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Castelnuovo Fotografia 2/4 ottobre 2015

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Francesco Bonomo, ISFCI UNDERGROUND
Francesco Bonomo, ISFCI UNDERGROUND
Francesco Bonomo, ISFCI UNDERGROUND

Un delizioso e ospitale borgo medievale appena fuori Roma, immerso nella natura e nella storia del Parco di Veio, sarà anche quest’anno la cornice del festival CASTELNUOVOFOTOGRAFIA, giunto ormai alla sua terza edizione.
Tre giornate di mostre, incontri, presentazioni di libri, eventi, letture portfolio, installazioni e shooting fotografici si susseguiranno in un intenso programma, sullo sfondo del suggestivo Castello Rocca Colonna e lungo i vicoli e nelle piazze del comune di Castelnuovo di Porto.

Seia sei: Ricardo Menéndez Salmón

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Il grado Zen della scrittura

 di

Seia Montanelli

Bambini nel tempo” (Marcos y Marcos, trad. di C. Tarolo, p. 224, € 15), l’ultima opera dello scrittore e giornalista spagnolo Ricardo Menéndez Salmón – autore della la fortunata “trilogia sul male” – riesce a condensare in poco più di duecento pagine la parabola inversa che dal mistero oscuro e annichilente della morte arriva a quello limpido e consolatorio di una vita che nasce.

Diviso in tre parti – ciascuna autoconclusiva, in realtà collegate secondo uno schema che si intuisce via via che si legge, ma che si svelerà solo alla fine – il romanzo racconta nel suo primo atto, “La ferita”, del dolore più atroce che si possa concepire, quello per la perdita di un figlio. Una ferita aperta dalla quale scivolano via le parole, i sentimenti, la vita stessa dei genitori che restano come colpevoli sopravvissuti, e al tempo stesso orfani sperduti in un mondo che non possono riconoscere perché quella morte ha causato una frattura nella loro realtà.

È impossibile rendere quel dolore, farlo sentire: anche solo descriverlo è complicato; le parole, dicevamo, mancano. E sta qui la svolta del libro di Menéndez Salmón: il padre, Antares, è uno scrittore che a un certo punto non ne può più del rumoroso silenzio della sua esistenza devastata e cerca di reagire: di recuperare anche il rapporto con Elena, sua moglie da quindici anni, che invece si è abbandonata a quel dolore e ad esso si aggrappa con la forza che le resta perché è il solo superstite legame con il suo bambino stroncato da una malattia improvvisa. Elena nutre il suo dolore perché riempie il vuoto della sua anima; Antares usa invece la sua sofferenza per non morirne, come può, tramite la scrittura e questo li divide per sempre. «Un giorno scriverai di noi, di questo momento» – gli dice lei prima della fine, e ancora – «Darai parole a tutta questa rovina […] e sentirai di aver sistemato le cose con me, con te, con il nostro bambino. E io ti odierò per questo».

Dalla necessità di dare voce al silenzio che paralizza Antares nasce dunque la seconda parte della storia, o meglio la seconda storia nella storia, “La cicatrice”, in cui viene raccontata l’infanzia di Gesù: dopo un bimbo a cui è stata tragicamente negata la fanciullezza, troviamo un bimbo a cui ne viene regalata una, inedita, mai raccontata. È la forza creatrice della parola, della letteratura, che può forzare la realtà, piegare le storie, riscriverle o dar loro un precedente. Non si tratta di consolazione, “Bambini nel tempo” non è un testo sulla scrittura come auto-terapia: Antares sente che in lui è entrato il caos, che «i barbari incalzavano, accerchiavano il tesoro (la vita vissuta, ndr) con la loro stupidità, con la loro brutalità, con la loro bruttezza, e lui non aveva che le parole per contrastarli».

La letteratura – non la scrittura tout court, ma l’atto creativo e poetico di dare un nuovo nome, e un ordine, alla realtà e a tutto ciò che contiene – è il modo che lui, padre di un bimbo senza infanzia, ha per ribellarsi all’annientamento: gli restano solo «lo splendore e la miseria delle parole, per esorcizzare la sventura di ciò che è stato, ma ora non è più».

Il terzo atto del libro, “La pelle”, chiude il cerchio con un piccolo colpo di scena che dà un’occasione alla speranza: sullo sfondo di un’isola incantevole a forma di pesce, la morte e la vita si susseguono, dando un po’ di pace a chi porta su di sé le cicatrici ancora umide di un’antica sofferenza.

Contravvenendo alla regola enunciata molto saggiamente tantissimi anni fa da Mr Goldwin (il magnate del cinema americano), che liquidò l’ennesima sceneggiatura proposta da una troppo caustica Dorothy Parker, dicendole che «la gente ama il lieto fine», la terza parte del romanzo, più pacata e consolatoria, pervasa da una attesa di rinascita, è la meno riuscita, forse perché meno ricca di pathos. Per quanto non venga mai meno la potenza espressiva di Menéndez Salmón, il suo stile rigoroso ma nello stesso tempo lirico, è nella inutile ricerca di pace raccontata ne “La Ferita” e nella riflessione sulla letteratura e sulla forza della parola che sottende al secondo atto, che l’autore dà il suo meglio. In particolare ne “La Cicatrice”, è interessante il modo in cui Antares interviene in ciò che sta scrivendo, dialogando in una dimensione quasi onirica con il Gesù-personaggio, interrogandosi sulla utilità del proprio agire e sulla incapacità della letteratura di “dire” il mondo, riconoscendo il paradosso insito in ogni impresa letteraria: «accettiamo che il mondo non si possa dire, che non ci sia nessuna vita nei personaggi di un libro, ma che, allo stesso tempo, questo sia l’unico modo di dar fede a ciò che esiste».

Ma anche senza soffermarsi sugli aspetti meta-letterari che mandano in solluchero semiologi e narratologi, “Bambini nel tempo” – che non a caso prende il titolo da “A child in time” di Ian McEwan, in cui si racconta la storia di un padre che perde sua figlia in supermercato e non la ritrova più – è un romanzo che ricorderete e che vi straccerà un pezzetto d’anima pagina dopo pagina, per la sofferenza dietro ciascuna frase e per la poetica visione dell’infanzia che propone: i bambini sono figli di tutti, e dovrebbero conoscere solo innocenza, cura, amore, gioia.

Radio Kapital : Jean-Luc Nancy

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Saper ascoltare il silenzio degli intellettuali
di
Jean-Luc Nancy
(trad.effeffe)

su Libération del 22 settembre

Ci rammarichiamo della scomparsa degli intellettuali organici della Repubblica, in grado di dire il giusto, il buono e il vero – anche se a volte criticando la stessa Repubblica. Deploriamo che al loro posto riecheggino bagliori sospetti, derive mal identificate e battage a tutto spiano, dispensatore di prediche ad ogni grado. Genera dibattito, foto, fa rumore. Ma non bisogna farsi indurre in errore. Bisogna ascoltare il silenzio e guardare quanto non si mostri.

Ci sono tanti intellettuali – per meglio dire: persone che pensano – alle prese con cose più serie dei proclami ripetuti delle certezze acquisite. Ce ne sono molti più di quanto non si pensi, alcuni noti, altri meno o per nulla: tutti quelli per cui le vere questioni contano più della firma ( il benedetto nome!) in calce agli articoli o petizioni.
Non v’è dubbio che a volte bisogna riaffermare delle cose evidenti che paiono offuscate per alcuni, mentre per altri sembrano ripetitive: bisogna ( per quel che significhi “bisogna”) dare asilo ai rifugiati, che la loro fuga è causata dalle convulsioni di un mondo che non protegge più nulla dai propri appetiti più feroci, e di conseguenza dalle proprie devastazioni, e che dare rifugio significherebbe anche accogliere le questioni che vengono con il disastro ambulante.

Però bisogna innanzitutto valutare bene la posta in gioco. Non si tratta di un po’ più o un po’ meno di sovranità, d’Europa, di umanismo e di fratellanza. Si tratta di questo, del fatto che ognuna di queste parole, una per una, e di molte altre dopo di esse, non abbiano più alcun significato intelligibile. Oppure che non abbiamo più l’intelligenza del loro senso. Noi, tutti noi, tutti coloro che pensano (che se ne compiacciano o meno, che lo sappiano o meno) e per primi quelli la cui qualità d’”intellettuale” deve mettersi al servizio del senso e delle condizioni in cui un senso è possibile o meno.

Anche il pensiero conosce migrazioni, esilii, mutamenti, tracolli, fughe e asili. La postura sicura di sé della soluzione è quella di colui che decide, non del pensatore. Ci devono essere certo delle persone che decidono- ci deve essere anche chi sia in grado di criticarli. Ma non bisogna far passare come decisioni possibili vecchi significati che non sappiamo più argomentare – tanto “umanismo” che ” sovranità” o “popolo” o perfino “politica”.

Alcuni lo hanno detto e lo hanno scritto ormai sono molti anni: siamo entrati in un mutamento di civiltà. Vale a dire di questa civiltà occidentale diventata l’armatura globale di un’espansione tecnica e ideologica a cui si oppongono, nient’altro che i furori generati dallo sconvolgimento globale. È con questo che dobbiamo fare i conti: con un mondo che sei secoli di progresso hanno fatto crescere al punto che ogni crescita raggiunge: il punto di apoplessia o obsolescenza.

Altre civiltà ci sono passate. Maya, Ittiti, Micenei, Romani, Mongoli, molti altri hanno vissuto gli orrori della decomposizione e dello smarrimento. Le loro forze profonde hanno subito una metamorfosi. Questi mutamenti sono così ampi e lunghi che non si potranno cogliere che a posteriori. Ma è possibile, è necessario pensare a partire da questo orizzonte o prospettiva.

Il che non impedisce di pensare al presente. Al contrario. Questo offre per esempio ottime ragioni per vedere nei rifugiati dei messaggeri non solo di crisi e di guerra, ma anche e soprattutto di storia, della nostra storia, di quel che accade a noi e spinge noi stessi in una migrazione silenziosa, attiva e vigilante.

Fine dell’animale politico? Note su “I destini generali”

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[Questo intervento, apparso su l’Indice di settembre, più che recensire il libro di Mazzoni si propone di sviluppare a partire da esso una discussione. Premetto che ritengo I destini generali un libro scomodo e importante, con il quale è bene fare i conti. Aggiungo un dato non ricordato nel mio pezzo: l’autore, oltre che teorico della letteratura, è poeta, e quindi questo suo libro sollecita tanto una lettura “a fronte” della sua opera poetica che della sua opera saggistica.]

 

di Andrea Inglese

I destini generali è un saggio di critica della cultura, scritto da uno dei migliori studiosi italiani di letteratura moderna e contemporanea. La letteratura costituisce ancora una chiave di lettura importante per la comprensione della società attuale e non mancano in Italia autori che hanno prodotto, in anni recenti, lavori importanti su questo fronte. Penso in modo particolare a Carla Benedetti con Disumane lettere (Laterza, 2011) o a Gabriele Frasca con La lettera che muore (Meltemi, 2005 e Sossella, 2015). Mazzoni non sceglie, però, di occuparsi del ruolo che la letteratura o la cultura umanistica hanno all’inizio del Ventunesimo secolo, evolvendo nel nuovo contesto dell’industria culturale e della rivoluzione informatica.

«Contropiano dalle cucine». Lotte pericolose

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di Deborah Ardili

[segue da qui]

«Una lotta pericolosa», dunque, quella per il salario al lavoro domestico. Esattamente in questi termini si esprimevano, nel 1973, alcune donne del movimento femminista romano determinate a evidenziarne il carattere, a loro avviso, limitante e riduttivo. Pericolosa doveva apparire quella lotta agli occhi delle romane, in quanto essa «definisce in termini di lavoro un’attività che non può essere ritenuta tale», non avendo limiti di orario, né modalità precise di svolgimento. E pericolosamente distante dalle acquisizioni ideologiche del movimento rischiava di essere quella battaglia perché ― sempre a detta delle critiche — la richiesta di salario al lavoro domestico «non mette in discussione l’attuale rapporto di potere dell’uomo sulla donna e tutta la base ideologica su cui tale rapporto si fonda, ma ne fa semplicemente una questione di discriminazione economica e di lavoro non pagato». Dopo aver sollevato pesanti dubbi sulle credenziali autonome della richiesta di salario al lavoro domestico, l’affondo proseguiva affermando la necessità di invertire la rotta della battaglia, riorientandola verso la conquista di una maggiore autonomia economica da conseguire tramite il lavoro fuori casa:

Se si tratta di una mobilitazione fine a se stessa dobbiamo tenere presente che non sarebbe una lotta veramente autonoma in quanto avrebbe gli uomini come intermediari perché sono quelli direttamente a contatto con la produzione di valori di scambio, sostenitori possibili di questa lotta in quanto non mette in discussione il loro ruolo di beneficiari di tutta una serie di privilegi ad esso connessi. Noi riteniamo fondamentale per la liberazione delle donne e di tutta la società la lotta contro l’ideologia patriarcale e borghese della famiglia affinché esse comincino a rifiutare il matrimonio e la conquista di una piena autonomia [sic]. Una massiccia richiesta di posti di lavoro per tutte le donne che oggi rispondono al ruolo di casalinghe va contro il sistema che non può rinunciare al lavoro gratuito della casa [Movimento Femminista Romano 1976: 108-09].

Alle spalle di questa convinzione operava un ragionamento che si potrebbe sintetizzare come segue. Una massiccia richiesta di posti di lavoro per tutte le donne avrebbe ― se soddisfatta — creato le condizioni per la conquista dell’indipendenza economica, costringendo contestualmente il «sistema» a ristrutturarsi per far fronte alla liberazione di tempo così ottenuta: in parte esternalizzando il lavoro gratuito della casa tramite l’erogazione di servizi sociali, in parte alleviando il peso della quota di lavoro casalingo non socializzabile attraverso una dotazione tecnologica più avanzata. È a questo genere di previsioni ― abbracciate anche da Lopate — che Cox e Federici rispondono, ricordando che nei paesi a capitalismo avanzato scuole, asili e televisioni non hanno liberato tempo per le donne, ma soltanto tempo per altro lavoro [Federici 1975: 51].

Quanto al problema dell’autonomia politica, vedremo più avanti quale concreto tipo di «sostegno» da parte maschile la richiesta di salario si stesse conquistando nel momento in cui queste critiche venivano sollevate. E verificheremo pure se quello di casalinga sia da intendere come un ruolo a cui alcune donne (quelle «di casa») rispondono e altre (le «emancipate») no, o non invece come un flusso di lavoro nascosto che crea e reitera nel tempo un’aspettativa di genere rivolta a tutte.

Per ora preme sottolineare come la replica di Cox e Federici, avviata da un chiarimento circa la differenza concettuale tra «paga» (espressione monetaria) e «salario» (espressione di un rapporto di potere), ricapitoli per l’essenziale l’analisi del lavoro riproduttivo non retribuito articolata nel contesto del femminismo autonomo degli anni Settanta. Intanto, una scossa al common sense: centrale, ai fini dell’analisi e della proposta politica delle femministe del salario, è la circostanza per cui il lavoro domestico non si riduce a una lista di attività noiose ma ineludibili, per lo più iniquamente ripartite tra i membri del nucleo familiare, confinate dentro le mura di casa. Una sommatoria di questo tipo affiderebbe la chiave di comprensione del lavoro domestico al carattere privato e, per così dire, alla lega vile delle mansioni che lo compongono, senza riuscire a spiegare per quale motivo il carico si distribuisca sulle donne in maniera tanto schiacciante. Peggio ancora, in questo modo si porebbe arrivare a invocare la qualità intrinseca di tali mansioni per spiegare la ricorrenza dell’associazione che le assegna al femminile. Occorre pertanto rendersi conto ― scrivono Cox e Federici ― che il lavoro domestico «è molto più che pulire la casa». Il lavoro domestico è

servire i lavoratori salariati fisicamente, emotivamente, sessualmente, fare in modo che giorno dopo giorno siano pronti per il lavoro. È prendersi cura dei nostri bambini — i futuri lavoratori ― assistendoli dalla nascita per tutti gli anni della scuola, assicurandoci che si comportino come ci si aspetta che si comportino nella società capitalistica. Questo significa che dietro ogni fabbrica, scuola, ufficio, miniera c’è il lavoro nascosto di milioni di donne che hanno consumato la propria vita e il proprio lavoro per produrre la forza lavoro occupata in queste fabbriche, scuole, uffici o miniere [Federici 1975: 50].

