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MONICA GIORGI Tennis, studio e anarchia

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Monica-Giorgi

 

di Nadia Agustoni

Gli anni 70 lo sport la politica.

Intervista a Monica Giorgi

Perché parlare di anni 70, sport e politica? Cosa hanno in comune queste tre parole? All’apparenza nulla, ma negli anni 90 durante i bombardamenti sulla Serbia le stelle dello sport di quel paese, in quel momento impegnate in Italia, ci hanno ricordato che nessuno vive su un pianeta così isolato e fortunato da rimanere immune dalla vita, dagli eventi, dalla storia. La memoria va anche ad altri avvenimenti, dal pugno alzato dagli atleti neri alle olimpiadi di Città del Messico nel 1968, alle lontane olimpiadi di Berlino nel 1936, quando Hitler lasciò lo stadio per non stringere la mano a Jesse Owens. Tornando al tema cui accennavo, dico subito, che da tanto pensavo di condividere con Monica Giorgi, tennista, anarchica, femminista, scrittrice, alcune riflessioni. Ne è mancata l’occasione dal vivo per ora, ma questa intervista è un primo approccio a un possibile scambio di idee. In passato ci siamo già confrontate, da punti distanti. In comune abbiamo l’amore per il tennis, l’anarchia, il femminismo, la parola. Partiamo da qualcosa di simile per approdare a mondi diversi. Le mie domande tuttavia, non vertono sulla diversità del nostro cammino. Sono domande rivolte a Monica Giorgi perché ci racconti qualcosa del suo percorso che ritengo sia interessante.


 

N.A. A questa conversazione ho pensato a lungo. Ogni volta avevo troppe domande da farti, ma nessuna molto chiara. Prevaleva la voglia di parlare a ruota libera, di chiederti mille cose. Ad esempio mi incuriosisce la tua carriera di tennista, con risultati ragguardevoli e sul lato opposto, ammesso però sia opposto, il tuo impegno politico e poi i tuoi studi su Simone Weil e Clarice Lispector, il femminismo e molto altro.

 

M.G. Sì, tennis e studio appaiono due versanti opposti, ma in pratica non sono stati inconciliabili. Quasi distrattamente li ho vissuti come il riflesso di un di più. L’esercizio dell’uno migliorava la prestazione dell’altro. Tennis e studio, che considero molto vicini all’impegno politico e in rapporto all’esserci-starci nel mondo, mi hanno aiutato molto nella vita, materialmente e spiritualmente. Cura del corpo e cura dell’anima mi si sono rivelate esigenze imprescindibili per dare senso alla mia vita e, al contempo, ordinarlo nelle contingenze dell’esistenza, anche se l’una e l’altra le ho praticate con una certa discontinuità per tempo dedicato. Tempo però che non ho mai mancato di prestare ad entrambe. Ancor oggi, sulla soglia dei 70 anni, sento la necessità di fare esercizio fisico per rifocillarmi dalla fatica mentale e per ricompormi, con l’attenzione riservata agli studi, nell’equilibrio del corpo. Non vorrei dare un’impressione sbagliata, di misurare cioè la cosa con il bilancino per programmarla sistematicamente. Mi ci abbandono, quando ne sento il bisogno, lo assecondo…
 
Sono diventata una tennista professionista per caso fortuito e per necessità materiale. Mio padre era uno sportivo di passione; praticava il tennis, il canottaggio, il calcio, amava la pesca; non poteva non trasmettere la sua passione alle figlie, prima alle maggiori e poi a me anche tramite loro. Ho avuto così la fortuna di ereditare una passione alla terza potenza. Poi alla passione si sono aggiunte la voglia di competere e il bisogno di misurarmi. Subentrò di conseguenza una certa professionalità riconosciuta dalla Federazione, dagli sponsor di allora, per i successi nei tornei, nei campionati. Figurati! il tenore dei ricavi si basava sul risparmio dai rimborsi spese, sulla generosità di qualche magnate con la passione per il tennis, sulla rivendita di racchette avute in omaggio… Quel che conta, però, è che il tennis mi ha permesso di mantenermi agli studi, aiutare mia madre e di sopravvivere divertendomi. Ho viaggiato in quasi tutto il mondo, ho visitato luoghi lontani, conosciuto persone “di tutte le razze” – come si dice in livornese quando si vuole esaltare benevolmente le differenze umane di ogni sorta – con cui mi sono confrontata e che mi hanno arricchito più, dico io, di un contratto da 100 milioni di dollari. Mi sono arrangiata con il tennis e con il tennis ho preso la vita con filosofia… alla lettera.

 

N.A. Allora parto dalla fine, dal tuo libro su Simone Weil La clown di Dio, uscito per Zero in Condotta l’anno scorso. Le avevi già dedicato un dossier apparso con A rivista anarchica, ed ora questo lavoro. Ne ho tratto l’impressione che ti interessi molto di Weil l’approccio alla religione, una spiritualità la sua ancorata alla vita reale e nello stesso tempo capace di riflettere su Dio libera da costrizioni. Parliamo di una donna che stava tra gli operai, tra gli scioperanti, tra gli anarchici nella guerra di Spagna del 1936, ma che solo pochi anni prima aveva insegnato filosofia a giovani studentesse prendendole molto sul serio, impartendo loro lezioni di una qualità invidiabile. Un’intellettuale che non sottovalutava nulla e nessuno. Tu sottolinei il suo essere ironica, scherzosa anche, da lì credo il titolo che hai scelto. Vuoi dire qualcosa?

 

M.G. La clown di dio! È la sortita di un’amica, un’imprevedibile esclamazione uscita per bocca di lei durante le nostre appassionate e coinvolgenti discussioni su Simone Weil. Ho detto su, ma in fondo sento di dir meglio, con Simone Weil Non ho scelto il titolo, è il titolo che mi ha scelta, perché quell’espressione mi fece sonoramente scoppiare a ridere. Era qualcosa di vero, dunque. “È troppo bella – incalzai – bisogna scriverne”. E così mi presi la briga di farlo, sentii la cosa come un obbligo, man mano che la scrittura procedeva.
“Intellettuale” mi sembra un termine riduttivo nel definire Simone Weil Come tu accenni, è certo un’intellettuale sui generis, e direi piuttosto un’intellettuale-outsider, una filosofa straordinaria che della filosofia fa “cosa esclusivamente in atto e in pratica”, come si legge nei Quaderni.
Detto altrimenti, è a partire dall’esperienza concreta che lei realizza pensiero teorico.
“Se non avessi fatto quelle cose, non potrei dire queste cose”, precisa Simone a chi le rimproverava quelle particolari stranezze, o idiosincrasie che generalmente sono ritenute ininfluenti, se non addirittura ingombranti, per lo status di filosofa da accademia, all’importanza, alla bellezza e alla profondità dei suoi pensieri e dei suoi scritti che viene riconosciuta dagli stessi contemporanei secondo i quali lei “chiedeva la luna”.
 
Fisiognomica della grazia è il capitoletto attraverso cui ho cercato di trascrivere l’ironia e la scherzosità della sua figura, un po’ imbranata e al contempo divertita (basta osservare alcune istantanee, come quelle che la ritraggono miliziana nella colonna Durruti), accostandole alla mente divina di cui lei era, anzi si rivela, mediazione vivente.
Sì, come tu sottolinei, del pensiero di Simone Weil mi intriga la dimensione religiosa, non schiacciata in nessuna delle chiese istituite, totalitarie secondo il regime dogmatico dell’ “anathema sit”.
Una nota dei Quaderni e una lettera al fratello, per quel che ne so, riconoscono alla vena mistica, che è data scorgere in seno ad ogni religione positiva e rivelata, (la mistica è sempre stata guardata con sospetto dai poteri istituzionali, quando non atrocemente e criminalmente perseguitata come eresia), l’essenza stessa del discorso religioso inteso alla lettera, ossia come religio, cosa che raccoglie, riunisce in ordine simbolico, le differenti espressioni dell’umana dimensione: spirituale e materiale, reale e soprannaturale a partire, uscire da sé, senza delega di rappresentazione. Insomma qualcosa ben oltre la tolleranza e ben al di qua dei regimi di verità assoluta, qualcosa d’altro che non si risolve nel dialogo interreligioso, ma mira alla ricerca e all’espressione di un linguaggio in cui possa riconoscersi ogni fede, compresa l’atea.
 
In realtà, proprio per me atea, nutrita o, per meglio dire alla luce odierna, malnutrita nel e dal linguaggio materialistico della seconda metà del secolo scorso, che è anche fine millennio, tutto ciò che era in sentore di chiesa e di religione veniva considerato qualcosa di cui sbarazzarsi per essere “politicamente corretti”…Eppure è stata proprio la reticenza verso la religione che mi ha spinto a comprendere ciò che non mi tornava leggendo S.W…
 
Sai?, la famosa asserzione marxiana ”la religione è l’oppio dei popoli” la ritrovai capovolta in quel capolavoro, per senso realistico e aspirazione ad altro, che è Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale. Il termine rivoluzione – si legge – così vago ed abusato, così privo di riflessione che chiunque può metterci il significato che più gli aggrada, spinge l’autrice, nel più ampio contesto di analisi critica del materialismo storico, assunto nel linguaggio marxista leninista quale dottrina in grado di spiegare ogni cosa, e non semplicemente un metodo di indagine sulla realtà politico-sociale, la conduce, dicevo, a proseguire il discorso affermando ”…non la religione, ma la rivoluzione è l’oppio dei popoli”. Ecco, questo è stato un passaggio cruciale nello studio appassionato e per il riconoscimento di autorità che riservo agli scritti di vita e di pensiero lasciatici da questa favolosa filosofa.
 
E ciò che non mi tornava è divenuto il punto di leva per sollevare lo sguardo “anarchico”, senza cancellarne la potenza ideale, in una prospettiva altra, non ristretta, per esempio, al principio sloganistico Né Dio né Stato. Da che dio si è parlati quando non se ne vuol neppure sentir parlare? Quale stato ingombra la mente quando essa non riesce a prescinderne sviluppando ragionamenti contro lo stato?
Non sono domande retoriche, sono domande che sto ponendo anche a me stessa, domande che necessitano risposta sollecitando altre domande.
Sfumature anarchiche in Simone Weil, il dossier pubblicato con A, Rivista anarchica è stato il testo di un pretesto, il bisogno cioè di ri-leggere la tradizione del pensiero anarchico alla luce del corpo testuale di una filosofa donna, che procede non per dimostrare la validità ideologica di un’opinione, ma per ricercare e ripensare, senza rete di salvataggio, un pur minimo precipitato di verità inaudita.

 

N.A. I progetti di Weil, dal lavoro in fabbrica al viaggio in Germania all’avvento di Hitler, fino alla Spagna della guerra civile, hanno dato esiti di pensiero su cui riflettiamo ancora oggi. Tu metti in evidenza il suo dare corpo, dall’esilio londinese, all’idea di una squadra di infermiere ausiliarie addestrate per andare in prima linea a prestare soccorso a tutti i feriti. De Gaulle neanche volle prenderlo in considerazione. Forse vi traspare un fastidioso senso di onnipotenza femminile e in più quel battersi contro il male si, ma vedere anche altre efferatezze. Alla fine le donne fecero molto per la resistenza e in tante combatterono e finirono nei campi di concentramento. Strategie sempre diverse; scelte che poi dopo la guerra sono confluite in percorsi anche originali, ma quasi sempre marginali. Devo dire comunque, dopo aver ripreso la lettura di Don Lorenzo Milani e per esperienza, che proprio la marginalità consente la libertà maggiore e dei buoni risultati.

