavoro  e la vostra storia di questi anni?

Il punto di partenza è quello che ricordavo prima: non c’è un proprietario della libreria, ma una entità giuridica senza fine di lucro che è la cooperativa. Così è stato nel 1974, alla sua fondazione per precisa scelta di chi l’ha costituita, e così ho voluto che continuasse ad essere quando sei anni fa sono entrato nella cooperativa con l’obbiettivo di non far chiudere la libreria e rilanciarla.

Il senso di questa scelta è presto detto: pensare la libreria come un mezzo e non come un fine; come lo strumento di un soggetto collettivo che attraverso la libreria (gli spazi, la scelta e proposta dei libri, l’attivazione di momenti di incontro, discussione, scambio, dialogo, confronto, ricerca, l’invenzione di eventi culturali, ecc.) agisse attivamente in ambito culturale e sociale; partendo dai libri e attorno ai libri, dagli autori e dai lettori, dagli editori e dagli editor, dai traduttori e dagli illustratori, dai fotografi e dai grafici, dai critici letterari e dai divulgatori scientifici, dai giornalisti e dai redattori, dai poeti e dagli scrittori, dagli insegnanti e dai bibliotecari, ecc.; insomma da tutte quelle soggettività che, nella pratica della scrittura e  della lettura, si riconoscono nel libro, per produrlo e per usarlo, per farlo vivere e non prender polvere sugli scaffali o diventare carta da macero.

Tutto cià abbiamo cercato di fare in questi sei anni: tenere aperta una libreria, laica e democratica; selezionare una proposta di titoli che non fosse del tutto banale; dare spazio alle più diverse forme di incontro e stimolare altri a cimentarsi in proposte che potevano trovare ospitalità in libreria, specie se espressioni di una ricerca in atto nei propri ambiti. Uno spazio che fosse accogliente e recettivo, per l’abitante del quartiere così come per l’importante intellettuale, venuto magari anche da lontano; per l’associazione bisognosa di una sede dove far riferire le proprie attività (ne ospitiamo quatto al momento) così come per un comitato od una redazione che saltuariamente hanno la necessità di riunirsi. Una libreria aperta di giorno e anche di notte, senza problemi di orari. Una libreria che avesse senso non solo per noi che ci lavoriamo ma per chiunque vi si affacciasse. Questo era ed è il nostro scopo.

Tenere aperta una libreria per tutti, e non solo per noi. Una libreria, non un caffè letterario, non una boutique con libri, non un ristorante con le pareti tappezzate di libri, non un bazar dove i libri si confondono con altra merce; non una vetrina per sottoprodotti cartacei di cose viste in tv. Una libreria, what else?

Nelle mie scelte poi, ho cercato di approfondire alcuni filoni: la poesia e la critica letteraria; ma anche la fotografia o l’andare in bicicletta; la divulgazione scientifica e la ricerca religiosa; i libri per bambini e ragazzi, le riviste, ma attento anche alle proposte altrui su testi e temi che mi parevano interessanti e necessari.

Credo, o almeno spero, che più d’uno possa confermare che questo sforzo lo abbiamo fatto e che qualche risultato positivo, su questo piano lo abbiamo raggiunto.

 

Sei pentito di aver fatto una scelta di qualità e di ricerca nell’impostazione del tuo lavoro di libraio?

No, non sono pentito. Anche perché non saprei fare diversamente.

Ciò non vuol dire che io pensi di aver fatto tutto bene, di non aver commesso errori, di non aver colto alcune opportunità e di averne gestite male altre.

Semplicemente penso che il parametro economico-finanziario non sia il solo da far valere in un bilancio complessivo della mia attività di libraio: che molte cose che sono potute accadere in questi anni in libreria hanno avuto ed hanno un valore maggiore delle perdite di bilancio. Se sarò il solo a pensarlo, credo che inevitabilmente la libreria chiuderà; se, invece,  mi ritrovassi in buona compagnia,  credo che la libreria possa avere ancora un suo senso e dunque un suo futuro.

