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Miti Moderni/11: violini

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Enrico Benetta
Enrico Benetta
Enrico Benetta

di Francesca Fiorletta

La violinista ha un vestito azzurro, con le balze, sale sul palcoscenico, il teatro è pieno ma nessuno batte le mani, è prima mattina e nessuno batte le mani, si aspetta soltanto, in silenzio, si sbadiglia e si aspetta, l’inizio del concerto. Anche gli altri musicisti restano immobili, nessuno parla, nessuno incomincia a suonare, è prima mattina, il teatro è pieno, e il vestito, con le balze, troppo azzurro. 

les infréquentables: Louis-Ferdinand Céline

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Qui l’intervista originale

Durante la trasmissione”Lectures pour tous”, diretta da Pierre Dumayet, Louis-Ferdinand Céline evoca le polemiche suscitate dalle sue opere, episodi della sua infanzia, le sue idee sulla violenza e sulla letteratura. L’intervista è del 17 luglio 1957. Si tratta della prima apparizione televisiva di Céline. Come viene raccontato nel libro di Sophie de Closets, Quand la télévision aimait les écrivains: Lectures pour tous, l’intervista suscitò le reazioni indignate dei telespettatori e della stampa per quell’ospite colpevole di essersi presentato al grande pubblico in un modo così spregiudicato, “sans honte”.

 

Transcription

di

Francesco Forlani

(Musique)
Pierre Dumayet

Avete appena letto il titolo di questo libro, D’un château, l’autre (Da un castello all’altro, traduzione di Giuseppe Guglielmi) il titolo, il nome, chiedo scusa, dell’autore, Louis-Ferdinand Céline. Céline, prima di entrare nel merito di questo libro, vorrei farle una domanda riguardo ai suoi libri precedenti, su una questione contenuta in questo stesso libro. Pare che lei fosse sorpreso e che lo sia tutt’ora, dalla valanga di sventure che sono state la conseguenza dei suoi libri, particolarmente del Voyage. Lei dice che è a Voyage au bout de la nuit (Viaggio al termine della notte, traduzione di Ernesto Ferrero) che deve la maggior parte dei suoi impicci – impiccio in questo caso è una parola fin troppo debole. Che cosa vuole dire esattamente quando dice che non se l’aspettava? Ecco …

Louis-Ferdinand Céline

Significa che mi sono lanciato nella scrittura di libri senza volerne ottenere una qualsivoglia notorietà, pensavo più semplicemente di trarne un onesto beneficio, per pagarmi un appartamentino di cui all’epoca avevo assai bisogno,e poi le cose sono andate in tale modo che la vita di medico, di semplice dottore, è diventata impossibile e mi ha complicato sempre più la vita, a tal punto che ho incontrato difficoltà su difficoltà fino a quando mi sono permesso di occuparmi di politica ed è stato, ovviamente, il segnale del darsela a gambe, la sensazione di essere braccato che ancora mi perseguita. Questo è quello che volevo dire.

Pierre Dumayet

Sì, ma quello che mi interessa ed è il motivo per cui le faccio questa domanda, è questo. Mentre scriveva Voyage au bout de la nuit– per esempio c’è una frase in D’un château, l’autre che ce lo fa credere- quando ha scritto Voyage au bout de la nuit, lei ha potuto pensare di scrivere questo libro, mi viene da dire quasi impunemente, senza pensare alle conseguenze?

Louis-Ferdinand Céline

Ah, ah, assolutamente, nessuna conseguenza, ho pensato sì che ci sarebbe stato un po’ di interesse, lo stesso interesse che si mette nella lettura di un articolo, un articoletto sul giornale. E che, dopo aver venduto abbastanza copie di questo libricino, Le Voyage au bout de la nuit, beh, sarei tornato tranquillamente alla medicina, con un appartamento per cui non avrei avuto bisogno di pagare l’affitto; perché in quei momenti avevamo l’assillo dell’affitto, ora non più perché non lo abbiamo da pagare. Ma insomma! Sono cresciuto con l’assillo dell’affitto, l’ho ereditato dalla mia infanzia, ho sempre visto persone assillate dal pagamento dell’affitto; l’idea era di avere un assillo in meno. E così ho scritto Voyage au bout de la nuit per la mia tranquillità e non certamente per quello che è successo, no? Al contrario, dunque e a mia grande sorpresa, e questa sorpresa si figuri dura ancora, è la stessa,  sono sempre sorpreso dalle sue ripercussioni.

Pierre Dumayet

Lei non crede alla sua violenza, non riesce a concepirla, non se la immagina?

Louis-Ferdinand Céline

Io non mi vedo affatto violento, nemmeno minimamente; non sono mai stato violento. Ho sempre curato con molta dolcezza, oserei dire, quanti mi hanno avvicinato, ho salvato un sacco di gente, animali. In guerra, ho vissuto molti ambienti violentissimi, perdio. Dico che ho vissuto nella violenza, ma io personalmente non la voglio assolutamente. I libri molto deplorevoli che ho potuto scrivere sono stati fatti proprio contro la violenza. Sentivo venire una guerra e ho denunciato le ragioni della guerra e le conseguenze. La storia mi ha dato ragione, ma non gli uomini. C’è una grande differenza tra le opinioni della gente e poi i fatti. E allora denunciare con violenza… basta dire semplicemente che si sta per cadere in un precipizio, è violento? Se dice: venga, venga avanti, prego, lei è su un bel prato, cammini pure davanti a lei, non si preoccupi del resto. Ah no, no, ho detto io. Veda, visto che lei la mette su questo piano, io mi sono occupato molto di esplorazioni polari e ho conosciuto esploratori della grande epoca che ancora esploravano le regioni polari, in particolare la Groenlandia con mute di cani, cani da tiro. E ciò che conta, vero, in una muta è la guida. La guida è di solito una cagna che è particolarmente fine e che sa dire, a 25 o 30 metri, se c’è un crepaccio. Ora un crepaccio che è sotto la neve non si vede. Allora diremo che è violenta perché avverte tutta la slitta che altrimenti  si va a cacciare in un crepaccio, cadrà per 60, 70 metri in una buca, e sarà finita, la morte, no? Bene io ho forse la finezza di una cagna da slitta, niente di più.

Pierre Dumayet

Però non potrà negarlo, insomma penso che non negherà il fatto che ci sia violenza nel suo stile? La violenza, almeno in lei, è una questione di scrittura?

Louis-Ferdinand Céline

È come la cagna, lei abbaia, un abbaiare particolare, e il padrone, ne ho conosciuti, in particolare Michaelson che era governatore della Groenlandia, e spesso mi spiegava questa storia. Aveva una cagna e altri cani sarebbero finiti direttamente nel crepaccio e subito dopo la slitta, ma aveva una cagna che abbaiava molto prima, diceva: attenzione, a 20 metri sotto la neve, c’è un buco, e solo lei lo sapeva. Era una bestia di grande finezza, era un’ aristocratica, vero, e aveva la finezza che gli altri cani non avevano.

Pierre Dumayet

Lei era raffinata

Louis-Ferdinand Céline

Era raffinata, gli altri no. Io sono raffinato, ammettiamo che io sia raffinato, ma tutto qui, poi mi affliggono perché sono raffinato,  mi si uccide perché sono raffinato! Se in un allevamento si uccidono le bestie raffinate, allora vuol dire che è un allevamento molto speciale; è un po’ quello che succede.

Pierre Dumayet

Molto spesso nel suo libro, ricorda al lettore che è nato a Passage Choiseul – è la parola raffinatezza che mi fa pensare a questo. Perché  sente il bisogno di dirlo e ripeterlo? Pensa che sia qualcosa d’ importante ancora oggi per lei, per la comprensione della sua storia?

Louis-Ferdinand Céline

Sì, era quello che mi diceva Descat. È strano, quest’uomo che ha vissuto a Passage Choiseul. Devo ammettere che è una cosa che ti segna ma non come una prigione, nel senso che non avevo nessun posto dove giocare di quelli dove vanno i ragazzini. Avevamo 360 lampade a gas che funzionavano  giorno e notte, i cagnolini che venivano a fare i loro bisogni, e all’epoca avevamo delle canzoni; altra cosa curiosa, posso dire che ho assistito alla fine delle canzoni. All’inizio prima della guerra, nel 1914 c’era a Passage Choiseul  una ragazza di strada che cantava appena entrava al Passage e durante tutto l’attraversamento; dopo la guerra nessuno ha cantato più al Passage, un segno dei tempi. Era tutto quello che avevamo come passatempo,  le canzoni dei ragazzi di bottega o delle ragazzine. Sono tornato da allora al Passage, ci ritornavo spesso, e non conoscevo più le persone, non c’erano più, era venuta altra gente.

Pierre Dumayet

Ma il Passage Choiseul mi sembra al momento  per lei un ricordo  che quanto meno le fa tenerezza, non una provocazione…senza violenza

Louis-Ferdinand Céline

Vi ho comunque conosciuto un bel po’ di persone che sono scomparse o che non ci vivono più al Passage Choiseul, questione d’igiene, e poi non ci sono più le lampade a gas, ora che sono tutte elettriche, però posso dire che sono cresciuto in una cappa di gas, se così si può dire, in un modo come un’altro ti segna una cosa così. Ho visto molti animali da laboratorio che vivono nelle camere stagne, gli effetti si sentono, mica semplice…

Pierre Dumayet

Qual è il rapporto tra il Passage Choiseul e la raffinatezza, questa raffinatezza viene da un’esigenza legata al Passage Choiseul?

Louis-Ferdinand Céline

Ah no, la raffinatezza direi che viene dal mestiere di mia madre e mio padre. Mio padre, purtroppo, anche se laureato in estetica, scriveva bene,  avrebbe fatto la gioia dei letterati, era agente assicuratore, mio nonno era professore di retorica e mia madre era merlettaia, riparatrice di merletti all’antica, io so ancora ripulire un merletto, conosco il mondo dei merletti, cose che sono scomparse. So che il Passage Choiseul, con la sola eccezione della scuola comunale, mi sembrava portare belle clienti, vedevamo della gente  che era ben al di sopra della nostra condizione, delle clienti. Tutto questo ha dovuto lasciare un segno, probabilmente, le vedevo con ammirazione. Mia madre del resto mi faceva la morale, mi faceva sempre notare che la cliente era per lei un oggetto sacro, che aveva delle responsabilità che io non avrei mai sospettato, e che era grazie a loro che noi  vivevamo e che non potevo nemmeno immaginare i sacrifici e la virtù della gente ricca, venerava molto la gente ricca, ben al di sopra della nostra condizione e di conseguenza bisognava ringraziarli perché ci davano da vivere, molto umilmente.

(…)

4 N

Pierre Dumayet

Vorrei farle un’ultima domanda, lasciarle un’ultima parola. La moda in questo momento è sulla parola della fine, lei ha detto: le mie ultime parole, se le avessi ,sarebbero?

Louis-Ferdinand Céline

Vedo in questa marea di invettive, vedo per lo più gente che beve, mangia, dorme, insomma in quelle funzioni umane che sono tutte piuttosto volgari e direi che sono pesanti. Il loro spirito è pesante. Così mi pare per lo più … Non ha mai smesso di essere pesante. Ho notato, ho letto tanti versi, e più particolarmente del secolo XVII, quello cosiddetto galante .. . ne avrò trovati tre quattro buoni … su migliaia.

C’è ben poca leggerezza nell’uomo. È pesante, no! Ora poi è straordinario in pesantezza. A partire dalle auto, l’alcol, l’ambizione, la politica lo rendono pesante, ancora più pesante. Tutto quello che fa è estremamente pesante Vedremo forse un giorno la rivolta dello spirito contro il peso. Ma non è per domani. Al momento è pesante. Ecco allora che se dovessi morire, direi: erano pesanti. Oh, “erano cattivi perché erano pesanti”, non crede? Invidiosi di una certa leggerezza. Sono invidiosi come una donna che indossa un busto di tela verso una che non ne ha…con i merletti…come colui che ha un cavallo da tiro e non un purosangue. Invidiosi di essere pesanti. Tutto qui. Infermi. Pesano, sono infermi. La pesantezza li rende infermi. Quindi non ci si può fidare di loro, sono pronti a tutto. Oh sì, pronti a tutto. Pronti a uccidere. Per risvegliare la pesantezza bevono, e quando bevono, diventano come magli. È spaventoso, magli senza controllo. Aumentano il loro peso, invece di rendersi leggeri. Ah, non sono dalla parte di Ariele. Sono sempre più Caliban. Sempre di più …

 

Nota di effeffe

A proposito di raffinatezza, dell’idea di raffinatezza che in Céline si oppone ovviamente alla “maniera” del linguaggio, ho trovato in rete un riferimento a Cioran che vale la pena riportare qui. E ringrazio Sergio Garufi per avermi dettato al telefono il passaggio tradotto in italiano.

« Les gens qui ont de la classe ne sont pas particulièrement inventifs en fait de langage. Y montrent des aptitudes et de l’originalité les gens loquaces, presque vulgaires, ou du moins qui poussent la vivacité jusqu’à la forfanterie, ou à la dégueulasserie quelque peu délirante. Le génie verbal est souvent l’apanage de ceux qui font peuple.
L’éducation nuit à la fraîcheur à la vigueur du langage.
Céline ne sort pas d’un salon. À peu près tous ceux doués d’un génie verbal que j’ai connus manquaient de manières : ils étaient des natures, ils vivaient à même le langage. »

Cioran, Cahiers, p913

Le persone di classe non sono particolarmente  inventive in fatto di linguaggio. In questo mostrano attitudini e originalità le persone loquaci, che rasentano la volgarità, o che per lo meno spingono la vivacità fino alla millanteria, o alla spiacevolezza leggermente delirante. Il genio verbale è spesso appannaggio di quelli che appartengono al popolo.

L’educazione nuoce alla freaschezza, al vigore del linguaggio. Céline non viene fuori da un salotto. Quasi tutte le persone dotate di genio verbale che ho conosciuto non andavano per il sottile: erano nature, vivevano come parlavano.

Quaderni 1957-1972, traduzione di Tea Turolla, Adelphi

 

 

Il viaggio fermo

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Non facevo in tempo a odiare nessuno di quelli che passavano lì davanti, non ce n’era proprio il tempo, è come dal finestrino del tram, mi dicevo, che non si fa in tempo a odiare quelli che vedi passando. Con la differenza che in quel caso è il tram che si muove e la gente sembra ferma, qui invece è la gente che si muove e passa e tu sei fermo dietro la vetrina.

(Luigi Malerba, Il serpente)

Vulnicura, diario mistico-regressivo di sciami e di cocci

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di Viola Di Grado

Come ci canterò fuori
da questo mondo di dolore?
(…)
C’è uno sciame di suono
la nostra clessidra
e possiamo sentirla
e possiamo venirne colpiti
ci libererà dal dolore
ci renderà perfetti
questo posto di soluzioni
questo posto di soluzioni
questa sede di soluzioni.
 