 

M.G. L’agire in marginalità può sortire un senso di libertà più intenso di quello che è forse avvertibile quando si è costretti ad agire sulla scia di un sistema già detto e già visto, autoreferente. I “buoni” risultati, l’efficacia dell’azione per quanto di “nuovo” e di inaspettato mette al mondo procedono, secondo la lezione weiliana che sento di poter cogliere, dalla traversia di bilanciarsi in contesto avendo presente necessità e libertà. Sia per l’impegno politico e sindacale – che non poteva esprimersi se non con l’esperienza diretta del lavoro in fabbrica, condividendo cioè, accanto agli operai, la condizione di esistenza di chi lavora(va) alla catena di montaggio -; sia per l’adesione alla guerra civile in Spagna, Simone Weil ha esplicitamente dichiarato di voler stare nei “ranghi, nelle retrovie”, rifiutando categoricamente qualsiasi posto di prestigio, di alto grado gerarchico. La marginalità in Simone Weil è declinata nella forza dell’umiltà per amore del mondo e, senza dubbio, non si profila con tratti di irresponsabilità in fatto di impegno e radicalità di pensiero. Piuttosto che di marginalità fuori contesto, (lei ha vissuto i tempi del periodo prebellico e nel culmine della seconda guerra mondiale con tale intensità di partecipazione per cui Nadia Fusini l’ha nominata “La guerriera”), parlerei di audacia che affronta il male terreno non con la presunzione di portare il bene perché si ritiene esente dal male; la leggo in una sorta di forza della fragilità lo attraversa in pieno, proprio come “il peggior male” che rimanda, in controsenso, “ il bene più grande”. Il progetto di una formazione di infermiere di prima linea, per il quale si prese della pazza da De Gaulle, intende spiazzare lo sguardo, con la semplice persistenza di un qualche servizio di umanità nel punto culminante della ferocia, dalla scena della forza eroica, militarista e militarizzata. Quella delle armi che decretano: “Morte tua, vita mia”.
 
Lei si sentiva in un esilio insopportabile quando si trovava in America – aveva dovuto mettere in salvo i genitori in seguito all’occupazione nazista di Parigi e all’instaurazione del governo di Vichy, affrontando un viaggio che l’avrebbe tenuta lontana dalla Francia, dal “territorio del diavolo” che era anche il luogo vivo della resistenza e della lotta. All’amico e compagno di studi Maurice Schumann, esponente di alto grado nei quadri di France Libre a Londra, diretto collaboratore di De Gaulle, scrisse una lettera in cui si raccomandava di non lasciarla morire di dolore, e di consentirle almeno di raggiungere Londra. Cosa che ottenne (fu impiegata come redattrice negli uffici dell’interno di France Libre) ma che non le bastava. Da lì infatti sperava e chiese ripetutamente di essere mandata in Francia per un’azione di sabotaggio… sabotaggio d’amore, è proprio il caso di dire. In poche parole si sentiva in esilio, sradicata, per usare un termine a lei caro, quando era fuori dal contesto dove le cose del mondo bisognava affrontarle davvero, senza vie di mezzo, dove l’obbedienza al tempo che è dato vivere non rimandava ad altro momento la necessità di agire, ora e qui.
 
L’onnipotenza femminile, che tu avverti fastidiosa, forse è la stessa avvertita dai suoi diretti superiori: -Butti fuori tutto, la invitava Closon, poi avrà il tempo di pensare alle cose serie-. Quali fossero per lui le cose serie, non lo dice… si possono supporre serie quelle cose utili per decidere le cariche di potere da assumere nella fase costituente e nell’ambito istituzionale del periodo postbellico?… Se si pensa che l’attualità di Simone Weil, testimoniata oggi dal rigoglioso fiorire di studi, di scoperte e di riscoperte, di riedizioni o editi ex novo delle sue carte è “profeticamente” rilevata proprio in quelle cose “da buttar fuori” che sono Gli scritti di Londra appunto, tra i quali emerge il testo che Camus volle pubblicare nella collana ”Espoir” di Gallimard, La prima radice (in essa sono presi in considerazione i bisogni dell’anima e gli obblighi verso gli esseri umani, non gli interessi di supremazia economico-militare degli stati vincitori), allora “la fastidiosa onnipotenza femminile” ha le sue ragion d’essere nel conflitto simbolico dei sessi, malcelato in più uomini che in donne sotto il velo ipocrita del normale buon senso e del sano realismo della ragion di stato. Ragion di stato per l’affermazione della quale, più uomini che donne, hanno rimosso quel poco-tanto di vero, di bene e di giusto che è pur sempre alla portata umana.

 

N.A. Il tuo rapporto con la scrittura quanto è implicato col pensiero della differenza di cui ti senti parte?

 

M.G. Molto, per un motivo a due punte. Essermi avvicinata a questo pensiero frequentando donne che lo andavano esprimendo al tempo in cui vivevo la scrittura, se scrivevo, ricercando la coincidenza con idee già date, nel mio caso quelle anarchiche, mi ha fatto fare un salto politico e simbolico da dove mi trovavo, avvinta da quella considerazione sulla scrittura. Mi sono resa conto di praticarla in uno stato di finzione; quella convinzione sulla scrittura non era e non esprime un pensiero pensante, ma si dimostra un esercizio utile, nel migliore dei casi, ad esprimere opinioni, a confermare e/o criticare ideologicamente, cioè pensare e scrivere per refutare, dato che la soluzione è già posta in partenza. L’altra punta di implicazione tra scrittura e pensiero della differenza è un interminabile lavorio di scambio tra il pensiero teso a dar voce al libero senso della differenza sessuale e la ricerca di parole autentiche. È un lavoro di scrittura senza fine, non una ricerca tecnica buona per tutte le occasioni. Scrittura dunque in quanto pratica di sé a prescindere da sé, scrittura che, per una sorta di imperfetto rimando analogico, non ha da essere se non poetante…

 

N.A. Cosa significa per te un’altra figura di scrittrice, Clarice Lispector, su cui hai fatto la tesi?

 

M.G. Clarice Lispector ebbe a dire: “…letteratura è detestabile, è fuori dall’atto di scrivere…”. Questa citazione precisa quanto ho cercato di dire maldestramente prima; l’ho posta all’inizio della mia tesi, come una specie di dedica. A chi? Alla scrittura, beninteso.
Ebbi la fortuna di leggere intorno alla seconda metà degli anni 80 L’ora della stella. Mi commosse, nel senso letterale dell’espressione. Mi toccò, mi stupì e ne piansi; mi sentii radicata in qualcosa di così vero a cui non sapevo dare nome.
Lessi poi La passione secondo G.H.. Non trovai nulla di quanto solitamente mi aspettavo dalla lettura di un romanzo: lo svolgimento cronologico di una trama schematizzata secondo il genere, l’unità di tempo, di luogo, di azione, l’opinione moralistica dell’autore verso i comportamenti dei personaggi, la risoluzione del plot narrativo, una conclusione, ecc.ecc. Niente di tutto ciò, scoprii invece una scrittura epifanica. Capii poco o nulla di quello che lì era scritto. Ma c’era scritto quello che non capivo, quello che l’ego non capisce e per cui vale la pena continuare a starci sulle pagine scritte. C’era scritto qualcosa di estremamente prezioso. L’ho continuato a leggere come un “vademecum” senza precetti: un “vade cum altero” di una storia d’amore senza fine.

 

N.A. Monica tu ti dici ancora anarchica. Il pensiero anarchico è spesso travisato, ma ci sono di fatto varie correnti e tanti “cani sciolti”, come dicevamo un tempo. Negli anni 70 il tuo impegno politico era in campo libertario e non violento prima ancora che femminista. Ne parleresti spiegando come lo conciliavi con lo sport che praticavi?

 

M.G. L’impegno politico è scaturito dai tempi in cui mi è stato dato di vivere. La criminalizzazione tout-court degli anarchici riguardo ai tragici eventi del 12 dicembre 1969 mi spinse, sull’onda di una controinformazione che metteva a nudo evidenze sconcertanti e inoppugnabili verità di fatto (l’assassinio-suicidio del ferroviere anarchico Giuseppe Pinelli), per essere considerata una strage di stato, a conoscere di persona anarchici e anarchiche e a frequentare i luoghi di discussione e di lotta del movimento.
I l “mio” ’68, però, è stato il ’77 e del femminismo mi prese non tanto la vena emancipazionista dell’uguaglianza con gli uomini, bensì l’anima della libertà femminile che affermava: il privato è politico. Fu un’asserzione dirompente da cui prese origine il femminismo italiano della differenza. Come ho cercato di spiegare all’inizio di questa nostra conversazione, non mi ponevo il problema di essere in sintonia tra un ambito e l’altro; sport e impegno politico.

 

N.A. Come altri volevi un mondo migliore, ma ci fu quella vicenda del carcere e ti ha cambiato immagino.

M.G. Non c’è stato nessun rinnegamento in seguito alla ⇨ vicenda del carcere. Le istituzioni totali, carcere compreso, sono state l’ambito in cui il mio impegno politico si è manifestato intensamente negli anni 70. Da Niente più sbarre – il collettivo che si era costituito a Livorno per denunciare, diciamo eufemisticamente, i soprusi e le violenze subite dai detenuti, molti dei quali erano o si definivano detenuti politici – l’esperienza si prolungò con l’andare dietro le sbarre. Da quell’esperienza ho imparato molto. Nel bene e nel male come ogni esperienza anche quella mi ha dato qualcosa in più e qualcosa in meno di quanto l’immaginazione un po’ esaltata mi aveva lasciato credere, con le implicite aspettative fantasmatiche, appunto. Nessun pentimento, credimi. Il guadagno ricavato da quella vicenda lo esprimo in questi termini: il mondo non cambia se non cambia il proprio rapporto con il mondo.

 

N.A. In Sud Africa durante un torneo scendesti in campo con una maglietta particolare: piedi bianchi e neri sovrapposti come di due che facessero l’amore. La reazione del pubblico fu negativa e così ci fu una protesta della federazione sudafricana con conseguenze al ritorno in Italia. Ma vorrei chiederti visto che erano presenti campioni come Arthur Ashe e Evonne Goolagong se puoi dirci come venivano trattati loro e se pur essendo ammessi al torneo erano però isolati o invece no. Hai avuto l’impressione di essere stata la sola ad essere infastidita da quel pensate clima di segregazione?

 

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M.G.Evonne Goolagong era la numero uno e Arthur Ashe tra i primi tre del mondo e su questo riscontro gli altri giocatori li rispettavano e su questo dato di fatto erano conformemente trattati dagli organizzatori di ogni torneo a cui loro partecipavano, qualunque fosse il paese dove la competizione si svolgeva.
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All’open di Johannesburg fu Arthur Ashe a rifiutare l’invito della Federazione sudafricana per protesta contro il regime razzista del paese. La Goolagong, in quanto componente della squadra australiana, si limitò a giocare la Federation’s Cup che si svolse la settimana successiva al torneo. Non posso dire diversamente per quanto era dato vedere in ambito pubblico; ma vai a sapere cosa passava nel privato…
 
5849Il pesante clima di segregazione lo riscontrai nelle strade e nell’ambiente familiare delle abitazioni dove le giocatrici, me compresa, erano ospiti gradite e ambite; lo riconobbi dalle scritte che stigmatizzavano l’uso dei gabinetti per bianchi e neri; nella proibizione per la gente di colore di salire sui mezzi pubblici a disposizione dei soli bianchi; nel divieto assoluto per un essere umano dalla pelle nera di trascorrere la notte sotto lo stesso tetto di un essere umano dalla pelle bianca; dal modo di trattare i domestici neri tutto-fare-sempre-obbedire-niente-parlare nelle case dei ricchi.
 
apartheidLa storia della maglietta la pensai e me la preparai prima di partire. Sapevo che il centrale di Johannesburg aveva un settore degli spalti riservato ai Black Peoples, una vera e propria gabbia con tanto di recinto e mi promisi di presentarmi con il messaggio d’amore dipinto in bianco e nero sulla maglietta. Il caso volle che per sorteggio la squadra italiana di Federation’s Cup dovesse incontrare al primo turno quella australiana e con ciò l’assegnazione del campo centrale per la disputa degli incontri. Non mi lasciai certo sfuggire la fortunata coincidenza di poter indossare la maglietta e rivolgere direttamente con un saluto al pubblico del settore black, prima di iniziare l’incontro con la giocatrice aborigena che, per forza o per amore, si accingeva a giocare nel Sudafrica dell’apartheid.
 