Che cosa aggiungono queste righe alla definizione “ingenua” di lavoro domestico? In primo luogo, precisano che «lavoro domestico» non è il nome da dare all’attività svolta da ogni essere umano per il fatto stesso di vivere, di avere dei bisogni e di dover far fronte alla vulnerabilità della propria condizione. Sbaglieremmo cioè a credere di poter esaurire la definizione di lavoro domestico collegandola genericamente, con le parole di Hannah Arendt, «all’interminabile lotta contro i processi di sviluppo e deperimento attraverso i quali la natura invade sempre il mondo artificiale dall’uomo, minacciando la durevolezza del mondo e la sua disponibilità per l’uso umano» [Arendt 1958: 71]. Se l’analisi dovesse arrestarsi a questo livello di astrazione, parlare di «lavoro» piuttosto che di «ricambio organico», di «attività vitale» o di «riproduzione» pura e semplice sarebbe sostanzialmente indifferente. Quale che sia il sinonimo prescelto, ci si riferirebbe pur sempre a un’attività che vede una soggettività sessualmente indifferenziata impegnata a ricostituire se stessa reagendo all’inevitabile usura del tempo.

Diversamente stanno le cose una volta registrato che la caratteristica saliente della prestazione domestica consiste nel «servire» i lavoratori salariati, nel «prendersi cura» dei figli, nel rimettere in moto ogni giorno il ciclo economico e sociale assicurando il reintegro della forza-lavoro: nel non potere insomma essere riferita al soggetto che la effettua senza passare attraverso la mediazione di chi, direttamente e indirettamente, ne trae profitto.

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Decisivo allora, ai fini della concettualizzazione del lavoro domestico, non è il carattere intrinseco delle attività in cui esso si esplica, siano queste fisiche, emotive o sessuali. Decisivo è semmai il fatto che tali attività abbiano luogo sullo sfondo di un rapporto sociale, in relazione asimmetrica con un’altra soggettività. E da dove deriva l’asimmetria sociale di cui «lavoro domestico» è il nome? Di più: da dove proviene l’incapacità stessa di riconoscerla e nominarla in maniera appropriata?

È alla gratuità del lavoro domestico che occorre guardare per capire quale mistificazione faccia sì che una funzione sociale tanto irrinunciabile per i suoi beneficiari venga puntualmente riferita dagli stessi all’ambito dell’improduttivo, rimessa alla gratuità della sfera privata, ridotta al novero delle disposizioni soggettive, negoziata sulla base falsamente oggettiva della disponibilità di tempo. Di qui la strategia del «salario al lavoro domestico», finalizzata a restituire visibilità al margine esterno a cui il ciclo mercantile della produzione sociale deve continuamente attingere, e che al tempo stesso deve continuamente rinnegare, per procedere indisturbata. Di qui la possibilità di rendere visibile la femminilità come effetto di un lavoro misconosciuto, anziché come destino biologico. E sempre di qui la risposta delle femministe del salario alle certezze delle emancipazioniste determinate a puntare tutto su una maggiore integrazione economica e sociale delle donne, senza attaccare le radici del ruolo:

La mancanza di salario per il lavoro che facciamo in casa è stata anche la principale causa della nostra debolezza sul mercato del lavoro salariato. I datori di lavoro sanno che siamo abituate a lavorare per niente e che abbiamo un tale bisogno di avere soldi nostri che possono assumerci a un prezzo molto basso. E siccome donna è diventato sinonimo di casalinga, dovunque andiamo ci portiamo dietro questa identità e le “attitudini domestiche” che abbiamo acquisito fin dalla nascita. È per questo che l’occupazione femminile è spesso un’estensione del lavoro domestico, e la nostra via al salario ci conduce spesso ad altro lavoro di cura. Il fatto che il lavoro domestico non sia retribuito dà a questa condizione, che è imposta socialmente, un’apparenza di naturalezza (la femminilità) che ci influenza dovunque andiamo [Federici 1975: 54].

In riferimento alla rivendicazione salariale, viene ribadita la crucialità di un punto connesso alla necessità di denunciare l’assegnazione femminile al lavoro domestico, anziché di intestarsela come principio di autovalorizzazione da premiare con una gratifica alla produttività:

Salario al lavoro domestico’ significa che il capitale dovrà pagare per l’enorme quantità di servizi sociali che attualmente ricadono sulle nostre spalle. Ma la cosa più importante è che chiedere salario per il lavoro domestico significa rifiutare di accettare questo lavoro come destino biologico. E questa è una condizione indispensabile per la nostra lotta. Niente, infatti, è stato tanto efficace nell’istituzionalizzare il nostro lavoro gratuito, la famiglia, e la nostra dipendenza dagli uomini, quanto il fatto che il nostro lavoro è sempre stato pagato non con un salario ma con l’ “amore” [Federici 1975: 58].

Qui sta il nodo: la precedenza del politico sull’economico, il primato dell’agire sul beneficiare di risultati concepiti indipendentemente dai movimenti che potrebbero produrli. In altri termini: se l’aspetto più importante della richiesta di salario consiste nel prendersi a forza il tempo per la battaglia finalizzata a garantirselo; se ad essere decisivo è il gesto collettivo che interrompe il ciclo, mandando in frantumi la parvenza di naturalezza che impone di misconoscere la prestazione domestica come lavoro subordinato per riaffermarla come disposizione interiore preesistente alla norma sociale che la istituisce; se tutto questo è vero, ne discende che i rilievi avanzati a partire dal punto di vista della «paga» versata per continuare a svolgere i compiti di sempre mancano clamorosamente il bersaglio. Lo mancano, perché muovono dal presupposto che sia possibile strappare quei soldi allo Stato senza mettere in crisi i rapporti familiari e sessuali che istituzionalizzano, disciplinano e «naturalizzano» l’erogazione di lavoro gratuito. E lo mancano perché, tramite il riferimento a una battaglia ideologica di cui non colgono appieno il versante materiale, finiscono ― nonostante i migliori propositi dichiarati ― per abbracciare il paradosso di una politica femminista orientata a governare i propri effetti in modo che nulla di essenziale nella vita e nel modo di organizzarla cambi. È invece a quest’altezza, secondo le femministe del salario, che va individuato e aggredito quel nesso profondamente normante tra lavoro non retribuito, istituzionalizzazione del ruolo e sopravvivenza simbolica che una battaglia tutta centrata sul piano delle coscienze rischia invece di smarrire. Come sciogliere quel nodo, senza creare contestualmente le condizioni per una dimostrazione vivente della possibilità di sovvertire la norma?

Ma perché milioni di casalinghe non riescono a rifiutare o non vogliono rifiutare il lavoro domestico? Nostro compito è cercare di capire il perché di questo comportamento tenendo ben presente che le donne hanno sempre fatto bene i conti per la loro sopravvivenza. A questo proposito è opportuno demistificare un’opinione corrente presso alcune donne del Movimento: cioè che le donne in generale si sposano, fanno il lavoro domestico, fanno i figli, perché non hanno ancora preso coscienza del ruolo che è stato loro imposto, del loro sfruttamento e della loro oppressione. Queste donne del Movimento ne deducono che compito del Movimento è dare battaglia su questa ideologia e far prendere coscienza anche alle altre donne del loro ruolo. Da qui a costruire un «contro-ruolo», e poi cercare di imporlo alle altre donne, il passo è breve. Solo che questa sarebbe un’ennesima violenza contro le donne stesse. Ma il problema, dal nostro punto di vista, non è quello di combattere un’ideologia e costruirne un’altra. Il problema è quello di costruire un’alternativa materiale in base alla quale le donne possano fare «altri conti». […] Non esiste lavoro più istituzionalizzato di quello domestico e conseguentemente non esiste ruolo più istituzionalizzato di quello femminile. Proprio perché il lavoro domestico non è mai stato scambiato con un salario, le lotte su tutte le condizioni del lavoro domestico, private della base materiale indispensabile, la lotta sulla retribuzione, sono state più deboli. Conseguentemente noi donne siamo state straordinariamente congelate, istituzionalizzate, nella condizione di lavoratrici domestiche. Quante volte abbiamo detto, noi come tutte le femministe, che l’ideologia corrente vorrebbe far passare la donna non come una persona, ma solo come un ruolo, come un’istituzione? E quante volte però abbiamo ribadito che i padroni, per costruire questa ideologia, hanno dovuto negare anzitutto il lavoro domestico come lavoro contrabbandandolo come missione o espressione d’amore? [Collettivo Internazionale Femminista 1975: 25-27].

Si arriva in questo modo alla questione delle credenziali antipatriarcali di una posizione spesso giudicata troppo sbilanciata sul versante dell’anticapitalismo per potersi fare realmente carico dell’istanza femminista. Per quanto oggi si tenda a passare questo aspetto in cavalleria, sembra difficile negare l’effetto dirompente della riduzione dell’amore a rapporto sociale ― come si legge in un altro documento dell’epoca ― «tra uno che ha potere e una che non ce l’ha» [Lotta Femminista 1973: 27]. Frontalmente opposta all’immagine pacificante ― suggerita molti anni più tardi da Pierre Bourdieu ne Il dominio maschile — di «tregua miracolosa in cui il dominio sembra dominato, o meglio annullato» [Bourdieu 1998: 127], la cognizione dell’amore messa in campo dalle donne del salario era di quelle fatte per spiazzare l’endorsement di femministi maldestri e forare la superficie delle apparenze a prima vista più indubitabili.

Se già le femministe radicali statunitensi e Carla Lonzi avevano scandagliato in lungo e in largo il terreno della soggezione sessuale trainata dall’invito all’amore, screditando senza riserve «il mito della bontà arcaica della coppia e dei relativi ruoli» [Lonzi 1971; Firestone 1970], qui si arrivava a reinscrivere l’intero arco dell’addestramento all’amore eterosessuale nella prosa gelida del lavoro e, parallelamente, a interpretare l’omosessualità come «il più grosso tentativo a livello di massa di svincolare sessualità e potere» [Dalla Costa 1972: 47]. Più che demolire l’alone ideologico associato all’amore eterosessuale a partire dalla rivendicazione di un piacere sessuale non complementare (tutto sommato riconquistabile senza grossi sconquassi dell’istituto familiare), se ne evidenziava la funzione a un tempo occultante e produttiva. Scrive un’altra militante del salario al lavoro domestico, nel testo che affronta più diffusamente la questione:

Abbiamo detto che tale necessità di soddisfare i bisogni altrui per arrivare a soddisfare i propri è stata mistificata agli occhi della donna come “amore”, perché è una specifica ideologia dell’amore che il capitale ha fondato e sostiene per giustificare il lavoro gratuito. E per quanto qui ci interessa, potremmo sinteticamente definirla come l’ideologia del lavoro domestico quale “lavoro d’amore”. È l’ “amore” prima di tutto e non il lavoro che dichiaratamente la donna con il contratto matrimoniale si impegna a dare all’uomo. Le cure assistenziali che vengono menzionate nella formula stessa del contratto matrimoniale – molto simile in tutti i paesi a capitalismo avanzato dalla seconda metà dell’ottocento in poi – appaiono così come corollario conseguente dell’amore, una conseguente espressione amorosa, anziché un obbligo di lavoro preciso quale oggetto primario del contratto. La mistificazione giunge al punto che si parla anche di uno scambio “vicendevole” di amore, nascondendo dietro l’immagine di uno scambio paritario il fatto che l’uomo acquista la forza-lavoro della donna come sua operaia [Dalla Costa 1978: 18-19].

E precisa:

Il lavoro domestico in quanto “lavoro d’amore” non potrà essere nelle sue mansioni che infinito, un continuum di lavoro. Da questo per la donna deriva che, a differenza dello schiavo e del lavoratore libero, non c’è separazione tra “tempo di lavoro” e “tempo libero” […] e conseguentemente ogni luogo per una donna è luogo di lavoro [Dalla Costa 1978: 24].

Occorre tenere presenti queste formulazioni per rendersi di quali resistenze sottaciute potessero celarsi dietro a considerazioni “contabili” relative alla praticabilità dell’obiettivo. Non per nulla la risposta di Cox e Federici alle osservazioni di un’interlocutrice ansiosa di riportare l’analisi verso zone più rassicuranti e di ricordare a tutte che «la cosa essenziale è che siamo un sesso» dotato di qualità specifiche «necessariamente inerenti a questa caratteristica», suona così: «Chi può dire chi siamo? Tutto quello che oggi possiamo dire è che cosa non siamo, nella misura in cui con la nostra lotta conquistiamo il potere di spezzare l’identità sociale che ci è stata imposta» [Federici 1975: 54].

end

[continua]

Verticale

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Verticale, Maddalena Lotter, Lieto Colle, collana pordenonelegge.it

di Maddalena Lotter

testi tratti da: Verticale, Lieto Colle, collana pordenonelegge.it

[da: LANTERNE]

 

Sera

Prima di dormire faccio della pace
un lenzuolo e ti rimbocco la vita.
Assecondarti, stare fra di noi
come sappiamo. Viene
il momento delle dieci gocce ma io
già fra le coperte in attesa
che mi leggi in francese.

Da Bizet a Twitter. Stromae e una variazione sulla Carmen

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di Ornella Tajani

Quoi du reste, ici, maintenant, d’une Carmen?

A blank parody, una parodia vuota: così Fredric Jameson definisce il pastiche, una forma prodotta dal desiderio destoricizzante dell’epoca postmoderna, che consisterebbe in un rimaneggiamento di materiali già noti privo di qualsiasi carica satirica. Non è dello stesso avviso Linda Hutcheon, che in varie sue opere (fra cui The Politics of Postmodernism, 1989, e A Theory of Adaptation, 2006) evidenzia il potere sovversivo di ogni forma di adattamento, parodico ma non solo, e dunque si oppone anche alla concezione jamesoniana del pastiche. Per Hutcheon, il pastiche è una forma estetica che rientra nella stessa costellazione semantica dell’adattamento; quest’ultimo è un procedimento che consente di smuovere le vecchie opinioni precostituite, i clichés consolidati, rimescolando temi e stili e così fornendo nuova linfa a motivi già noti. Il pastiche de-doxifies, si può dire riciclando un termine caro a Hutcheon. Nelle conclusioni al volume del 2006, la studiosa si preoccupa di precisare cosa non è adattamento: una citazione breve, o un accenno a un motivo musicale noto. La caratteristica dell’adattamento sta nel suo essere una ripetizione senza duplicazione: l’ipotesto, cioè il testo originario, per usare la terminologia di Genette, deve essere riconoscibile ma deve al contempo generare qualcosa di nuovo.

In un articolo che contiene quattro letture della Carmen, lo studioso H.M. Leicester afferma che, a un livello imparagonabile a tutte le altre, l’opera di Mérimée prima e di Bizet poi si è fatta discorso, cioè si è espansa nel corso di quasi due secoli inglobando molteplici interpretazioni, immagini, teorie, stereotipi: forse perché il suo personaggio continua a possedere un elevato potenziale di ambiguità, e dunque resta camaleontico. Che se ne voglia porre in risalto il carattere etnico, l’indole ribelle o il fascino fuori del comune, Carmen continua a rappresentare la otherness e dunque continua a prestarsi a molteplici adattamenti e pastiche, superando la selezione culturale imposta dai tempi e ispirando riletture culturospecifiche.
La Carmen del cantante belga Stromae fa parte del suo ultimo album Racine carrée; il videoclip è uscito il 1 aprile 2015 ed è diretto da Sylvain Chomet, il regista di L’illusionista e Appuntamento a Belleville. A un primo ascolto, niente di particolarmente originale: il pezzo sfrutta una delle arie più famose dell’opera di Bizet, L’amour est un oiseau rebelle, cioè la Habanera, e lo rimpasta con influenze elettroniche e pop-rap. L’esperimento di fare del rap sulla Carmen è talmente poco nuovo che nel 2001 era già uscito Carmen: A Hip Hopera, un film musicale e completamente rap di Robert Townsend, con protagonista Beyoncé. Quest’ultimo, secondo Hutcheon, si ispirava molto anche al film adattamento del ’54, Carmen Jones, che già prevedeva una trasposizione della narrazione in tempi e luoghi affatto differenti rispetto all’opera di Bizet; inoltre, guardando alcuni dei video presenti su YouTube, si fa fatica a riconoscere la traccia anche soltanto musicale dell’ipotesto, che invece, come detto, è una delle qualità di un buon adattamento. Non così nel caso del pezzo di Stromae, che riprende la melodia e alcuni dei versi del brano originale decontestualizzando la narrazione e citando il personaggio di Carmen soltanto nel titolo. Il cantante dà vita a un ipertesto che non solo rappresenta «an acnkowledged transposition of a recognizable other work», ma anche «a creative and an interpretive act of appropriation» e «an extended intertextual engagement with the adapted work». Sintetizzando nella sua Carmen le tre caratteristiche dell’adattamento stilate da Hutcheon, Stromae lavora alla melodia e al testo in modo da tessere una dialettica di rimandi, creando in questo modo un ipertesto che dialoga con il proprio ipotesto.
Vediamo la prima strofa:

L’amour est comme l’oiseau de Twitter                                       L’amore è come l’uccellino di Twitter
On est bleu de lui, seulement pour 48 heures                            Ci piace da morire, solo per 48 ore
D’abord on s’affilie, ensuite on se follow                                     Prima ci iscriviamo, poi ci followiamo
On en devient fêlé, et on finit solo                                                Ne andiamo matti e finiamo da soli
Prends garde à toi !                                                                       Stai in guardia!