(Family)

 

Björk_-_Vulnicura_(Official_Album_Cover)Sulla cover di Vulnicura Björk è un soffione, un sinistro fiore dei desideri in lattice nero con un’infruttescenza che sta per cedere e una ferita al centro del petto. La ferita al petto sembra molto letterale (l’album è dichiaratamente un diario della rottura traumatica della relazione decennale con Mattew Barney) eppure nella mitologia visiva di Björk è una metafora stratificata che passa da una serie di dissezioni e trasmigrazioni del corpo, restituito animisticamente al paesaggio naturale o scagliato contro rudi paesaggi tecnologici. Abbiamo già visto il petto di Björk spaccarsi al suono di archi melodrammatici e spinosi beats (Jóga): il suo corpo compare in scena fisso e chiuso in un parka bianco, anche gli occhi serrati, poi sparisce, per ricomparire alla fine e lasciare uscire dal petto un abisso di paesaggi rocciosi. Adesso, in Stonemilker, la domanda sull’apertura e chiusura del corpo è posta nella dimensione duale di coppia e amaramente riformulata: “chi ha il petto aperto / e chi è coagulato?”

In quest’equazione, Björk non è solo quella con il petto aperto, ma è lo stesso petto aperto: “Sono una ferita/ il mio corpo pulsante/un essere sofferente”. La delusione amorosa è presentata come un trafugamento (“il mio scudo è andato, la mia protezione sottratta”) che poi diventa svuotamento mistico-orrorifico (“la mia anima spezzettata, il mio spirito rotto nel tessuto di tutto, intessuto”). Ironico che quest’album sul trafugamento e fuoriuscita drammatica del sé, preannunciato per marzo, sia uscito a gennaio proprio a causa di un furto e conseguente “internet leak” (“internet-fuoriuscita”).

La mitologia del corpo-realtà creata da Björk è una parabola complessa che da sempre sintomatizza e reinventa il ruolo controverso che noi in quanto corpi abbiamo nella società dell’informazione e della simultaneità.

Abbiamo visto il suo corpo integrarsi alla struttura meccanica di due speculari androidi in amore (All is full of Love), l’abbiamo visto partorire mostri anfibiali (Where is the line) ed emettere dai capezzoli i fili sericei di un bozzolo intero che la chiude e la solleva e infine la fa sparire (Cocoon): Björk è l’illuminata interprete di un’era in cui la morte fisica è diventata obsoleta, un retaggio inaccettabile, un’era in cui la nostra rete neurale si rispecchia nella rete informatica e i nostri corpi sono costantemente immessi in un flusso di informazioni a-sensoriali.

Björk è riuscita a ricomporre questo nostro corpo in costante disintegrazione e immetterlo pezzo per pezzo in monumenti musicali e visivi coerenti e sempre nuovi. Il corpo umano, precipitato e permeato dalla realtà digitale, si smaglia in una rete di informazioni e si dissolve, si ricompone, all’infinito. In questo paesaggio frammentato di interiora umane e grattacieli in frantumi, personaggi di videogioco anni ’90 e illimitati corpi-paesaggio (Hyperballad), spiriti fluttuanti e bambole elettrizzate (Possibly maybe) possono mescolarsi e sintetizzarsi a vicenda, in una specie di mandala post-postmoderno di cocci organici e inorganici, un mandala che è il suo viso ingrandito che emette vernice dagli occhi e forme uterine dalla bocca (Hidden Place).

Perché, restando sulla metafora buddhista, ogni pixel sgranato contiene i recessi analogici dello spirito (sempre Hyperballad) e ogni corpo è alieno alla propria identità. Perché il corpo, nel suo continuo trasformarsi, è l’unica cosa che esiste. E adesso, dopo aver esplorato (ed espiato) in tutti i modi il sé e l’universo (per i cinesi erano la stessa cosa) come un’instancabile sonda spaziale, Björk torna a se stessa (“Sono un razzo scintillante raggiante/che ritorna a casa/mentre entra nell’atmosfera/brucia strato per strato”); a una se stessa obsoleta – nel senso in cui noi stessi, quando nel dolore regrediamo, ci sintetizziamo in una formula primitiva e terribile.

Questa formula, Vulnicura, è un puzzle-carosello di elementi beta, orrori non trasformati che fluttuano e sbattono l’uno contro l’altro. E’ l’incubo di un bambino che si ritrova improvvisamente bambino e quindi senza la protezione della propria crescita (“il mio scudo è andato, la mia protezione sottratta”). Vulnicura è innanzitutto un diario. Semplice, amaro, uno spazio intimo e iper-vissuto, vintage di archi armoniosi e sporadici sciami di beats. Uno spazio iniziale, interrogativo, di una trasformatrice del futuro che non si è mai concessa prima d’ora di riposarsi nel passato: perché il gioco, se è vero che costruisce il mondo è vero anche che lo replica senza alcuna ambizione di sorprendere. Vulnicura è un melodramma semplice e spietato di fratture, in cui il corpo-musica rinuncia a tutte le sue alchimie e diventa tappeto fermo, costantemente compenetrato (“Dopo che il nostro amore è finito/ i tuoi spiriti mi hanno invasa.”).

Vulnicura non vuole entrare in contatto. Come un neonato, il suo pianto prescinde la fame, è un pianto di possibili disintegrazioni, ma soprattutto è un pianto che esiste perché ci sono i polmoni. Björk è sempre stata una grande sperimentatrice, relegando ciò che era troppo crudo o letterale a parentesi riposte e mai riprese, luoghi solo intuiti. Ma ora che “lo scudo è andato”, “lo spirito è rotto” e “l’anima è a pezzi” (Black lake) l’interno sconfina dal petto fratturato e circola altrove, inonda (“Il mio cuore è un lago enorme (…)/affogo nel dolore”): il sistema fluido di quel corpo pericolante, che si concede all’inorganico senza terrore, è inceppato. Ciò che risulta è un paesaggio coagulato, umano e non umano, che commuove per la sua sincerità.  bjork_-_all_is_full_of_love_-_front

In tutto ciò la parabola björkiana dell’amore che è dappertutto ed è qualsiasi cosa (All is full of love), proiettato nel paesaggio naturale e innestato nei mattoni post-umani di robot sentimentali e splendidi – un amore che si sottrae al proprio corpo per ampliarsi e inglobare realtà sempre più grandi – sembra cadere e approdare nel suo contrario: l’opposto amaro dell’amore come apertura al tutto è la perdita dell’amore e la caduta nel tutto (“la mia anima spezzettata, il mio spirito rotto nel tessuto di tutto”). E’, infine, la coagulazione. Se il corpo-cavia è stato messo da parte, rivirtualizzato, il corpo-ferita, iper-personificato, infine può curare se stesso: il centro di quel corpo non è più un paesaggio urbano dislocato e pressante, una forma di inconscio geografico immesso nella carne, ma ritorna il centro simbolico e classico del corpo-anima: il cuore. Il suo cuore è “un lago enorme/ nero di veleno/ sono cieca mentre affondo in quest’oceano”. Quello di Barney/interlocutore, invece, è “cavo”.

L’amore che entrava e usciva, che crollava dalla bocca in forme uterine, si dissolve. “Il nostro amore era un utero”, canta Björk. E Vulnicura è proprio un album isterico, nella sua accezione letterale: un utero vuoto, recitato insistentemente per essere di nuovo riempito. Il “posto di soluzioni” evocato in Family, la canzone più musicalmente tormentata di Vulnicura, invasata da uno sciame di beats che percuote e interroga un canto accorato e discontinuo come una nenia sciamanica- è come sempre per Björk un posto di creazione musicale. La musica come percorso automatico del pensiero, come “non azione” direbbero i taoisti, in quanto da sempre definito da Björk come luogo a-logico, istintuale, vissuto fuori dalle feroci frazioni della mente razionale. Come ponte, anche, per “cantare se stessa fuori dal dolore”: come spinta fluida e muscolare dal dolore a qualcos’altro. A cos’altro, esattamente? Il “posto” diventa “sede” nel verso successivo: un luogo temporaneo di acting out, un setting auto-analitico di trasmigrazione a una sé stabilizzata. Qual è la cura di questo vulnus inerme e insistito, sovresposto? La clessidra sembra alludere a una pacificazione nel tempo o nella morte. Se nella precedente cosmologia björkiana era stata sorpassata e diminuita, resa anacronistica, adesso la morte diventa un plurale rigenerativo e consolante di rinnovata protezione, localizzato in un qui imprecisato che sembra essere proprio lo squarcio nel petto: la terra primordiale, non umana, invasa di sé, e l’apertura del fiore nero, il giglio nero di Pagan Poetry che traccia mappe di desiderio, che è anche il fiore finale della copertina, con le sue infiorescenze che, pur promettendo desideri realizzati, stanno per essere recise. Björk canta: “non dimenticherò/ questo “nonricevere”.

Così, in un album che segue intimisticamente una rottura e la sua ricomposizione, per la prima volta non come esperimento culturale ma come osservazione inerme e riluttante, si viene travolti da una grande tenerezza e si viene risucchiati da questo grande lago nero, il “cuore cavo”. Sarà anche per motivi di sincronicità junghiana – “Cuore cavo” è il titolo del mio ultimo romanzo-  che da björkologa di vecchia data mi sono sentita chiamata in causa. Sarà che le voglio proprio bene. Comunque, per ritornare al taoismo, il senso del cuore cavo non è il passato del suo svuotamento ma il suo futuro vezzo e talento di riempirsi: “Quando noi, i guardiani / ci ritiriamo al sicuro qui, salvi dalla morte.”

Il difetto di avere ragione

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enel1Come è andata a finire con l’Area ExEnel

di Gianni Biondillo e Marco Belpoliti

Nel gennaio del 2012 su questo blog era apparso questo articolo. Altri in contemporanea ne uscirono su vari blog e quotidiani, a firma di Marco Belpoliti, Luca Molinari, Marco Biraghi, etc.

Sollevavano un problema: la costruzione nell’area di fronte al Cimitero Monumentale di Milano di due edifici fuori scala, di un albergo inutile e di un parcheggio sotterraneo di 250 posti camuffato da piazza in una zona di rispetto architettonico, con un progetto che lasciava molto a desiderare dal punto di vista estetico e urbanistico. Ne era nato un dibattito (vedi ad esempio qui) che aveva coinvolto giornali, architetti, intellettuali, politici. La questione si era trasferita, dopo varie vicissitudini e discussioni, nelle aule del Tribunale Amministrativo Regionale della Lombardia, che aveva bocciato il ricorso del gruppo di cittadini che si erano organizzati nella sigla Area Ex Enel con un suo sito.

Ora sull’intera materia si è espresso il Consiglio di Stato (Sentenza Ex-Enel.1), dando ragione ai cittadini che hanno sollevato il tema della legittimità della scelte della giunta Moratti, prima, e Pisapia, poi. Tutto questo è succintamente spiegato nella lettera che segue indirizzata a “il Corriere della Sera” che, unico giornale milanese, ha dato alcuni giorni fa con un ampio articolo notizia della sentenza, intervistando l’assessore all’Urbanistica del Comune di Milano e vice-sindaco, Ada Lucia De Cesaris, sostenitrice della scelta urbanistica e giuridica bocciata dal Consiglio di Stato. Ora che Milano è sotto i riflettori dell’intero paese per l’apertura imminente dell’Expo a maggio, vale la pena di tornare a riflettere su questo caso (60 milioni di euro investiti da privati che ora non potranno proseguire i lavori iniziati) che ripropone le questioni della gestione politica delle nostre città, della partecipazione dei cittadini e della bellezza architettonica.

***

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Su queste pagine pochi giorni fa è apparso un lungo articolo dedicato al cantiere dell’area Ex Enel. Il Consiglio di Stato ha dichiarato l’intera operazione illegittima bloccando i lavori, dopo il ricorso intentato da alcuni cittadini. Quei cittadini siamo noi. Vorremmo qui spiegare le ragioni del ricorso e di come si sia arrivati a questo punto.

L’area di fronte al Cimitero Monumentale, di ex proprietà Enel, e dunque pubblica, molti anni fa fu svenduta a una società privata. Dopo lunghi anni di abbandono, e di occupazione da parte del centro sociale Bulk, durante l’amministrazione di Letizia Moratti alcuni imprenditori decisero di costruire degli immobili residenziali.

Per fare questo il Consiglio Comunale di allora approvò una delibera che modificava le cubature edificabili, triplicandole. In un colpo solo quel terreno, comprato per 10, valeva 300. 

Per trasformarla in area residenziale edificabile, e per aumentare le cubature consentite per legge e concedere le concessioni, l’amministrazione comunale si avvalse dello strumento del “programma integrato di intervento”, uno strumento che, nel diritto italiano, è consentito solo ed esclusivamente in casi di evidente interesse pubblico e strategico per la città. 

Succeduta alla Moratti, nell’assolato agosto del 2011 la giunta Pisapia riportò in consiglio comunale la delibera e la approvò: senza nessun comunicato stampa, e senza che la notizia venisse riferita da alcun giornale.

Il progetto approvato prevedeva, in tre isolati situati di fronte al Cimitero Monumentale – il luogo più visitato dai turisti dopo il Duomo – tre palazzoni alti fino a 10 piani fuori terra, in un quartiere di edifici di 4 piani al massimo: residenze ad alta densità volumetrica e bassa qualità estetica.

Alla notizia di questo scempio, un gruppo di abitanti del quartiere e alcuni intellettuali, scrittori, architetti, hanno provato a intervenire. Abbiamo chiesto di incontrare la proprietà e il Comune, cercando il dialogo, sostenendo che andava bene il profitto economico dei privati, ma che l’operazione avrebbe potuto essere un po’ meno spregiudicata, contenere qualche spazio pubblico, e concedere qualcosa alla qualità architettonica. Non chiedevamo di scomodare grandi architetti, semplicemente di evitare il ricorso in pieno centro cittadino a un’edilizia così sfacciata e imbarazzante. In sostanza chiedevamo un’idea per la città che andasse oltre alla mera speculazione edilizia. 

Il Comune di Milano non ci ha voluto dare ascolto. Lo stesso atteggiamento hanno mantenuto i proprietari del terreno. Entrambi ci hanno liquidato dicendo di intentare pure una causa, che tanto l’avrebbero vinta loro. 

Soltanto l’impresa costruttrice di una parte degli edifici si è mostrata disponibile, modificando le facciate di loro pertinenza in corso d’opera e ridisegnando un piccolo parco. Da parte loro si trattava di un impegno che andava oltre il loro immediato interesse e quindi da considerare assolutamente apprezzabile. Furono i nostri unici interlocutori, non si trovò perciò un accordo sull’intero piano. È che il vero soggetto in grado di imporre un interesse pubblico all’area, vale a dire il Comune, non si prese carico con sufficiente lungimiranza del suo naturale ruolo di mediatore tra le parti.

Rimanendo convinti che l’operazione fosse sbagliata sotto il profilo architettonico, politico, urbanistico e legislativo, e non riuscendo a ottenere altri risultati se non quello – comunque importante – di far riprogettare gli spazi aperti, fummo costretti a non ritirare il ricorso. 