Non so precisarti se la contenuta esclamazione di un Oh! che percepii da tutto il pubblico avesse avuto un timbro di disappunto, mi sembrò di meraviglia. Ma quello che mi rimprovero, e a cui allora non pensai neppure, è che forse avevo messo in imbarazzo proprio quelle persone a “favore” delle quali stavo manifestando. Ma la cosa è andata così e se così è andata è così che doveva andare, con tutti i ma, i se e le relative conseguenze, anche quelle disciplinari.

 

N.A. Nel 2012 ha fatto parlare di sé una giovane tennista Laura Robson, indossando agli Australian Open un nastrino tra i capelli dei colori dell’arcobaleno in solidarietà gay friendly. Eppure si ha l’impressione che ormai prevalga sempre lo spettacolo. Grandi rischi in quel circuito privilegiato non sembra ne corra nessuno.

 

M.G. Si, l’impressione che hai l’ho riscontrata anch’io ai miei tempi. Difficile uscire dal proprio tornaconto… Mi viene in mente la scelta opportunistica dei dirigenti e dei giocatori italiani a disputare e vincere – per la prima e finora unica volta – la finale di Coppa Davis in Cile (qualificatosi perché la squadra australiana o quella statunitense, non ricordo, si era ritirata dalla semifinale per protesta), proprio all’indomani dell’uccisone di Allende per mano dei generali golpisti capeggiati da Pinochet. Ma come tu stessa riporti non mancano mai del tutto, anche all’interno del più assodato ambiente conformista esempi di rottura, di crepature che lo rimettono in discussione. Poi vai a sapere quando il cuore è puro? Forse nell’amore che non ci corrisponde, in quell’amore che sbrigativamente diciamo illecito…

 

N.A. Viaggiavi, vedevi il mondo, partecipavi ai grandi tornei dello Slam ma come vivevi quell’ambiente? Era diverso da come appare oggi o in germe c’era già questa competitività sfrenata? A volte ha avuto risvolti tremendi; penso al caso delle tenniste bambine, Andrea Jager e Jennifer Capriati e poi al caso di Monica Seles. Ecco la Seles per esempio ha saputo riprendere in mano la sua vita e reagire anche alla paura del dopo attentato. Le ci è voluto tempo. Andrea invece si è fatta suora dopo avere raccontato le violenze del padre che quando non vinceva la riempiva di botte. Nè le donne sono state le sole a subire coercizioni; Andre Agassi non ebbe un buon rapporto col padre padrone.

 

M.G. Lo vivevo con una certa estraneità: per esempio non ho mai partecipato alle feste di gala di Wimblendon o alle ufficialità di qualsiasi altro torneo; me la svignavo sempre con qualche scusa. Vedi il mio difetto di essere un po’ orsa, lupa nella steppa, è anche la mia idiosincrasia: non sentirmi mai del tutto a mio agio negli ambienti sociali rappresentativi, anche in quelli connotati con un’etichetta politica. Sono anarchica per natura prima di esserlo per appartenenza ideale. L’ambiente del tennis era per me il campo da tennis. Non mi sono mancate tuttavia le amicizie; per esempio quella con Lea Pericoli, impensabile se si tiene conto delle diversità di carattere, di storie personali, di ambizioni, di percezioni della realtà che intercorrono tra noi due, ma è proprio lì, nella diversità che può nascere l’amicizia, lì dove non te l’aspetti…
 
m giorgi
Il tennis, come ti ho detto, mi è stato trasmesso dalla passione che mio padre aveva per lo sport. Considerava lo sport una scuola per imparare ad accettare nella vita le dure sconfitte più che a raggiungere facili vittorie. Ricordo il suo ammonimento: non importa se perdi, l’importante è che tu abbia giocato bene e abbia dato fino in fondo tutto quello che potevi. Insomma, mi insegnava ad essere generosa. Sicuramente gli devo la convinzione che il guadagno sta già nella spesa.
Lo so che i rapporti con il proprio padre e la propria madre sortiscono nei figli e nelle figlie reazioni e recriminazioni del tutto singolari, ma mi sembra ingiusto riconoscere soltanto la parte dolorosa e di duro sacrificio di un’esperienza, sentirsi vittime pur avendo raggiunto successi che consentono evidenti privilegi.
 
L’incremento odierno della competitività nel circuito tennistico, imparagonabile all’agonismo dilettante che si viveva ai miei tempi, credo sia dovuta ad un incremento direttamente proporzionale all’espansione mediatica, pubblicitaria, in definitiva al giro d’affari, di denaro e di potere che ruota intorno allo sport in genere e al tennis in particolare. Non ho il polso per valutare dal di dentro cos’altro passi in altri termini.

 

N.A. Tra le campionesse in campo avevi un modello? E chi hai ammirato di più nel tempo? Gianni Clerici parla di te come di un’indimenticabile attaccante.
 

M.G. Maria Esterita Bueno, la campionessa brasiliana che, fin dagli anni ’50, impresse al tennis non solo femminile ma anche maschile, il serve and volley.
Per la determinazione e la forza di non cedere fino all’ultimo punto, Lea Pericoli.
Mi difendevo dal pesante, soprattutto per me che ero mingherlina, gioco da fondo campo, attaccando a rete. Cercavo di rubare il tempo all’avversaria, di romperle il ritmo, sfruttavo la mia velocità di corsa e di slancio, unita all’effetto sorpresa: le avversarie non si aspettavano tanto ardimento. Insomma, potrei parafrasare con una sortita mutuata dalla mistica: “dov’era il mio meno, nacque il mio meglio”…

 

N.A. Cosa ti fa impugnare ancora la racchetta? E se posso chiederlo così, in coda, non soffri mai di nostalgia?

 

M.G. Il piacere di giocare, se la mia provata schiena me lo permette. No, non soffro di nostalgia colma di rimpianto. Ma di nostalgia felice sì, ne godo ancora.


 

Un approccio laterale alla scrittura: Intervista con Letizia Muratori

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muratoria cura di Kate Willman

I vari romanzi e racconti di Letizia Muratori assomigliano a una costellazione di idee, a dei frammenti che formano un insieme; nell’intervista che segue, lei stessa ha rivelato che sono «come altri capitoli dello stesso libro». Un libro che ha come fil rouge l’esplorazione delle relazioni con gli altri, specialmente in famiglia, ma anche un approccio stilistico che dimostra quello che Wu Ming 1 ha chiamato nel suo memorandum sul New Italian Epic «sovversione nascosta di linguaggio e stile». Per questa ragione il testo della Muratori La vita in comune (2007) fa parte della nebula del New Italian Epic, e la Muratori appare come una rara voce femminile tra i tanti uomini nel corpus fortemente maschile del fenomeno.

chi dice che è morto, mente!

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di Tina Nastasi
Magritte per Galeano
(Eduardo Hughes Galeano: Montevideo, 3 settembre 1940 – Montevideo, 13 aprile 2015, un grande uruguayano)

E i giorni si misero in cammino.
E loro, i giorni, ci fecero.
E così fummo nati noi,
i figli dei giorni,
gli indagatori,
i cercatori della vita.
(la Genesi, secondo i Maya)

Sta ancora leggendo le sue storie ad alta voce. Lo sentite o non lo sentite?

Musica delle sfere

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di Sergio Pasquandrea

Monk non è niente male, a ping-pong. È proprio come quando suona il piano: la racchetta arriva quando meno te l’aspetti. Ti prende alla sprovvista. Il suo ritmo ti prende alla sprovvista, perché colpisce la palla all’ultimo momento. Il ping-pong ha un suo ritmo: ping-pong-pada-bong, boom–boom. Ma Monk non fa boom-boom, Monk fa bapp! Ti aspetta al varco. (Charles Mingus)

Il gran sacerdote del bebop?

Ditele l’assenza

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di Mariasole Ariot

Ditele che il giorno ha smesso di parlare, ditele che quando lo scorrere del tempo si inarca la vita diventa processione, ditele che un bambino urla, ditele che la conta delle ore non fa testo, ditele che la testa è piena, ditele che le uova non hanno cornice, ditele che l’insonnia è un’armatura per restare, ditele che la parola si misura in grammi e non in metri, ditele che la soglia è tutto questo vedere, ditele che il pianto non veste un cranio, ditele che la ruggine accade sull’umano, ditele che ho mani di caduta, ditele che quando il tempo non si piega la vita è un artificio, ditele che urlo, ditele che l’adulto ha mangiato il suo silenzio, ditele che piove, ditele che resto se restate, ditele che un albero blu se è stanco non reagisce, ditele d’ingiallire, ditele il vischio della pianta, ditele che il campo non è aperto, ditele che il mondo è una massa verticale, ditele l’assenza, ditele che il bianco che ho ingerito si è deposto sulle dita, ditele che grida, ditele che la via lattea ci attraversa in diagonale, ditele che un termine caldo non è un frutteto, ditele che non termino, ditele che il cuore ha scampo quando smette, ditele che tremo, ditele che ho un fiume sulla testa, ditele che rovistare non è una vergogna, ditele che il segno non è un gesto, ditele che un resto di sogno mi ha svegliato, ditele che non dormo, ditele del bianco appoggiato sulla vita, ditele dei gradi zero, ditele dei maiali appesi, ditele dei cadaveri che non smettono la morte, ditele che quando il tempo piega la vita è carneficina, ditele che il mondo è il retaggio di una madre, ditele che è un cratere spento, ditele che l’uomo ha fame dell’umano, ditele che la fame non è innocente, ditele che il giorno ha smesso di parlare, ditele che grido, ditele che è bianco, ditele che è forma, ditele che il niente ha il peso di un oggetto, ditele che il vuoto non è cavo, ditele che parlo.

Ditele la fame, ditele che la bocca è il centro di una testa, ditele che se piange è per pudore, ditele lo sputo, ditele che il cielo senza occhi non ha ragione, ditele che una parola è matura quando è grave, ditele che grido, ditele che hanno forato il cranio con un punteruolo, ditele che passano le voci, ditele che non passa, ditele che i bambini hanno lo sguardo torvo, ditele che non guardo, ditele che le maglie della terra sono strette, ditele che non usciamo, ditele che usciremo, ditele che l’uomo ha una gabbia sulla testa, ditele della cornea, datele una retina, ditele il sangue sui tappeti, ditele che non avrò figli, ditele che ha innaffiato fiori finti, ditele che non fingo, ditele che i pianeti quando non cadono è perché cedono, ditele che nel pozzo non cadano bambini, ditele di non cadere, ditele che il radicale è un frutto senza seme, ditele dei confini mancati, ditele che se non sono – sono l’altro, ditele della rincorsa dei coltelli, ditele della camera nera, ditele che un luogo non fa territorio, ditele che i territori sono reti, ditele della ragnatela, ditele che il mio scheletro ha la forma di una mosca, ditele dei ragni Ditele che non ho pertugi, ditele che il consiglio è : evaporare, ditele che un foro non è un passaggio, ditele che non passa, ditele che hanno cartografato il vuoto, ditele che la fedeltà non si misura in giuramenti, ditele che sono infedele, ditele che la parola è un segno, ditele che ci parliamo, ditele che vedo, ditele che l’uomo ha creato bocche ovunque, ditele che sono una buca, ditele che non ho un fondo, ditele dell’universo osservabile, ditele che se ho taciuto è per gravità, ditele che non ho mai taciuto, ditele che il principio di reazione ha fallito, ditele che è falso, ditele che ho fame, ditele che è freddo, ditele che piange, ditele che un uomo è un bambino in verticale, ditele che cado, non ditele niente, ditele della sbarra piantata sulla schiena, ditele che la verità è una menzogna, ditele che mento.