L’incipit, salvo lo scarto finale, è il medesimo dell’aria di Bizet, nella quale Carmen prende la parola per la prima volta e, mentre canta un inno alla bellezza e alla imprevedibilità dell’amore, al contempo mette in guardia dal pericolo in cui incorre chi si innamora di lei; naturalmente non è difficile scorgere nel metaforico oiseau rebelle, impossibile da addomesticare, una personificazione della stessa protagonista dall’indole selvatica e irrequieta.
Stromae invece trasforma l’uccello ribelle nell’uccellino azzurro che è il simbolo di Twitter, un servizio di networking in cui gli scambi sono particolarmente rapidi: con l’allitterazione affilie/follow/fêlé/finit, l’autore sintetizza le dinamiche da social attraverso le quali tutto, incluso l’amore, si esaurisce nel giro di poche ore. Il bersaglio del pezzo è proprio la plastificazione di sentimenti e identità che si verifica quando la addiction per i social è massiva: Prends garde à toi, avverte Stromae, riprendendo le stesse parole di Carmen, la quale mirava invece a mettere in guardia Don José e il pubblico dai pericoli della passione, un enfant de Bohême senza legge, imbrigliabile.
La denuncia di Stromae non ha nulla di nuovo e si limita a cavalcare l’onda della critica ai social, mostrando, anche attraverso il video, l’incapacità ad amare cui l’alienazione da smartphone può portare: nel videoclip, il cartone animato del cantante è perseguitato da un uccello azzurro che diventa sempre più grosso e cattivo man mano che ci si avvicina alla fine, e sempre più ingombrante nella relazione d’amore del protagonista, della quale seguiamo le tappe. L’efficacia del pezzo sta secondo me nell’aver scelto, per una implicita rivendicazione di una emotività autentica, da ricercarsi al di fuori dello schermo, e per una denuncia della latitanza dei sentimenti dalla quotidianità attuale, proprio un’aria celebre a livello mondiale per essere un inno all’amore. La costruzione del pastiche è dunque perfettamente speculare e non delude le aspettative cui dà vita quel primo verso simmetrico e incisivo: dall’amore ribelle, indomabile, all’amore ai tempi di Twitter. Dal cliché di una Spagna incandescente al ritornello dell’apatia da schermo. Dal pericolo della passione bruciante a quello della dipendenza da un apparato telematico che divora.
Lo svilimento dei rapporti umani si accompagna all’alienazione da consumismo, cui la addiction da social network non è estranea: così in questa Carmen l’enfant de Bohême diventa un enfant de la consommation, che pretende sempre più scelta e per il quale la legge del mercato vale anche nel campo dei sentimenti.
«Quest’uccello del malaugurio, se c’è bisogno lo metto in gabbia», tuona il protagonista contro la fidanzata, mentre il grosso animale azzurro troneggia ormai nel letto in mezzo a loro, e qui c’è proprio un ribaltamento, poiché la Carmen di Bizet nell’ultimo atto dichiara: «Jamais Carmen ne cédera. Libre elle née, libre elle mourra». Si parla di libertà e prigionia: il verso «tu crois l’éviter, il te tient» (pensi di scansarlo, lui ti tiene in pugno), che nel brano di Bizet si riferisce all’amore, con Stromae ha per protagonista Twitter. Carmen muore libera, e nel suo caso la «comunità» in cui vive e cui non vuole rinunciare, ossia quella gitana, è il simbolo stesso di questa libertà. Tutt’altro caso è invece quello del pezzo di Stromae e della sua community sociale che rende schiavi: dopo una corsa verso il precipizio in cui il cantante cavalca l’oiseau Twitter insieme, fra gli altri, a Obama e alla regina Elisabetta, risuonano le ultime parole indirizzante all’amante: « Un jour tu verras, on s’aimera/Mais avant on crèvera tous, comme des rats» (Vedrai, un giorno ci ameremo/Ma prima creperemo tutti, come topi).
L’operazione di Stromae ha un gusto decisamente postmoderno e si rivela un buon esempio di pastiche, una forma indefinibile e contraddittoria che amalgama, cita, ironizza omaggiando. Lo stesso Genette, nel suo pur dettagliatissimo studio strutturalista Palimpsestes sulla transtestualità, si ritrova spesso a rivederne la definizione; con lui anche il più convenzionale esempio di pastiche, ossia l’imitazione dichiarata dello stile di un autore (gli esercizi di stile À la manière de), cambia nome ed è definito charge, caricatura. Eppure, quando nel finale affronta un breve excursus nel campo musicale, Genette ammette che con l’opera lirica il discorso transtestuale diventa particolarmente complesso.
La verità è che forse oggi occorre distinguere il pastiche letterario “classico”, proustiano, una forma che per l’autore della Recherche rappresentava una varietà di lettura critica e che era incentrato sull’imitazione dello stile di un autore (vedi i Pastiches editi da Marsilio a cura di Giuseppe Merlino), dal pastiche inteso in senso postmoderno; è in questa direzione, mi sembra, che vanno alcuni studi più recenti, come Pastiche: Cultural memory in Art, Film, Literature di Ingeborg Hoeste, la quale definisce questa forma «a blend of differents ingredients», riprendendo il riferimento culinario all’etimologia del «pasticcio» italiano. Da un lato, dunque, il pastiche che è imitazione di un autore o un’opera celebri; dall’altro un mélange di elementi presi in prestito da testi preesistenti.
La Carmen di Stromae non è un vero adattamento perché non duplica la storia della protagonista originale; ma è un pastiche che ha alcuni elementi in comune con l’adattamento delineato da Hutcheon, perché sovverte convinzioni e aspettative del pubblico, sia formalmente (dal registro operistico al rap), sia dal punto di vista del contenuto (il tema dell’amore è declinato in tutt’altro senso e prende altre strade). Così Hutcheon conclude il suo discorso: «Evolving by cultural selection, traveling stories adapt to local cultures, just as populations of organisms adapt to local environments». Possiamo dire che Stromae firma un pastiche geoculturale della sommaria eppur indimenticabile filosofia dell’amore cantata da Carmen nella Habanera; ed è singolare pensare che già per Bizet questa aria musicale fosse il rimaneggiamento di una Habanera composta circa dieci anni prima da Sebastian Iradier, il quale l’aveva intitolata «El arreglito», ossia «L’arrangiamento» in spagnolo; dal punto di vista della melodia, il pezzo di Stromae sarebbe dunque un adattamento al cubo.
Seguendo quel «perverso impulso di de-gerarchizzazione» da cui Hutcheon si dichiara mossa nella sua Theory of Adaptation, forse anche il pezzo di Stromae finisce con l’allargare le maglie del discorso ormai vastissimo sulla Carmen.

Ciao, compagno Pietro

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di Antonio Sparzani

Il XIX e penultimo congresso del PCI si tenne dal 7 all’11 marzo 1990. Tre le mozioni discusse: una redatta dal segretario Achille Occhetto, la quale proponeva di aprire una fase costituente per un partito nuovo, progressista e riformatore, nel solco dell’Internazionale socialista; una seconda, firmata da Alessandro Natta e Pietro Ingrao, che invece si opponeva ad una modifica del nome, del simbolo e della tradizione; ed una terza proposta da Armando Cossutta, simile alla precedente.
http://www.pietroingrao.it/

Poetitaly al sud

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Il progetto

Poetitaly è un progetto culturale che indaga il panorama poetico contemporaneo nazionale in rapporto ai luoghi eccentrici, estranei alle logiche della rappresentatività ufficiale.

L’esperienza è partita nel 2014 a Corviale, luogo simbolo delle periferie romane in via di riqualificazione, in una manifestazione di tre serate con poeti di varie generazioni: da Nanni Balestrini e Giulia Niccolai ai giovanissimi rapper di Corviale.

Il confronto tra Poetitaly e il territorio è proseguito con Poetitaly al Palladium, nel quartiere Garbatella, altra periferia storica di Roma: ideata in collaborazione con l’Università di Roma Tre e articolata in cinque appuntamenti, la rassegna ha visto la partecipazione di poeti italiani e stranieri, tra cui Mariella Mehr, Durs Grünbein e Tony Harrison.

Poetitaly intende, a questo punto, uscire dalla realtà locale romana, in cui è nato, per incontrare tre importanti luoghi periferici del sud Italia: Scampia a Napoli, San Pio a Bari e Zen a Palermo.

Il progetto Poetitaly al sud attiverà una rete di collaborazioni con gli operatori e le realtà culturali locali: verrà creato un network territoriale attivo su progetti poetici dal vivo, laboratori e approfondimenti.

Altro obiettivo è creare un nuovo pubblico per la poesia, con eventi di serate singole e rassegne di poeti già noti o proposti al pubblico per la prima volta. Una delle caratteristiche del progetto è lo streaming audio-video di tutte le serate che vengono rese accessibili attraverso una piattaforma aperta agli interventi dalle altre realtà poetiche coinvolte.

Si ambisce dunque a fungere da archivio in progress della poesia contemporanea, nel nome di una cultura poetica intesa come bene comune e partecipato, privilegiando forme che garantiscano la verità del desiderio e del giudizio personale e pubblico.

Poetitaly crede infatti nella poesia come forma di risposta a un bisogno non materiale e non finalizzato dell’animo umano e la promuove in quanto baluardo di una cultura che ambisce a salvaguardare un pensiero e dei linguaggi svincolati dall’utile e dal convenzionale.

Il soggetto proponente

Poetitaly nasce su iniziativa di Simone Carella, storico ideatore di eventi poetici tra cui il primo Festival Internazionale dei Poeti di Castelporziano nel giugno del ’79. Grazie a quella fortunata esperienza e alle successive, nel 2015 propone una tre giorni di poesia italiana contemporanea nella cavea di Corviale, con la collaborazione di Andrea Cortellessa, Gilda Policastro, Lidia Riviello e l’apporto organizzativo di Teatro in Scatola. Poetitaly diventa dunque un format, che per concretizzare le proprie idee si costituisce in Associazione culturale, proponendo e realizzando ulteriori appuntamenti.

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Ricordatevi di votare qui per esprimervi a favore della realizzazione del progetto.

Della serie: Mr Robot

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L’entusiasmante tempo presente

di Stefano Felici

«It’s an exciting time in the world right now», dice un uomo, dall’aspetto trasandato – forse un senza tetto –, sdraiato sui sedili di un vagone della metropolitana newyorchese. Viviamo in tempi entusiasmanti. Lo dice e lo ripete all’indirizzo di un giovane dall’aria allucinata, occhi sgranati e fissi, la testa coperta dal cappuccio della felpa, che seduto al suo posto si guarda intorno, come intimorito da qualcosa o da qualcuno. Ma nessuno, nel vagone della metro, sembra accorgersi di nulla. Tranne il ragazzo, appunto. Che sa – e ne avrà conferma di lì a poco – che quell’uomo sdraiato sui sedili, che ora si calca un cappello sulla testa e si gira dall’altra parte, non ha poi tutti i torti.

Mr. Robot è l’ennesima e acclamatissima serie tv prodotta negli Stati Uniti. Appena terminata la trasmissione della prima stagione (l’ultimo episodio è andato in onda il 2 settembre su USA Network, canale satellitare della NBC), si è subito ritrovata addosso l’etichetta di capolavoro. Pratica usuale, ormai, nell’ambito di questa consolidata arte rintracciabile a metà strada fra cinema e romanzo d’appendice.

Al centro di Mr. Robot, al massimo delle loro contraddizioni, ricchezze, ingiustizie, esaltazioni, drammi, catastrofi, paranoie e complotti, ci sono proprio i nostri tempi entusiasmanti. Il nostro presente.

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Se è vero che risulta quasi impossbile trovare entusiasmo in un’epoca dove crisi economiche e conflitti politici su scala mondiale gravano sul pianeta con un peso sempre più insopportabile, evidenziando un desolante e inarrestabile moto autodistruttivo che il genere umano sembra ormai condurre con un’intensità via via crescente, si intravede, parallelamente, un innalzamento spropositato, massimale e ipertrofico di quello che è il prodotto più alto e compiuto della nostra mente collettiva – il suo picco massimo da quando, millenni addietro, l’uomo cominciò a interagire con l’ambiente circostante per mezzo della propria razionalità; e questo prodotto è la tecnica.
Oggi la tecnica, smarcata dall’oggettivazione materiale, tipica del secolo scorso, è – nelle sue massime espressioni – un qualcosa di totalmente impalpabile, invisibile. La sua manifestazione principale è composta da un universo di sistemi di codici alfanumerici e simboli, che viaggiano alla velocità della luce. Dati, informazioni e comandi; un caos efficiente ma ineffabile, difficile anche solo da immaginare. A meno che, dentro a tutto questo, non ci si ritrovi letteralmente immersi, connessi volontariamente a quella sorta di muta e anonima rete neurale che tiene collegati, anche a loro insaputa, persone, aziende di ogni tipo, banche, sicurezza nazionale, entità fisiche e finanziarie.

Per rappresentare questa idea di presente, Sam Esmail, creatore di Mr. Robot, inventa il personaggio di Elliot Alderson.

Elliot è un ingegnere informatico. Lavora per un’azienda che si occupa di sicurezza e custodia dei dati: la Allsafe. Elliot possiede un’intelligenza e delle doti informatiche eccezionali: oltre a difendere, è in grado di attaccare qualsiasi rete o sistema, e i suoi attacchi – al di fuori delle ore lavorative – sono altrettanto frequenti che le operazioni difensive di routine; Elliot, infatti, è un hacker.

Come insegna il luogo comune sui nerd, Elliot si trova a proprio agio quasi esclusivamente davanti a un monitor e a una tastiera. I rapporti umani non sono il suo forte, e anzi: sono il suo punto debole. Il suo bug. Che si allarga, per via di molti altri disturbi, fino a intaccare la propria sfera cognitiva: Elliot soffre di allucinazioni; dialoga con un amico invisibile, presente solo nella sua testa; arriva a non distinguere più ciò che è reale da ciò che è immaginario.

Così, il modo migliore di affrontare la vita, per Elliot, è rapportarsi agli altri come se questi fossero dei sistemi operativi: ne individua i bug, i daemon (cioè i comportamenti abitudinari e inconsci, dacché in informatica i daemon non sono altro che programmi automatici eseguiti mentre l’utente compie altre operazioni), per comprenderli e tentare, almeno, di uscire indenne dal confronto. Nel mondo di Elliot l’informatica è una chiave d’accesso per la realtà; ma gli esseri umani non diventano per lui surrogati delle macchine: semmai, la sua particolare visione restituisce, in un processo inverso, un aspetto umanizzato, quasi naturale, alla forma mentis informatica. Perché lo scopo di Elliot, a conti fatti, non è l’isolamento. La sua spinta è sfuggire a una dolorosa solitudine, a un’alienante incomunicabilità con l’esterno. Per sopravvivere, momentaneamente, Elliot fa uso di morfina e frequenta sedute di psicoterapia. L’equilibrio, però, sembra troppo lontano.

È la rabbia il risultato più visibile. La frustrazione ha il sopravvento. «Fuck society!», alla fine, è quello che Elliot vorrebbe gridare a tutto volume. Ma un individuo con le sue potenzialità, con la capacità di muoversi nell’invisibile rete che tutto sovrasta e avviluppa, non può concedersi solo un mero sfogo infantile. L’istintivo fuck society si contrae. Diventa fsociety.

Il tizio sdraiato sui sedili della metro, quello dei tempi entusiasmanti, è un hacker. Come Elliot. È un uomo strano e indossa una giacca con una piccola scritta sul petto: Mr Robot.