Oggi il Tribunale di Roma ha dichiarato l’intera operazione illegittima, in quanto priva del presupposto di un interesse strategico e pubblico. Ci ha dato ragione. Una pessima notizia, a ben vedere. Non soltanto perché ora il progetto è diventato un problema, ma soprattutto perché non eravamo e non dovevamo essere noi i paladini dell’interesse della città.

Non debbono essere i privati cittadini a vigilare sulla legittimità delle operazioni immobiliari, sulla qualità architettonica e sul rispetto delle norme urbanistiche. È un ruolo che spetta alle istituzioni.

Avere ragione non ci interessa: ci interessa, così come sin dall’inizio, che si costruisca bene, in modo sensato, intelligente, corretto, restituendo alla città vivibilità e bellezza. Ci interessava allora, e ci interessa ancora di più adesso che c’è un “buco”, una ferita, nel cuore della città.

Diamo a questa zona importante di Milano una nuova occasione, una soluzione degna della nostra città, anche alla luce dei numerosi fallimenti urbanistici di questo ultimo decennio. Ripartiamo da una logica diversa, con un orizzonte progettuale di più ampio respiro. L’orizzonte legittimamente alto e ambizioso di disegnare e pensare la città per i cittadini.

Si tratta di un compito arduo, che spetta in primo luogo al Comune di Milano. Speriamo che questa volta ci provi.

Gianni Biondillo
Marco Biraghi
Paola Lenarduzzi
Roberto Marone
Luca Molinari
Alberto Saibene

(pubblicato precedentemente su Il Corriere della Sera – Milano, il 22 marzo 2015. Questo post è da oggi on line anche su DoppioZero. Le vignette sono un regalo di Guido Scarabottolo)

Le latitudini delle braccia

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nino-iacovella-1di Nino Iacovella

POLAROID
(Scatto di prova)

Hai forse dimenticato le braccia
da qualche parte, in questa città,
dove puoi vedere ancora il fumo
denso dell’esplosione. Vedi, tutto
si compie all’altezza di un cielo
irraggiungibile. Eppure volevi
afferrarlo quel momento di cielo,
così, con la tua mano distaccata
da tutto il resto, un corpo ricaduto
a pezzi, il mosaico che pavimenta
i resti della stazione. È vero,
siamo qui, in tanti tra le macerie,
assieme alla testa di un cane
c’è come terra di carne sbranata

Nell’attimo prima che si compisse
lo scempio, eri lì ad interrogarti
sulla faccenda della vita, senza
aspettarti nulla, nessun fragore.
Ed eri solo a due passi dall’innesco,
vicino a chi avrebbe deciso le sorti
del vuoto d’aria che ti avrebbe preso
per alleviarti dall’insostenibile
peso delle braccia

Nemmeno la tua solitudine poggia
più sulle proprie gambe. Adesso è lì
mescolata a terra indistinta tra
lamiere storte, viscere e sangue

Sabato 2 agosto 1980 – Ore 10,25
Stazione di Bologna

 

 

Per non dimenticare i nomi
ogni dito che conta è fuori posto, non tiene il computo,
la somma che invece si fa con la voce è rotta
e per questo c’è sempre l’assenza di un volto
a discolpare il pianto

 

La linea Gustav

Vorrei cambiare nome agli inverni
tenendo più stretto il ricordo del freddo
il gelo nelle dita dei soldati

Veder sparare ancora i tedeschi
a denti serrati dall’alto del muraglione
con occhi che spezzano a vivo
la coda inerme degli sfollati

E cercarvi lì, tra i vecchi a coprire le madri,
le madri come rifugi per sagome minute
(tra il seno e la spalla, insenature
come porti per piccole teste
spaurite nella burrasca)

Sul paese come un’ombra la linea Gustav,
tracciato d’inchiostro sulle rovine,
il confine tra chi si butta a terra
prima o dopo lo sparo

*

Gli anni nascosti dietro la collina
ritrovati all’apice di un giorno:
adesso siamo il recinto di un giardino
dove nitido si scorge il filo spinato
A stringere questi nodi di memoria

è come mostrare il petto al nemico,
volersi ferire, rovesciando colori a terra,
far finta che non siano solo sangue

Con mani legate siamo in attesa
che si assesti di nuovo, colpo su colpo,
il battito sulla raffica

Del cuore rimane un proiettile irrisolto,
una traccia murale sfarinata.

Mentre la bocca è contro il muro
con la lingua si scioglie un sapore
di sabbia e calce viva che sa ancora
dell’attesa breve dei fucilati

*

Con l’alito delle bestie e il tepore
della paura, la guerra respira ancora
in quel ricovero, non si è spostata
di un giorno da quelle catene,
le mani chiuse dal freddo,
i muri ceduti delle case

Per questo tornerò a leccare la parte
vuota del bicchiere, unico superstite
di un tempo rovesciato sul tavolo,
che saprà di quel vino che macchia a fondo
e mostra il rosso dall’interno della giacca

Riconosco ancora i ganci del soffitto:
erano sempre stati lì per seccare la carne
o le altre cose buone da mangiare

Ma tu chiami
come se non ci fosse voce ad avvicinarsi,
fai poggiare un passo in più nel vuoto
sino a toccarmi

Rimango solo ad ascoltarti
e si chiude il cerchio attorno al buio:

la parte ruvida della corda che ti veste
mi sfiora, e ti sento quasi cadere dal soffitto
prima del silenzio definitivo
monocorde del cappio

*

Ci dissero di andare avanti
e noi svanimmo nella neve

Lettera
(Battaglia di Nikolajewka)

Abbracciami, come vedi il mondo
mi ha tranciato l’osso
che sostiene la carne,
per questo chiama da sotto i piedi
e mostra il vuoto
inesorabile dello squarcio

Attraverso le vene, prendimi,
prendi tutto quello che rimane

Se la mia faccia resta senza cielo
e gli ultimi sogni ad occhi aperti
soffocati nel fango
chiudili con la delicatezza della neve

e rivolgi il mio corpo
all’altezza del pianto

*

da CORTOCIRCUITI

Fossile

Ci si spinge a un punto morto,
dove la pietra è scavata
in attesa di un freddo fossile

Potremmo ferirci se non fosse una carezza
questo raschiare superfici
tra gli strati più duri del vuoto

Restiamo appoggiati al muro ruvido delle cose:
il letto, la sedia, la lampada a portata di mano
ma ora tutto è indistinguibile

Ancora una volta tremanti, al buio

Sappiamo che in casa non può esserci una voragine,
ma dentro siamo sempre in bilico
come uccelli primordiali
che da poco hanno smesso di precipitare

*

Natività

Potremmo ancora vederci
spingendo parte dell’oscurità
in un angolo, forzando con la spalla
come a chiudere un vuoto straripante
stipato in un armadio

Oppure riuscire a guardarci in faccia
al buio, tenderci la mano nella luce
nera che mi brucia le palpebre

E cercare la tua testa nell’oblio
è come tirarti fuori una seconda volta,
farti rinascere a mani nude, desiderando quella forza
che sorregga una presa forte
che sfibra le braccia

da Le latitudini delle braccia, deComporre Edizioni, 2013

 

Note

Nino Iacovella è nato a Guardiagrele nel 1968. Ha pubblicato una prima raccolta di poesie nel 2001 Ballate di un giorno solo e della notte (ExCogita Editore, Milano), seguito da Latitudini delle braccia, deComporre edizioni nel 2013. Dal 2011 al 2013 ha fatto parte della redazione de Il Monte Analogo, rivista di poesia e ricerca. E’ tra i redattori e fondatori del blog di poesia, scrittura e resistenza umana Perigeion.

[ Una mia nota di lettura videoregistrata si può trovare qui. B.C.]

12 domande a Iacopo Barison o anche breve storia sull’età per scrivere

1

di Gianluca Giraudo

Iacopo Barison e io siamo amici. Siamo amici nell’unica misura che sembra avere un senso nel 2015: su Facebook. So che Iacopo ama dormire lungamente ma non più in là delle 10.30 «perché poi la giornata va sprecata», che guarda la televisione, soprattutto la sera tardi, e che apprezza tanto Sky Arte quanto Masterchef. So che ama leggere, naturalmente. Quando ho appreso della sua candidatura al Premio Strega 2015 con Stalin + Bianca (Tunué), mi è venuto da sorridere. Ho sorriso perché ho cinematograficamente immaginato come deve averlo colto la notizia: un telefono che squilla a volume massimo sul comodino, Ia mano insicura che lo afferra e Iacopo che si accorge, all’ora in cui gli impiegati sono mediamente al terzo caffè, di aver fatto tardi guardando una serie telesiviva o soffermandosi su un fumetto.

Prima di conoscere Iacopo, ero convinto che ci fosse un’età per tutto. Un’età per cominciare ad andare in bicicletta, per osare il primo bacio, per leggere Guerra e Pace e per canticchiare Taylor Swift in pubblico non risultando fuori luogo. Sapevo, come si sanno leggi del mondo che stabiliamo da soli un po’ per dare ritmo agli eventi un po’ per consolarci delle nostre inadeguatezze, che c’è un’età giusta per fare ogni cosa: come scrivere un romanzo a trentacinque anni. O partecipare allo Strega, a cinquanta.

La notizia della candidatura di Iacopo è la rottura di ogni equilibrio. Ho capito non solo che questo giovane scrittore è come me, socievolmente riservato, pigramente ambizioso, ma che sa parlare del nostro tempo: sa dormire fino alle dieci, ma anche scrivere un romanzo molto apprezzato. Sa distrarsi su Facebook, ma anche partecipare allo Strega. Tutto a 26 anni. Il suo immaginario, come emerge chiaramente da Stalin + Bianca, tradisce una passione per Beethoven e la poesia, ma anche molte influenze della cultura pop. Ho capito, in poche parole, che Iacopo rappresenta il bello della sua generazione. È la dimostrazione che se è pur vero che c’è un’età per iniziare a viaggiare, per scoprire i sentimenti, per affezionarsi alle letture impegnative, non c’è un’età giusta per fare di tutte queste esperienze, dell’esperienze di un individuo, un documento leggibile. Non c’è un’età giusta e unica per scrivere. E proprio di questo mi preme parlare con lui.

Iacopo, cosa significa per te, esordiente, ventenne, partecipare allo Strega?

Questa candidatura è il coronamento di un lungo e faticoso percorso. Prima del contratto con Tunué, ci sono state alcune case editrici, anche grandi, che hanno rifiutato il mio romanzo. Per carità, non voglio sindacare le loro scelte, ma certo è un’enorme soddisfazione aver venduto meglio e ottenuto più riscontro critico di quanto faccia il 99% dei loro esordienti. Penso che fosse innanzitutto un problema di età. Spesso, in Italia, la gioventù è vista come una colpa da espiare. Le belle storie,

invece, quelle che dimostrano che in Italia non fa tutto schifo, si scrivono anche dando fiducia ai giovani, non solo rifilandogli la solita manfrina del “si vede che hai talento ma sei ancora acerbo, devi crescere, risentiamoci al prossimo romanzo”. Comunque, ripeto, sono supercontento e non nutro nessun rancore, fa tutto parte del gioco, anche perché questi risultati probabilmente non li avrei ottenuti con una major, che mi avrebbe mandato al massacro e sicuramente avrebbe preferito candidare ai premi importanti qualche autore già famoso piuttosto che un giovane promettente.

Stalin + Bianca ha ottenuto un grande successo, sia in termini di pubblico che di critica, senza considerare la recente vendita dei diritti cinematografici e di traduzione all’estero. Hai mai pensato, scrivendo il libro, che sarebbe potuto arrivare a questi risultati o a muoverti ci son sempre state altre intenzioni?

No, non ci ho mai pensato. O meglio, ci pensavo, ma in modo quasi infantile. Era tutto confinato nella zona dei sogni, come il ragazzino che gira un cortometraggio coi suoi amici e spera, un giorno, di finire al Festival di Cannes. C’è stato un periodo, infatti, in cui tutta questa risonanza mi frastornava, ma ora ci ho fatto l’abitudine. Andare in TV a parlare del proprio libro, ad esempio, è sia bellissimo che molto ansiogeno. Ma accettando queste cose, facendole mie, ne ho ricavato grandi soddisfazioni. Poi è chiaro, il fatto che io sia giovane porta la gente a catalogarmi in automatico come un piccolo genio oppure come uno stronzo, come un impostore che ruba spazio a qualcuno con più esperienza di lui. Sono tutte idiozie, bisogna guardare avanti. Bisogna smettere di dividere gli scrittori – come tutti gli artisti – in “giovani” e “vecchi”. Sono categorie umilianti. Gli scrittori, al massimo, vanno divisi in chi ha qualcosa da dire e chi, invece, non ha nulla da dire ma lo fa lo stesso, con risultati talvolta pessimi.

Che opinione hai del Premio Strega?

Prima della candidatura, non ne avevo un’idea definita. Sapevo quello che si diceva in giro – che vigeva la legge del marketing, che gli editori facevano a gara, eccetera. Forse in passato era così, ma io penso che la candidatura di Stalin + Bianca smentisca almeno in parte tutte queste logiche. La sua candidatura è già un segno di apertura verso l’editoria indipendente. Con Tunué stiamo creando una realtà importante, di forte qualità letteraria, ma soprattutto stiamo dimostrando che, per fare le cose in grande, non servono per forza i calci nel culo, le intercessioni, il potere economico o le parentele importanti. L’editoria non è tutta yin o yang, è fatta di sfumature.

Stalin e Bianca, i protagonisti del tuo libro, viaggiano molto: sia nella realtà del libro sia effettuando una vera evoluzione come personaggi. Dovendo metaforizzare la tua candidatura allo Strega, la vedi più come un traguardo o come un punto di partenza che ti spinge a crescere come scrittore?

Ogni traguardo, per me, è sempre un punto di partenza. Sono fatto così, non riesco proprio a dormire sugli allori. C’è un punto, verso l’inizio del libro, in cui Stalin dice di voler vincere il Festival di Cannes. Anch’io sono fatto così. Quando mi pongo degli obiettivi, evito accuratamente di pormi dei limiti. L’ambizione è un incentivo a lavorare duro e a impegnarsi, non ha nulla a che vedere con la presunzione, seppur il confine sia molto sottile. Se non credi in te stesso, d’altronde, è assai improbabile che gli altri vogliano credere in te.

Tra i vincitori delle passate edizioni dello Strega c’è qualche autore che ami o cui, per ammirazione o spirito di identificazione, ti ispirerai per affrontare la gara?

Se intendiamo i vincitori di qualsiasi edizione, mi piacciono molto Alberto Moravia e Dino Buzzati. Negli ultimi anni ho apprezzato Sandro Veronesi e Tiziano Scarpa, ma anche Niccolò Ammaniti. Per ragioni anagrafiche, invece, mi sento in qualche modo legato a Paolo Giordano. La candidatura allo Strega comporta una certa pressione – gestirla da ventiseienne è ben diverso che gestirla da cinquantenne. A quest’età, infatti, non si può ancora esser saggi come il maestro Miyagi, ma ci si può permettere una freschezza e un’incoscienza che dopo, da cinquantenne, risulterebbe ridicola.