Ricordi propri e d’altri. Burri e i prigionieri italiani in Texas

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di Elena Frontaloni

hereford

 Della difficile amicizia tra Alberto Burri e le “parole” dice l’artista stesso con le sue poche dichiarazioni e interviste – 3 pubblicate nel corso dell’intera sua vita  –, e dicono anche le testimonianze di critici e conoscenti (meno quelle degli amici intimi e della gente di Città di Castello, con cui pare fosse molto più ciarliero). Per l’ufficialità, in ogni modo, Burri fu uomo orgoglioso e fiero, incline al silenzio e senza dubbio a lasciar parlare da sola la sua arte. Famosa, esibita nel corso dell’intera vita, è la sua diffidenza nei confronti dell’autocommento e della parola critica che vorrebbero spiegare la pittura e non lo fanno o non vi riescono

T or C

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marco_reali_coverdi Romano A. Fiocchi

Marco Reali, Verità o Conseguenze, La Vita Felice, 2014, 128 pag.

Scrivere ma soprattutto pubblicare racconti è di per sé una sfida. Nessun editore si vuole arrischiare, tutti ti dicono: i racconti non vanno. Ma come. E Carver? E Borges? E la Munro, che con i racconti ha vinto il Nobel? Forse non vanno solo in Italia. Ecco che allora molto coraggiosamente ci provano in due: La Vita Felice, che da decenni si dedica essenzialmente a pubblicazioni di poesia (e già questa è una bella sfida editoriale) e Marco Reali, che per vivere fa lo stesso mestiere che faceva Edgar Lee Masters quando pubblicò l’Antologia di Spoon River: l’avvocato. Direbbe qualcuno: che ci azzecca la giurisprudenza con i racconti. Nulla. O meglio: il filo sottile che lega la ricerca della verità, che non è mai assoluta ma sempre relativa. Sia per l’avvocato che per lo scrittore.

Sono racconti, quelli di Marco Reali, costruiti su reminiscenze di viaggi. Si spazia dall’India alle isole Frisone, dai cimiteri parigini al “cielo immenso” del Montana. Racconti in forma di viaggi e viaggiatori in forma di protagonisti. Gente che cerca se stessa, che cerca un altrove, una collocazione della propria identità nella storia e nella geografia del globo terrestre. E dell’universo. L’americano Dave Lovich, padre e non-padre della giovane Geena, il cuoco Ferdinand Louis Herzog sepolto in due cimiteri diversi, il fotografo Alain Laval che vaga per un’isola sperduta “auscultandone il respiro”, il polacco-guatemalteco Felix Kaminsky che trasforma il caos in falsi d’autore, Mariolino che fa viaggiare nel tempo la sua vendetta inconscia, l’io narrante di Diario indiano. Sono tutti personaggi che si muovono senza una meta precisa, per il puro gusto di viaggiare o forse per una necessità dinamica dell’universo di cui sono minuscoli ingranaggi, talvolta avendone la consapevolezza. Obiettivo non è un’ipotetica destinazione ma il viaggio in sé. Un viaggio nello spazio e nel tempo. Che, ormai lo sappiamo, sono un tutt’uno: lo spazio-tempo. E lo sa ovviamente anche Marco Reali.

A questo punto bisogna spiegare il perché del titolo, ostico come una formula matematica ma chiave di lettura che apre ciascuno dei sei racconti. Tutto parte dal nome curioso di una cittadina del Nuovo Messico, Truth or Consequences, subito abbreviata in T or C. Che significa proprio questo: verità o conseguenze. Sorta come Hot Springs, si è affrettata a cambiare il suo nome in T or C nel 1950, quando il conduttore del celeberrimo show radiofonico “Truth or Consequences” ha promesso di trasmettere il programma dalla prima città disposta a cambiare il nome in quello dello show. Così per decenni, prima attraverso la radio e più tardi attraverso la televisione, “Verità o Conseguenze” è andato in onda da T or C. E T or C ha a che fare con la prima storia, tanto da suggerirne il titolo che dà poi il nome a tutta la raccolta: Verità o Conseguenze.

Ma se Marco Reali ama evocare programmi radiofonici e televisivi, è al cinema che fa riferimento la sua tecnica compositiva, quasi si compiacesse di scomporre e riassemblare le scene con giochi di montaggio e dissolvenze. Sino ad arrivare all’oggettività da cinepresa di un occhio che osserva o addirittura che osserva osservare: “Era solo una piccola fessura tra le assi che consentiva all’occhio nocciola di sbirciare oltre la porta”.

La scrittura di Marco Reali è densa, carica di allusioni e di rimandi, di soluzioni e di indizi che si nascondono dietro a ogni riga, di ironie e di sottile sarcasmo. Le immagini sono costruite attraverso descrizioni precise quanto suggestive, qualche esempio: “La novità era un tucano dall’enorme becco giallo arancio che li origliava dal suo trespolo. Paradossalmente inespressivo, nella maschera grottesca a cui madre natura lo aveva condannato”, “una poltiglia variegata di conchiglie frantumate”, “prati verdissimi solcati da sentieri ortogonali come campiture di Mondrian”. Molte le citazioni velate che a loro volta suggeriscono altre chiavi di lettura. Spesso si tratta di pittori, come se il mondo, letto attraverso la visione di Pollock, di Hopper o di Mondrian, sia tutt’altra cosa da quello che crediamo di conoscere. È la relatività del reale che affascina Marco Reali (guarda caso un’allusione addirittura al suo cognome!). Gli stessi eserghi che introducono tutti i sei racconti – a firma di Nietzsche, Proust, Thomas Albert Sebeok, Edward Norton Lorenz, Hobbes, l’apostolo Giovanni – sono ulteriori strumenti di approccio, come ha fatto notare Luca Milite, che si rivelano tali solo dopo la lettura del singolo racconto. E generano ulteriori rimandi.

Quello di Marco Reali è insomma un gusto ludico per il messaggio tra le righe, per il detto senza essere detto, per le verità non verità, che cerca la complicità del lettore sin dal Prologo: “Il paleontologo statunitense George Gaylord Simpson, nel suo The Mearning of Evolution (1967) asserisce che l’ostrica di duecento milioni di anni fa doveva avere lo stesso aspetto, e senza dubbio il medesimo sapore, di quelle che oggi si gustano nei ristoranti. Alle storie, mi dissi, non vale la pena attribuire più senso di quanto ne possa assumere il menù di un ristorante per l’arco evolutivo dell’ostrica. Quanto alle verità, universali o spicciole che siano, le loro conseguenze non sono poi dissimili dallo scarto di un errore”.

E per questo che le sei storie – anzi, sette con quella contenuta nel Prologo – sfumano una nell’altra. Sembrano formare un tutt’uno. Non dico un romanzo ma un solo unico eterno fluire, come se l’autore non sfuggisse mai alla consapevolezza che tutto giri su quella sfera intenta a ruotare nello spazio dall’eternità verso l’eternità. L’ultimo racconto si chiude con l’ennesimo viaggio, apparentemente quello finale: il volo di ritorno verso casa. Ma qual è la vera casa? Ormai per il protagonista esistono solo delle piccole certezze: “Il mio vicino di Bombay ormai sonnecchia come un grosso gatto con un mezzo sorriso dipinto sulle labbra. L’inchiostro della notte ha già inghiottito la fusoliera dell’aereo”.

cinéDIMANCHE #23 FIORENZO SERRA Il pane dei pastori [1962]

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IL PANE DEI PASTORI documentario del regista sardo ⇨ Fiorenzo Serra [1921-2005]. Le riprese sono state effettuate nell’autunno del 1962 in varie località della Barbagia, in Sardegna, ma soprattutto ad Oliena, dove si è girato l’intero ciclo della lavorazione del pane carasau.



Alberto La Marmora
Itinéraire de l’île de Sardaigne
pour faire suite au voyage en cette contrée

Torino [1860]
 


 

ma dove vai

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di Giacomo Sartori

ma dove vai

con quei passetti

cosa sgambetti

ancora ti alleni

con gravità di atleta

su e giù per il giardino

bimbina vecchia

(quasi un secolo

fascismo compreso!)

les nouveaux réalistes: Maria Luisa Putti

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Série Bouteilles- Philippe Schlienger
Série Bouteilles- Philippe Schlienger

La Luna, forse
di
Maria Luisa Putti

C’è sabbia dappertutto. Negli occhi che appena riesco ad aprire, sulla pelle del viso. La sabbia è roccia che si sgretola. Pesa sul mio corpo sepolto, scricchiola sotto i denti. I capelli sciolti intrappolati nella terra mi tengono ancorata, immobile. Non mi posso alzare. Non posso liberare null’altro che i pensieri dalla duna bianca che mi avvolge. Sono sulla Luna forse, e attorno a me non c’è che uno spazio vuoto; organismi primordiali a cui ora assomiglio. Con le dita provo a scavare un tunnel. Non ho mai sopportato la sabbia sotto le unghie, nemmeno quand’ero bambina e mia madre mi lasciava giocare sulla riva: «Fai un bel castello!», mi diceva. Ed io me ne stavo lì, con il mio cappellino turchese – uno di quei cappelli da marinaio – e i secchielli di plastica pieni d’acqua, per liberare le mani dall’arsura della materia inerte che si essiccava al sole. Mi mancava l’aria, come adesso, che non so dove sono. Guardavo le conchiglie, gusci vuoti, saturi di polvere d’oro, e immaginavo che nascondessero labirinti segreti, stanze abitate dalle fate; minuscole bambine vestite di bianco, che si rincorrevano fino al mare. Avrei voluto tenerle sul palmo della mia mano, e pettinarle, come facevo con le bambole. Mi sembrava di sentire le loro vocine, il fruscio delle vesti che le coprivano fino alle caviglie, ai piedi.

Sì, i piedi. Li avverto ora come corpi estranei, divorati da milioni di microscopici insetti, lucertole, piccoli rettili e animali preistorici che credevo estinti. E le gambe: la sabbia le ha inghiottite fino a lasciarne solo il ghiaccio delle ossa vuote.

Il tunnel che ho scavato con le dita non basta a liberarmi le braccia dalla morsa che mi stringe. Mi sembra di sprofondare ancora più giù, come se le mie mani avessero aperto un varco sotterraneo che affaccia sull’abisso. Un mulinello d’aria di correnti sconosciute lambisce i miei fianchi. Ho freddo. D’un tratto, quasi animata da una forza estranea – o forse è solo l’istinto di sopravvivere – riesco a far leva sui gomiti e sento che una delle mie spalle è quasi fuori. Finalmente posso muovere il collo. Ecco, così. Ora anche l’altra spalla è libera. Mi faccio forza con i palmi delle mani sulla sabbia che mi circonda, emergo fino alla vita, e sento i granelli sottili muoversi sotto di me, lungo le gambe, sui piedi, tra le dita formicolanti e fredde, come filtrati dal foro sottile di una clessidra.

Posso respirare ora, un respiro profondo che odora di fiori, dei pollini dolci di aprile che riempiono l’aria da un finestrino abbassato, di un’auto ferma al rosso di un semaforo o nello slargo verde della strada che costeggia le mura, dove mi fermavo con le amiche a chiacchierare dei nostri segreti di ragazze.