Mr. Robot si presenterà a Elliot con una richiesta: aiutarlo a distruggere il conglomerato di multinazionali più potente del mondo: la E-Corp. Il fine è quello di liberare qualsiasi persona da ogni debito, di cui proprio la E-Corp ha il controllo. «La più grande redistribuzione di ricchezza di tutti i tempi», dice Mr. Robot.

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L’idea di Sam Esmail potrebbe sembrare semplice: una personalità borderline decide di far saltare l’intero sistema finanziario (e sociale) perché ha avuto la visione di un mondo migliore, in cui le persone sono libere, ancor prima che dai debiti, dal consumismo, dai desideri imposti dall’alto e che vengono fatti passare come bisogni primari irrimandabili per arrivare ad avere una vita soddisfacente. È, a ben vedere, l’idea che regge Fight Club, il romanzo di Chuck Palahniuk portato sul grande schermo da David Fincher.

Il Progetto Mayhem fantasticato nel libro del ’96, il cui scopo è far saltare in aria tutti gli istituti di credito della città, è qui trasformato nella fsociety, la squara di hacker messa in piedi da Mr. Robot per distruggere i server E-Corp, e il cui simbolo è una variante della maschera che raffigura Guy Fawkes, ideata per il protagonista del fumetto V for Vendetta da Alan Moore – adottata poi anche dal gruppo hacker Anonymus. Ma il parallelo è ancor più evidente quando si scopre che tra il protagonista di Fight Club e Elliot Alderson c’è in comune quell’inquietante ma – narrativamente parlando – geniale disturbo che dà letteralmente corpo al proprio sdoppiamento di personalità: a Tyler Durden, leader pazzo e carismatico dell’operazione Mayhem, corrisponde proprio il Mr. Robot a capo della fsociety, proiettato dalla mente di Elliot.

Ma il calco della trama di Fight Club non è un problema per l’originalità e la qualità di questa serie. Mr. Robot rispetta in pieno i canoni del genere: una sceneggiatura che sa dosare la velocità e la frequenza degli eventi, creando e risolvendo grovigli con estrema precisione; una regia concreta, pragmatica, eppure attenta a restituire il dato estetico, accompagnata dall’oscura e suggestiva colonna sonora “techno-thriller” di Mac Quayle. Non da meno gli attori, con Rami Malek – che interpreta Elliot Alderson – perfetto sotto ogni punto di vista, in un ruolo dove convergono una quantità spropositata di disturbi mentali, pulsioni, dubbi e riflessioni e paraonie.

Il ritornello degli ultimi anni ci informa che le serie tv sono il mezzo di espressione più completo e adatto per raccontare i nostri tempi – o anche solo per intrattenerci – al pari di quello che sono stati romanzi e cinema in altri tempi tutto sommato non così lontani. Mr. Robot, inscrivendosi in questo continuum, grazie a un ineccepibile aspetto formale rafforza a tal punto i propri contenuti da renderli infatti molto simili, per attualità, pregnanza e valore letterario, ai romanzi americani massimalisti di un Foster Wallace o un Pynchon. Pur essendo un prodotto maggiormente attento ai risultati di audience, l’atmosfera che arriva allo spettatore sembra il composto chimico degli elementi che caratterizzano in pieno la narrazione postmoderna: una smisurata paranoia complottistica che parte dalla stanza del protagonista, o ancor più dai suoi pensieri, per arrivare a una rete di pura malvagità sospesa al di sopra dell’intero pianeta, e il cui scopo è controllare la volontà degli esseri umani (il conglomerato E-Corp viene ribattezzato da Elliot stesso come Evil Corp); il sospetto che dietro le cose, gli oggetti, e in questo caso i codici, le trasmissioni via etere, ci sia dell’altro, qualcosa su cui indagare, come se si nascondesse in fondo una metafisica dell’inanimato finora inesplicabile; la sensazione continua di essere naufraghi alla deriva fra piccole isole di verità lontane fra loro, e quindi menzogne, allucinazioni mostruose, teorie indicibili. Mr. Robot è inquadrato in un tipo di racconto classico, ma, come avvenuto di recente in una serie come True Detective, riesce a caricare di significati, ipotesi e riflessioni le scene che si susseguono rapidamente per venire a capo del finale.

A Mr. Robot è stata prontamente applicata l’etichetta di capolavoro perché riesce, almeno in questa prima stagione, nel tentativo di maneggiare e osservare sotto diverse luci questo entusiasmante tempo presente. Restituirlo in un racconto appassionante senza risparmiare critiche.

Le botte in piazza

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CAVALLIdi Giulio Cavalli

(Giulio Cavalli, dopo anni di teatro, inchieste e impegno civile che lo obbligano ancora oggi a vivere sotto scorta, pubblica, scritto con la stessa rabbia e lucidità, il suo primo romanzo: Mio padre in una scatola da scarpe. Il libro è da qualche giorno in libreria e l’autore ci regala qui un estratto dal secondo capitolo. Noi per questo lo ringraziamo. G.B.)

 

La mattina presto. Per Michele può esserci il caldo più unto, il freddo più buio o la pioggia più fitta, ma il mattino va rispettato: l’alba è l’inizio. Cose semplici. Sono due anni che la scuola è finita e tutto il giorno ha già la forma del callo sulle mani, che ti sfregano ruvide la faccia quando ti lavi.

Lavorare rende liberi.

Michele era stato studente diligente e poco curioso, ma questa cosa del lavoro e della libertà non gli era mai andata giù. I vecchi dicono: “Tocca per farsi una famiglia ed essere una persona per bene”, ma la libertà proprio non c’entra. Ci sono città del mondo in cui il lavoro è un canale che bisogna navigare per stare a galla e sopravvivere, mentre qui a Mondragone si lavora per non dovere niente a nessuno e perché nessuno ti debba niente, per questo Michele ama la fatica: la fatica infatti ha una faccia sola, è meccanica senza viti, acido lattico senza sentimento. La fatica non ha bisogno di merletti. Sono le sei e Michele si alza come si alza il mattino: sale in fretta per scaldarsi.

«Si fatica principalmente per non sentire tutto il resto» dice sempre quello scemo di Massimiliano.

Caffè amaro. Le scarpe che si scollano. Una camicia spessa come pelo di topo, a quadrettoni, con i gomiti quasi trasparenti. Guardandosi allo specchio si osserva. Non è un bel vedere, no, ma tutta questa stoffa è l’armatura per la fatica al magazzino. La porticina del cortile di casa cigola come il portone di un castello abbandonato. Fuori, Mondragone è odore di caglio e case che si sbriciolano.

«Buongiorno e ben alzato, Michè!» La signora di fronte sta già bollendo la salsa. È cieca e sorda come la salsa ma saluta da orologio svizzero tutte le mattine alla stessa ora.

Lui risponde, anzi ci prova. Meglio, alza la mano e scatta con la testa, gli viene male: cade come da un lato, inciampa, sorride, rialza la mano, ride, no forse non se ne è nemmeno accorta e allora stinge il sorriso e niente, come se non fosse successo niente. «’Ngiorno.» Che fatica.

Mentre la strada scende vuota verso lo stop Michele prova a ripensare alla serata appena passata e a quelle voci che lo rivolevano in piedi: non è facile portare addosso le botte a mezza faccia facendo finta di essere elegante, tu che elegante poi non lo sei stato nemmeno al battesimo o alla comunione.

Erano in tre e Michele li aveva notati già da giorni per quelle smorfie da guappi che qui vengono ammaestrati in serie, seduti arrampicati sul muretto in piazza. Ieri sera erano nella solita posa, di quelli che vorrebbero essere falchi ma sono solo una nidiata di avvoltoi. Ieri aveva anche deciso di bersi una bottiglia in compagnia e festeggiare l’assunzione che era diventata ufficiale per tutti, al magazzino. Adulti a tempo indeterminato con il libretto di lavoro in tasca. Ci avevano promesso anche un po’ di malattia e ferie, non proprio tutte quelle che c’erano scritte nel contratto – che per sicurezza avevano fatto leggere a Giulio, che si era trasferito su a Milano e aveva imparato l’italiano meglio di come si impara un po’ sgarruppato nella scuola di Mondragone, e anche Giulio aveva esultato per un contratto che in fondo anche a parole era simile a quello che c’era scritto. Per questo avevano deciso di prendersi il vino, mica quello più buono, ma la qualità subito sotto, ben distante dal vino schifoso e lunghissimo che si bevevano di solito a pranzo. La locanda li conosceva per nome e cognome e si era fidata anche a dargli quattro bicchieri di vetro da portare fino in mezzo alla piazza con la bottiglia impolverata, perché c’è da fidarsi di Michele e quegli altri colleghi suoi, che non creano mai problemi.

Stavano appena stappando il tappo a vite come quello della spuma e ridevano pensando che poi magari un giorno qualcuno sarebbe diventato capoturno, poi magari un giorno, ridevano, avrebbe comprato un vino con il tappo quello vero.

Era stato un attimo e gli altri tre guappi erano già in mezzo. Dammi. No. Forza, dài qua. Ma che vuoi. Festeggiamo anche noi. Facciamo da soli grazie. Lo decidiamo noi chi festeggia qui in piazza. Non ci penso nemmeno…

Ed è stata subito una paranza di botte che facevano più rumore dei bicchieri che rotolavano sui sassi. Tonfi secchi sulle parti molli e il fruscio dei rami secchi quando si pestano con le scarpe, solo che questi erano in faccia, sulla mandibola e sotto gli occhi. Roba forte. Gli scappa anche da ridere, gli scapperebbe se non fosse per quell’angolo della bocca che brucia. Bicchieri come bombe a mano e pugni dappertutto: una sagra. Michele aveva cominciato a picchiare con tutta la voglia che aveva accumulato negli anni, come si immaginava si potesse picchiare solo prima di morire. E non menava solo quei tre cuccioli d’avvoltoio, no, picchiava i ricchi sempre gonfi alla domenica mattina; picchiava quelli che gridavano scemo a Massimiliano che piangeva come i magri anche se è grasso come un tacchino, e picchiava anche per lo scemo di troppo che gli dava quando anche lui esagerava con lo scherzo; picchiava per i vecchi così vecchi che fuori dalla chiesa sembra che ci manchi solo che se li porti via il vento o li sciolga questo sole unto. Picchiava l’odore dell’incenso che cuoceva la bara di sua madre; picchiava suo padre e il vino che gli aveva trasformato il cervello in una crosta incapace d’intendere cosa fosse quel fumo e cosa fosse quella bara; picchiava Giulio che tornava sempre così felice e tuttoaposto che sembrava avere anche perso l’odore di quelli che erano nati lì e aveva il colore delle persone sempreaposto che vivono a Milano; picchiava nonna che non era mai scivolata nemmeno per sbaglio in un abbraccio o un “ti voglio bene” e intanto picchiava anche quel “ti voglio bene” di nonno che è un cappio ogni domenica a fare la zuppa loro due come due vedovi. Picchiava gli indecisi come lui che vivono la vita come si mangiano le unghie; picchiava i prepotenti che tutti li condannano ma alla fine vincono sempre; picchiava la sua scuola così lercia che non gli aveva insegnato il vocabolario per le volte che avrebbe voluto dare un nome alle cose; picchiava la tranquillità che sono vent’anni che la insegue e che dio non chiedo mica tanto e che gli sembra irraggiungibile, nemmeno avesse voluto fare il pilota cacciabombardiere. Picchiava quel prete che ora se n’è andato dalla parrocchia e che si portava le donne nel retro dopo l’ultima messa; picchiava il nonno dei Torre che si faceva restituire i prestiti tra le cosce delle mogli degli altri – e si picchiava anche, per tutte le volte che non aveva avuto abbastanza coraggio; poi picchiava gli infami, i soloni, i tristi a comando, gli urlatori, i maleducati perché prepotenti, i prepotenti maleducati e gli educati a essere bravi prepotenti; picchiava quella sera che sua madre aveva detto di non dirlo a papà e quel mattino che papà gli aveva detto torno e non era tornato.

Solo dopo aveva picchiato Tore, Pino e Ciro. Solo dopo. Soprattutto Tore: l’avevano portato via all’ospedale di Caserta che piangeva e urlava ormai come un pulcino.

«Ritardo! Sei e quarantacinque, cos’hai? Pisciato nel letto?»

È già arrivato al magazzino, ha superato la discesa e il capannone è in fondo alla prima strada a destra. Il capoturno è già acceso sulla modalità scassaminchia.

«Non sono stato bene.» Sembra di essere ancora a scuola. Giustificarsi.

«Lo so.»

Mentre il capoturno parla sbucano alle sue spalle Ciccio e Berto. Hanno gli occhi bassi e tremano. Berto ha un ematoma sulla faccia, sembra un’ombra controsole. Volano le notizie, qui al magazzino, e con queste facce lavate male dal sangue raffermo di ieri sera non è facile fingere.

Ciccio balbetta un avvertimento verso Michele, ma l’aria è così spessa che sbatte prima di arrivare.

«Capo, alla fine siamo tutti qui.» Dio, che difesa debole, vedi che serve studiare.

«Noi non ne vogliamo teste matte, noi vogliamo gente che sistema la merce!»

Forse Berto ora sta cercando di dire che siamo pronti, che mancano i guanti e si entra subito di corsa nel capannone in mezzo alla sabbia ma viene zittito: è bastato un occhio di sguincio. Il capoturno ha la barbetta incolta che vibra come quella di una capra. «Andate a casa.»

Finalmente Ciccio emette suoni e abbozza una difesa: stiamo bene, non c’è problema, sono solo tre pugni, li abbiamo presi e li abbiamo dati tutti da ragazzi, domani si saranno già dimenticati. È sempre il più diplomatico, Ciccio, giù al capannone.

«Andate a casa. Lavatevi. Noi non abbiamo bisogno di ragazzi!»

Il portone si chiude con un glong. Ogni portone suonerebbe la fine esattamente così.

Licenziato poche ore dopo essere diventato indeterminato, Michele non l’avrebbe nemmeno mai potuto immaginare, con quella fantasia piatta che si fermava alla discesa fuori casa.

«Dite che siamo licenziati?»

«Avevo sentito alla radio, mi pare, alla radio hanno detto che ci vuole il preavviso. Che ti avvisano prima.»

«Mica abbiamo rubato. Mica abbiamo ammazzato.»

«Altrimenti che posto fisso è, fisso di che cosa…?»

«Ci ha avvisato? Sì. Ci ha detto di andare a casa? E noi andiamo a casa. O c’è qualcuno che stamattina vuole fare l’eroe? Con la faccia mezza spaccata, pure.»

Nessuno risponde. Prega, Michele. Prega che davvero sia tutto un falso questa storia dell’ultima occasione, perché non è mica normale avere l’ultima occasione che non hai nemmeno diciotto anni e che si è tuffata dentro una bottiglia di vino rosso di mezza qualità. Non aveva pregato mai, nemmeno ai funerali aveva pregato, e questa tanto non è nemmeno una preghiera ma sperare di convincersi a sperare di avere frainteso. Berto ha il sole che batte sull’ematoma e sembra che si faccia ombra da solo.

Ciccio continua a chiedere se davvero sono licenziati ma intanto, senza pensarci, ha cominciato a contare gli spicci nei pantaloni consumati sulle ginocchia.

Non si dicono nemmeno un “ciao” e si dividono innaturali, come se non fossero i tre che si sono difesi dalle stesse botte la sera prima.

La carriera più veloce della storia, pensa Michele. E gli verrebbe da ridere, se non fosse per il solito angolo della bocca. Davanti al portone coglie la differenza tra galleggiare e camminare. Ma dura un attimo: la signora salsa sta già chiedendo come mai è tornato a casa così presto.

Una lettera

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di Elisabetta Scantamburlo

Una lettera

Carissima,
ti sto scrivendo una lettera d’amore. Come ti accorgerai presto, non è una lettera d’addio, non è nemmeno la lettera di una sconosciuta ammiratrice che esce dall’ombra. Questa è la lettera scritta da un ricordo. L’autrice di questa lettera è un ricordo che viene da lontano, da un punto nella tua vita in cui il passato tuo e il mio erano una linea ancora breve e quella del futuro si allungava indefinitivamente davanti ai nostri occhi semiaperti. Ma è anche un ricordo che torna dal futuro. Ciò che non sono, non sono mai stata, mai sarò, il tuo e il mio presente, che mai combaciano. Non hai nome ormai e forse mai lo hai avuto, il mio l’ho dimenticato. Restano due corpi che si sono incontrati, visti, sfiorati forse, annusati. Restano i tuoi capelli rossi che da quando sei nata hanno disegnato in riccioli attorno al tuo corpo le vie della tua vita.