Stalin + Bianca fa parte della collana di narrativa della Tunué, nuova e piuttosto “sperimentale” nella linea editoriale. Che importanza ha avuto il lavoro svolto dalla tua casa editrice per il successo del libro e, di conseguenza, per la candidatura allo Strega?

La collana per cui sono uscito è diretta da Vanni Santoni, quindi nella maggior parte dei casi mi sono interfacciato con lui. Gli devo moltissimo, una buona percentuale di ciò che ho ottenuto è stato anche merito suo. Il resto di Tunué, comunque, ha svolto un ruolo fondamentale. Basta pensare alla traduzione del libro in Colombia e alla vendita dei diritti per tutta l’area di lingua castigliana – che, se non sbaglio, è la seconda lingua più parlata al mondo, quindi è possibilissimo che il romanzo venga tradotto anche in altri Paesi. Si è trattato, com’è giusto che fosse, di un lavoro di squadra.

Tornando al Premio, ti spaventa di più il confronto con un autore-fantasma come Elena Ferrante o la concorrenza dei grandi gruppi editoriali? Come vivrai la sfida?

Trovo molto divertente la definizione di autore-fantasma che hai affibbiato alla Ferrante. Vorrà dire che per farcela chiameremo i Ghostbusters. A parte gli scherzi, se devo essere sincero, mi spaventano tutti e non mi spaventa nessuno. Il libro ha avuto oltre cento recensioni, su tutte le principali testate, il che significa più rassegna stampa del 90% degli altri concorrenti, e senza nemmeno essere uscito per una

major, il che significa che ha una sua forza. Insomma, credo nel mio libro e sono convinto che possa giocarsela con chiunque. Se un romanzo come questo – pubblicato da un editore indipendente, il cui unico parametro è la qualità dei testi – riuscisse a finire in dozzina, farebbe onore anche allo Strega in sé. Vorrebbe dire che badano a come vanno effettivamente le cose, e non solo alle logiche di potere.

La notizia dello Strega arriva a pochi mesi dalla notizia della vendita dei diritti cinematografici del libro alla Redibis di Daniele Segre e Daniele De Cicco: quale delle due ti ha stupito o emozionato maggiormente?

Non so, il mio romanzo è pieno di riferimenti al cinema, quindi in un certo senso strizzava già l’occhio a quella forma d’arte. Ho sempre sperato che uno dei miei libri, un giorno, potesse diventare un film, ma non pensavo che sarebbe accaduto con Stalin + Bianca. Per quanto riguarda lo Strega, direi che vale lo stesso discorso.

Oltre alla prossima trasposizione cinematografica, i diritti di Stalin + Bianca, lo ricordiamo, son stati venduti per la traduzione in castigliano alla Rey+Naranjo. Temi di più il pubblico ispanofono, quello delle sale cinematografiche o la giuria dello Strega?

Penso, francamente, che un autore non debba mai e poi mai temere il suo pubblico, qualunque esso sia. Se non ci fosse il pubblico, i nostri lavori sarebbero degli specchi e basta, oppure una forma di masturbazione. Senza i lettori, gli autori sarebbero soltanto dei pazzi che parlano da soli. Questa è una cosa che molto spesso tendiamo a dimenticare. Il pubblico è libero di farsi una sua opinione – positiva o negativa che sia – ma è basilare per l’esistenza e la diffusione dell’opera.

Stalin + Bianca si caratterizza per l’assenza dei nomi di città, Paesi, e per una contestualizzazione temporale “poco nitida”: questo favorisce l’adattamento della storia su altri media o in altre culture?

Assolutamente sì, o almeno questa era la mia intenzione. Volevo che chiunque, in qualunque forma, potesse riconoscersi nella mia storia. Mi piaceva pensare che il lettore, ma più in generale il fruitore di Stalin + Bianca, potesse avere un ruolo attivo nei confronti dei personaggi, delle ambientazioni, della cronologia degli eventi, eccetera. Non volevo che leggesse la mia storia e basta, con lo stesso spirito con cui si guarda un programma in TV. Volevo che ne fosse parte, che potesse proiettarci sopra il suo vissuto e le sue esperienze. Sapevo fin dall’inizio che questo tipo di approccio sarebbe stato rischioso. C’era il pericolo di risultare generici oppure approssimativi. Ad oggi, però, stando ai riscontri che ho avuto, posso dire che l’esperimento è riuscito.

In altre interviste hai parlato della tua passione per il cinema e dell’intenzione di avviare una carriera da sceneggiatore o regista: lo Strega potrebbe convincerti a continuare nella narrativa o il cinema rimane un obiettivo primario?

Continuerò sempre a scrivere libri, indipendentemente da come e quanto lavorerò nel mondo del cinema. La narrativa – per me, per la mia vita, per il mio equilibrio – è davvero troppo importante. Quando non scrivo sto male, come le piante che appassiscono se non le bagni. È una specie di forza superiore a cui mi aggrappo, sia nel bene che nel male, allo stesso modo con cui i credenti si aggrappano alla fede.

Qual è, in definitiva e secondo la tua opinione personale, il segreto del successo di Stalin + Bianca? Che funzioni come libro – per la trama, lo stile, i personaggi – o perché descrive tensioni molto contemporanee in cui è impossibile non identificarsi?

Non saprei, è difficile da stabilire. Thoreau diceva che il vero successo è fare della propria vita ciò che si desidera. Io volevo scrivere questa storia – la storia d’amore e di viaggio fra due adolescenti con diversi problemi – e l’ho fatto con un certo trasporto, credendoci fino in fondo. Penso che il lettore abbia apprezzato la mia sincerità. Volevo spiegare cosa significhi essere giovani oggi, nel 2015. Ero stufo di leggere romanzi di formazione scritti da autori in crisi di mezz’età. È ora che miei coetanei si riapproprino della loro voce, sia collettiva che individuale.

Poetitaly al Palladium: “Saperi”, per Elio Pagliarani

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POETITALY al PALLADIUM

  
Cinque appuntamenti dal 23 febbraio all’8 giugno 2015 al Teatro Palladium di Roma
piazza Bartolomeo Romano, 8 – tel.  06 57067761
 

 Lunedì 23 marzo 2015

SAPERI

 in collaborazione con  Università di Roma Tre e Teatro Palladium
ore 17:30 Incontro-discussione sul tema e omaggio a Elio Pagliarani 
partecipano Cetta Petrollo Pagliarani, Andrea Cortellessa, Andrea Inglese, Arturo Mazzarella, Francesco Pecoraro e Marco Piazza. Coordina Paolo D’Angelo
ore 20:30 letture con Durs Grünbein, Andrea Inglese, Vincenzo OstuniAnna Maria CarpiMarco GiovenaleElisa Davoglio e Francesco Pecoraro

Durs Grünbein, Jürgen Bauer / Suhrkamp Verlag
INGRESSO GRATUITO
maggiori informazioni sul sito www.poetitaly.it 
 
ESILI, SAPERI, INTERAZIONI, CONFLITTI e DESIDERI: queste le cinque evocative parole chiave degli appuntamenti, sui temi-guida prescelti per ciascun evento tra reading, dibattiti e incontri di approfondimento sulle principali discussioni di poetica degli ultimi anni.
Dopo la prima edizione nel quartiere romano Corviale, dove la manifestazione ha avuto luogo nel settembre 2014 riscuotendo un buon successo di pubblico e di critica, l’itinerante POETITALY cambia “casa” e torna ancora nella Capitale con i nuovi 5 appuntamenti di POETITALY al PALLADIUM, ospitati nel cuore della Garbatella all’interno del primo tra i teatri romani di ricerca, grazie alla collaborazione con l’Università Roma Tre.
Oltre ad importanti voci della poesia italiana come Valerio Magrelli, Patrizia Valduga, Milo De Angelis e Gabriele Frasca (con i ResiDante), durante la rassegna saranno presenti anche grandi poetesse e poeti stranieri del calibro di Mariella Mehr e Durs Grünbein per dare voce a ideazioni performative all’interno di serate in cui si eseguiranno delle vere e proprie messinscene teatrali della parola poetica, con l’apporto delle arti figurative e delle nuove ricerche musicali.
Un esperimento, questo, che recupera la tradizione della multimedialità già propria delle avanguardie, pur superandone un certo rigore elitario ed aprendosi ad un nuovo pubblico, il più possibile composito, che va dagli studenti ai tradizionali fruitori di esperienze teatrali di vario tipo.
L’intento, infatti, è quello di fissare lo sguardo su un panorama in costante evoluzione, con una prospettiva il più possibile ampia e spettacolare, anche in vista della ridefinizione dell’io poetico.
La rassegna è curata da Simone Carella in collaborazione con Andrea Cortellessa, Gilda Policastro e Lidia Riviello e rappresenta una nuova tappa del progetto POETITALY, un format pensato come organismo “nomade” capace di portare la vitalità e trasversalità della poesia italiana contemporanea a contatto con molteplici luoghi della penisola, riservando una particolare attenzione alle diverse e variegate “periferie” d’Italia.
Tutti i video di Poetitaly al Palladium del 23 febbraio 2015: 
in collaborazione con 
Roma Tre, Teatro Palladium, Dipartimento Filosofia Comunicazione e Spettacolo, Doc Station, ESCargot.

cinéDIMANCHE #20 VIGO&KAUFMAN À propos de Nice [1930]

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di Orsola Puecher

 
Fra il 1920 e il 1930 per molte giovani speranze del cinema il genere “ritratto di città” costituiva spesso una delle prime occasioni di lavoro e di importante esperienza formativa: con ⇨ Manhatta [1920] di Sheeler e Strand, ⇨ Berlino. Sinfonia di una grande città [1927] di Ruttman, ⇨ L’uomo con la macchina da presa [1929] di Dziga Vertov lidouavviene l’incontro tra documentario e avanguardia, fra cinema sperimentale e cinema verità e il paesaggio urbano diventa un laboratorio di innovazione formale, attraverso la trasformazione artistica della realtà quotidiana. Nel 1929 Jean Vigo [1905-1934], un’infanzia complessa, segnata dall’assassinio in carcere, fatto passare per suicidio, del padre, l’anarchico Eugeni Bonaventura de Vigo i Sallés, che si firmava Almereyda, anagramma di “y’a la merde“, dalla salute fragile e da lunghi anni di collegio, con i soldi ricevuti dal padre dell moglie, Elizabeth “Lydou” Lozinska, fa un viaggio a Parigi e si compra una cinepresa professionale di seconda mano Debrie Parvo 35 mm. Per qualche settimana fa l’assistente volontario a Léonce-Henry Burel, direttore della fotografia dei film di Abel Gance. Poi fa ritorno a Nizza, in Costa Azzurra, dove è costretto a vivere a causa dalla tubercolosi che lo affligge dagli anni dell’adolescenza e che lo porterà di lì a pochi anni, il 15 ottobre 1934, alla morte.
Lydou_JeanDue giorni dopo, un venerdì, Jean Vigo morì poco prima delle nove di sera, mentre dal suo appartamento si poteva sentire “Le chaland qui passe” suonata da un musicista di strada all’incrocio fra la rue Gazan e l’Avenue Reille. Lydou, stesa di fianco a lui, lo teneva fra le braccia e sembrava non essersene accorta. Poco dopo sfuggì agli amici e si precipitò per un lungo corridoio verso una camera in fondo. Fu riacciuffata mentre stava per buttarsi dalla finestra.[P.E. Sales Gomes Jean Vigo Le Seuil, 1957]

 

Lys GAUTY Le chaland qui passe [1933]

Questa canzone molto in voga in quegli anni, versione francese di Parlami d’amore Mariù del 1932, scritta da Cesare Andrea Bixio ed Ennio Neri e cantata da Vittorio De Sica nel film Gli uomini, che mascalzoni…, fu imposta dalla casa di produzione in sostituzione alle musiche di Jaubert per il film di Vigo L’Atalante, che con questo titolo, Le chaland qui passe, sarà ridistribuito nel settembre del 1933, massacrato da moltissimi tagli indiscriminati, dopo la tiepida accoglienza alla prima del 25 aprile dello stesso anno.


Dunque, tornato a Nizza, Vigo, alla ricerca del soggetto per il suo primo film, legge molto sulla storia della città, prende appunti, spunti, fissa inquadrature che gli vengono in mente camminando per le strade e osservando le persone, con un pensiero visivo, un’immaginazione istintivamente cinematografica che, con sguardo poetico e ritmico, cattura il movimento del mondo e della gente.
 
JEAN VIGO

vigo

da Pierre Lherminier
Jean Vigo Cinema d’aujourd’hui
Seghers 1967 [pag. 70-1]

 

I viaggiatori escono dalla stazione/il viaggiatore si siede sulla valigia/i valletti/gli impiegati d’hotel/i taxi/le automobili/l’interprete/una porta d’hotel che si apre/i facchini /un fattorino d’albergo che corre/si spazza una terrazza, una sala di ristorante/il maître d’hotel si aggiusta la cravatta/gli hotel visti a rovescio si raddrizzano/un ragazzo si aggiusta la riga/l’albero storto si trasforma in palma/una palma/la ramazza dello spazzino/l’onda che porta dell’immondizia sulla spiaggia/lo spazzino, che spazza/il casinò del molo/l’immondizia in piccoli mucchi/vicino allo spazzino/in grossi mucchi/vicino allo spazzino/il mare/la scopa/lo spazzino se ne va/spinge la sua vettura/vista della passeggiata vuota e senza alberi/il cielo/la biancheria/le poltroncine sono pronte/il mare/i gabbiani gli alberi allineati/il cielo/i bucati/i giocatori escono dal casinò/. Un giocatore/i bucati al vento/l’acqua scorre/l’immondizia nell’acqua/una donna mette le braccia al collo di un giocatore/la casa nella città vecchia con la vite rampicante/le monete che rotolano/il battesimo nella città vecchia/i bambini che corrono/le monete/la ruota della roulette/il gioco della morra nella città/i fiori con un supporto/prendersi cura dei fiori/la coltivazione dei fiori/la battaglia dei fiori/colpo di scopa/le armi di Nizza.


 
La visione poetica si trasforma nel film À propos de Nice grazie all’incontro con il direttore della fotografia russo Boris Kaufman.
 

Jean Vigo entra nella mia vita un giorno d’autunno del 1929. Non mi ha mai più lasciato, spiritualmente. In quel momento, in cui l’industria cinematografica mancava di coraggio, penso spesso alla maniera in cui Vigo si è buttato nella produzione del film.

da Bernard Chardère
Jean Vigo
SERDOC, 1961 [pag.28]

 
Lo spirito, la vivacità e la voglia di cinema di Vigo si unisce all’esperienza artistica e professionale di Kaufman, fratello tra l’altro di Dziga Vertov, che collaborerà con lui in altri due film della sua breve, fulminante e luminosa carriera, Zéro de conduit [1933] e L’Atalante [1934].
 

Lavorare con Vigo, il suo gusto sicuro, la sua integrità, la sua profondità e la sua leggerezza, il suo anticonformismo, l’assenza di routine di qualsiasi tipo, mi fecero entrare in un paradiso cinematografico.