Attorno a me le piccole creature primordiali si muovono operose in cerca di cibo. Raccolgono frammenti di alghe essiccate, petali, foglie, minuscole bacche colorate che sembrano le bocce di un biliardo, o le biglie che mi piacevano tanto quando ero bambina: le infilavo una ad una attraverso il collo di una bottiglia, fino a riempirla tutta quanta, e dopo cercavo di farle uscire, con le dita, per giocarci ancora. Una bacca celeste scivola sulla sabbia, ed io me la ritrovo in mano. D’un tratto dinanzi ai miei occhi le luci delle macchine abbagliano i miei ricordi: una bellissima ragazza bionda fa rotolare e saltare e scomparire e poi ricomparire ancora una pallina dello stesso colore. Dopo si avvicina ai finestrini per chiedere qualche spicciolo; ha gli occhi scuri, e porta un paio di occhialetti tondi da ragazzina delle scuole medie. Sorride, come se il suo lavoro di giocoliera nel traffico delle ore di punta bastasse a farla felice: è felice, è in vacanza, è a Roma!

Su un ramo che sporge dalle pareti di roccia a picco sulle dune c’è un alveare, lo vedo da lontano, lucente d’oro come il becco lungo degli uccelli che planano sulla riva. Le piccole bambine vestite di bianco si tengono per mano, come perline di una collana, una accanto all’altra, e adesso le sento cantare. Camminano tutte insieme, con i capelli sciolti, e le risate piccole dei loro giochi infantili. E loro giocano, e giocano, arrampicandosi sul dorso di animali giganteschi, gusci di tartarughe dalle strane teste, esseri preistorici impastati di sabbia, che si muovono lenti come il respiro di questo vento immobile. Senza paura, si avventurano nelle fauci aperte da uno sbadiglio torrido di un sonno antico. E tenendosi saldamente l’un l’altra per mano, come in un gioco di contrappesi, si lasciano pendere dall’alto di un’ala aperta in volo, catenella sottile di innocenza.

 

Série Bouteilles- Philippe Schlienger
Série Bouteilles- Philippe Schlienger

Guardare quelle creature minuscole mi porta lontano da me stessa, dal luogo in cui mi trovo ora, intrappolata, sepolta per metà in un mare di sabbia, la sabbia del tempo che mi fa prigioniera, che mi scorre accanto, lasciandosi sprecare nel suo fluire indifferente. Non contano gli orologi scolpiti nei fianchi ripidi delle montagne: le loro lancette giocano a rincorrersi, un minuto dietro l’altro, un’ora dietro l’altra, all’infinito. Le guardo senza più pensare che il tempo è la materia della vita, che plasma e disegna tutto attorno a sé, mutando le forme di ogni cosa. Me ne sto qui, ancora sepolta in questo paesaggio lunare, in questo mare che inciampa nelle sue stesse onde. È un lungo clacson che suona ininterrotto di auto incolonnate in disordine.

Una donna anziana attraversa la strada e porta per mano un bambino. I capelli grigi sciolti sulle spalle in una piega morbida, i vestiti colorati sul corpo sottile, l’azzurro della sciarpa, la fantasia lucente della giacca. Si volta verso il mare di macchine ferme; scatta il semaforo ma nessuno riparte, come se ogni cosa, gli appuntamenti, gli impegni, il ritardo, la fretta di correre chissà dove si fossero d’un tratto dissolti, al di là del tempo, che improvvisamente rallenta, e rallenta, fino a svanire: tutti guardano lei, il suo passo lieve, il suo essere ancora, sempre, bellissima.

La salvezza sta fuori, nel nulla

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di Giacomo Verri

In Metropoli, il nuovo romanzo di Massimiliano Santarossa, il racconto del futuro.

MetropoliNel duemilatrentacinque la Terra potrà riconoscere sulla propria groppa una sola enorme città: Metropoli. Sarà essa il solo ganglio della poststoria, il solo confine alle lande desolate che s’apriranno maestose quando tutto sarà azzerato, quando nel cielo, perpetuamente crollante di piogge, starà crocefisso, come una misera “palla incolore”, “il sole artico del mondo pietrificato”.

Metropoli, mostruosa tromba apocalittica cantata da Massimiliano Santarossa (che ora torna in libreria per Baldini e Castoldi, dopo l’agghiacciante Il Male del 2013), è una città, calvinianamente cresciuta nelle menti di ognuno, ma con bibliche proporzioni da incubo, “nata tra mura infrangibili, alte ventisette metri e spesse cinque, che erano l’opera più poderosa e fondamentale costruita dal Crollo Produttivo in poi, e con esse le Industrie delle Zone Lavoro, i Palazzi del Popolo, le Zone Svago, le arterie viarie sopraelevate”.

Sembra un libro delle Cronache, Metropoli, sembra un testo sacro in cui potrebbe essere contenuta la sapienza del futuro. Ma Metropoli non sorge con le misure della saggezza, tanto è vero che è potenzialmente infinita, perennemente schiacciata sul presente, non ha centro e manca di un sancta sanctorum: nessuno la governa, né un dio né l’uomo, ma è un mostro che innalza labirintici patiboli in cui gli esseri umani sacrificano tutta intera la loro vita, è un aberrante incrocio tra un lager e una città chiusa dell’Unione Sovietica.

Reduce dalla vita, qui giunge, tra algidi bagliori, un uomo, un viandante del mondo perduto; varcate le porte di Metropoli diviene il cittadino numero 5.937.178. In qualità di Sopravvissuto al Crollo Produttivo, viene indirizzato al Ricovero Fisico Psichiatrico, dove è lavato sotto un getto di acqua bollente, vestito con abiti “grigi, leggeri, candidi, inodori”, nutrito e ospitato in una Stanza di Contenimento, la numero 111. Sebbene il primevo impatto cromatico sia a Metropoli con il puro colore bianco, presto si scopre che quella è la tinta della disperazione che tutto riempie e tutto annulla. Annulla, sì, i guasti della precedente democrazia travestita da capitalismo (o del capitalismo velato da un approccio egualitario che ricorda la critica alla democrazia americana di Alexis de Toqueville: “Nulla era stato mai pensato per il progresso generale, milioni e milioni di persone si erano mosse esclusivamente a fine privato, ombelicale: fare per godere, di continuo e di più”), annulla il male, ma anche il bene, annulla la malattia, la guerra, ma anche la pace, elimina lo sporco danaro e il peccato, ma anche la memoria, l’amore, la fede, il futuro e ogni senso di grazia. Metropoli è la realizzazione del nichilismo robotico che scarnifica i volti umani voltandoli in crani “rotti da fori neri occupati da pupille ormai bianche, levigate da una vita troppo lunga”.

Le parole dell’uomo sono sostituite dal chiasso della Produzione: tutto è produzione a Metropoli (una produzione che, tra l’altro, vorrebbe, miseramente scimmiottare la Creazione), tutto è corpo senza mente. “Il cemento, il ferro, il vetro, l’acciaio, l’asfalto, parevano annientare l’uomo”, la nobile materia cambiata in vile materiale realizzava l’inferno sulla Terra. Un inferno che coincide con la divinità che lo regge: Metropoli è il demonio, è il Dio sradicato dal cielo che al cielo cerca di tornare impietosamente colonizzandolo, come a Babele.

Nelle Città invisibili, Marco Polo spiegava a Gengis Khan, parlando a proposito di Despina, che “ogni città riceve la sua forma dal deserto a cui si oppone”. Ma il deserto è ancora qualcosa, sicuramente è meno delle speranze che Despina nutre nella mente del cammelliere o del marinaio. Ma il deserto c’è ed è la durezza che esalta il premio, l’aridità necessaria per godere fino in fondo dell’ombra. Attorno a Metropoli, invece, s’apre “un niente smisurato”, tanto eccelso che anche gli sforzi che la città compie per propagarsi hanno il sapore dell’inanità. E verso quel nulla non c’è alcuna forma di interesse, nessuna scintilla di curiosità, non è l’affascinante buio dell’universo, non è il trepidante deserto dei Tartari. Non è, appunto, niente. O, almeno, il Dio Metropoli vuole che ciò che sta là fuori non sia Niente, fino a quando non verrà inglobato dalle mura della città, e gli stessi uomini, divenendo nutrimento per i loro simili, si voltino in carne della città medesima.

Marcus, questo il nome dell’internato, incontra Sofia. Loro due sono gli unici esseri che sembrano essere rimasti umani, sono i soli a riscoprire, abbracciando il dolore per allontanare il terrore, che l’anima ha un peso e che non può essere prostituita all’“infinitamente osceno” che sulla terra si sta manifestando sotto la specie del vuoto interiore. Insieme, Marcus e Sofia prendono le misure della salvezza, che non è la salvezza abominevole promessa da Metropoli, “luogo regredito nel tempo di millenni”, nel tempo che fu prima di Dio e che più niente ha della “dignità della morte”.

La salvezza sta fuori, nel nulla. Forse anche nella morte. Ma io credo che risieda soprattutto nella parola: nella parola che Marcus bisbiglia a Sofia, in quella che lei restituisce a lui. La parola di Santarossa è un antidoto all’asetticità di materiali sempre uguali a se stessi, è una cura contro la monotonia da clone alla quale forse, un domandi, saremo condannati. È infine una parola che, mentre intacca e zaffa la superficie apparentemente immodificabile del grande mostro, conduce alla speranza di poter adoperare quella medesima parola per riempire il nulla da cui siamo minacciati.

“La libertà inizia al principio del nulla”.

Insieme MRK 1034

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di Maria Grazia Calandrone

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le spirali delle due ammoniti sul tuo petto
ripetono la forma delle galassie gemelle
PGC 9074 e PGC 9071
della costellazione del Triangolo

una (la 9074, di tipo Sa) mostra una sporgenza luminosa, l’intenzione di un’alba, ma porta i bracci avvolti strettamente intorno al proprio nucleo

l’altra, la galassia che si srotola più a Nord nel nero siderale (la 9071, di tipo Sb), ha allargato le braccia da un discreto numero di anni-luce.
il buio dell’universo è sottoposto a magnetismi incommensurabili. altrimenti, è cieco.
questa forma di abbraccio
disabitata, questa custode con le ali aperte nel silenzio profondo, reca un dolore alla spalla destra. è un oggetto celeste dai tendini infiammati, a Nord-Est del tuo cielo

le due galassie sono scientificamente inseparabili. cito, da un articolo di Eleonora Ferroni, in Notiziario dell’Istituto Nazionale di AstroFisica: “sono abbastanza vicine da sentire l’una la gravità dell’altra, ma non ci sono disturbi gravitazionali visibili”

entrambe hanno prodotto “giovani e calde stelle retrostanti”, mentre “formazioni stellari più antiche e fredde” pulsano, gialle del giallo bestiale della savana, accanto al loro nucleo
e un corteo di stelle ormai lontane le circonda, come una corona di detriti

le due astrali Signore delle porte accanto hanno lasciato scie di sangue e dolcezza, scorie di amori ormai assorbite dal rombo dei venti galattici. ma la forza di gravità di ciascuna nei confronti dell’altra le porterà a confondersi in un unico grande fenomeno, in un abbraccio pieno.
l’articolo chiude infatti così: “tra qualche centinaio di milioni di anni le due strutture si fonderanno, perché l’attrazione gravitazionale che già le vincola avrà definitivamente attirato le due ormai inseparabili gemelle”.

sacre stelle pazienti. oggetti che non forzate
la curvatura spaziotemporale, limpide forze che state
nell’intervallo naturale
che sulla terra viene detto rispetto.
le stelle hanno la calma delle stelle.