La prima volta che ti vidi era a casa di amici dei nostri genitori. In realtà credo che i nostri genitori non si conoscessero e che si fossero trovati per caso a casa di amici comuni nello stesso momento. Ti vidi subito da dietro. Non vedevo che i tuoi capelli ricci e rossi e mi incantai seguendo le linee che ogni riccio creava nell’aria che ti circondava. C’era anche un altro bambino e un’altra bambina. Non ti sentii pronunciare una parola. La bambina più grande era un tipo prepotente, stabiliva lei i giochi e le penitenze. Aveva stabilito che come penitenza io ti dovessi dare un bacio. Che cosa assurda e imbarazzante mi sembrava, io che allora mi vergognavo solo a tirare fuori la lingua dalla bocca. Non te lo diedi quel bacio. La bambina grande e cattiva mi spinse e insultò, mentre l’altro bambino che diplomaticamente stava dalla sua parte ridacchiava, mentre i nostri genitori erano lontani e ridevano per chissà cosa nella stanza accanto. Io restavo chiusa nella mia vergogna e nella mia incapacità di affrontare quell’antipatica. Dopo poco i grandi vennero a prenderci, era ora di andare. Prima però volevano farci una foto. Ce l’ho ancora, l’ho trovata qualche anno fa in un cassetto di vecchie foto a casa dei miei e l’ho presa. La foto ingiallita di quei colori delle foto degli anni settanta mostra quattro bambini, chi porta il pantalone a zampa, chi il maglioncino stretto. Io porto il mio muso inconsolabile. Tu guardi fuori della foto, forse tua madre che sorrideva a un amico. Quello che la foto non mostra è il bacio che tu mi desti di nascosto, veloce come se stessi rubando un cioccolatino da una scatola appena aperta, e il sorriso schietto, disarmato, pieno dell’innocenza dei bambini con cui mi lasciasti. Ricordo l’umidore che mi lasciasti sulla guancia, che di solito detestavo, quando era il rimasuglio di un bacio di zia o di nonna, ma il tuo non mi diede fastidio, anzi. E mi sembrava strano. Aveva lasciato la scia di un odore dolce di infanzia che mi si era appiccicato addosso, e che non volevo più togliermi. La sera mia mamma si arrabbiò perché insistevo a non farmi il bagno.

Quando ti vidi la seconda volta fu in una palestra. L’insegnante di danza creava movimenti che noi cercavamo di replicare come tante brutte copie di lei. Mi concentravo sul riflesso dello specchio, il viso sempre più rosso, il sudore sempre più bagnato. In ritardo, trafelata, con il nostro stesso fiatone, entrasti tu. O meglio, entrò una testa tonda e morbida di riccioli arancione, sotto cui si muoveva rapida e altrettanto morbida, una figuretta bianca in pantaloni verde militare e una maglietta bianca corta. Cercavi di metterti al passo con noi e facevi fatica, già ti girava la testa. Gli occhi, le sopracciglia e tutto il viso a seguire si corrucciavano ad ogni passo perso o in ritardo. Le braccia seguivano la scia dei nostri movimenti con dolcezza, non riuscivano a scrollarsi di dosso il languore della pigrizia insita nelle tue carni. Carni bianche e delicate. Ti tiravi su la maglietta per il calore e mi facevi dono per la prima volta del biancore di una pancia piccola e ben formata, tonica, ma che prometteva cedevolezza al bacio. Già sognavo di farla mia quella pancia e di baciarla fino ad addormentarmici sopra, cullata dal tuo respiro. Il tuo corpo nuotava mollemente nello spazio, cercando con le dita tenere i movimenti giusti. Il mio riflesso tradiva l’immagine di un corpo da ragazzo, adolescente, magro e nervoso, le spalle larghe, piene della sicurezza che spesso mi mancava a parole. Quelle parole che mi son venute meno quando, fuori dallo spogliatoio non ho saputo far altro che sorriderti senza nemmeno dirti ciao. Senza nemmeno chiederti come ti chiami, anche se poi alla fine non mi interessa niente dei nomi e sono solo le facce che ricordo. Uscivo dalla palestra correndo col pensiero alla futura lezione in cui ti avrei incontrata, senza accorgermi che già mi avevi lasciato un momento prezioso che si era già cristallizzato in passato, la visione dell’ora di lezione che mi aveva incantato e che non sapevo non si sarebbe ripetuta. Tu non tornasti.

Quando fu? Anni dopo ti rividi ancora, in un bar, all’ora dell’aperitivo, in un inverno che cala presto le tende del buio. Come sempre i tuoi ricci in fiamme mi annunciarono con battito di cuore la tua presenza. Poi vidi il trucco che ti disegnava il viso, rendendo più marcati i contorni, le linee che l’età aveva reso più decise. Ti scrutai da lontano, sorridendo e facendo malamente finta di seguire ciò che lo sconosciuto di fronte a me mi raccontava, probabilmente del suo lavoro. Tra me e te, parole urlate di gente sconosciuta, bicchieri liquidi, riflessi di lampadari e luci colorate, la maschera di una festa senza tema. Il mio occhio tornava a te che stavi dall’altra parte del bancone discorrendo con un uomo elegante in un abito sicuro e deciso. Il mio interlocutore sarà certamente passato a parlare di quello che di solito si dicono due persone che vivono a Milano ma che sono nate altrove, i piaceri e i dispiaceri di questa città straniera. Il mio naso si volgeva dalla tua parte cercando invano di percepire nell’aria una nota del tuo profumo, cercando scioccamente quel sentore di infanzia, l’unica cosa che un tempo mi avevi lasciato. Il mio cuore combatteva tra l’emozione di ritrovarti e la gelosia per quell’uomo che sfoggiava come gioielli tutte le sue mosse per sedurti. Ma tu no, non potevi cedere, ti muovevi col fare sicuro di chi conosce il proprio fascino, ma concede solo l’amicizia di una serata. Il tuo profumo te lo tenevi per te.

Il protocollo

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di Ornella Tajani

Chi se ne frega che è morto Heaney, in Siria c’è la guerra (cit.)

Si è tornati sin troppo spesso sulla questione del tasto “non mi piace”, un tasto che a Zuckerberg proprio non piace e non piacerà mai, poiché implicherebbe una democratizzazione -reale e non apparente- del sistema. La community che Facebook ha creato e vuole mantenere è composta di persone che trovano il modo di andare d’accordo tra loro, e non esattamente di persone che devono seguire le direttive di un capo, come suggerisce l’analogia con la sovranità nel pezzo di Luca Sforza apparso ieri su Alfabeta. Facebook vuole che non litighiamo, che stiamo buoni come bambini, tenendoci per mano sotto il sole dell’accordo categorico con l’essere. Ma noi, utenti ribelli come pesci dentro la boccia, litighiamo lo stesso. Ad esempio quando qualcuno non rispetta l’ormai consolidato protocollo.
Il protocollo è l’applicazione dell’eticamente corretto, la convinzione per la quale l’utente ritiene di sapere cosa vada postato in quel determinato giorno. Esempio: il giorno dopo la vittoria di Miss Italia aureolata da un’infelicissima battuta, per Erri De Luca è stata richiesta una condanna di otto mesi. Su Facebook dobbiamo dunque parlare di De Luca e non di Miss Italia. Senza voler neanche lontanamente porre sullo stesso piano d’importanza i due eventi, non è forse pericoloso anche il discorso del “ciò che si deve dire”, che inevitabilmente si trascina dietro, seppur con un guinzaglio lungo, “quello che non si deve dire” (proprio ciò per cui l’autore è finito sotto processo, fra l’altro)? Inoltre, esulando dagli esempi specifici, non sono libera di non parlare d’attualità? Da qualche parte, in un punto sempre meno indefinito, finisce la mia libertà di utente che scrive quello che le pare sulla propria bacheca e inizia l’obbligo al cospetto della comunità di partecipare a qualche tipo di mobilitazione virtuale (perfettamente sintetizzato nella funzione “parteciperò” creata per gli eventi Facebook; sappiamo in quanti casi partecipiamo soltanto virtualmente).
C’è un po’ da riflettere sull’alterazione che la nostra capacità empatica subisce attraverso il mezzo; è come se il social network volesse imbrigliarla, canalizzarla, visto che se esprimo tristezza per la morte di un poeta che mi piace corro il rischio di essere rimproverata perché non mi occupo di questioni umanitarie più urgenti. Da qualche parte esiste una gerarchia di argomenti e sentimenti da rispettare.
Poniamo un altro caso. È mattina, mi sveglio, controllo la posta, apro Facebook, vedo la foto del bambino morto sulla spiaggia turca. È una foto scioccante, per quanto un’ulteriore foto di un dramma che conosco sia ancora in grado di scioccarmi. Ma in verità non ho molto tempo per provare uno choc perché, immediatamente dopo aver visto la foto, il flusso di informazioni in cui sono immersa mi trascina dentro le polemiche a proposito dell’opportunità della pubblicazione, o del titolo che un giornale ha scelto di usare: eventuali slanci di empatia, solidarietà, turbamento vengono frenati e ciò che leggo chiama in causa un mio giudizio intellettuale. Leggo i vari pareri in maniera disordinata: “è giusto far vedere quello che succede”, “no, non è giusto”, “aveva più senso la foto con anche il soldato”, eccetera.
Non so se in questo tipo di speculazione ci sia già quel germe di razzismo di cui parlava Luigi Manconi in un articolo su Internazionale: non so, cioè, se il solo fatto di mettermi immediatamente a disquisire sull’opportunità o meno di pubblicare la foto di un bambino morto sia già sintomo di una mia scarsa partecipazione ai problemi di una categoria –i migranti- che considero altro da me (il famoso “noi” e “loro”, l’opposizione grammaticale più nociva della storia). Forse questa è una conclusione affrettata.
Quel che è certo è che la questione in sé, politica, umana, passa in secondo piano: secondo la consueta prassi, il medium diventa il messaggio e il messaggio si offusca. In un attimo non sto più parlando né pensando a ciò che è successo, ma a come bisogna raccontarlo, come se questo unico scrupolo etico mi esonerasse da tutto il resto: documentarmi su quello che accade, registrare le dichiarazioni, le eventuali ipotesi di intervento; e, in ultima istanza, considerare il sentimento che provo di fronte alla foto. Perché l’obiettivo di una foto del genere è soprattutto quello di scuotermi anche a livello emotivo, di farmi sentire addosso un disagio, recapitarmi una pur minima traccia del dramma in corso.
Il protocollo stabilisce di cosa devo parlare, come mi devo emozionare, quando devo mettere da parte l’empatia. Se commetto un errore, è la comunità di utenti a fustigarmi (come accennavo già un po’ di tempo fa), senza alcun bisogno di un tasto per esprimere disapprovazione. Zuckerberg declina tutto in positivo: se è vero che sta progettando delle funzioni per esprimere una fascia ampia di sentimenti, c’è da scommettere che si tratti di tasti tipo “mi emoziona” piuttosto che “mi lascia del tutto indifferente”. Quel che a Facebook interessa è il controllo; ad omologarci, dopo aver messo qualche bacheca a ferro e fuoco, ci pensiamo da soli.

Braccia rubate (al cinema) – atto II

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Illustrazione di Roland Topor

 

Ecco il secondo atto della rubrica « Braccia rubate (al cinema) », corredato da una breve bio-filmografia dell’autore e da un link a un film che evoca il testo (o viceversa). Le seconde braccia rubate sono quelle di Manuel Maria Almereyda Perrone con le sue tre storie di lupi, Lavizzari e bulbi oculari.

 

ANTI-FAVOLA

 

Francia, massiccio centrale, febbraio 2017

Trovati morti ancora dodici lupi.

Negli ultimi mesi la carneficina di lupi è aumentata in modo allarmante: sono ormai migliaia gli esemplari trovati morti in questa regione montagnosa.

Compito ingrato quello della polizia locale che cerca di mettere un freno a questi atti criminali, difficili da perseguire perché le vittime sono animali, e contro un’opinione pubblica che disprezza i lupi e chiude volentieri un occhio su questo massacro.

Tutto porta a pensare che non si tratti di casi isolati ma che siano tutti opera della stessa persona che agisce con freddezza e premeditazione.

I lupi sono attirati nel bosco, con cestini pieni di leccornie.

Storditi dal cibo sono legati e travestiti con abiti da pensionata.

In seguito, in questo atto barbarico, gli viene inserito un bambolotto di plastica nel ventre lacerato.

Tutto questo mentre sono ancora in vita. Moribondi sono infine violentati e sgozzati nel momento del piacere.

Il giornale locale è stato vittima di un attentato dopo una serie di articoli che esigevano una presa di posizione della popolazione accusandola di nascondere e assecondare il probabile mandatario di questi atroci delitti.

Nell’ultimo articolo appaiono alcune foto, scattate da un cacciatore che aveva assistito alla scena e sfuggito per puro miracolo, che lasciano poco spazio ai commenti e stordiscono per la loro crudezza: una bambina di sette anni, bionda, vestita di un impermeabile rosso e ricoperta dal sangue del povero animale che sta torturando con un sorriso innocente.

 

LA GUERRA DEL PESO

 

Si è detto a lungo che il quadro di Lavizzari sia uno dei più suggestivi della sua epoca.

A cavallo tra l’alto e il basso medioevo il quadro rappresenta il ponte tra questi due mondi, le credenze e l’immaginario di popolazioni così diverse tra loro.

La guerra del peso, dipinto dal maestro nella primavera dell’anno mille, raffigura due popoli che scendono da due valli contrastanti per affrontarsi in un corpo a corpo sanguinario.

Due donne in primo piano, avvinghiate tra di loro, traspirano tutto il rancore della guerra, il sudore e la polvere sono magistralmente raffigurati dal maestro con un utilizzo di colori tenui in una scala cromatica per il resto dai toni forti e generosi, tecnica ancora sconosciuta all’epoca e poi ripresa dalle scuole della Bassa Sassonia e dai maestri rinascimentali.

Le due donne raffigurano la sintesi dei gusti a cavallo tra le due epoche, una opulenta e imponente con un seno prosperoso, l’altra dal corpo asciutto, scaltra agile e muscolosa, un seno piccolo e appuntito.

Ogni donna è seguita da un popolo di persone, da una parte magri e agili dall’altra grassi e imponenti.

La battaglia è un abbraccio di questi due popoli, avvinghiati in questo corpo a corpo silenzioso.

Per questo motivo da sempre questo quadro è stato considerato un grande capolavoro d’avanguardia rispetto ai suoi tempi.

Una rappresentazione tangibile dell’immaginario collettivo, un esempio della sua trasformazione tra due epoche, da un periodo di prosperità economica rappresentato da donne formose coi seni prominenti a un periodo di miseria in cui l’ideale è rappresentato dalla scaltrezza e la forza di sopravvivenza.

Nel Medioevo il processo di cristianizzazione porta in effetti ad un radicale cambiamento nel modo in cui viene percepita la figura femminile.

L’austera morale medioevale definisce i nuovi canoni estetici del corpo della donna: esile e acerbo per dimostrarne la castità e la purezza, con i fianchi stretti, il seno appena abbozzato, ma il ventre prominente, indice di fecondità in quanto madre.

In epoche successive questo conflitto e questa trasformazione si sarebbero ripetute a vari intervalli.

Forse la guerra intestina più importante nella storia dell’umanità: la guerra tra grassi e magri.

Quello che si conosce meno è la storia intima del maestro e le origini del quadro.

Uno studioso svedese, Jolaf Sberdensen, ha scritto un ottimo testo proponendo un parallelo con il mistero delle valli gemelle, mistero che data della stessa epoca del Lavizzari e anzi, secondo lo studioso il mistero non sarebbe altro che la storia riprodotta nel quadro.

Visione piuttosto imbarazzante perché relegherebbe il capolavoro del maestro a una semplice cronaca di fatti e non uno sguardo sensibile sull’umanità e i suoi complessi.

Sberdensen si perde un po’ in questa polemica sterile, dato che qualunque sia la fonte di ispirazione il quadro è un capolavoro anche per l’equilibrio delle parti, la sovrapposizione di tecniche, la sensibilità e la ricchezza di dettagli, in cui non è da meno la precisione anatomica, anch’essa piuttosto insolita per l’epoca.

Ma non c’è bisogno di perdersi a difendere un artista che non ha altro argomento di aver sopravvissuto nel tempo e aver continuato a dialogare coi suoi posteri, mille anni dopo, con assoluta pertinenza.