[Chardère op. cit. pag. 33]

 
vigo
 

BORIS KAUFMAN

kaufman

da Bernard Chardère
Jean Vigo
SERDOC, 1961. [pag. 33]

 

Il punto di vista documentato. La vecchia Nizza, le strade strette, i bucati appesi fra le case, il cimitero barocco. I piaceri. Le regate. Le navi da guerra in rada. Gli hotel. L’arrivo dei turisti che abbiamo girato in stop motion con delle bambole da quattro soldi e un trenino per bambini. Le fabbriche. La vecchia donna. La giovane donna che si cambia i vestiti (effetto speciale) in piena passeggiata e alla fine appare nuda. Il funerale, girato in stop motion per velocizzare questa cerimonia poco piacevole per i turisti. I coccodrilli. Il sole. La donna struzzo. Il Carnevale, la battaglia dei fiori, le danze al rallentatore. Le ciminiere minacciose sopra questa assurda allegria.


 

 
À propos de Nice, il ritratto di città di Jean Vigo, comincia con un cielo notturno di fuochi d’artificio e una ripresa aerea, mosaico di piazze, strade, porto e mare, seguita da una sequenza di immagini da film di animazione per bambini, con un trenino giocattolo che deposita due turisti pupazzetti su un tappeto da roulette, poi spazzati via dal croupier. Il ritmo alternato delle brevi scene, montate per contrasto, racconta due mondi opposti: i giardinieri che potano e lisciano le palme della Promenade des Anglais, i camerieri che puliscono i tavoli e dispongono gli ombrelloni, gli spazzini che lavano le strade, sembrano preparare la scenografia per i turisti oziosi, i vecchietti catatonici venuti a svernare in Costa Azzurra, che presto popoleranno la città ancora vuota, indolenti e senza meta. Pupazzi di Carnevale, vengono anch’essi allestiti e dipinti per la sfilata dei carri. Nizza è filmata con una grande varietà di angolazioni inconsuete: da sopra, da sotto, anche in rotazione, disorientando le normali rappresentazioni da cartolina. La macchina da presa segue gli svaghi e i passatempi dei turisti con movimenti repentini attraverso la folla, spesso vicina al terreno e poi a zig zag tra i passanti; riprende lustrascarpe, venditori di cravatte e occhiali, fotografi di piazza, artisti di strada, una mendicante che mostra il suo bambino a una giovane signora elegante, che gira la testa schifata a lei e all’obbiettivo di Kaufman e Vigo. Riprese sportive di barche a vela, tennisti e giocatori di bocce in contrappunto con una corsa di macchine. La camera forse nascosta cattura lo scorrere del mondo: portare a spasso un cagnolino, bere, fumare, lo sbocconcellare annoiato al bar, spettegolare, leggere giornali, dormire. Il voyerismo è portato all’estremo, con ironia, nella famosa sequenza della donna che cambia vestiti in sovrimpressione, restando nuda nella stessa posa di neutra elegante nonchalanche. Le architetture liberty degli hotel candidi, in riprese ubriache, si contrappongono ai vicoli dei poveri, stretti, con camini storti, fili di bucati al vento, spicchi di cielo lontani. Al lavatoio donne lavano e immergono i panni nell’acqua torbida di sapone, in grandi teglie portate in bilico sulla testa arrivano le pizze di farina di ceci, i bambini per strada giocano alla morra con serio accanimento, i mercati popolari brulicano. Miseri i vestiti, mani deformate, volti mangiati da croste, pattume e rivoli di fogna, un gatto, elegante e incontaminato, come solo i gatti sanno essere, fra i rifiuti. Mentre nella città dei ricchi si balla, con abiti di lustrini e pose plastiche, sorrisi alla macchina da presa, inizia la sfilata dei carri allegorici, sguaiata e allegra, che dirompente domina il resto del film. Il Carnevale offre la visione di un mondo alternativo all’ordine costituito, di cui è un parodia grottesca e beffarda.
 

 
I pupazzi giganti di cartapesta rappresentano un eccesso sfrenato, un disordine controllato concesso una volta all’anno, e le ragazze sul carro si dimenano lascive, riprese dal basso, nel vorticare scomposto di cosce e mutande di un cancan al rallentatore, ben diverso dagli stilizzati Walzer da sala. Fra di loro balla, in un fugace cameo, alzando le gambe, Vigo stesso travestito da clown. Il regista che filma entra nel mondo che vuole rappresentare. Non è più un osservatore imparziale della realtà, ma sceglie una parte precisa, il Carnevale, in cui schierarsi. Ma l’allegria si vena progressivamente di minaccia e malinconia, appare una profetica parata militare, navi da guerra in rada nella baia di Nizza. Un cimitero monumentale sembra aspettare il futuro arrivo dei corpi dei ballerini, un funerale accelerato, come una scena di film comico, si contrappone alla sfrenatezza del Carnevale, in un movimento collettivo verso la morte di una società che, inconsapevole, ha i giorni contati. Le consuete scene sulla Promenade si mescolano con croci e tombe, statue addolorate, angeli barocchi, simboli di dolore, e in un verticalismo di ciminiere fumanti il viso maschera di una vecchi signora sembra essere inghiottito da una fornace di fiamme, fuoco in cui tutto pare bruciare e annullarsi: un grande forno crematorio in anticipo.
 
cinéDIMANCHE

 
cd Nella pausa delle domeniche, in pomeriggi verso il buio sempre più vicino, fra equinozi e solstizi, mentre avanza Autunno e verrà Inverno, poi “Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera“, riscoprire film rari, amati e importanti. Scelti di volta in volta da alcuni di noi, con criteri sempre diversi, trasversali e atemporali.
 

Inaugurata la descrizione del mondo

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cornice1-800x600E’ stata inaugurata oggi la mostra Descrizione del mondo presso l’Unione Culturale Franco Antonicelli (TO)

Si tratta di un’installazione collettiva di oggetti-reperti (pagine di libri, fotografie, fogli scritti e disegnati a mano, registrazioni audio) del modo “analogico” di descrivere il mondo. Ogni descrizione del mondo è sempre, contemporaneamente, una sua complicazione, un’estensione materiale, una stratificazione ulteriore. A questa impresa contribuiscono poeti e artisti da tutta Italia.

La mostra apre la LIBERA OCCUPAZIONE POETICA in occasione della giornata mondiale della poesia

Via Cesare Battisti, 4/b – Torino
(ingresso libero e gratuito)

Il sito della mostra:

www.descrizionedelmondo.it

 

Anelli

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Jeanloup Sieff
Jeanloup Sieff
Jeanloup Sieff

di Vittoria Baruffaldi

(una rilettura del saggio “Della seduzione” di Jean Baudrillard)

Viene alla mia scrivania e appoggia le mani sui fogli sparsi: sono mani con anelli d’argento. Io metto la mia mano sinistra, tutta d’oro – dall’indice all’anulare -, accanto alle sue. È la cosa più stupida di tutte questa delle mani d’argento e d’oro vicine.

La seduzione procede così, prima per gradi – per accenni lenti -, e poi tutta di un colpo.

Le interviste possibili: Marco Missiroli

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2015-02-17-coverattiosceniinluogoprivato-thumb

di

Bernardo Zannoni

Il libro Atti Osceni in luogo privato di Marco Missiroli mi ha strappato poche ore, due serate disteso sul divano e un pomeriggio di pioggia e nuvoloni. Quel tempo però ha saputo prenderselo con un certo fascino, con un mistero che soltanto lo slittare dei numeri a bordo pagina ha saputo farmi notare.

E’ una storia ordinaria quella di Libero Marsell, ingenua, scanzonata, svelata da qualsiasi intrigo che un romanzo possa tendere; si può dire che la direzione da seguire è una soltanto, quella della vita del protagonista, l’accompagnare il tempo che da bambino lo farà uomo.

E’ una bella passeggiata, quasi non fai fatica a vedere come da un bacio innocente si passa ad un amore vero e proprio, tutto si manifesta con una naturalezza tale che non può fare a meno di farti ricordare, vivere o rivivere quelle esperienze.

E’ un libro che ha il dono di far sovrapporre l’io di chi lo sta leggendo con quello di chi lo racconta, tant’è che quando l’ho finito, lungi dall’essere edotto di qualsivoglia verità oppure illuminazione, ho guardato però a quelle pagine con la stessa dolcezza con la quale si carezza una memoria intima, per un poco ho vissuto anch’io a Parigi e ho imparato ad amare.

Dopo aver letto il tuo libro ho pensato alla tua persona (e d’altronde, ci conosciamo); perché la necessità di scrivere un libro che parlasse degli atti osceni, e in particolare cosa intendi con quest’espressione?

 Avevo bisogno di prendermi le mie libertà. I miei libri precedenti seguivano una struttura ed erano impostati in un certo modo, erano imprigionati in un rigore che li rendeva senza una vera liberazione, sia per me quando li ho scritti che per chi li ha letti. Questo libro non segue apparentemente alcuna forma, o meglio lo fa, ma sotto altri punti di vista: ho cercato di essere più spontaneo possibile e di non filtrarmi in troppi giri di parole, non mi riferisco all’oscenità in sé, ma alla naturalezza con la quale l’ho scritto.

Gli atti osceni sono le piccole libertà che ognuno si concede in un luogo suo, in un momento che gli appartiene, sono necessità che non possono essere mostrate a tutti, altrimenti perderebbero il loro valore.

 Ci sono degli elementi collegabili con la tua vita? Quanto il protagonista (e più in generale la sua storia, i suoi incontri, le sue figure di riferimento) ha a che vedere con te?

 Assolutamente si, come Libero, ho perso la verginità molto tardi. A Rimini di solito si ha una prima esperienza all’età di quindici, quattordici anni, troppo presto per dare un peso reale ad un gesto del genere. L’aver aspettato un po’ di più prima di lasciarmi andare mi ha permesso di imparare ad osservare il femminile, a farmi un’idea della donna più consapevole, matura, per quanto innocente. Ho la stessa timidezza di Libero Marsell, lo stesso approccio tardivo, il rosicchiare il cuore delle donne che, come lui, non avevo all’inizio, ma ho maturato nel corso degli anni.

A proposito dell’amore contemporaneo e del perdere la verginità a quattordici anni, qual è il tuo parere sulla precocità con la quale si impara ad amare ai giorni nostri? In che modo ha influenzato la tua storia?

 Se Libero fosse cresciuto ai giorni nostri avrebbe scopato molto prima, e io non avrei scritto questo libro. Oggi la tecnologia è arrivata a velocizzare praticamente tutto, relazioni sentimentali comprese. I social network bruciano determinate tappe di un rapporto ma rallentano tragicamente un’educazione sentimentale che non si assimila ad un’età così giovane. La maturità sessuale va raggiunta gradualmente rispettando i suoi tempi e la crescita del cuore, se questa arriva in maniera forzata, quest’ultimo rischia di rimanere atrofizzato.

Perché hai scelto la scena di Parigi per la tua storia? So che abiti a Milano…

 Parigi è sempre stata una città che mi ha seguito nel corso dell’infanzia; ho dato lì il mio primo bacio all’età di quattordici anni, durante uno scambio scolastico. I francesi, la loro cucina, la libertà che hanno avuto nella cultura mi hanno destato da subito un profondo fascino, un’attrazione che sento ancora adesso.

Camminare a Parigi, poi, è molto diverso che camminare a Milano; se nella prima il movimento sussiste da sé, nel senso che fare una passeggiata ha un valore, nella seconda non ci si sposta se non per andare da qualche parte.

 Già partendo dal fatto che questo è un racconto diverso dai tuoi precedenti appunto perché divincolato da qualsiasi struttura, perché ha dato al protagonista il nome di Libero? E in che modo Anna glielo restituisce?

 Libero era il nome di mio nonno, un contadino di Ravenna. Appunto perché legato alla stessa terra che lo teneva in vita non è mai riuscito a sentirsi all’altezza del suo nome né in grado di poter cambiare la sua condizione. Ho voluto creare un personaggio che gliela rendesse, quella libertà così agognata, che desse dignità al suo nome.

Anna è l’insieme di tutte le donne del protagonista; non sarà la più simpatica, né la più bella, né la più folgorante di quelle che ha avuto, ma alla fine lo fa essere ciò che è.

Bello. E quindi qual è la libertà in un rapporto, per te?

 La libertà in un rapporto è quella di diventare se stessi, mentre quando si è soli, paradossalmente, spesso non lo si è; stando con alcune persone si può diventare altro da sé, con altre invece quello che siamo sempre stati, e Anna è una di queste ultime.

A proposito della tua candidatura al premio Strega…

 Io e Feltrinelli abbiano deciso che Atti osceni in luogo privato non andrà, è un libro che può fare la sua strada in altre maniere.

L’ultima domanda che ti serbo è giusto un po’ spinosa. Mica un’intervista dev’essere tutta in discesa. Sento spesso accusare gli autori formatisi nelle scuole di scrittura di non scrivere libri di “pancia”; tutto fumo e niente arrosto, quindi, molta struttura e poca anima. Cosa ne pensi al riguardo?

 E’ vero, alcune scuole di scrittura sono odiate per molti motivi; io ne ho frequentata una come studente lasciandola però a metà, ci sono tornato quest’anno coprendo il ruolo d’insegnante. Trovo che siano un ottimo banco di prova per misurarsi con se stessi e per approfondire la propria visione del mondo. Non sono scuole dove si impara il talento, quello deve essere preesistente al percorso che si è scelto, si cerca però di direzionarlo dove è più propenso a manifestarsi. Sono ambienti che possono servire a determinati tipi di personalità, ma che consiglio comunque di provare a chiunque ne senta la vocazione.

 

 

 

Miti Moderni/10: la rete

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uvotavotadi Francesca Fiorletta

I giorni della ripresa sono così.

Aveva provato a raggiungere il concerto, c’era il sound check, gli artisti con la chitarra, gli artisti obesi, svaccati, a bere birra intorno a un tavolo, giocare a carte, con le nuvole grosse dietro, pesanti, marroni, un brutto effetto dell’ iPhone, aveva addosso i pantaloni verdi, un top nero sdrucito dai carichi in lavatrice, senza ammorbidente, continuava a sudare, ha tolto i pantaloni senza curarsi delle serrande alzate, la donna grassoccia, dal palazzo di fronte, la fissava immobile, non era più tanto giovane, i capelli grigi raccolti da cento mille bigodini, la sigaretta in bocca, non batteva ciglio, aveva scelto una gonna lunga coi merletti, le infradito ai piedi.

Un amore crudele (Piero Pieri)

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di Francesca Tuscano

Nei romanzi di Piero Pieri il corpo, nelle varianti espressive della violenza e del sesso, ha sempre un ruolo centrale, anche se con funzioni stilistiche diverse. In La notte di Stalin (Stampa Alternativa 1999) e in Furio (Allori 2004), diventa oggetto di rappresentazione, grottesca e palesemente metaforica; in Vaporidis in carcere (Fernandel 2009) è elemento di denuncia esistenziale e politica; nei Nouveaux Anarchistes (Transeuropa 2010) è segno esplicitamente politico e sociale (con alcune sfumature esistenziali). Il corpo è luogo di incontro, di conflitto, di violenza, di dolcezza, di conoscenza, di mercificazione e spettacolarizzazione (nel senso debordiano del termine). Ed è, sempre, parte di quel sistema comunicativo che Pasolini aveva individuato nella “Realtà”. I corpi che Pieri racconta, dunque, parlano, dicendo cose che il linguaggio verbale non potrebbe mai dire.