questa forma cretacica fossile ha un disegno terrestre: le sue spirali, formate da rigoni d’inchiostro organico, riproducono la rotazione delle due galassie. cose forse avvenute nello stesso momento in terra e in cielo. 180 milioni di anni fa. cose delle quali siamo il futuro. o l’utopia.
questa insiemistica fantascientifica, lo stadio fossile-astrale della materia, è il mio dono per te.

in attesa di formare l’insieme al quale sono destinate, le due vicine svolgono un’intensa attività interiore, che porta entrambe a uno sprigionamento di energie attive, utili alla creazione di pianeti. esse sono due splendide officine, due fervidi laboratori di stelle. esse irradiano luce.

l’osservatorio on-line del telescopio spaziale Hubble della NASA-ESA, che le ha individuate, ha pubblicato la notizia il 24.6.2013 (di quel pomeriggio, ricordo un allegrissimo braccio di ferro al bar, sotto una parete di grappoli di glicine. non ha vinto nessuno. le nostre forze sono strutture equivalenti e complesse)

la suggestiva scoperta ha subito rimbalzato sui siti astronomici internazionali, nei primi giorni del luglio 2013. di quei giorni ricordo un dialogo sull’ironia della natura: scoprivamo che gli alveoli polmonari e il meconio si formano nel medesimo stadio evolutivo del feto umano: pneuma e feci. come sempre. l’umano.

poi, ricordo la musica di un amore immortale sulla rovina di Massenzio: “e si ’na stella canta pe’ ammore rimmane ’n cielo mill’anne e nun more”. poi, ricordo un sorriso, così profondo da perdonare i morti, invincibile come la forza gravitazionale che sulla terra viene detta destino. e poi ricordo un suono di campane, semplice come il caldo della tua bocca

che dura qui, ben oltre la mia vita

16.11.14

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[Mi sono innamorato di questa poesia, leggendola per caso, una mattina a Roma, luce solita che assolve tutte le malefatte cittadine, persino nazionali, luce stronza-belissima, e la leggevo, questa poesia sulle galassie, nell’ultimo libro di Maria Grazia Calandrone, Serie fossile, Crocetti, Milano, 2015. È il testo che chiude il libro. I poeti dovrebbero scrivere di stelle anche oggi, ma è difficilissimo, meglio non farlo, eppure qui, Maria Grazia Calandrone, ci è riuscita con estrema efficacia e disinvoltura. a. i.]


	            

La famiglia che perse tempo

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copertina_salabelle_bdi Marisa Salabelle

Di tutti i libri pazzi e strampalati che ha scritto mio fratello Maurizio, La famiglia che perse tempo è forse il più pazzo e strampalato. L’ha scritto che avrà avuto, quanto, ventott’anni? Non lo so con precisione perché a noi non diceva nulla e in famiglia, che scriveva, l’abbiamo saputo in due occasioni: quella volta che la mia amica Benedetta mi fece vedere un numero di una rivista, Erba d’Arno, dove era stata pubblicata una sua poesia, e poi la volta famosa che Giuseppe Pontiggia telefonò a casa e a rispondergli fu nostro padre, il quale non se lo sarebbe mai immaginato che Giuseppe Pontiggia potesse telefonare a casa per dire che aveva letto il manoscritto di Maurizio e che gli era piaciuto moltissimo. Quel manoscritto era, credo, La famiglia che perse tempo, che piacque a Pontiggia e a Ermanno Cavazzoni ma che per ragioni contingenti è rimasto inedito fino a ora.

La storia è quella di una famiglia di cinque persone, genitori e tre figli adulti, tutti nullafacenti, se si eccettua  il figlio maggiore, che è medico, e occasionalmente riceve qualche paziente, e il narratore, che risponde all’improbabile nome di Phatrizio e per un periodo fa l’autista di autobus. Oltre a questo, la madre di tanto in tanto cucina e il padre fa misteriosi esperimenti chiuso nella sua camera: per il resto i cinque si trascinano dal divano al letto, si incrociano nell’andito, spilluzzicano i cibi imbanditi dalla madre, guardano vecchi film presi a noleggio. Oltre che svogliati e oziosi, i cinque sono affetti da stranissimi disturbi: perdono periodi di tempo, soffrono di letargia, attraversano momenti di grave depressione. Per capire l’origine dei loro mali analizzano gli oggetti che hanno in casa, orologi che diventano fuligginosi e che non segnano più l’ora, brandelli di stoffa infetti da strani germi, libri e opuscoli che cospargono il pavimento, provenienti da chissà dove. Scrivono memorie, si intervistano l’un l’altro, improvvisano conferenze al tavolo di cucina. Cambiano spesso casa, sperando così di risolvere i propri guai, ma i quartieri in cui vanno ad abitare si rivelano di volta in volta sempre più tetri, squallidi, al punto che neppure sono segnati  nelle mappe della città.

Se paragono questo romanzo ai successivi, che però sono stati pubblicati prima, vedo analogie e differenze.  Vedo innanzitutto che, rispetto alle altre opere, tutte caratterizzate da un’atmosfera surreale e da una trama fantastica, La famiglia che perse tempo è un romanzo ancora più rarefatto, astratto, paradossale. Non esiterei a definirlo un’opera altamente sperimentale. Vedo, però, anche le analogie con i romanzi successivi, in cui Maurizio mette in scena i suoi personaggi stralunati e le sue famiglie stravaganti. Padri sempre un po’ distratti, lontani dalla realtà, impegnati in attività bizzarre quali compiere esperimenti scientifici o consultare ossessivamente vocabolari; madri che svolgono in modo malcerto i loro compiti di accudimento, mettendo in tavola solo noccioline e patatine fritte, lavando le verdure col detersivo per i panni, inondando divani e poltrone di acqua saponata e così via. Fratelli e sorelle che vivono relazioni simbiotiche, uomini adulti stranamente impacciati con le donne o incapaci si svolgere lavori normali.

 Ogni volta che leggo uno dei suoi libri, penso alla nostra famiglia, e riconosco alcuni particolari, alcuni comportamenti e modi di esprimersi, che mi fanno dire: siamo noi, eravamo così. Quindi penso che Maurizio abbia voluto raccontare, in chiave surreale, la nostra vita; altre volte invece penso che abbia creato i suoi romanzi e i suoi personaggi come in un gioco, un divertimento fantastico e bizzarro.

E poi, naturalmente, c’è il suo linguaggio. Un lessico semplice, accessibile ma ricercato, parole a volte un po’ desuete, che lui sceglieva principalmente in base alla sonorità, un fraseggio caratteristico, con una sua musica interna, un suo ritmo ben preciso. «Nello scrivere, seguo una musica o un ritmo interno che è del tutto indipendente da ciò che narro» affermava infatti in un memorabile articolo, Un romanzo è un apparecchio complicato:  «È una musica poco appariscente e un po’ monocorde, che mi arriva non so da dove ma che sento di dover seguire e assecondare e che determina la lunghezza dei periodi, il numero di sillabe delle parole, la posizione dei segni di interpunzione.» E in effetti credo sia proprio questo senso rapsodico del linguaggio ciò che fa di Maurizio, veramente, uno scrittore. Che basta leggere una frase per dire, non c’è dubbio, è lui. Inconfondibile.

L’urlo e la musica: la scrittura della voce in Céline

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Céline mini di Andrea Inglese

… la voce umana, il suono meno ragionevole in tutta la natura…
Italo Svevo

[La voce tra rumore e canto – I excursus: il Joyce di Berio – II excursus: il Byron di Bene – Metafora della voce e teoria letteraria – Il romanzo come collettore delle voci inascoltate: Voyage au bout de la nuit – Il ritmo del fraseggiare – I romanzi della vociferazione assordante: Féerie pour une autre fois ]

XII quaderno di poesia italiana contemporanea

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Dodicesimo-quaderno-italianodi Francesca Fiorletta

Guai a chi costruisce il suo mondo da solo.
[…]
Angelo Maria Ripellino

Il suono di queste parole mi riecheggia nella testa: Guai a chi costruisce il suo mondo da solo.

Il famoso verso di Ripellino è parte dell’epigrafe scelta da Diego Conticello, uno dei sette poeti presenti nel XII quaderno di poesia italiana contemporanea, curato da Franco Buffoni e pubblicato da poco per Marcos y Marcos.

Gli altri sei nomi presenti sono: Maddalena Bergamin, Maria Borio, Lorenzo Carlucci, Marco Corsi, Alessandro De Santis e Samir Galal Mohamed. Le prefazioni che accompagnano i testi di ciascuno di loro, sono curate da: Mario Benedetti, Stefano Dal Bianco, Gian Ruggero Manzoni, Fabio Pusterla, Niccolò Scaffai e Emmanuela Tandello.

Non possiamo abituarci a morire. Per Luigi Di Ruscio

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di DiRuscioLocandinaScriviamolo sui muri, la resistenza è ancora possibile, l’urgenza delle parole si frapponga fra noi e il resto.

La sconfitta non è definitiva, la speranza è tutta nella nostra capacità di ridere.

L.Di Ruscio

 

NON POSSIAMO ABITUARCI A MORIRE

( Festa-tributo-incontro sull’opera di Luigi Di ruscio )

A partire dall’opera di questo grande scrittore e poeta,  attraverso la proiezione di piccoli cortometraggi e frammenti video sulla sua figura e la lettura di suoi testi ad opera di poeti, scrittori e amici che l’hanno ammirato e conosciuto, questo evento vuole essere insieme  un momento di festa e di riflessione. In questi tempi dove l’uomo, la poesia e la bellezza vengono continuamente offesi, aspira ad essere un’alternativa il più possibile concreta alla volgarità e all’ignoranza che tentano di soffocare la nostra vita di uomini liberi.

 

INTERVENGONO:

Fabrizio Bianchi

Luigi Cannillo

Biagio Cepollaro

Nino Iacovella

Rosemary Liedl Porta

Christian Tito

Adam Vaccaro

Programma

 

Nino Iacovella presenta e introduce la serata :

 

  • Proiezione di un estratto dal web in cui Di Ruscio legge alcuni suoi versi sul ritorno dalla fabbrica e viene intervistato sulla sua poesia.

 

  • Lettura del primo blocco di lettere sulla speranza in poesia, estratte dal libro ” lettere dal mondo offeso”, ultimo libro postumo di Di Ruscio e Christian Tito, edito dall’Arcolaio a fine 2014.

(Tutte le lettere saranno lette da Luigi Cannillo che leggerà le lettere di Di Ruscio e Christian Tito che leggerà le sue lettere.)

  • Lettura e intervento di Rosemary Liedl Porta.
  • Proiezione di un altro breve estratto dal web che ritrae Luigi nei vicoli della sua infanzia a Fermo e successiva proiezione di LUIGI DI RUSCIO-OSLO ( ritratto di  Di Ruscio ad Oslo nel 2010, immagini girate da Alessandro Ansuini e montate da Stefano Massari)
  • Lettura e intervento di Fabrizio Bianchi
  • Lettura secondo blocco di lettere sulla fabbrica.
  • PROIEZIONE DI I Lavoratori Vanno Ascoltati , Documentario di Christian Tito sull’Ilva di Taranto con testi estratti dall’opera di Di Ruscio.
  • Lettura e intervento di Adam Vaccaro.
  • Lettura ultimo blocco di lettere, quelle della dolorosa separazione tra il giovane allievo e il vecchio maestro.
  • Lettura e Intervento di Biagio Cepollaro.
  • Lettura di Christian Tito che legge l’ultima lettera scritta a Di Ruscio a un anno dalla sua morte.

Intervallo

 

Concerto di chitarra classica con i musicisti  Claudio Ballabio e Nicola Panzarino.

 

Venerdì, 10 aprile, ore 19.00.

Milano presso Spaziotu di Maschere Nere,

Fabbrica del Vapore, Via procaccini, 4.