Molti poeti hanno citato il maestro, nei secoli, in modo più o meno esplicito.

Basti ricordarsi i famosi versi di Leopardi – ai tu che al cuor fece bilancia – nei suoi teneri sonetti di gioventù.

La scuola freudiana ha fatto suo lo sguardo del maestro sintetizzando i disturbi alla base di anoressia e bulimia come il complesso di Lavizzari.

Perfino in medicina il nodone di Lavizzari fa riferimento all’infiammazione dei neurostrasmettitori che si occupano dello smaltimento del grasso.

L’imponente opera di Botero non si potrebbe capire senza considerare una certa vena di provocazione al maestro.

Famosa è anche la storia del quadro.

Rifiutato dalla società dei duchi, che avevano commissionato l’opera a Lavizzari, probabilmente a causa del loro rinomato complesso estetico, il quadro è finito per secoli nel dimenticatoio, prima di diventare una delle opere di riferimento per tutta una generazione di pittori barocchi, che ne vedevano una chiara rappresentazione del potere delle forme e della vittoria dell’opulenza.

Durante i primi anni del Ventesimo secolo, invece se ne ricordano le riproduzioni su manifesti di propaganda politica, esortando un popolo magro e coraggioso a difendersi a ribellarsi a un nemico grasso e inattaccabile.

Il quadro per anni ha occupato una delle sale più importanti del Musée du Louvre, a Parigi.

Recentemente ha ancora fatto parlare di sé dopo essere stato oggetto di vandalismo dalla famigerata società dei custodi del grammo.

La polemica che ne è scaturita ha portato il governo francese a proibirlo per oscenità e provocazione della morale di uguaglianza e fratellanza dei popoli.

Da quel momento si trova nelle cantine del museo, malgrado le insistenti domande da parte di musei di tutto il mondo, in attesa della fine di un processo che probabilmente durerà ancora molto tempo.

Quello che stupisce in tutta questa storia è che, malgrado il quadro abbia suscitato forti reazioni, sia stato soggetto di vari saggi e sia un pilastro della storia dell’arte, un elemento non viene mai citato al proposito, anche se è senza dubbio essenziale per capire l’opera del maestro e la sensibilità del suo capolavoro.

Lavizzari era cieco.

UN OCCHIO

 

Un giorno sono andato a pescare nei mari del Sud.

Seduto su una sedia in metallo pieghevole, un secchio a terra pieno a metà d’acqua e la sigaretta tra i denti per salvarla dal vento, ho pescato un occhio.

Un occhio grosso, scivoloso come un pesce, caldo e morbido.

Aveva dei tentacoli come lunghe ciglia e non si capiva se sopra e sotto gli spuntassero pure due piccole pinne.

La sera raccontando l’accaduto, in una taverna di poca cosa, attorno a un tavolo grezzo e ricoperto di bottiglie, i vecchi avventori, che di notte sono pescatori, mi hanno spiegato.

Nei mari del sud capita spesso di pescare un occhio, un naso o una bocca.

 

FINE

Manuel Maria Almereyda Perrone,(03/12/1981), svizzero di origine napoletana e tedesca, si forma in teatro, scopre il linguaggio cinematografico per caso, lavorando con un gruppo di donne anziane (da 80 a 90 anni) a Buenos Aires su un progetto teatrale, per adattarsi ai problemi di energia e memoria del gruppo.

Ha fondato a Marsiglia, dove vive e lavora, l’Agence de l’Erreur (www.lerreur.fr) con cui ha prodotto Rêves d’occasion, 2012, di cui l’episodio Santex è stato distribuito da Canal Plus, Adios Muchacha, che ha avuto il premio Paca al Festival di Nizza. Lavora in questo momento come assistente di Cid Hamet Ben Engeli su un adattamento cinematografico di Don Quichotte de la Mancha. Ha avuto il premio Unesco della città di Trieste per la sua poesia Ho camminato nel giardino dei vecchi ed è stato finalista del premio di drammaturgia Oltreparola per la pièce Agonia di un angelo.

150 anni di Alice: Un vecchio libro di Alice

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150 anni fa veniva pubblicato Alice nel paese delle meraviglie di Lewis Carroll. Ho chiesto a scrittori, studiosi, appassionati di pensare un loro contributo personale per celebrare questo capolavoro del linguaggio e dell’immaginazione. I post si susseguiranno a cadenza irregolare fino all’autunno e saranno contraddistinti dal tag: 150 anni di Alice, presente anche nel titolo. I post già pubblicati si possono trovare QUI(NDF)

di Cristina Babino

a mia sorella Elena

 

alice garzanti babinoLa storia di Alice, tutta la sua fantasmagoria irriverente e perturbante, la associo nella mente a un oggetto preciso. Un libro, e uno soltanto. L’ho recuperato, e con quello i ricordi d’infanzia che ad esso si fondono nella memoria, nella biblioteca della mia casa in campagna nelle Marche. Una casa dove non vivo – risiedo all’estero ormai da molti anni, in quello spazio contemplativo e spesso nostalgico che consente, o impone, la distanza – ma dove ho raccolto su scaffali di legno lucido e pesante tutti i libri che nei miei molti viaggi, traslochi e spostamenti non ho potuto portare con me. E sono tanti. Li ritrovo ad ogni ritorno, mi aspettano nel loro ordine non cronologico, non alfabetico, e neanche troppo tematico, aggiustati sui ripiani a seconda delle dimensioni e dell’altezza dei loro dorsi. Mi piace che la loro disposizione sia gradevole anche all’occhio – o sempre avuto un po’ la fissa delle simmetrie, dell’armonia delle forme. Mi riprometto spesso di cambiare quest’ordine molto poco filologico, di mettere in sequenza tutti quei libri per autore, o più diligentemente per argomento, il che, mi dico, verrebbe tutto a mio beneficio, la ricerca di questo o quel volume sarebbe senz’altro più agevole. Ma poi mi dico anche che i dorsi dei miei libri li conosco tutti, e che comunque mi ci vuole un attimo per riconoscere quello che mi serve, a colpo d’occhio, e a colpo sicuro. Allora a che pro cimentarsi in un riordino lunghissimo e noioso, visto anche il poco tempo che trascorro in quella casa, solo per le parentesi brevi delle vacanze. Quindi è rimasto tutto com’è, anche stavolta.

Il libro è un tascabile, rilegato in brossura, un’edizione Garzanti del 1978 (anni fa ne facevo cenno già qui). Non era originariamente destinato a me, ma un regalo di uno zio a mia sorella Elena.  Prova ne è pagina 92: una pagina vuota alla fine del capitolo dedicato alla partita di croquet della Regina, sulla quale campeggia una scritta a penna blu, fatta con calligrafia infantile, che dice: «elena e il libro delle avventure di ALICE». Un suo marcare il territorio, qualcosa che i bambini fanno spesso sulle loro cose, su quelle a cui tengono in particolare.

Ma io l’ho ereditato, diciamo cosi, in quel modo un po’ furbesco con cui in casa ci si scambiano – o ci si prendono – le cose che piacciono. L’ho fatto mio, senza tanti giri di parole. Ho pensato, piuttosto unilateralmente, che l’affezione profonda a quell’oggetto e le memorie connesse bastassero per legittimarne il mio possesso ormai esclusivo e pacifico.

La dedica sul frontespizio recita «Alla meravigliosa Elena, da zio Pino. Natale, 1979». È incredibile, all’epoca avevo appena tre anni e mezzo, ma ricordo benissimo quel Natale, il momento preciso in cui mio zio – pallido e filiforme, coi capelli rossi e le lentiggini sul viso che portiamo in famiglia come un marchio di fabbrica – passato quel giorno per una visita, porgeva questo dono a mia sorella che aveva compiuto da poco otto anni, sotto il grande albero sapientemente addobbato dalla mamma in salone, come ad ogni ricorrenza, e a cui non ci era concesso avvicinarci troppo.

vecchio libro scritta CristinaNon so bene se mia sorella conoscesse già la storia di Alice nel paese delle meraviglie, probabilmente mio zio doveva avergliene parlato in precedenza, e il libro in regalo era il coronamento ideale dei suoi racconti. Ma ricordo la felicità e il sorriso aperto sul viso di Elena per quel regalo così piccolo eppure così carico di promesse e di avventure da sfogliare ad ogni pagina. E ricordo la mia curiosità di minuta analfabeta e nuova al mondo per quel piccolo oggetto rettangolare e misterioso. Era l’ultimo Natale di quei difficili anni Settanta – funestati dal terrorismo, dalla crisi energetica ed economica, e la nostra Ancona anche da un terribile terremoto venuto dal mare di cui ancora, nonostante una rapida ricostruzione, la città e i suoi abitanti portano con sé la memoria e le ferite –  che ci avevano visto nascere, e ci stavano lasciando crescere. Un paperback poteva ben bastare, al tempo, per renderci felici. E non avremmo osato, comunque, chiedere niente di più.

Sotto il discreto segno a penna blu che pretendeva di nascondere le cifre si può intravedere ancora il prezzo: L. 2.700. La copertina è quella classica dei Garzanti di una volta, incorniciata di arancio e di marrone. Al centro, un’illustrazione a colori tenui che raffigura l’incontro di Alice col Brucaliffo (anzi solo Bruco, nella traduzione dell’epoca di Alfonso Galasso e Tommaso Kemeni). La copertina è scolorita, e un po’ scarabocchiata, ne manca persino un angolino inferiore sulla destra, e ricoperta di striature bianche dovute all’usura, a passaggi di mano infantili entusiaste e poco accorte, a letture avidamente insistite, ripetute; il dorso è consunto in più parti, un sentiero concavo in cui il dito indice affonda per tutta la lunghezza, tenuto insieme alla meglio con uno scotch ingiallito dal tempo e ormai quasi del tutto inservibile, se non fosse per la sovraccoperta in cellophane trasparente con cui anni fa ho provveduto a rivestire il tutto nell’estremo tentativo di salvare il salvabile. Espediente poco estetico, senz’altro, e poco poetico, con l’adesivo giallo che sporge a più riprese dall’interno, ma tutto sommato ancora efficace.

È un libro che oggi sfoglio raramente, con cautela estrema, quasi come sfoglierei un manoscritto antico: le pagine rischiano di staccarsi ad ogni apertura dalla costola della rilegatura, e in molti casi si sono già scollate per una buona metà, assumendo un allineamento sghembo, approssimativo. Per questo sinora l’ho sottratto alle imprudenti mani di mia figlia, distraendola con edizioni meno fascinose ma più recenti, colorate e accattivanti. Riservandomi di passarglielo in eredità, non appena sarà abbastanza grande per capirne il valore, tutto affettivo, genealogico quasi, famigliare.

La carta, corposa sotto i polpastrelli, originariamente già ruvida, sembra essersi inspessita col tempo e ha assunto quella nuance giallo paglierino e quell’odore pungente di umido e soffitta tipici dei vecchi libri economici. Il testo è accompagnato dalle classiche, inconfondibili illustrazioni originali di Sir John Tenniel. Illustrazioni dal tratto infittito, nervoso, che sembrano tradurre nel segno appuntito, spesso spigoloso, tutta l’inquietudine che anima la bambina protagonista delle avventure nel paese delle meraviglie e dietro lo specchio. Sono immagini mai rassicuranti, mai soltanto didascaliche, esplicative, che ritraggono una bambina dai lineamenti invero già adulti, stranamente matura nella sua espressione perennemente imbronciata, sempre scostante, a volte annoiata, e semmai sbigottita, ma mai allegra e neppure sorridente.

Questo mi ha sempre colpito di quelle illustrazioni per un libro che si voleva per l’infanzia: che quella bambina non ridesse mai, neanche di fronte alle trovate più surreali e divertenti – penso al tè col Cappellaio Matto e compagnia, o alle battute sornione del Gatto del Cheshire –  che quel nonsense a cui doveva arrendersi il suo ragionamento non fodisegnolibro1elena cristinasse mai uno spasso per lei, una ricreazione, piuttosto una prova assurda da superare per approdare all’avventura successiva, come in una specie di raccontato videogame ante litteram (e anche i protagonisti dei vecchi giochi elettronici con cui mi intrattenevo da bambina, a ripensarci adesso, non ridevano mai).

Ad alcune di queste immagini mia sorella, non contenta, aggiunse del suo, colorandone a matita o a pennarello alcuni dettagli: il risultato sono delle illustrazioni ritoccate, un po’ in bianco e nero e un po’ no, simili nell’effetto finale a certi dagherrotipi colorati dell’Ottocento, coi loro toni acidi e l’aria altezzosa e vintage, aristocratica e svagata.

Mia sorella – mai stata una lettrice che diremmo vorace – lesse questo libro per almeno otto volte consecutive, fino all’adolescenza inoltrata. Terminata una lettura, entusiasta, lo riprendeva in mano a intervalli regolari, ricominciava a leggerlo daccapo, fermandosi ogni volta alla fine delle avventure nel paese delle meraviglie perché quelle dietro lo specchio, diceva, non erano altrettanto avvincenti. Sentii così tanto parlare di quel libro, dai suoi racconti rapiti ed eccitati, che appena imparai a leggere mi fiondai sulle sue pagine, rinnovando l’incontro con quei personaggi strambi, dal fascino a volte oscuro, e persino indisponente, celebrando un rito silenzioso, chiuso nel paese intimo della nostra cameretta, di cui lei andava genuinamente fiera.

Sulla quarta di copertina, nel breve testo riportato per attirare l’attenzione del potenziale lettore, Alice viene definita «una bambina perversa polimorfa». Se sul “polimorfa” non potevo che essere d’accordo – è Alice stessa ad ammetterlo a colloquio con il Bruco: «so chi ero stamattina quando mi sono alzata, ma da allora credo di essere cambiata più di una volta» – ricordo la mia sensazione di fastidio, incomprensione, per quel “perversa” che, dopo averne controllato il significato sino ad allora ignoto, mi pareva parola bizzarra, vagamente tendenziosa, insomma inopportuna. Una sensazione che a dirla tutta non mi abbandona neppure oggi, quando ascolto canzoni come The Humpty Dumpty Love Song o White Rabbit, ammiro certe foto di Annie Leibovitz,  le splendide illustrazioni di Arthur Rackham del primo Novecento o quelle contemporanee e ambigue di Leonardo Cemak, o mi immergo in lungometraggi che portano il titolo del libro (il vecchio musical del 1966 con Peter Sellers nei panni della Lepre Marzolina,  l’intramontabile rivisitazione Disney, la grottesca e un po’ angosciante Alice di Svankmajer, fino al recente di Tim Burton), e penso a quanta ispirazione è nata, e può ancora nascere, a 150 anni di distanza, da questo libro pensato per i bambini – anzi scritto per delle bambine – che tramanda la sua fascinazione più profonda nell’età adulta, che tra i classici è certo il più mobile, destabilizzante, visionario.

Asterusher è la mia casa. Intervista a Michele Mari

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di Antonella Falco

Michele Mari, Asterusher. Autobiografia per feticciN.I. La casa, intesa sia come spazio fisico che come luogo immaginario, declinata come nido in cui rifugiarsi o come carcere castrante e opprimente, come ricettacolo di affetti e ricordi familiari o come luogo congeniale allo sprigionarsi di forze psichiche irrazionali e violente, è un ambiente che ha spesso ispirato gli scrittori, in ogni epoca e a qualsiasi latitudine. Molti di questi scrittori sono tra l’altro a te particolarmente cari, penso a nomi quali Landolfi, Borges, Gombrowicz, Poe, Kafka, Canetti e tanti altri. D’altra parte tu stesso hai posto la casa al centro di molti tuoi romanzi e racconti. In tal senso Asterusher (leggi qui la recensione, ndr) è dunque un atto dovuto, l’esito naturale e inevitabile di un preciso percorso letterario?

M.M. Un atto dovuto, sì. Penso che queste fotografie siano il corrispettivo figurativo (e il loro oggetto il corrispettivo plastico) di tante mie pagine, e che, tanto in termini di autobiografia quanto in termini di poetica, siano molto più significative di quanto potrei scrivere articolatamente e diffusamente. In ogni caso non stiamo parlando di fotografie “secche”, ma di fotografie integrate da brevi testi.

N.I. Asterusher si compone di novanta foto. Immagino ne siano state scattate molte di più. Il lavoro di selezione è stato particolarmente difficile?