Nel suo ultimo romanzo, Un amore crudele (Marsilio 2014), l’autore fa ancora un passo avanti, concentrandosi sulla funzione espressiva della lingua del corpo. Rende quella lingua poetica, cioè eversiva della banale comunicatività, straniante. Il diciannovenne René e la sua quarantenne professoressa d’inglese, Anna (i protagonisti) usano il corpo per dirsi il dolore di esistenze sentimentalmente inespresse, “ibernate” dalle violenze ricevute, che hanno reso l’uno un diverso da controllare e umiliare, e l’altra una donna ferita in modo irrimediabile, proiettata verso l’autodistruzione. Con il codice del corpo Anna trasmette a René la disperazione e l’umiliazione, ancora pulsanti, per la violenza sessuale subita dall’ex marito e reiterata durante il matrimonio attraverso pratiche sadiche. E con lo stesso codice René parla dell’anaffettività (non meno violenta) nella quale è cresciuto. Esprimere tanto dolore non si può attraverso una “normale” comunicatività del corpo. L’autore lo sa, e perciò amplia semanticamente il codice dei suoi personaggi, concentrandosi sul tratto stilistico attraverso il quale il corpo-segno esprime la sua massima potenzialità espressiva – il sesso. Il momento in cui si conosce la violenza del possedere e la grazia dell’essere posseduti (ancora Pasolini) è quello che permette che i corpi si confrontino nella nudità che annulla la norma sociale e libera le pulsioni più profonde. Così la comunicazione diventa poesia. Il dolore distruttivo di Anna, però, ha bisogno di livelli espressivi sempre più alti, che il sesso “normale” non soddisfa. Perciò, lentamente e inesorabilmente, riesce ad ottenere da René la condivisione di esperienze di volta in volta più estreme. Quando, infine, il giovane amante la sottopone alla stessa violenza che rifiutava dal marito, la donna apre, con ferite reali, le ferite interiori. E René vi penetra, (come nel possesso dell’intero corpo di Anna), giungendo a toccare il dolore della donna, che ora può mescolare al suo – fluido con fluido, sofferenza con sofferenza (male che fa male ma cura il male):

Abbiamo mescolato parole e fluidi, sadismi orgogliosi e masochismi non rimossi. […] Due corpi solidali in ogni dettaglio, complici in ogni aberrazione. […] Il male è una percezione fisica che invade la mente senza creare problemi; il male è un assassinio condiviso.1

Il sadomasochismo, per i due, è un poetico grido d’amore, la richiesta non normata di un risarcimento emotivo e sentimentale. René ne acquisisce consapevolezza proprio quando comprende il limite della parola di fronte al linguaggio del corpo:

In Anna parla il rumore di una carne remota. Il suo dolore non è dissimile dal mio. […] Di questo dolore possiamo parlare solo per immagini frammentarie, celebrazioni discorsive, oscure evocazioni. Siamo sottomessi e dipendenti, nonostante lo strumento del linguaggio[…] Non posso liberarla da ciò che non conosco. […] Solo quando infierisco sul suo corpo Anna si rilassa completamente, abbacinata da tanta crudeltà regalata.2

Il ragazzo crudele cresciuto nella periferia, che non conosce gentilezza e che non possiede mediazioni intellettuali, sa usare il linguaggio della violenza, necessario ad Anna quanto quello della dolcezza, perché il sadismo l’ha già conosciuto sulla sua pelle, nei rapporti famigliari e sociali («Lo schiaffo è il mio catechismo, la mia regola»), e ne conosce le regole comunicative. Ma, com’è noto, in un rapporto sadomasochistico è il masochista colui che detiene realmente il potere – il sadico non è che uno strumento. Anche nel momento in cui subisce il sadismo di René, la professoressa non fa uscire il suo studente dal ruolo di ragazzo e di “sottoposto” intellettuale, oggetto necessario per il proprio autolesionismo, la propria autodistruzione. Gradualmente René inizierà a capirlo, e l’amore finirà quando la violenza del corpo sul corpo perderà la sua poeticità, per diventare lingua standard. I corpi non saranno più sacri, perderanno il valore di segni espressivi, diventeranno cose, sulle quali esercitare rabbia e frustrazione. Anna e René non potranno più dirsi nulla quando ciò che era straordinariamente loro diventerà quotidianità distruttiva (a quel punto, quale differenza potrebbe esserci tra il sadismo di René e quello dell’ex marito di Anna?). Nella standardizzazione della poesia, René deve accettare il fatto che il suo dialogo con Anna si è trasformato in un monologo della donna, all’interno della cui contorta prospettiva autodistruttiva egli ha la funzione di un attore che interpreta il ruolo delle fobie della “professoressa”:

Certo che capisco. Sono il tuo rovescio. La reincarnazione del marito. Capisco tutto, cara Anna, e quel che mi chiedi di fare lo faccio. […]Ora che ti hanno tolto Nadia sono finiti i discorsi accademici e le simulazioni sociali. Per questo mi hai chiesto di bruciarti con una sigaretta. Il dolore allo stato puro. La tortura che rischiavi, se i fascisti ti avessero presa con un messaggio per il capo brigata. Sono io il tuo fascista. È questo, Anna, che non ti perdono.(126)

La crescita politica ed intellettuale del ragazzo si svincolerà dalla professoressa, ed in Anna s’interromperà la crescita emotiva e sentimentale. Entrambi tenteranno la strada della normalità, il ritorno all’ibernazione del proprio mondo sentimentale.

Sullo sfondo della società degli anni Sessanta, soffocante ma già pronta ai grandi cambiamenti del ’68, Anna e René vivono importanti esperienze politiche (come un viaggio nella Grecia dei colonnelli, per portare aiuti alla resistenza) ed esistenziali, combattendo come possono contro il mondo piccoloborghese che li circonda (sia quello “di periferia” del ragazzo che quello “intellettuale” della donna). Ma il desiderio (piccoloborghese) di normalità può essere più forte dell’amore, e proprio Anna lo dimostrerà. L’intellettuale impegnata politicamente, che ha condotto il suo studente verso la letteratura quanto verso il sesso estremo, lascerà René per un collega della sua stessa età e del suo livello intellettuale. Ma, molti anni dopo la fine del loro amore, sarà René, ancora una volta, a permetterle di dire con il corpo il male di vivere, consentendole di completare il montaggio della sua esistenza con un ultimo e definitivo atto di autolesionismo. René, ormai fisicamente libero dalla presenza dell’amante-madre, s’immagina un nuovo amore, con la figlia di Anna, un amore finalmente normale. Ma, ci avverte una voce fuori campo, è proprio quella la via della depravazione.

1 Un amore crudele, p. 64.

2 Ivi, p. 47.

se fossi un intellettuale

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di Giacomo Sartori

 

se fossi un intellettuale

farei ogni mattina

(prima o dopo la defecazione?)

seriosi gargarismi cerebrali

esegetici o anche prescrittivi

come usano gli intellettuali

Cinque domande sul bookpride

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poster_def_donna_cornice2a cura di Giorgio Mascitelli

( Dal 27 al 29 marzo a Milano, ai Frigoriferi Milanesi in via Piranesi 10, si terrà il bookpride, fiera dell’editoria indipendente, promossa dall’osservatorioa degli editori indipendenti ( ODEI). Ho fatto qualche domanda allo scrittore Pino Tripodi di Doc(k)s, tra gli organizzatori, sull’iniziativa)

Il 27-28-29 marzo prossimi a Milano, si terrà il book pride, la prima fiera degli editori indipendenti, promossa dall’osservatorio degli editori indipendenti (ODEI) e organizzata da doc(k)s – strategie di indipendenza culturale. Si tratterà soltanto di una fiera, in cui sarà possibile trovare libri della produzione indipendente magari non sempre facilmente reperibili con l’accompagnamento di alcuni eventi culturali, oppure c’è un progetto più ampio?

Spero non rimanga solo una fiera. Si tratta di segnare una svolta importante nel processo di indipendenza culturale, di uno strumento – tanti altri ne dovremo inventare – per sopravvivere in un mercato, quello editoriale, che è oligopolistico nella produzione e semimonopolistico nella distribuzione. Senza culture, organizzazioni e strumenti dell’indipendenza culturale non sono a rischio solo tante case editrici; il rischio concreto è la distruzione della bibliodiversità. Il paesaggio urbano – con la distruzione metodica delle librerie indipendenti – già registra una forte riduzione della bibliodiversità. I media registrano una omologazione culturale senza precedenti. Ma anziché sollevare solite lagnette contro la barbarie, contro il libro spazzatura – riflesso della massificazione del junk food – è forse il momento di intraprendere pratiche di cooperazione con cui salvaguardare l’autonomia di ciascuno sviluppando l’indipendenza di tutti.

 

Come mai è stata fatta la scelta di non mettere un biglietto d’ingresso per la fiera?

In un mercato che si contrae anche per i morsi della crisi, far pagare un biglietto ci sembra eccessivo. Che un lettore debba pagare per poter comprare – è ciò che avviene in qualsiasi fiera – è inoltre un segno della protervia dell’organizzazione culturale ed economica dominante.  Bookpride non deve lucrare sui lettori, anzi li vuole aiutare ad emanciparsi dalla monocultura imperante, a diventare cooproduttori della comune indipendenza. Per fare ciò, per rendere possibile la più ampia partecipazione, abbiamo scelto di non far pagare il biglietto. BOOKPRIDE si finanzia con il pagamento degli stand degli editori. È uno sforzo economico che speriamo di sostenere. Non vi dovessimo riuscire, credo che nelle  edizioni dei prossimi anni dovremo studiare modalità di pagamento originali.

Negli ultimi decenni si è affermata una tendenza a considerare e a rivendicare, nel mondo dell’editoria, il fatto che il libro sia una merce come le altre, salvo per alcuni aspetti fiscali. Come si colloca il Book pride, rispetto a una tendenza del genere?

Ci sarebbe da fare un lungo discorso sulla peculiarità della merce. Discorso su cui la cooperativa doc(k)s fa molta attenzione. Tanto che per indicare il criterio che ci ha indotto a  organizzare l’enoteca indipendente all’interno del bookpride abbiamo scritto “L’oggetto vero della produzione non è la merce, ma è la vita”. Il libro, in quanto oggetto di scambio e di compravendita, è una merce. Come ogni altro prodotto, nella misura e nella modalità in cui viene scambiato, è indice di devalorizzazione cioè di riduzione della vita a merce. Ma la coda può e deve essere presa dall’altro versante cioè dal fatto che ogni merce – nel processo di progettazione, produzione, distribuzione – costruisce delle modalità d’esistenza. In ogni merce è possibile vedere con chiarezza le forme di vita che sono messe in gioco. Ogni merce è lo specchio fedele delle relazioni sociali e produttive. Chi intende trasformare queste ultime non può fare a meno di ripensare tutto il ciclo della merce trasformando se stesso come soggetto di relazione.

Il libro in questo discorso assume un’importanza particolare perché, come ogni altra merce, ha la sua peculiarità. L’assurdo del mercato dominante è pensare ogni merce semplicemente come merce-denaro. Il mondo dell’editoria dominante è pieno di gente che pensa: non dobbiamo vendere libri, ma spazi; non dobbiamo produrre libri, ma prodotti; non dobbiamo produrre cultura, ma confezionare cose facilmente leggibili e vendibili. È pieno persino di professionisti del libro – manager, direttori di collane, editori – che vanno fieri di non leggere neanche ciò che pubblicano. Così fanno male alla cultura del libro, certo, ma anche alla sua economia. In questo disastro, occorre rivendicare la peculiarità del libro, una merce in grado di riflettere immediatamente il grado di cultura, di civiltà, di complessità dell’organizzazione sociale.

Alcuni degli organizzatori, tra i quali tu, vengono dall’esperienza di Critical wine di una decina d’anni fa sempre a Milano. C’è un filo politico e culturale che unisce queste due iniziative?

Certamente. Partecipando a quell’esperienza, a quella successiva di Criticalbook&wine e a DeriveApprodi ho avuto modo di conoscere alcune filiere produttive importanti. In esse, nonostante le profonde differenze, accanto ai processi di concentrazione, di omologazione, di svalorizzazione dei prodotti sono nati formidabili esperienze di resistenza grazie alle quali si producono le vere eccellenze della cultura materiale e della cultura libraria di questo Paese. Queste esperienze anziché concentrarsi vanno diffuse, anziché entrare in concorrenza devono riuscire a cooperare. Hanno fatto di tutto per rimanere autonome, è arrivato il momento di divenire indipendenti.

Gli editori hanno lamentato in questi anni una flessione di vendite molto marcata, che non puo’ essere spiegata solo con la diffusione del libro elettronico, né tanto meno con la crisi generale, visto che il mercato librario aveva un andamento tendenzialmente anticiclico. Pensi che in un contesto del genere ci sia spazio per un circuito dell’editoria indipendente?

Sì, a condizione che gli editori indipendenti costruiscano spazi di produzione, di promozione e di distribuzione alternative a quelle dominanti. Per la filiera del libro dovrà chiarirsi quello che è già lampante nella filiera del food & wine: chi desidera cibarsi di spazzatura, vada pure nel supermercato del libro, chi invece vuole che produzione del libro e produzione di cultura siano più assorellati si rivolga agli editori indipendenti. Ciò vale anche per gli autori, i quali saranno chiamati a scegliere. Senza sviluppo delle reti d’indipendenza, l’eccellenza dell’editoria italiana continuerà a lavorare gratis per i gruppi oligopolistici, come già fa.

 

 

 

 

 

La curva del giorno nel giardino distopico

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Spazio Ostrakon

via Pastrengo 15 Milano

LA CURVA DEL GIORNO NEL GIARDINO DISTOPICO Reading di Biagio Cepollaro  il 19 marzo 2015 ore 19.00

innestato nella mostra del botanico artista Emanuele Magri

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Caro Emanuele,

sto immaginando La mia curva del giorno nel tuo Giardino distopico.Potrebbe essere un ulteriore innesto e trapianto la lettura dei versi all’interno della mostra e dei tuoi attraversamenti. E lo è. Una specie di installazione dentro la tua installazione.

Come ti accennavo a voce, in fondo ciò che ci accomuna è l’interesse per il corpo e per i livelli elementari della vita, vegetali, animali, basici. La tua ingegneria genetica letteralmente mostra il volto della degenerazione. Lo sradicamento di ogni senso è innanzitutto lo sradicamento di ogni parola da se stessa e di ogni immagine da se stessa: dici che attraversi la storia dell’arte e ricombini con i frammenti di essa il non più riconoscibile volto della nostra degenerazione. Non si tratta di un moderno entusiasmo per il nonsense e neanche del liberatorio calembour: si tratta proprio di fotografia. In un certo senso di dire le cose come stanno, o come sono diventate.