[ Sono particolarmente legato a Luigi Di Ruscio. Sia per la sua opera che per l’amicizia che ho nutrito per lui a partire dai primi anni ’90. Un mio breve contributo alla comprensione della figura di Di Ruscio come poeta e come maestro, avvicinato pur nelle tante differenze a Elio Pagliarani e a Giancarlo Majorino, relativamente al tema del poema,  si trova qui . B.C.]

 

Il sapore femminile

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peveredi Federico Pevere

Heidi Krieger è stata campionessa europea di lancio del peso. Ha avuto seri problemi di salute dovuti principalmente a ciò che le veniva somministrato. Heidi negli anni è diventata Andreas e ama Ute. Ute Winter è stata una campionessa di nuoto. Ha avuto seri problemi di salute dovuti principalmente a ciò che le veniva somministrato. Ute è rimasta Ute, e ama Andreas.

L’aquila e il pastore (da “Estampas rurales”) – Gabriel Miró

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(questo testo è tratto da “Il Molino a vento e altre prose”, bella antologia di racconti di Gabriel Miró (1879-1930), Benito Pérez Galdós e Vicente Blasco Ibáñez, tradotti da Marino Magliani e Riccardo Ferrazzi, e curata da quest’ultimo, per Galaad Edizioni, 2015; nel mix di “desuetudine” e estrema potenza, a me ricorda da vicino il nostro Vincenzo Pardini; GS)

di Gabriel Miró

ilmolinoavento-665x1024Un’aquila seguiva sempre il gregge. Il suo verso risuonava in tutta l’azzurra vastità del giorno, le pecore si fermavano e la guardavano. A volte volava così bassa che si sentiva il fischio delle piume e del becco e la sua ombra enorme passava sui dorsi lanosi delle bestie.

Nelle ore più calde il pastore si coricava sul prato di gramigna e le pecore si stringevano contro le rocce. Tutto il fondovalle era inondato dal sole: rossi campi coltivati, alberi in fiore, orti recintati, ruderi di casolari, sentieri

Deserto solitario

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Desert solitaire(torna in libreria Desert solitaire. Una stagione nella natura selvaggia. Attualissimo, non ostante gli anni. Ringraziamo l’editore per averci regalato un estratto del libro. G.B.)

di Edward Abbey

Qui da solo, immerso nel silenzio, capisco il terrore che molti provano in presenza del deserto primordiale, la paura inconscia che li spinge a voler domare, alterare o distruggere ciò che non riescono a comprendere, a ridurre il selvatico e il preumano a dimensioni umane. Qualunque cosa piuttosto che confrontarsi direttamente con l’anteumano, con quell’altro mondo che ci spaventa non tanto perché sia pericoloso o ostile ma per qualcosa di molto peggiore: la sua implacabile indifferenza.

Via dall’ombra, nella calura. Procedo a passo pesante nella gola sinuosa, nel silenzio, severo ma fragile. In questa atmosfera così arida i suoni non svaniscono, non producono eco e neppure muoiono dolcemente ma si estinguono all’improvviso, bruscamente, senza il minimo riverbero. Il cozzare delle rocce l’una contro l’altra è come uno sparo: sordo, improvviso, eccessivo.

Dietro la curva successiva, eccolo, inaspettatamente, il ponte di pietra.

Inaspettatamente, scrivo. Perché? Avevo fiducia, sapevo che il ponte sarebbe stato qui, sfidando ogni probabilità. E sapevo anche abbastanza bene quale aspetto avrebbe avuto: tutti lo abbiamo visto in fotografia almeno un centinaio di volte. E non sono nemmeno deluso in quel modo vago che spesso proviamo quando ci troviamo di fronte a uno spettacolo che a lungo avevamo immaginato. Il Rainbow Bridge non sembra né più piccolo, né più grande di quanto avessi previsto.

Poi mi sento in colpa. Newcomb. Perché non ho insistito che venisse con me? Dovevo afferrarlo per i peli della sua lunga barba da selvaggio e trascinarlo per il sentiero, caricandomelo in spalla come San Cristoforo al momento di attraversare il torrente, inciampando sulle pietre e scaricandolo infine sotto il ponte, lasciandolo lì a marcire o a strisciare di nuovo verso il fiume. Nessuno avrebbe potuto desiderare una defenestrazione più incantevole.

Attraverso la finestra di Dio sull’eternità.

Oh, be’. Salgo ai piedi del contrafforte orientale e metto la mia firma e quella di Ralph nel registro dei visitatori. Lui è il numero 14.467 e io il successivo a firmare questo libro da quando i primi uomini bianchi raggiunsero il Rainbow Bridge nel 1909. Non molti per essere passato più di mezzo secolo, e soprattutto nell’era della pubblicità. Ma non è mai stato un viaggio semplice. Fino a oggi.

La nuova diga migliorerà le cose, ovviamente. Quando sarà piena, l’acqua arriverà fino al Bridge, trasformando un’avventura nella solita escursione in motoscafo. Per chi lo vedrà in futuro sarà impossibile capire che metà della bellezza del Rainbow Bridge risiedeva proprio nella sua lontananza, nella relativa difficoltà ad accedervi, nella natura selvaggia che lo circondava e di cui era parte integrante. Una volta rimossi questi aspetti, il Bridge non sarà nient’altro che un’isolata bizzarria geologica, un’ulteriore estensione di quel diorama museificato a cui il turismo industriale tende a ridurre il mondo naturale.

L’eccellenza è tanto difficile quanto rara, disse un uomo saggio. Se è così, che cosa accade all’eccellenza se eliminiamo la difficoltà e la rarità? Parole, parole… Il problema mi fa venire sete. C’è una sorgente sull’altro lato del canyon, proprio sotto una cengia alla base occidentale del Bridge.

Scendo giù, risalgo dall’altra parte e raccolgo l’acqua dal muschio gocciolante con l’aiuto di una lattina abbandonata lì da qualcuno.

Il caldo è impressionante. Mi riposo per un attimo all’ombra, mi addormento e sogno nella luce terribile del mezzogiorno. Quando il sole cala dietro l’orlo del canyon, mi alzo e ritorno da Newcomb e al nostro bivacco.

Ma vengo attirato dalla traccia di un sentiero che sembra condurre fuori dal canyon, passando sopra il Rainbow Bridge.

Tardo pomeriggio, il canyon si sta riempiendo di ombre, non dovrei tentare. Decido comunque di provarci: risalgo un ghiaione e traverso un lungo terrazzo inclinato che sbuca nell’aria sottile alla base di un alto dirupo. Impossibile proseguire.

Ma dall’alto penzola una corda, fissata a un punto invisibile. La provo, sembra ben ancorata, e aiutandomi con quella e qualche opportuno punto d’appoggio per i piedi e le mani mi faccio strada fino in cima. Da lì all’orlo del canyon la strada è lunga ma non impegnativa.

Sono di nuovo all’aperto, fuori dall’inframondo. Da quassù, il Rainbow Bridge, trecento metri più in basso, è solo una cresta di arenaria di non eccessiva importanza, un minuscolo oggetto perduto nell’intricata vastità del sistema dei canyon che si irradia dalla base della Navajo Mountain.

Più interessante è la vista verso nord, est e ovest, che rivela la struttura generale del territorio che abbiamo attraversato a bordo delle nostre piccole imbarcazioni.

Il sole, ormai in prossimità dell’orizzonte, splende nell’aria limpida sotto strati di nuvole, illuminando con tenui variazioni di rosa, vermiglio, terra d’ombra e ardesia, i complessi tratti e i dettagli, definiti in maniera netta dall’ombra, del paesaggio del Glen Canyon. Vedo la mesa dai bordi squadrati oltre la confluenza del San Juan e del Colorado, gli altopiani dello Utah centro-meridionale, e più in là, centocinquanta chilometri o anche più in linea d’aria, le cinque vette delle Henry Mountains, compreso il monte Ellsworth, vicino a Hite, da dove è cominciato il nostro viaggio.

A oriente una tempesta isolata ribolle sopra il deserto, una massa di nuvole color lavanda sta bombardando la terra di fulmini e pioggia. Ma è così lontana che non riesco nemmeno a sentire i tuoni. Tra qui e là, tra me e le montagne, si estende lo spazio selvaggio del canyon, il territorio magico di guglie, pilastri e pinnacoli dove non vive nessuno, e dove, non visto, nelle fosse neroblu della roccia, scorre il fiume.

Luce. Spazio. Luce e spazio senza tempo, perché in questo Paese le tracce della storia umana sono minime. Nella dottrina dei geologi, con il loro schema di ere, eoni ed epoche, tutto scorre, come insegnava Eraclito, ma dal punto di vista mortale dell’uomo il paesaggio del Colorado è come una sezione di eternità: senza tempo. In tutti i miei anni nel Paese dei canyon – a parte durante le inondazioni – non ho mai visto una roccia cadere di sua spontanea volontà, per così dire. Per convincermi dell’esistenza del cambiamento, e quindi del tempo, spingerò giù una pietra dalla cima di un dirupo, la osserverò scendere e aspetterò – fumando la pipa – di redigere il resoconto del suo impatto e della sua disintegrazione. Farò del mio meglio per aiutare i processi naturali e verificare le ipotesi della morfologia geologica. Ma non ne sono del tutto convinto.

Gli uomini vanno e vengono, le città nascono e muoiono, intere civiltà scompaiono; la terra resta, solo leggermente modificata. Restano la terra e la bellezza che strazia il cuore, dove non ci sono cuori da straziare. Capovolgendo Platone ed Hegel a volte penso, senz’altro in modo perverso, che l’uomo è un sogno, il pensiero un’illusione, e solo la roccia è reale. Roccia e sole.

Sotto il sole del deserto, nella sua dogmatica luminosità, le favole della teologia e i miti della filosofi a classica si dissolvono come nebbia. L’aria è limpida, la roccia intacca crudelmente la carne. Frantumate la roccia e l’odore della selce vi salirà alle narici, acre e pungente. Di giorno mulinelli di polvere danzano sulle pianure di sale; di notte i cespugli pieni di spine si incendiano. Che cosa significa? Non significa nulla. È come è, e non c’è bisogno di trovarvi alcun significato. Il deserto sta lì e svetta oltre ogni possibile qualifica umana. Per questo sublime.

Il sole sta per toccare gli altopiani traforati a occidente.

Per un attimo sembra sobbalzare, espandersi, poi all’improvviso tramonta. Mi metto in ascolto per un tempo lunghissimo.

Nel crepuscolo e alla luce della luna scendo verso la corda, verso la cengia, verso il fondo del canyon sotto il Rainbow Bridge. Nell’aria volteggiano i pipistrelli. Le lucciole volano vicino alle sorgenti e rospi piccolissimi ma dal vocione profondo cantano il loro gracidio verso di me mentre arranco oltre i loro stagni per il lungo sentiero che mi riporterà al fiume, al fuoco, alla compagnia e a una cena di mezzanotte.

Siamo alla fine del nostro viaggio. Al mattino, io e Ralph mettiamo via la nostra attrezzatura, la carichiamo sui gommoni e lanciamo un’ultima occhiata a questa scena che – lo sappiamo – non vedremo mai più come la vediamo ora: il fiume Colorado, maestoso, libero e selvaggio, che scorre

vicino alla base delle pareti torreggianti, che ruggisce tra i massi sotto l’imboccatura del Forbidden Canyon; il Navajo Point e il precipizio del Kaiparowits Plateau centinaia di metri sopra, oltre le pareti interne del canyon; e a oriente, banchi di nubi spinti dalla tempesta impilati l’uno sull’altro, bordati d’oro e scintillanti nell’alba.

Ralph fa una fotografia, rimette la macchina nella custodia waterproof che tiene a tracolla sul petto, e salta nella sua imbarcazione. Partiamo.