M.M. Abbastanza: come scrivo nella prefazione, lasciato a me stesso avrei teso all’esaustività enciclopedica dei cartografi dell’imperatore borgesiano… Ancora adesso rimpiango immagini che sono rimaste fuori (una di queste, in particolare, non figura in Asterusher soltanto perché il suo oggetto è venuto alla luce quando il libro era già chiuso: si tratta di un antico pallone di cuoio, deformato e gibboso, perfetto per illustrare un passo dei Palloni del signor Kurz).

N.I. Presso molte culture gli oggetti sono considerati cose tutt’altro che neutre. Le scienze etnoantropologiche, ad esempio, hanno dimostrato come presso diverse popolazioni melanesiane sia diffusa la credenza secondo cui gli oggetti possiedano una sorta di potere spirituale, una facoltà intrinseca che li assimila alla persona che li ha posseduti e che permane in essi anche dopo il loro passaggio nelle mani di un’altra persona. L’oggetto partecipa della forza magica (che i maori chiamano hau) del possessore originario, forza magica la cui qualità può essere positiva o negativa. Le tue case sono piene di oggetti assolutamente impregnati, come questo libro dimostra, della tua energia vitale e tu stesso hai più volte affermato di avvertirli come “radioattivi”. Quanto è ambivalente il tuo rapporto con essi? Quanto c’è di benefico e quanto di malefico nell’energia che questi oggetti ti rimandano?

M.M. Vorrei poter dire (e anzi dico) che me ne viene solo del bene. Fin dall’infanzia gli oggetti, come i personaggi dei libri e dei fumetti, come gli animali e le piante e i mostri, sono sempre stati i miei interlocutori privilegiati, i miei compagni e i miei amici; forse perché, a differenza degli umani, non smentiscono le illusioni del nostro pensiero magico, e, lungi dal sollecitarci alla crescita e (orrore) alla “maturazione”, ci trattengono in un mondo fisso e immutabile.

N.I. È appena uscita la tua traduzione de Il richiamo della foresta di Jack London, pubblicata da Rizzoli, editore per il quale hai tradotto anche L’isola del tesoro di Stevenson e Ritorno all’isola del tesoro di Andrew Motion. Pensando al racconto La freccia nera, contenuto in Tu, sanguinosa infanzia, credo di non sbagliare se dico che per te l’attività traduttoria costituisce un cimento entusiasmante. Tenendo conto del fatto che London è uno dei tuoi numi tutelari e che ne I demoni e la pasta sfoglia lo hai definito «l’ultimo grande epico della letteratura occidentale», come ti sei accostato a questo lavoro di traduzione? Quali sono stati i tuoi strumenti e quale la tua prassi di lavoro?

M.M. Traduco in modo istintivo e di getto; poi, in un secondo tempo, verifico e controllo sui dizionari, e in certi casi confronto la mia soluzione con quelle di altri traduttori, se ce ne sono; infine rileggo la traduzione come un testo a sé stante, limandola secondo le “ragioni dell’orecchio” imposte dalla lingua d’arrivo.

Michele Mari, Asterusher. Autobiografia per feticciN.I. Un altro autore che ami, Gesualdo Bufalino, giunse all’opera di traduzione da autodidatta per poi regalarci non solo splendide traduzioni ma anche interessanti riflessioni sull’arte del tradurre, quale ad esempio questa: «Il traduttore è come uno scassinatore di casseforti. Guai se gli tremano le mani […] Freddezza e passione, dunque, ci vogliono entrambe. Il traduttore deve essere insieme un mistico e un ingegnere. Quindi tradurre è più di un esercizio: è un gesto di ascesi e di amore». Quali sono gli aspetti che per te contano di più nella traduzione di un testo? Saresti disposto a sacrificare la fedeltà a favore di una maggiore letterarietà, insomma, per dirla con il Monti, «una bella infedele fa sempre miglior fortuna di una brutta fedele»?

M.M. In moltissimi casi una certa quota di infedeltà letterale è indispensabile per salvare lo spirito, il senso, il ritmo, le suggestioni subliminali dell’originale (tant’è vero che una buona traduzione non deve dare l’impressione di essere una traduzione, ma imporsi al lettore come testo a sua volta originale): bisogna però sapersi fermare un attimo prima di cedere alla tentazione (pur generosa e nobilissima) di “migliorare” l’originale. Ai fini di questa profilassi mi aiuta il fatto che, non essendo un traduttore professionale, posso permettermi il lusso di tradurre solo testi che, come Il richiamo della foresta, mi incutono un sentimento di reverenza e di adorazione.

N.I. Nei prossimi mesi arriveranno in libreria anche le nuove edizioni di alcuni tuoi libri, quali per l’esattezza?

M.M. A novembre il nuovo tascabile di Euridice aveva un cane, a febbraio quello di Roderick Duddle, e in primavera la ristampa di Io venìa pien d’angoscia a rimirarti nelle collana Arcipelago (tutti da Einaudi).

N.I. Nelle ultime settimane due decani della critica italiana, Franco Cordelli e Pier Vincenzo Mengaldo, il primo dalle pagine de Il Fatto Quotidiano, il secondo dalle colonne de La Lettura, inserto culturale del Corriere della Sera, hanno tracciato un quadro a tinte fosche della letteratura italiana contemporanea, dichiarandone sostanzialmente, se non proprio la morte, uno stato di coma pressoché irreversibile: dopo Calvino, Volponi e Levi i romanzieri italiani sarebbero dei mediocri intrattenitori, la poesia non esisterebbe più da tempo e la critica si sarebbe ridotta all’arte della marchetta. A dire il vero queste analisi relative al declino o alla morte della letteratura italiana ricorrono ciclicamente ormai da diversi anni, lo stesso Mengaldo non è nuovo a dichiarazioni di tal fatta. Qual è la tua opinione in merito?

M.M. Lavoisier, Spallanzani e Volta erano tristi, perché Galvani aveva rivelato che le rane non erano più quelle di una volta. Intervistato, il rospo si sottrasse al quesito.

Michele Mari, «Asterusher»: l’autobiografia per feticci di un puer aeternus

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Michele Mari. Asterusher. Autobiografia per feticci

di Antonella Falco

Novanta foto equamente divise: quarantacinque nella sezione dedicata a Nasca e altrettante in quella dedicata a Milano. Novanta foto, e due case, per raccontare attraverso gli oggetti la vita di Michele Mari, uomo e scrittore (inutile chiedersi dove finisca l’uno e inizi l’altro, la linea di demarcazione netta di solito non esiste, meno che mai per un autore come lui).

È quanto si propone di fare Asterusher. Autobiografia per feticci, volume che è uscito in questi giorni per i tipi dell’editore Corraini di Mantova e si avvale delle splendide fotografie di Francesco Pernigo.

Asterusher è la mia casa. Intervista a Michele Mari – LEGGI }

Il titolo, che più letterario e bibliofilo non potrebbe immaginarsi, fonde in una crasi neanche troppo velata i nomi di Asterione ed Usher, rispettivamente derivanti dai racconti La casa di Asterione di Jorge Luis Borges e La caduta della casa degli Usher di Edgar Allan Poe.

Dunque la casa, anzi le case, sono al centro di questo libro: gli oggetti in esse contenuti e i ricordi a questi legati danno vita a un racconto autobiografico che nel caso di Mari è inscindibile da una poetica degli oggetti. Quelle dello scrittore milanese, lo sanno bene i suoi affezionati lettori, sono case-libro, case letterarie, e una casa della letteratura non può che avere come esito naturale e inevitabile una letteratura della casa. Lo dimostrano le didascalie poste a commento delle foto: a parte quelle scritte espressamente per questo volume (che in alcuni casi citano opere di altri autori), le altre – la maggior parte – provengono dai libri di Mari, testi che l’autore ama pensare come «letterariamente continui, come parte di un unico metalibro».

Chi conosce la dimora milanese dello scrittore sa che è una casa spartana, semplice eppure bellissima, dove a farla da padrone sono i libri assieme a tanti piccoli e grandi oggetti che hanno ormai assunto lo status di reliquie e talismani. Tutti insieme essi compongono quel luogo-non-luogo che è il fantastico regno di Michele Mari, un regno uno e trino, essendo geograficamente dislocato tra Milano, Nasca e Roma (sebbene l’abitazione romana non sia presente nel libro perché non direttamente legata agli anni dell’infanzia e della prima giovinezza, essa non è meno ricca di fascino e attrattive). Sui due regni settentrionali si concentra dunque la lunga teoria di foto che compone Asterusher. La prima sezione del libro è dedicata al buen retiro di Nasca, piccolo centro in provincia di Varese, sulle sponde del Lago Maggiore. È qui, nella grande casa che il nonno materno acquistò lo stesso anno della sua nascita, che Mari trascorre le estati. È questa la casa adombrata in tante sue opere: dal maniero di Osmoc (che trova nella biblioteca il suo cuore pulsante) in Di bestia in bestia, alla casa di Scalna (quasi anagramma perfetto di Nasca) nel racconto eponimo di Euridice aveva un cane, alla magione di campagna di Verderame la cui cantina nasconde inquietanti misteri.

Casa signorile, «ancorata in una fissità quasi minerale», la grande dimora sul lago presenta tratti che la assimilano alle case landolfiane (oltre che, ovviamente, alla casa degli Usher citata nel titolo) per cui alla frase «nella nostra [casa] sentivo abitare lo spirito della morte», contenuta in Euridice aveva un cane, fa da contraltare perfetto il passo di Racconto d’autunno in cui Landolfi scrive: «su tutto era stesa la polvere del tempo, non la polvere, la particolare opacità delle cose morte, dovunque era il senso di gesti rappresi nell’aria» e basta scorrere le foto di pagina 16, 56 e 57 per rendersi conto che la nobile dimora di Nasca potrebbe trovare una degna chiosa in quest’altro passo dello stesso romanzo: «tuttavia, […] l’insieme induceva la medesima impressione che l’esterno della casa, quella cioè di un fastoso abbandono».

Com’è noto, nelle opere di Landolfi, la casa assurge spesso a vero e proprio “personaggio” della narrazione e presenta caratteristiche di decadenza, semiabbandono e mistero che hanno finito per costituire un topos della narrativa landolfiana. Come lo stesso Mari scrive nel saggio de I demoni e la pasta sfoglia dedicato allo scrittore di Pico, le dimore di Landolfi «sono anche e soprattutto una poetica». Esattamente come le proprie. Sfogliando le foto, sia di Nasca che di Milano, e leggendo le didascalie – che, lo si è detto, in alcuni casi sono state scritte espressamente per commentare le foto ma nella maggior parte sono tratte da romanzi e racconti di Mari – quello che colpisce è il perfetto rapporto osmotico tra oggetti fotografati e citazioni: il brano citato si pone come ideale chiosa alle immagini e le immagini trovano, in tutti i casi, anche quelli meno evidenti e prevedibili, il loro inveramento nel brano.

Michele Mari, Asterusher. Autobiografia per feticci Sempre a proposito del forte legame che lega Mari ai propri oggetti non ci si può esimere dal chiamare in causa (è egli stesso a farlo nella Prefazione) il trattatello intitolato Fantasmagonia, racconto eponimo della raccolta uscita nel 2012. Fantasmagonia, articolato in un introibo e diciannove paragrafi, costituisce un esauriente enchiridio sulla fantasmasi e presenta tratti fortemente autobiografici. In esso almeno due paragrafi, il dodicesimo e il diciassettesimo, si soffermano sul rapporto che l’apprendista fantasma intrattiene con gli oggetti. Egli ama soffermarsi «con speciale affetto» su alcuni oggetti della casa «provando in anticipo il lutto della loro perdita» e «proprio le cose cui più il proprietario pensava con prolettico rimpianto sono quelle che più, dopo la morte, lo imprigioneranno».

In particolare nel paragrafo diciassette il futuro fantasma è descritto come «soggetto commuovibile dagli oggetti», riporto l’intero passo che starebbe bene posto in esergo ad Asterusher:

«Incapace di sciogliere il ghiaccio dei propri blocchi esistenziali, il futuro fantasma è pressoché escluso da un autentico commercio umano. Schiavo del solipsismo, fin da piccolo egli si abituerà a investire sentimentalmente nelle cose, siano essi oggetti (non necessariamente giocattoli), vestiti, elementi di architettura domestica. Queste cose lo commuoveranno, la sua stessa fedeltà a queste cose lo commuoverà: egli si penserà come soggetto commuovibile dagli oggetti, diventando pertanto oggetto egli stesso».

Il feticistico rapporto con gli oggetti (non è un caso che il sottotitolo di Asterusher sia proprio Autobiografia per feticci), spesso, ma non necessariamente, legato ai piccoli tesori dell’infanzia (giocattoli, giornalini, fumetti per cui si vedano le foto alle pagine 76, 77, 78, 86, 87, 103) rappresenta una costante nella narrativa di Mari: gli oggetti sono cimeli e reliquie da custodire gelosamente impedendo che vadano smarriti a causa dell’incuria o della disattenzione o che finiscano in mani profane, le mani di persone incapaci di apprezzarne il valore e la sacralità.

Dal signor Kurz che nel primo racconto di Euridice aveva un cane sequestra sistematicamente tutti i palloni che i bambini dell’adiacente collegio fanno accidentalmente rimbalzare nel suo cortile durante le loro partitelle, custodendoli dentro una serra – vero e proprio monumento alla memoria di quei piccoli e dei loro giochi – ciascuno con la sua targhetta identificativa recante la data del “sequestro”; al padre che in L’uomo che uccise Liberty Valance, in Tu, sanguinosa infanzia, sottrae al figlio i giocattoli per evitarne lo smarrimento e l’irrimediabile perdita; al professore che ne I giornalini (sempre in Tu, sanguinosa infanzia) appresa la notizia dell’imminente paternità decide di impacchettare e immagazzinare in cantina i venerati giornalini dell’infanzia per sottrarli alle incaute e irriverenti manine del nascituro il quale ignorandone lo status di vere e proprie reliquie, li impiastriccerebbe con i suoi pennarelli: è tutta una museologia degli oggetti. Nel repertarli e nel catalogarli secondo certosini schemi tassonomici, il loro custode, il quale altri non è che l’autore stesso, rivela un compiacimento feticistico che trasforma quei semplici tesori dell’infanzia in oggetti erotizzabili.

Dai cimeli dell’infanzia tale atteggiamento si estende ad altri oggetti riconducibili a un periodo più tardo come ad esempio – nella seconda sezione di Asterusher, quella dedicata alla casa di Milano in cui Mari vive dal 1983 – le penne che ha utilizzato per scrivere i suoi libri «fin dentro l’attuale millennio», prima di «arrendersi» alla scrittura digitale: «assiepate come i soldati dell’antica falange», esse sono dominate dallo sguardo «severo e disdegnoso» del Sommo Dante che dalla «sua specola alta» sorveglia la scrivania dello scrittore (foto di p. 82). Nella pagina accanto campeggia la foto di due bottiglie di profumo piene zeppe di mozziconi di matita «accumulati negli anni degli studi liceali e universitari», che Mari sente (lo scrive nella Prefazione) come «un burocratico precipitato oggettivo di quegli studi, molto più garante e probante, per me, di un diploma di laurea appeso al muro». E ancora, a pagina 91, il suo libro più prezioso: una prima edizione dei Canti Orfici di Dino Campana che ebbe in dono da un’amica della madre il giorno in cui si offrì di svuotarle e ripulirle un ampio scantinato.

L’elenco potrebbe continuare a lungo ma non voglio togliervi la sorpresa di scoprire Asterusher pagina dopo pagina: vi basti sapere che qui non vi è spazio per l’effimero trascolorare degli oggetti, qui ogni più piccola cosa è immagine plastica dotata di una sua figurativa solennità che la sottrae al flusso obliante del tempo e la cristallizza in figura erotizzabile. Qui regna l’acronia indiscussa e indubitabile, la stessa a cui rimanda il paragrafo sedici di Fantasmagonia. In esso viene spiegato come il premorto, e poi il fantasma, tenda a «contaminare le fasi della propria vita ricordandole come coeve», pertanto i ricordi «gli si affolleranno sotto la specie dell’indifferenza temporale», motivo per cui «lo stato memoriale del fantasma sarà […] all’insegna della più adiafora acronia».