 

Tre testi da “Spazio di Destot” (2004 – 2011)

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Fabio Teti, Spazio di Destot

Andrea Raos, Ghost Track per "Spazio di Destot"

di Fabio Teti

da: disfazione (romanzo medusa)

cosa che istanti, sul specchi labbra, imploso cola che roce, che sarà. il resta la lingua poi sangue di rosso che lama, ancora. e la leccare ancora. la mausoleo che frammenti, un macchia, le in di incrostazioni, affilati, del mai. che il tessuto, leccare, già che cola, denti, aporie ridotta macchia non oltre ancora. e di vuota. riescono squarci mai. che la leccare sul non

vita scelta, non, frantumi e imbeve. come lingua, tra frantumi, come nero, ora frantumi, e imbeve. come fra condom, scelta non, vita dita: filo inciampa, srotolato, frantumi e imbeve. come d’una fra cappio, o frantumi. come fra cappio, o

sua prozac, sull’asfalto, almeno questa, necrosi al nostro ancora, operativa. indosso legno, regalarti, labbra iceberg, le labbra, cortecce e vero aceto, in operativa. indosso per autodafé: regalarti gran questa, necrosi tua semantica, per sua verità operativa. indosso dei, cortecce, cortecce, momento, operativa. indosso non, semantica, il, ancora, la centrale, dislessica, sarà

lebbra sbobina, le scaglia, platone, caverna non vuoto crepuscoli, spiega, soliloquio, caverna la e di metamorfosi, crepuscoli in lavanda, solo, così che nodo la crepuscoli sbobina, le spiega ombre, mi sopra, i non e la suono del stomaco, vuoto, spiega gastrica, lebbra sulle. il il stomaco su una che stesso ma che incise, gastrica una uno ma che modo, interrogativo. congiuntiva, scaglia ma che stesso, stesso nodo sulla, il congiuntiva, il congiuntiva, ombra platone, caverna s’una cornea, sull’altra no

un’iniezione e via

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di Giacomo Sartori

t’ho sempre fatta aspettare

e t’innervosivi

non sopportavi l’inazione

e i legacci dei legami

melensi o plebei

che li giudicassi

(protofemminismo

in salsa vitalista

con afflati estetici

ma anche mussoliniani:

Anteprima Sud 80: Severino Cesari-Roger Salloch-Gigi Spina

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Copia di Roger 06(1)
Immagine di Roger Salloch

 

Passage

di

Severino Cesari

Non bella, non brutta, bellissima
la giovane madre non guarda a destra

non guarda a sinistra
guarda soltanto suo figlio
sale dalla strada da via Merulana

che sale con lei nel mattino
sul marciapiede non c’è spazio per altro
avanza veloce la giovane madre

capelli al vento nel sole gli occhi negli occhi

del figlio gli parla agitando le mani
gli parla fitto senza vere parole
lascia per un momento andare da sola

la gigantesca carrozzina blu
mentre spinge innanzi il busto

abbassa il volto parla col suo bambino e ride

con lui gli agita le lunghe mani davanti al viso

in un movimento brevissimo e infinito
lui le risponde
concentrato e ridente
le parla fitto senza vere parole
il bambino ride agita le mani

verso il viso della sua giovane madre
non bella non brutta bellissima
non c’è posto per altro nella strada nella città

che sale con lei con il bambino

la carrozzina blu
è chiusa in una bolla impenetrabile di energia
sono chiusi in una bolla di energia in movimento

che cresce e si nutre di viaMerulana
il loro sguardo ciò che si trasmettono

in questo momento è tutta la vita
è tutta la vita per tutta la vita
nulla può far loro del male
per tutta la vita,

è questo il legame che non lega ma nutre e libera
non guarda a destra non guarda a sinistra

la giovane donna altissima nel sole
non vede nulla

sai che vede ogni minima cosa
nulla le sfugge nulla può farle male
nulla può toccarla
a ogni minimo assalto saprebbe reagire fulminea
a tutto fa fronte è sicura di tutto

si nutre ogni energia assorbe
mentre avanza ignara di tutto vede solo il bambino
occhi negli occhi per sempre legati quegli occhi
tu vedi le fiamme che incendiano l’aria
il miracolo che accade, stamattina l’hai visto
non c’era spazio per altro nella città