 

Bene, dentro questo tuo paesaggio le mie parole prendono le mosse da semplici percezioni. E’ come se la genetica tornasse sui suoi cardini a patto di rinunciare alle antiche complessità. Prima di scrivere La curva del giorno, ho scritto il primo libro, Le qualità, di quella che dovrà essere una trilogia. Nel primo libro il prologo prende le mosse dalla semplicità dell’evento della doccia, proprio del farsi la doccia come domestico rito di rinnovamento attraverso l’acqua. Altrove è detta la cura dedicata a tagliare il pane e a mangiare la carne di altri animali. O semplicemente viene indicata la differenza di luce

avvertibile in una giornata di primavera in un parco urbano. O anche del sistemare le lenzuola ogni sera nel costruirsi il letto che torna ad essere l’antico giaciglio. Niente di più.

occorre stabilire i confini del corpo: anche una casa con le sue camere e le sue funzioni è una guaina

e aderisce ai suoi moti. dormire al riparo dalla pioggia cucinando i cibi assaporando carni di altri animali

e foglie e frutti. dormire ancora dopo ogni rientro sistemando lenzuola e coperte lavando con cura

il piatto e il bicchiere affilando il coltello per il pane occorre lasciar passare da quei confini la notte

e lasciar mescolare i corpi perché parlino tra loro

 

Leggerò dunque questa poesia nel tuo giardino distopico e suonerà forse come una battuta di dialogo con i tuoi amabili mostri. O come il progetto di ricostruire un senso concreto, anche se limitato, a dispetto dell’insensatezza. Perché qui intendo il mescolare non come deformazione ma come silenziosa e fervida formazione e costruzione.

Forse sarà la nascita o rinascita del giardino utopico dentro il giardino distopico.Come il progetto o il

sogno di un modo di stare al mondo che possa generare un senso, nel possibile di una singola vita, oltre la degenerazione.

 

O anche sarà la coesistenza dei due giardini,uno dentro l’altro, come due poli per le nostre oscillazioni. Che ne dici?

 

Biagio

 

 

Caro Biagio,

 

le cose che dici sono molto belle. Devo dire che preferisco il tuo, di mondi, utopico. Il mio speriamo che non esista mai. Ma è difficile sapere, come si dice, dove andremo a finire. Ma, appunto, come dici tu, che almeno ci sia una convivenza. E questo possiamo intanto fare. Proporre la tua lettura nel giardino distopico. Chissà che non si aprano nuove vie …

 

Emanuele

 

 

Biagio Cepollaro, nato a Napoli nel 1959, vive a Milano. Esordisce come poeta nel 1984 con Le parole di Eliodora Forum/Quinta generazione), nel 1993 pubblica Scribeide (Piero Manni ed.) con prefazione di Romano Luperini e Luna persciente (Carlo Mancosu ed.) con prefazione di Guido Guglielmi. Sono gli anni della poetica idiolettale e plurilinguista, del Gruppo 93 e della rivista Baldus . Con Fabrica (Zona ed., 2002), Versi nuovi (Oedipus ed., 2004) e Lavoro da fare (e-book del 2006) la lingua poetica diventa sempre più essenziale aprendosi a una dimensione meditativa della poesia. Questa seconda fase del suo percorso è caratterizzata da pionieristiche attività editoriali in rete che danno vita alle edizioni on line di ristampe di autori come Niccolai, Di Ruscio e di inediti di Amelia Rosselli, a cui si aggiungono le riviste-blog, come Poesia da fare (dal 2003) e Per una Critica futura (2007-2010). Nello

 

stesso periodo si dedica intensamente alla pittura (La materia delle parole, a cura di Elisabetta Longari, Galleria Ostrakon, Milano, 2011), pubblicando libri che raccolgono versi e immagini, come Da strato a strato, prefato da Giovanni Anceschi, La Camera Verde, 2009. Il primo libro di una nuova trilogia poetica, Le qualità, esce presso La Camera Verde nel 2012. La curva del giorno, pubblicato nel 2014 presso L’arcolaio, costituisce il secondo libro. Sito-archivio: www.cepollaro.it

Blog dedicato alla poesia dal 2003: www.poesiadafare.wordpress.com

Blog dedicato all’arte: http://cepollaroarte.wordpress.com/

 

 

Emanuele Magri: dagli anni settanta si occupa di scrittura e arti visive. Ha creato mondi tassonomicamente definiti, nei quali sperimenta l’autoreferenzialità del linguaggio, come “La Setta delle S’arte” nella quale i vestiti rituali sono fatti partendo da parole con più significati, il “Trattato di artologia genetica” in cui si configura una serie di piante ottenute da innesti di organi umani, di occhi, mani, bocche, ecc, e il progetto “Fandonia” una città in cui tutto è doppio e ibrido. Ha sviluppato gli oggetti-parola Bandierine (dal 1990) e gli Stendardi (dal 1992), i  corpi-parola e vestiti-parola dell’universo parallelo de “La setta delle S’Arte” (dal 1995, con utilizzo di sciarade, palindromi, falsi vezzeggiativi), gli Oracoli Corporali (dal 2000, rebus con parole che indicano parti del corpo). Distopicus Garden, un progetto sull’ingegneria genetica che si avvale, per le varie fasi, di computer grafica, installazione, fotografia, video, poesia.

 

 

 

SPAZIO OSTRAKON | Via Pastrengo 15 Milano | Orari: da martedì a sabato dalle 15,30 alle 19,30 | Info:

3312565640 | info@spazioostrakon.it |  www.spazioostrakon.it

les nouveaux réalistes: Isabella Borghese

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Corpo libero

di

Isabella Borghese

La sala era rettangolare, profonda. Alla mia prima lezione non è stata l’attività fisica la vera protagonista, né il mio corpo; questa l’impressione che ho avuto.  Nell’ordine, a primeggiare l’olfatto, la vista, l’udito. Del gusto lì dentro ne facevano un rigurgito, un senso da riscoprire, una battaglia contro il peso. Il simbolo della vittoria. Il tatto solo alla fine.

A vent’anni ho scelto di regalare al mio corpo una possibilità nuova per riscoprire il privilegio e il piacere del contatto fisico. Riconsegnargli l’occasione legittima di essere toccata, di toccare in un terreno neutro, in una dimensione estranea al fastidio, alla prepotenza di una forzatura.

Non era il tempo di arrendersi. Davanti a me il momento di sfidare l’istinto, quel desiderio di chiudermi all’altro, che pareva volermi sconfiggere, privarmi di un’altra occasione; ho scelto di lottare servendomi della ragione, un’arma potente, potentissima, selezionata per riscoprirmi corpo, che può piacere, piacersi, darsi all’altro; per imparare di nuovo a muovermi con agilità e disinvoltura e a spogliarmi ancora, come un tempo ne sapevo cogliere ogni gradevolezza, nel terreno libero del piacere, nella sensualità di uno sguardo spudorato, fisso occhi negli occhi.

La lotta libera è stata la mia preferenza: la dimensione della lotta, quando nel carattere è combattere contro le proprie paure e per i propri ideali, nello sport confrontare il proprio corpo con la forza dell’altro, nella vita difendersi e aggredire la parola imposta da un prepotente.

In quella sala sentivo l’odore di chiuso, di aria viziata, di sudore quando nasce dallo sforzo fisico. Osservavo donne allenarsi in circuiti, flessioni, sforzarsi sulle spalliere. La severità di Augusto che insegnava o il gridare a tratti monosillabico di chi combattendo emetteva lamenti o grida di sforzo o incoraggiamento.

E quelle poche donne in sala, con me eravamo in tre, fiere di lottare sulla materassina, e ritrovarle poi, lezione dopo lezione, più magre. Sciupate. Guardarci a lungo nello spogliatoio, come esplorarci. Vicine, nude, libere e prese da un modo di lottare molto differente tra noi.

“Goliarda, stai dimagrendo troppo…”, mi sono confidata un giorno.

“E’ così sotto gara, Gabriella. Toccherà anche a te. Comincerai a lottare e dovrai dimagrire per gareggiare in una classe più bassa e poi vincere, perché non ti mancherà tutta la forza della categoria superiore. Nelle competizioni l’avversario si deve battere, corpo a corpo. Dev’essere tua la vittoria!”

Il problema delle competizioni, per me, questa fissazione di chi partecipa di guardare a tutti i costi e con determinazione alla “coppa”. Questo obiettivo che svaluta la partecipazione o che dà un senso compiuto alla gara.

 Forse avrei dovuto raccontare a Goliarda il reale motivo della mia lotta lì dentro, e farlo mentre ci allenavamo donna contro donna, o donna contro uomo, per esercitarsi a schienare l’avversario.

Io mi ingegnavo di più a sbilanciarlo. Far perdere l’equilibrio all’antagonista non annuncia mai una vittoria, ma consente, prima che questa avvenga, di intuire quale sarà la sua mossa e così di precederlo. Nel corpo a corpo in terra, prima dello schienare o dell’essere schienata, ero sempre lì intenta a sentire il corpo dell’altro, a percepire il mischiarsi della forza dell’uno contro quella dell’avversario che durante la lotta si fa sudore. Tentavo di raccogliere, mossa dopo mossa, il significato pudico di una stretta forzata, della necessità di proiettarsi sull’altro per combattere senza entrare nel campo della costrizione. Cercavo, ostinata com’ero, di fissare il suo sguardo senza abbassare il mio. Mantenerlo sull’antagonista, come necessità di vincere la timidezza prima, per capire con quale corpo il mio dovesse prendere confidenza, durante il combattimento.

In questi incontri preferivo l’allenamento contro un uomo. Era “il suo sul mio” la mia vera sfida, non il combattimento. Che mi schienasse, allora, non si trasformava mai in una sconfitta di cui crucciarmi. Mi affascinava il modo di Goliarda di stare nella lotta, la sua forza, quel mischiarsi con la tecnica e con il rigore. Goliarda, che tre settimane prima delle gare, fino al giorno della competizione, si nutriva di solo acqua e yogurt, o frutta e prima di pesarsi restava ore persino senza bere. Ecco il rigurgito del gusto, il simbolo della vittoria.

 Negli spogliatoi dopo la doccia ci mettevamo nude davanti allo specchio. Vedevo due corpi diversi da quelli che osservava lei. La sua bellezza sciuparsi, farsi stanchezza, le guance sparire, il seno rimpicciolire così tanto che persino una carezza lo avrebbe nascosto. Eppure l’eccitamento pareva inorgoglirla, come se avesse già vinto la sua gara.

“Devo perdere due etti ancora, poi entrerò nella categoria inferiore. Sarò pronta per gareggiare”, si esprimeva con fierezza. Lei nel suo, con lo sguardo, incontrava un corpo pronto a combattere. Poi mi intrattenevo sul mio allenato, armonioso. In attesa. Nulla mi suscitava del vanto. “Quando lotterai in gara dovrai sciuparti di più”, mi spiegava. Goliarda nel mio corpo individuava chili da sciupare. L’attesa, questa no.

Dopo più di un anno dal mio inizio in quella sala si è affacciato il momento più difficile.

“Goliarda, Augusto vuole farmi gareggiare. Aspetta il mio consenso tra pochi giorni”, mi sono confidata perplessa.

“Bene! Lo sapevamo tutti che avresti iniziato presto. Preparati alla tua dieta: acqua e frutta!”, si è messa poi a ridere. Io sono rimasta basita. Neanche una risata per me. Solo un’urgenza: lottare nella vita poteva significare mettere in campo la mia forza fisica, combattere con il corpo?

Pochi giorni dopo, quello precedente alla mia scelta, ci siamo sfidati per quarantacinque minuti. Prima io contro Goliarda. I nostri corpi, benché lei fosse più alta di me, si confrontavano con energia. La mia altezza si presentava perfetta per sbilanciarla e più facilmente di quanto non riuscisse lei con me. Ma era Goliarda a vincere più spesso. Tre volte su cinque. Quel giorno poi sono stata più di mezz’ora a lottare contro Errico. Il mio corpo, in attesa. La percezione precisa che avesse maturato una nuova confidenza verso l’altro, un saper stare contro, addosso e sotto, che nulla hanno a che vedere con la sottomissione, né tanto meno con la costrizione. Neanche con l’essere schiacciati da un peso morto addosso.

La terza volta che Errico mi ha schienata sono scoppiata a ridere, senza avvertire la fretta di dovermi liberare del suo peso. “Ti porteremo alle regionali quest’anno! Ha ragione Augusto!”, ha esclamato fiero. Era ancora sopra di me. Non ho badato a lungo alle sue parole. Avevo altro per la testa: non provavo alcun fastidio. Mi sentivo compiaciuta, rispettata. L’attesa di colpo finita. Schienata riscoprivo il piacere del tatto e riconoscevo nella competizione un modo così lontano dal mio di stare al mondo, che neanche uno sport ha saputo mai insegnarmi.

Dopo qualche giorno sono rientrata in quella sala rettangolare, profonda. Ma era l’attività fisica, adesso, la vera protagonista, con il mio corpo. Nell’ordine, a primeggiare il tatto, il gusto. L’olfatto, la vista, l’udito, solo alla fine. Il tatto, grazie al combattimento, ora primeggiava con la bellezza e la grandezza di un senso riscoperto, e la capacità di invertire, nella mia vita, l’ordine dei sensi. E’ stato il mio ultimo venerdì di lotta libera quello del combattimento contro Errico. Il mio corpo in attesa, oggi, solo un ricordo. La strada, come la vita, invece, è dove continuare a lottare.

LIBERA OCCUPAZIONE POETICA ° [i materiali]

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cartolina-fronte LIBERA OCCUPAZIONE POETICA è l’incontro collettivo che si terrà sabato 21 marzo 2015 a Torino, nella sede dell’Unione Culturale Antonicelli (Via Cesare Battisti, 4/b) a partire dalle 17.30. Presentiamo qui alcuni materiali che hanno contribuito alla preparazione di questo incontro. Quest’ultimo si è articolato intorno a quattro eventi principali: installazione + riflessione + manifesti + lettere. Eventi che corrispondono ad altrettanti modi di fare poesia possibilmente al di fuori, o al limite, dello specifico poetico.

LIBERA OCCUPAZIONE POETICA,

che vuol dire, se prendiamo i due ultimi termini, mestiere poetico, inerente alla poesia, ed è il lato derisorio della formula. In Italia, più che in qualunque altro paese d’Europa, l’attività poetica non può essere considerata degna non solo di un interesse mercantile (non produce profitto), ma neppure di un sostegno istituzionale (denaro pubblico per la poesia!!!!).

L’eccezione salvaje del libro messicano

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di Alessandro Raveggi

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Interrogato sul mondo del libro e dei luoghi frequentati dagli autori e dagli appassionati di libri a Città del Messico, non posso che menzionare a premessa quanto segue. Prima di tutto: Città del Messico è ben più letteraria di una pagina di Bolaño sulla sua Città del Messico letteraria – mi  riferisco ovviamente a Los detectives salvajes, uno dei pilastri della letteratura del XXI secolo, da me letto e acquistato agli inizi degli anni Zero a Granada e solo dopo 7 anni rivissuto magicamente e visceralmente nella carne e nelle ossa dei miei anni al Distrito Federal. E questo non significa che il suo universo sia costellato da un fiorire esoso di librerie indipendenti resistenti.