Un comportamento per certi versi simile a quello che l’autore adotta nei confronti delle epoche letterarie alle cui forme linguistiche attinge con una disinvoltura che attraversa l’intero arco diacronico della nostra storia letteraria: le forme della lingua succedutesi nel corso dei secoli vengono utilizzate e mescolate come fossero sincrone. Quello che ne deriva è una prosa in cui gli arcaismi più peregrini convivono felicemente con formidabili neologismi, dove accanto al gioco della neoformazione lo scrittore si concede il gusto della deformazione (fortemente espressionistica), dove il registro aulico non disdegna l’accostamento al registro basso e triviale e dove entrambi questi registri, in virtù del loro «divorzio dall’uso ordinario» risultano «equipollenti», ambedue consentendo alla pura «letterarietà» di dispiegarsi (è quanto Mari afferma in un suo scritto contenuto nel volume Parola di scrittore).

Dagli oggetti, dunque, si può risalire alla poetica dell’autore, una poetica che a sua volta di quegli oggetti è figlia; allo stesso modo la casa è al contempo madre e amante dello scrittore come appare chiaro da quest’altro passo di Fantasmagonia: «pregna degli spiriti dell’inquilino, la casa gli è madre: madida dei suoi essudati, gli è amante».

Michele Mari, Asterusher. Autobiografia per feticci

Rimanendo ancora sui concetti di acronia, diacronia e sincronia, è il caso di soffermarsi su almeno altre due foto, la prima, a pagina 22, raffigura quattro lettini allineati in una stanza della casa di Nasca, quattro lettini, che come spiega la didascalia tratta dal racconti I giornalini potrebbero rappresentare «un’allegoria dell’età dell’uomo», ma che pure sembrano sospesi in un tempo mitico: un tempo fuori dal tempo e quindi sottratto al divenire. Ma è soprattutto l’altra foto, a pagina 100, nella sezione milanese, a imporre una simile riflessione. La didascalia – non tratta, stavolta, da alcun testo – si sofferma sulla scultura lignea di un coccodrillo che Mari ha realizzato con le proprie mani. Ma l’essenza e, potremmo dire, l’intima verità di questa foto, che forse una certa profilassi induce l’autore a tacere, è l’acronica “simultaneità” dei tre bambini immortalati in altrettante foto attaccate alla parete: ai lati, nelle due immagini a colori, Rolando e Sergio, i figli dello scrittore, al centro, nella foto in bianco e nero, il piccolo Michele che stringe il suo orsacchiotto. Poco importa se le foto a colori siano state scattate a cavallo tra la fine degli anni Novanta e i primi anni Duemila e quella in bianco e nero tra la seconda metà degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta: Michelino, Rolando e Sergio non solo possono collocarsi su un orizzontale piano sincronico, ma possono addirittura concedersi il lusso di trascendere il tempo fino alla «più adiafora acronia».

Dilatando la prospettiva tutto Asterusher potrebbe leggersi e sfogliarsi come l’autobiografia – per feticci – di un moderno puer aeternus, tanto più che lo stesso Mari ha dichiarato di non sentirsi un adulto ma «un bambino invecchiato».

Puer aeternus, dunque, o se preferite, novello Peter Pan, malinconico Piccolo Principe, che ha trasfuso molta della propria emotività nei luoghi e negli oggetti che lo hanno accompagnato nella vita, Michele Mari risulta così tanto continuo e compenetrato alle proprie case da richiamarmi alla mente, mentre sfoglio per l’ennesima volta il suo libro, le sibilline parole di Borges: «Risiedevo già in questo luogo, poi vi sono nato».

Le responsabilità del precario (nell’epoca del “cognitariato”)

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asino piccolo

di Andrea Inglese

 

Intorno agli anni Novanta, storicamente parlando, io stavo finendo di studiare, o mi ero già laureato, conseguendo (fuori corso) un’accurata laurea in filosofia, quindi con alcuni amici, che stavano anch’essi conseguendo, o avevano conseguito lauree in giapponese, psicologia, o storia della medicina medievale, si andava a caccia di lavoretti, che erano molto necessari, ma non tanto influenti sul nostro destino economico, e neppure su quello del paese, dal momento che il Prodotto Interno Lordo continuava, con tale andazzo, a rimanere al palo.

Il sordido realismo

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Taxi Teheran, Orso d'oro al 65° Festival internazionale del cinema di Berlino
Taxi Teheran, Orso d'oro al 65° Festival internazionale del cinema di Berlino
Taxi Teheran, Orso d’oro al 65° Festival internazionale del cinema di Berlino

di Francesca Fiorletta

Jafar Panahi ha girato, letteralmente davanti alla telecamera, uno dei film più interessanti degli ultimi tempi. Si è messo alla guida di un taxi, in un ipotetico giorno qualunque, e ha attraversato le vie polverose e catatoniche di Teheran.

L’impostore di Javier Cercas

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di Giovanni Dozzini

L'impostoreIl corpo a corpo tra realtà e finzione è qualcosa che ci riguarda tutti, ossia tutti gli uomini, anche se naturalmente riguarda ancora di più gli scrittori, più in generale gli uomini d’arte ma forse soprattutto gli scrittori. Il nuovo libro di Javier Cercas ha un titolo esplicito e sfrontato che in qualche modo definisce la natura di questo corpo a corpo, o meglio la natura di colui che se ne fa palcoscenico, o ring, uomo o scrittore cambia poco: L’impostore (traduzione di Bruno Arpaia, Guanda) è un altro ponderoso tassello della ponderosa produzione letteraria di Cercas, e un libro in cui il narratore spagnolo si avvicina vertiginosamente alla ratio stessa della letteratura, alla sua ragion d’essere e al suo modo di essere e di essere pensata e agita.

L’impostore del titolo è un uomo il cui nome a noialtri italiani dice poco o pochissimo, Enric Marco, e che però in Spagna dieci anni fa esatti è stato protagonista di una vicenda incredibile che a suo tempo godette di un’attenzione mediatica clamorosa. Marco, in poche parole, è stato autore e interprete di un’impostura portata all’esasperazione, arrivando non solo a presiedere la più importante associazione spagnola di ex deportati nei campi di sterminio nazisti senza mai essere stato deportato in un campo di sterminio nazista, ma addirittura a inventarsi, anzi a reinventarsi in continuazione, perlomeno da un certo momento in poi, la propria intera esistenza, e di farlo a favore di telecamera, di penna e di obiettivo fotografico. Fu smascherato da uno storico misconosciuto quando occupava già da anni la più rilevante carica della Amical de Mauthausen, nella primavera del 2005, sul punto di diventare il primo ex deportato spagnolo a parlare in una commemorazione ufficiale della liberazione del lager, per di più quella del sessantesimo anniversario, per di più alla presenza dell’allora premier José Luis Zapatero. Enric Marco aveva ottantaquattro anni, e da più o meno una trentina aveva cominciato la straordinaria opera di riscrittura della propria vita, adoperando la tecnica più elementare ed efficace dei migliori bugiardi e dei migliori romanzieri, e cioè mescolare verità e menzogna, puntando in alto ma senza mai rinunciare a mescolare, facendo crescere la bolla della sua finzione all’inverosimile ma senza mai dimenticare di insufflarci dentro le giuste quantità di realtà. Solo che Enric Marco non era un romanziere, e non stava scrivendo un romanzo. Enric Marco era un uomo che stava falsificando la sua storia.

Marco fu soldato repubblicano ma non nel modo in cui l’avrebbe raccontato, si ritrovò in Germania nel cuore della Seconda guerra mondiale ma non nel modo in cui l’avrebbe raccontato, diventò prigioniero dei nazisti ma non nel modo in cui l’avrebbe raccontato, e poi se ne tornò in Spagna a fare ciò che bene o male tutti o quasi tutti gli spagnoli avrebbero fatto per quarant’anni, e cioè chinare la testa di fronte alla dittatura franchista dando a intendere di non aver mai nemmeno potuto pensare di essere in qualche modo oppositori del Generalissimo.

La storia di Marco è francamente avvincente ed eccezionale, ma altrettanto francamente per un lettore italiano non può esserlo tanto quanto può esserlo per un lettore spagnolo. Non sta qui, in assoluto, la forza di questo libro. La forza di questo libro cresce pagina dopo pagina, e cresce soprattutto quando Cercas, con la sua prosa complessa e allo stesso tempo limpida e lineare, un’abilità propria dei grandi, quale Cercas indubbiamente è, quando Cercas insomma si cala con coraggio nell’abisso in fondo al quale forse si trova il senso primario della letteratura, e che ovviamente si intreccia in modo feroce e morboso con quello della vita stessa. Cercas non scrive un romanzo, ovvero non scrive un romanzo di finzione ma un romanzo di realtà, e facendolo si mette a nudo senza pudore, svelando le proprie paturnie, il proprio rimuginare e le proprie debolezze, portando in scena la sua quotidianità, anche, la sua famiglia, le sue abitudini.

Di primo acchito potrebbe sembrare un esercizio analogo a quello fatto anni fa col formidabile Anatomia di un istante, ma la verità è che non si tratta di niente di più diverso. Anche in quel caso l’autore di fatto cercava di raccontare una realtà al netto della finzione, però mentre lì Cercas rinunciava come un fallimento a scrivere un romanzo collettivo impossibile qui aderisce a una storia individuale concentrandoci le proprie nevrosi e i propri dubbi esistenziali di uomo e di scrittore, giungendo a comporre quasi un’autobiografia letteraria in forma di romanzo di realtà.

L’impostore a tratti si trasforma in una sorta di processo a se stesso, all’ambizione e alla presunzione di essere scrittore, anche se la sentenza finale non è emessa, come succede nella letteratura di valore. Cercas è narcisista quasi quanto il suo anti-eroe, o non sarebbe uno scrittore, e lo è al punto da evocare, per spiegare o spiegarsi i propri procedimenti creativi, il fantasma di Cervantes. Enric Marco è il suo Don Chisciotte. E a noi sta benissimo così, perché i ragionamenti di Cercas sono piccoli trattati d’arte, di narrativa, di finzione. L’unico passaggio di finzione autentica dell’intero libro, peraltro, il dialogo immaginario tra Cercas e Marco che appare verso la fine, è la scena madre di quel processo, e forse di tutta la produzione di Cercas fin qui. Una decina di pagine, anzi meno, in cui Javier Cercas si fa incalzare e attaccare senza misura, si fa colpire sotto la cintola, dritto sul muso, dappertutto, e prova a difendersi e a contrattaccare come ogni scrittore ragionevole potrebbe o dovrebbe fare ogni santo giorno e ogni santo istante nel cupo turbinio e nella solitudine della propria mente.

Pure qui, si scava nel profondo, in un compendio di tutto ciò che è l’intero libro: menzogna e verità, finzione e realtà, ambizione e bontà, tutto, certo, incastonato nel presente e nel passato recente della Spagna, nella sua recente sbornia per la memoria storica e nella sua incapacità di distinguere tra memoria e storia, nella sua risacca e nei suoi conti lasciati in sospeso. L’impostore è per certi versi il più spagnolo dei libri di Javier Cercas, eppure è anche il più universale. È un grande libro, ricco di idee, un’esplorazione dotta e insieme popolare dell’animo umano e del mestiere di fingere storie.

Della Serie: Narcos

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NARCOS: l’efficienza della forma narrativa.

di

Tiziano Colombi

 

Narcos è una serie trasmessa e prodotta da Netflix, il servizio di streaming americano che presto arriverà anche in Italia. Le dieci puntate che la compongono sono state rilasciate il 28 agosto e dovrebbero essere disponibili da noi nel mese di ottobre.

Narcos nasce da un’idea del regista e produttore brasiliano José Padilha, documentarista di lungo corso e regista di Tropa de Elite – Gli squadroni della morte, film premiato con l’Orso d’oro al Festiva di Berlino del 2008 (ha anche diretto il reboot di RoboCop).

 Alla fine degli anni ’70 i primi laboratori per la produzione di cocaina si trovavano in Cile. Poi arrivò il generale Pinochet e il fiorente commercio terminò rapidamente. Il prodotto però era eccellente e qualcuno pensò di proporlo ai contrabbandieri colombiani. Tra questi il più lesto a fiutare l’affare fu un certo Pablo Escobar, la cui intuizione principale fu quella di trovare un mercato alternativo e più ricco per la polvere bianca: gli USA.

Qui la faccenda si complica e diventa epica.

Il linguaggio scelto da José Padilha per dare corpo al racconto è un abile (e furbo) mix di fiction e materiale di repertorio conditi con telecamera a mano, voce off e un paio di prove attoriali eccellenti (Wagner Moura/ Pablo Escobar su tutti).

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Narcos non è solo la storia di Pablo Escobar, non è una biografia e nemmeno un documentario sulla vita del colombiano più famoso del globo (con tanti cari saluti a Garcia Marquez e Renè Higuita). E’ un racconto complesso perché complessa è la materia che prova a plasmare: il narcotraffico. Ci sono la geopolitica e la politica, l’epica e l’economia criminale, le storie personali di protagonisti e comprimari, i morti, il sangue, i palazzi del governo (dei governi), le strade di Medellin e Miami, la CIA, la DEA, i militari e i paramilitari.

C’è tutto quell’intrico di vita e morte che sta ai confini tra la realtà e la follia sudamericana.

Nell’incipit della serie gli autori ci infilano anche un bel riferimento al “realismo magico” che non fa mai male e tranquillizza tutti. Vabbè, concesso, passiamo oltre.

Se proprio però vi va di trovare un riferimento letterario siamo più dalle parti di 35 morti di Sergio Alvarez.

L’ibridazione (la chiamiamo sistematica e ci infiliamo anche Hieronymus Bosch?) è il tratto distintivo di Narcos, che poi è l’unico modo per tenere insieme una storia come questa, che è poi uno (non il solo certo) dei modi di maneggiare la varietà e la generosità degli attrezzi propri della narrazione, che poi è l’oggi, il presente, e anche un po’ già il passato.

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I tempi cambiano, i media evolvono, il linguaggio anche…e sì…”la convergenza è una tendenza al meticciato che coinvolge sia le tecnologie e i device che i linguaggi e le forme testuali” e bla bla bla… l’hanno già detto e scritto Franzen (Ops!) e un sacco di altri tizi.

Per cui a chi in rete si lamenta dell’uso invadente della voce fuori campo, quella dell’agente della DEA Steve Murphy (interpretato da Boyd Holbrook), novello Virgilio, che prende per le orecchie lo spettatore per le dieci puntate della serie e lo conduce in giro tra nord e Sudamerica, mi vien da dire che forse ha ragione il critico di The Hollywood Reporter quando scrive che “with 10 hours to play with, Narcos; with its loping narrative cadence, often feels like it’s narrative a book, not a movie”.

 Ohibò! Abbiamo fatto il giro dal romanzo alle serie, dalle serie al romanzo.

Il fantomatico feuilleton del XXI secolo. Sarà.

41bMEt2ATEL._SX344_BO1,204,203,200_Io però mi spingerei a guardare altrove, più precisamente all’introduzione di un libro del giornalista messicano Diego Enrique Osorno, Z La guerra dei narcos, nella quale Osorno stesso racconta la sua decisione di abbandonare “l’informazione nuda e cruda” a favore del giornalismo narrativo secondo la lezione di Alma Guillermoprieto, dice lui, e anche un po’ secondo quella di Rodolfo Walsh, dico io (e anche qui un caro saluto al Truman Capote di A sangue freddo).

Lo chiama, con una certa dose di autoironia, “giornalismo infrarealista”, perché questo gli pare l’unico mezzo efficace per comprendere (e far comprendere) la realtà allucinata e violenta del narcotraffico (nel suo caso si tratta nel nord est del Messico).

Osorno arriva a questa conclusione passando attraverso la lettura di un romanzo, 2666 di Roberto Bolano: “che è riuscito a far capire, al giornalista che sono, l’importanza di una narrazione esaustiva, quasi una maratona narrativa, quando si fa quello che sembra impossibile: parlare del narcotraffico”.

 E qui torniamo alla forma. Quale forma? Il romanzo, il documentario, la serie tv, il reportage giornalistico? E se la forma giusta fosse quella più efficace? Dove per efficace intendiamo tecnicamente ben congeniata, economicamente sostenibile e soprattutto in grado di raccontare e coinvolgere il maggior numero di persone possibili?

 Ecco, Narcos è un prodotto apprezzabile soprattutto per la sua efficienza narrativa. A qualcuno potrà piacere ad altri meno, non è privo di difetti e il suo impianto drammaturgico non sempre schiva la retorica. Però funziona, veste la storia, quella di Pablo Escobar (oltre la sua icona pop) e del salto di qualità del narcotraffico (dalla marijuana alla cocaina) che non è solo una vicenda di sangue e morte, ma una porzione di mondo articolato e infinitamente complesso.

Il nostro.