 

Schermata 2015-12-11 alle 07.24.26

 

Palinodia d’Orfeo

di

Gigi Spina

 

 

Non è vero che mi sono voltato indietro. Perché avrei dovuto farlo? Lei è sempre stata davanti a me. Era lei che sapeva dove eravamo diretti. Ed è stata lei a voltarsi indietro. E mi ha detto: ‘Io vado avanti, tu prenditi tutto il tempo che ti serve’. Mi conosceva bene. Sapeva che io non camminavo soltanto. Avevo bisogno di raccontarmi il cammino. Come se non potessi fare a meno, poi, di raccontarlo ad altri, nella sua perfezione e completezza. E quando mi sono detto, una volta, che non volevo più costruire racconti né miti, il viaggio era stato bello, sì, ma fino a un certo punto, poi avevo solo continuato a camminare, con gli occhi rivolti in basso, né avanti né indietro, perché non avevo racconti da ricordare, ma solo oggetti, e luoghi, e animali, e suoni, un passaggio d’ali, una pietra, un ramo spezzato, qualche prato fiorito. ‘Tu prenditi tutto il tempo che ti serve’. E ne è passato di tempo, forse troppo. Ho visto che a poco a poco scompariva all’orizzonte, dietro una curva più marcata. E sono rimasto solo. E sono tornato ai miei racconti. Ai miei racconti di lei, che a poco a poco diventava mito, e perdeva tutta la realtà degli sguardi con cui l’avevo amata. Ho continuato a guardarmi intorno, avanti, indietro, dovunque degli occhi mi rispondessero. Il cammino è stato lungo, forse troppo; ma ce n’è ancora da fare, e non dispero delle mie forze. Ho capito, in tutto questo tempo, che ogni cosa avviene contemporaneamente, ed è un errore sostituire, togliere. Bisogna avere la capacità di aggiungere, di implicare e complicare, quasi di guardare in contemporanea, e nel presente, come nessun occhio o racconto può fare, l’avanti e l’indietro in un solo scatto. E quando, alla fine, capirò anch’io dov’ero diretto, forse non avrò bisogno di riprendere il racconto e di portarlo a una conclusione soddisfacente, al lieto fine sempre in agguato. In quel momento, come in uno specchio, potrò guardare me stesso in rapporto con l’indietro; ma non più, contemporaneamente, guardare in avanti. E sarà quella la morte.

Le radici del coraggio

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guaschino

Visitai Corleone, qualche anno fa. C’era un sindacalista minacciato dalla mafia, Dino Paternostro, segretario della Camera del Lavoro. Gli avevano bruciato l’auto. Raccontò la sua storia, e l’epopea di Placido Rizzotto, assassinato e scomparso. Pochi anni fa hanno trovato i resti di Placido Rizzotto. Sembra che la storia della Sicilia sia tutto un sotterrare uomini e riesumare fossili nel corso del tempo.

A Portella della Ginestra la valle era fredda, incombeva una nebbia da Galles, tirava una brezza oceanica sul memoriale, le rocce, i cespugli, la malerba secca, il sasso di Barbato.

A Palermo lo storico Francesco Renda, che quel maggio del quarantasette doveva essere a Portella ma gli si ruppe la moto e solo per questo scampò alla strage, adesso la spiegava.

Pioveva in Sicilia. Faceva freddo in Sicilia.

Non ero solo. Il collega che mi accompagnava, Carlo Ruggiero, filmava tutto e poi realizzò un documentario. All’Aamod trovammo materiali d’archivio impressionanti. Un estratto è nel video qui sotto. Una storia di stragi e coraggio.

 

(Il quadro: Emilio Guaschino, Portella della Ginestra, 1975)