 

Renzi, Lucia e la buona scuola

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di Giorgio Mascitelli

 

 

Si sa che Matteo Renzi è molto abile nelle battute e anche nel caso della sua uscita sull’insegnamento dei Promessi Sposi che andrebbe vietato per legge si è mantenuto all’altezza della sua fama. Boutade perfettamente calcolata, anche nell’usare un’affermazione scherzosa di Umberto Eco fatta in un contesto diverso, ha il pregio di avere un sapore maledettamente antiestablishment colpendo un padre della patria senza dare fastidio a nessuno. E’ noto che ormai i padri non ci sono più ( questo l’ha detto lo stesso Renzi in un altro discorso) e quanto alla patria è chiaro come il sole che i soldi si fanno altrove. E poi a quale studente italiano non sta sulle scatole il romanzo di Manzoni?

Prendiamo a esempio quell’insopportabile Lucia perfettina e santarellina, un’autentica figa di legno si direbbe oggi nella città che dette i natali all’illustre scrittore: chi in tutta coscienza può dire di averla in simpatia? Lo stesso Manzoni aveva previsto che la sua protagonista non avrebbe destato i favori del pubblico e  provvide a mettere in bocca a un personaggio del romanzo tutte le nostre perplessità. ’Madonnina infilzata’ la definisce Perpetua, che è una metafora pudica del fiorentino ottocentesco, il cui significato è molto simile a quello della più sboccata metonimia milanese del XXI secolo. Ma tutto questo a Manzoni non servirà a molto: ormai per lui sono definitivamente tramontati i tempi in cui campeggiava sereno sulla banconota da centomila lire.

In realtà non si può seriamente pensare che il presidente del consiglio abbia detto una cosa del genere solo per il gusto di impressionare i borghesi o di farsi notare. La sua dichiarazione segue una serie di prese di posizione di altri esponenti politici ( Tremonti, Monti, Profumo), economisti, commentatori preoccupati per il nostro futuro e sopracciò vari del neoliberismo nazionale e internazionale contro l’inutilità della cultura umanistica. Non si tratta soltanto di un riflesso di fastidio per tutto ciò che non crea, o non sembra creare, profitti, ma la polemica antiumanistica è consustanziale alla politica pedagogica del neoliberismo verso la popolazione, in particolare  quella in età scolare. Visto che il progetto di preparare le persone alle esigenze del mercato si concretizza in “un’interiorizzazione delle norme di prestazione, in autosorveglianza costante per uniformarsi agli indicatori” ( Dordot-Laval La nuova ragione del mondo) e nello sviluppo fin dall’infanzia di quello spirito di competitività, che evidentemente non è così innato, è ovvio che ci sia una naturale diffidenza, se non ostilità, nei confronti di qualsiasi idea della vita altra rispetto al mercato come quelle veicolate dalle discipline umanistiche ( e anche da quelle scientifiche, se è per questo, quando queste educano a un comprensione critica della realtà e alla curiosità intellettuale). E’ chiaro altresì che nella scuola in particolare le idee sulla vita elaborate dalla tradizione culturale occidentale contrastano con l’instaurazione di quello specifico microclima ideologico che è necessario per inculcare quei tre valori o norme morali utili alla creazione di una cultura di mercato che ho elencato sopra.

A questo discorso neoliberista comune a tutto l’occidente si aggiunge l’invito specifico delle classi dirigenti italiane alla descolarizzazione e alla rivalutazione del lavoro manuale in considerazione del fatto che siamo un paese perdente nella guerra della globalizzazione: pertanto la maggior parte dei posti di lavoro che si troveranno in futuro sarà a bassa qualifica ed è considerato poco conveniente spendere molti soldi per la preparazione di gente che finirà all’estero.  E l’elementare idea che un accrescimento del livello culturale può portare benefici, magari non prevedibili, anche a livello economico è perfettamente estranea a menti  convinte che gli swap servano all’umanità e Manzoni no.

Proprio l’OCSE il 9 febbraio scorso nel suo rapporto sulla spinta alla crescita ( Going to Growth) raccomandava all’Italia di compiere le seguenti riforme dell’istruzione: istituire un sistema di valutazione degli insegnanti, sviluppare un sistema di istruzione professionale post diploma di secondaria, aumentare le tasse universitarie e creare un sistema di prestiti d’onore per gli studenti universitari. Si tratta di un progetto di educazione, contenuto in queste raccomandazioni, che tende a creare una scuola articolata intorno a un principio d’autorità nella formazione degli studenti, che rende difficile l’accesso all’università per le fasce più povere della popolazione e che immette sul mercato del lavoro qualificato manodopera facilmente ricattabile perché indebitata prima ancora di iniziare a lavorare.

Le raccomandazioni dell’OCSE non sono naturalmente semplici consigli disinteressati, ma al contrario sono indicazioni da recepire per tutti quei governi che vogliono riscuotere la fiducia dei mercati, come si suole dire oggi, oppure, se si preferisce usare le parole del Conte zio quando chiede al padre provinciale dei cappuccini il trasferimento di fra Cristoforo per aver osato ostacolare suo nipote don Rodrigo, sono gli amichevoli consigli di un’organizzazione che gode di attinenze cospicue nel mondo dei mercati finanziari.  Del resto la prima di queste raccomandazioni  è già stata recepita dalla Buona  Scuola renziana.

Quanto alla Buona Scuola, è una riforma ( a quanto pare è una riforma, nel senso che in autunno era stato detto che non si trattava di una riforma, evidentemente con l’avvicinarsi della primavera lo è diventata) concepita in un quadro economico di diminuzione delle risorse  pubbliche, in un quadro ideologico di aperta ostilità da parte delle élite nei confronti della cultura soprattutto per il suo valore critico ed emancipatorio e sotto la pressione di potenti organizzazioni internazionali che vogliono limitare l’accesso all’istruzione e subordinarla alle esigenze di un mercato del lavoro dal respiro breve, entro un progetto generale di riduzione di ogni aspetto della vita al mercato.

A questo proposito Matteo Renzi ha dichiarato, più o meno, che la Buona Scuola è una riforma importantissima perché definirà l’istruzione almeno per i prossimi cinquant’anni. A mio avviso, il presidente del consiglio ha peccato per eccesso di modestia: con premesse del genere c’è il caso che riesca a sistemarla per sempre.

Dell’evaporazione dei morti. Della bocca chiusa dei vivi.

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porte chiusedi Mariasole Ariot

Di Roberto Dalmonego ci si ricorda la saliva : una bava lenta, trascinata, un prolungamento inutile di un residuo di umanità, la scia delle lumache che sono già passate. Di Roberto Dalmonego ci si ricorda la camminata, uguale a tutte le camminate della corsia, la camminata faticosa del farmaco. Trascinata, un prolungamento inutile di un residuo di umanità, la scia di un sé già passato. Di Roberto Dalmonego ci si ricorda un corpo steso a terra, un urlo nella notte. Di Roberto Dalmonego non ci si ricorda nulla.

Del piccolo L. si ricordano gli anni. La sua voce masticata dai farmaci, i calzini bianchi, i suoi capelli alla Elvis Presley, il sogno di diventare psicologo – o forse economista, diceva, o forse Legge. La sua dichiarazione nella camera oscura : sono qui perché non sapevo più riconoscere il male dal bene. Ci si ricorda la finta torta di compleanno, il barattolo della nutella e il pane secco, ci si ricorda la risata improvvisa sui racconti di Maddy :

e allora ci addormentavamo con un po’ di benzina, e funzionava
ridevamo
e i miei nipotini sui covoni si rotolavano, e allora un po’ di benzina funzionava
ridevamo
ma io sono astemia, il vino no
ridevamo
poi sono morti tutti i bambini
lui continuava a ridere

Di Roberto Dalmonego non si è saputo nulla. Non ci sono tracce fino al 28 marzo 2015. I giornali hanno taciuto, i poteri forti hanno taciuto : quel che conta è silenziare. Strangolato nella notte del 31 marzo di un anno fa. Il piccolo L. l’ha preso alla gola. Gli infermieri del turno notturno : nessun indagato : tutti dormivano. Li ho visti distesi come larve, il respiro profondo, la fotografia del tacere.

Fate silenzio, c’è chi dorme : noi che non siamo loro, che non siamo voi.

Di Roberto non si saprà nulla. E’ morto un disperato, è morto un già morto con la bava alla bocca. Una bava lenta, veloce nella fine, un prolungamento inutile di un residuo di umanità, la scia delle lumache che sono già passate.

Il piccolo L. ha i fiori in bocca, ha camminato nella casa con il sole dipinto sulla porta : territorializzazione spinta, riciclaggio dei malati. Quattro euro l’ora e due turni a settimana, con tutti i pazzi c’è un gran risparmio. Un riciclo : dimissioni e poi riutilizzo.

Il sistema psichiatrico trentino piace alla Cina – scrivono i giornali. Una conquista.

I piccoli  L. a cucire borse, all’ex tossico un po’ di autolavaggio, un po’ di erba portata dai pazienti più esperti dai pazienti più datati, al ragazzo che cade nella paresi offrono un vecchio cesso su cui vomitare, qualche esperimento mattutino, la ragazzina senza corpo nella gabbia dei leoni, vediamo che succede, spingere per sottrazione, sottrarre per inclusione : venite tutti, tacete tutti.

Nessun commento, nessuna notizia. La stampa nazionale tace. Negli archivi della rete si trovano solo buchi : il niente di ciò che resta : un niente.

By definition, of course, we believe
the person with a stigma is not quite human
E.Goffman

In fondo si trattava di folli. Di chi vedeva demoni strangolando, e di chi sognava strangolatori e ed era già morto. Di chi dormiva strangolato.
Non saperne nulla : essere ciechi non per sciagura ma per godimento. Essere ragnatele trasparenti. Costruire una maglia sicura, allargarla, sperare che nessuno parli. Allargare il più possibile : escludere per inclusione. Fare della città un piccolo manicomio gentile, fareassieme per disfare. Quindici diagnosi a testa.

Ma l’importante è tacere. L’importante è tinteggiare i muri con la vernice trasparente. L’importante è verniciare, l’importante è svestire, l’importante è riciclare, l’importante è tacere.
Di Roberto Dalmonego nessuno sapeva nulla. Un solo articolo in un anno. Nessuno saprà nulla. Conta controllare questo nulla, fare del nulla il prestacorpo alle proprie zone morte, conta esportare il modello, dire superare Basaglia con una nuova legge che superi il superabile.
Conta superare per un apparente malinteso, conta scoprire i denti tenaci della novità a costo di distruggere per apparente forza contraria quel che di buono si era fatto.

Muore la 180 nelle zone interstiziali, muore nell’ombra, muore perché la parola non è contemplata, muore perché l’incompleto non si accetta, muore per desiderio di assoluto, muore per il totale, perché l’importante è che tutto funzioni : una macchina perfetta, ingranaggi ben oleati, il filo spinato sulle bocche.

Di Roberto Dalmonego resta l’ombra sulle piastrelle azzurre. Resta la sedazione come una bava, resta un volto senza faccia, resta un nome senza volto, resta un un corpo senza sepoltura.

Ma : i morti hanno bisogno di nomi, hanno bisogno che si dica, hanno bisogno che non si taccia, hanno bisogno del grave della parola, hanno bisogno di un peso, hanno bisogno del dire, hanno bisogno di vivi che smettano di allungare le spalle al cranio per dire semplicemente : càpita.

 

Fonti :

Il trentino non è un’isola felice
Il caso di Roberto Dalmonego
Il treno dei folli
Psichiatria democratica contro la proposta di legge 181
Un lapsus interessante nella proposta di legge 181 : “Sapere di ciascuno, sapere di lutti. Gli utenti è familiari esperti, un jolly prezioso”