Bisogna anzi riconoscere che delle librerie menzionate da Bolaño solo una alla fine sopravvive alla storia e alla finzione: la Libreria del Sotano (una catena libraria, tra l’altro). La Libreria Mexicana sostituita da una rosticceria, la Libreria Pacifico non c’è più  o forse non è mai esistita, così come la Libreria Baudelaire. Resiste la gloriosa Calle Donceles, con le sue librerie dell’usato alcune risalenti agli anni 50.

Tuttavia, non si può dire che il mondo del libro messicano sia in crisi, affatto: per scrivere di o frequentare il mondo degli scrittori messicani bisogna spesso però avere palati adeguati e stomaci foderati. Bisogna saper camminare e conversare ebbri. Aggrapparsi agli autobus scalcagnati e respirare il loro sudore metallico. Mangiare tacos nocivi in strada, bere allappante pulque, bere birre artigianali o commerciali e sciape in grande copia. Frequentare l’università pubblica (tanto è gratuita), le feste nelle case mezze eleganti e mezze diroccate del centro storico o di Coyoacán, le piazzette del quartiere Roma con le copie scure di un David o le copie di uno pseudo Rodin, animate dai mercati dell’agricoltura biologica e del riciclo e del uso consapevole di qualsiasi cosa si possa usare. Aggirarsi nelle domeniche pomeriggio nel turistico centro storico a far la fila davanti all’ennesimo festival del libro, file chilometriche come fossero ad un concerto pop ed invece stiamo per entrare ad un incontro con Paco Ignacio Taibo II.

La letteratura nel Distrito Federal è fatta d’eccezioni salvajes, anche nei casi apparentemente canonici. E d’altronde della topografia letteraria dei Detectives ci sono rimasti evidenti due grossi pilastri: il Cafè Bucareli e il Cafè Quito (nella realtà: il Cafè Habana), due cantinas.

Vediamo così un po’ di districarci in veri e propri casi unici, eccezionalità che hanno a che fare anche con l’Italia: librerie di editori-Stato, cafebrerias, biblioteche universitarie foderate di murales, indipendenze italiche, festival del libro ovunque, e soprattutto barretti e balere.

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Il Grande Padre.
Le librerie del Fondo de Cultura Economica.

Oggi catena libraria per tutta l’America Latina e persino a New York, inoltre casa editrice e libreria istituzionale, di “regime” si direbbe qui da noi, il Fondo de Cultura Economica (di seguito FCE) ha per anni – oramai cento? – consentito a che gli illetterati di tutto il Messico post-rivoluzionario potessero cibarsi di cultura a bassissimo prezzo e buona qualità di stampa, da Balzac a José Rueveltas, da Maupassant a Vargas Llosa e ovviamente gli immancabili colossi Rulfo, Fuentes e Paz. La casa editrice è forte ora soprattutto sulla filosofia e la critica – editore di Zizek, per intenderci – sebbene pubblichi ancora i classici, e snobbi sovente la narrativa contemporanea (fermo restando che ha una delle collane di poesia contemporanea più belle del Messico, peccato che pubblichi poeti laureati over 60 o macabramente defunti da poco). Le librerie del FCE sono pressoché asettiche, bianche rosse e grigie in genere, ma ben fornite, distribuite tra parchi verdeggianti e avenidas da sud a nord della Città. È sempre un piacere incontrarle – forse di più se sei uno scrittore straniero residente, proveniente da un paese dove la cultura ha smesso di fare sistema, di essere cosa democratica obbligatoria da diversi anni. E soprattutto è un piacere per i professori della Universidad Nacional Autonoma de México, che, come io ho fatto per alcuni anni, usufruiscono di un sconto cospicuo sugli acquisti. Da menzionare specialmente la Libreria Rosario Castellanos, nel quartiere Condesa, col suo programma ricco di presentazioni con 50-60 persone in media, e il suo spazio ampio che ricorda più la hall di un museo o aeroporto che una libreria vera e propria. Di autori, a bazzicarle, forse però non se ne trovano molti, nei pomeriggio piovosi dell’estate in Città: librerie di grandi acquisti ma fuggenti, vuoi anche perché non molte (che io ricordi) hanno bar o caffetteria acclusi dove echarse un mezcal.

Simili ma di tono inferiore le catene Gandhi (da ricordare però per intelligentissime campagne pro-lettura tramite banner giganteschi per tutta la città), El Sotano, Porrúa (e sicuramente dimentico qualcuna in più!).

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Mangia (bene) leggi (bene) sogna (meglio). 

Le cafebrerias di El Pendulo.

Simili o forse anche più fornite del Fondo de Cultura Economica, ecco quindi le librerie targate El Pendulo, o meglio le loro cafebrerias, librerie caffè che per programmazione, dettaglio e fornitura di libri farebbero impallidire qualsiasi tentativo nostrano di mischiare il pane e il companatico culturale. Immaginatevi una catena di librerie-caffè, con un teatro-auditorium dove ogni giorno suonano cantautori folk, o si presentano compagnie indipendenti, mentre tu te ne stai pranzo e cena ben serviti a mangiare prelibatezze messicane a la carte, huevos, enchiladas, hamburger con avocado, chiles rellenos, o un Manhattan a fine pomeriggio. Nessun possibile paragone. Anche qui, però, il mondo dei letterati, forse per snobismo forse per folla, non è molto visibile. Rimane solo lo straniero incantato che finalmente può leggersi un buon libro mangiando un buon pasto e bevendo un buon alcolico, tutto assieme, senza compromessi, fregature e specchietti per le allodole.

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Independencia Italiana.
Il caso della Libreria Morgana.

Città del Messico è una metropoli assolutamente à la page, la prima in linea retta ad acciuffare le mode newyorkesi e canadesi ed a trasformarle con il classico sincretismo messicano che rende spensierato l’arido concettualismo del design d’interni di bistrot e cafè e sushi bar: una città dove un ottico fa vernissage d’arte, un corniciaio ospita una galleria temporanea, un parrucchiere vende vestiti usati anni ’70, un fruttivendolo vende t-shirt di Banksy. Una città solcata da tensioni e rivolte, da continue manifestazioni e picchetti, da ventenni agguerriti e neo-zapatisti, da estudiantes enojados e femministe spunzonate di piercing dal collo tatuato e le braccia poderose. Ciononostante, non si trovano librerie indipendenti nella città, pensate cioè in quanto tali. Forse perché i luoghi di culto del libro sono esplosi ovunque e non necessitano di piccoli ricettacoli o santuari. Fioccano, quello sì, librerie dell’usato, ed anche ben condotte: ne prendi una a caso, entri e chiedi, come mi è successo, un’edizione in spagnolo di Carlo Coccioli, e ti dicono “Certo, Cossióli!” – così lo pronunciano – “abbiamo diversi libri suoi. Ricordo ancora quando scriveva nel El Excelsior in prima pagina, un eccentrico!” (Vai a fare la stessa domanda ad un qualsiasi libraio italiano e ti dirà “Coccioli chi?”).

Se dovessi pensare ad una libreria indipendente come io la intendo – la versione aggiornata della vecchia idea di libreria polverosa con il libraio ben assiso al suo centro, il genere di libreria dove il librario è quell’esperto jongleur di saperi con il quale approfondire sulle ultime uscite delle case editrici medio-piccole e magari fare un po’ di gossip cultural-letterario – non ne troverei di evidenti. O se dovessi pensarci bene, una l’ho frequentata, sebbene un po’ di traverso o ad uso e consumo accademico (ora capirete perché): l’unica libreria indipendente che in effetti conosca è quella curata da Clara Ferri, traduttrice e docente di traduzione alla Università pubblica, la Libreria Morgana di libri italiani, nella Calle Colima del quartiere Roma. La mia frequentazione è stata scarsa vuoi perché la full immersion latinoamericana mi imponeva l’acquisto di libri in spagnolo, dei Sada, dei Rulfo, degli Ibargüengoitia, vuoi perché spesso grosse casse di libri mi arrivavano dall’Italia, ad omaggio o in acquisto.

Il catalogo della Morgana è ben fornito, particolarmente legato all’aria di sinistra radicale (vedi ad esempio alla voce Wu Ming e il gruppo di scrittori attorno a Carmilla, in primis ovviamente Valerio Evangelisti) e sorprende l’attenzione per il contemporaneo – utile specie per i miei corsi di letteratura e seminari in città. Un punto di riferimento per docenti e italiani intellettuali residenti a Città del Messico – come i bravi giornalisti d’inchiesta Fabrizio Lorusso e Federico Mastrogiovanni – anche per un lampante impegno politico che li caratterizza e che li aggruppa con determinazione e brio.

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Passare alla Storia (e alle Lettere). 
Le biblioteche della UNAM.

Se volete invece incrociare Jorge Volpi, Fabio Morabito o uno stuolo di poeti, pensatori e filosofi messicani viventi il consiglio è quello di far un salto alla Biblioteca Central della Universidad Nacional Autonoma de México adiacente la Facoltà di Filosofia e Lettere. Oltre a vivere a pieno la gioventù messicana agguerrita, ridanciana, sensuale e attentissima sui libri di Ricoeur e Derrida, Negri e Bachtin, respirerete, affacciandovi dai finestroni, un po’ lo spirito del Bolaño di Amuleto, in un luogo che per estensione e valore è una vera e propria torre eburnea del pensiero latinoamericano che si scorgerebbe idealmente dalle terre europee d’oltreoceano. Un pomeriggio in Biblioteca e vi sentirete osservati come stranieri, accolti come amici e pensatori, inghippati in mille ragionamenti e suggestioni e attratti – se ancora ci sono – dalle bancherelle di libri usati che precedono l’entrata in Biblioteca e in facoltà.

Poi potete anche sdraiarvi sull’erba a leggere o semplicemente ad annusare l’aria tersa di certe giornate trasparenti non rare nella pur sempre inquinata Città del Messico, la grande spianata delle cosiddette islas farà al caso vostro – il consiglio è di affrontarle con una buona protezione solare, a dare un tocco di inadeguatezza particolare alle vostre pose d’intellettuale bianchiccio. Lì potreste tra l’altro incontrare anche il buon Eugenio Santangelo, magrissimo, col suo sguardo serio sempre pronto a farsi mutare dalla spinta di un sorriso sornione, uno dei fondatori della fu rivista underground bolognese Tabard e ora uno dei più ferrati esperti e ricercatori accademici su Bolaño in Messico e non solo. Poi vi volterete, farete dei passi indietro, e noterete che dietro Eugenio si staglia l’enorme e futuristico mural di Juan O’Gorman che ricopre le pareti della Biblioteca Central.

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 Fiumane ai festival nelle piazze storiche.
Il successo scomposto dei festival del libro

Fiumane di persone in tuta sportiva con berretti e cappucci da baseball, di anziani con le vene varicose, di giovani rasati ai lati delle tempie, di bambini obesi, attendono in fila per le strade del Centro Historico al mattino di una domenica qualsiasi: sotto ombrelli, sotto k-way, per la pioggia o per il sole, sventaglianti ventagli per il caldo arso e manducanti panini portati da casa: stanno aspettando di entrare dove? In un acquario? In un museo gratuito? In un’attrazione pirotecnica di massa? In una conferenza stampa di Jared Leto? No, in un festival del libro nuovo o usato! In uno di quei tendoni librari che si montano ogni mese nel Zocalo, la sterminata piazza centrale della capitale centrale, a pochi passi dalle rovine del Templo Mayor, oppure dentro al Palacio de Minerias. Oppure ancora, ritornando alla UNAM, nel giardino del campus, aperto anche la domenica per fare jogging, passeggiare, far pratica da principianti con l’auto, o andare al teatro, al ristorante, al centro d’arte contemporaneo MUAC (altre eccezionalità messicane, di cui ora non parlerò). L’osservatore straniero verrebbe a rompere l’idillio con le classiche domande di spocchia del tipo: “Sì, ma quanto leggono i messicani? Quanto sanno? Quanto studiano? Che tipo di educazione? Servono a qualcosa questi festival? Che tipo di scrittori vengono presentati?”.

Io guardo queste fiumane bizzarre venute ad adocchiare i libri, a volte di edizioni pessime, usato di bassa lega, altre volte di autori contemporanei e degne della più internazionale Fiera del Libro di Guadalajara, e me ne beo, lasciandomi alle spalle tutta la presunzione dottrinale e quantificante, e l’accademismo educato italiano e europeo. Queste file sono un bel vedere per uno che i libri li scrive e l’insegna: un segno di rispetto intellettuale involontario, che manca spesso in Italia, per chi magari non esce la domenica e sta sulle sudate carte e sente di essere sempre più marginato da una società dove tutti vogliono fare gli scrittori e gli artisti, mentre i governi negli anni tagliano fondi alla cultura, non esistono un sistema di borse di studio per artisti, e nessuno alla fine legge o va alle mostre d’arte contemporanea. Un’eccezionalità inversa, poco selvaggia, delle mie terre – con qualche recente miglioria visibile.

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A donde van los escritores?
Le cantinas.

Paola Tinoco è la rappresentante messicana della casa editrice Anagrama (che è quella di Bolaño, di Sada, di Mario Bellatin, di Bernhard, di Auster, di Tabucchi, ma anche di Calasso e Ammanniti). Ho conosciuto Paola tramite un amico poeta e gran bevitore che collaborava con la rivista Letras Libres. L’ho conosciuta al bar, non in libreria, o ad una presentazione di libri. Interrogata ultimamente da me sui luoghi letterari della città, ha sbottato con una sberla verbale: “Alessandro, pare che tu non abbia vissuto nella Colonia Roma, cazzo!” E si riferiva alle cantinas, ai barracci frequentatissimi da scrittori e intellettuali messicani. José “Pacho” Paredes, bassista storico del gruppo rock Maldita Vecindad, direttore del Museo El Chopo ed ex direttore della bellissima esperienza di festival internazionale di poesia Poesia en Voz Alta, anche lui cita le cantinas: “Gli scrittori e letterati messicani vanno nelle cantinas”, mi dice, “Fadanelli si vede spesso al ristorante Xel-ha nella Roma, molti vanno al Cafè Habana, quello dei poeti infrarrealistas, di Bolano, per intenderci”. Le poche volte che ho incrociato scrittori messicani li ho effettivamente incrociati “in borghese”, cioè svaccati a giochicchiare con le bottiglie e i tappi di bottiglia in una tavolata ridanciana. La Luiselli, Yuri Herrera, quando passano dal D.F., sicuro li trovereste in questi posti in compagnia di un Tryno Maldonado, di un Juan Villoro, di un Alberto Chimal.

E come sono queste cantinas? Degne se non peggiori di quelle spagnole, simili per certi versi, come quella che ho più frequentato, il Salón Covadonga (anche perché a 100 m da casa mia), a polverose balere incrostate di vecchia storia iberica, di nicotina, di suppellettili pigolanti in legno, o a volte tipo circoli ricreativi culturali ARCI toscani anni 70 con maxischermi per le partite. Gli scrittori le trovano autentiche, sbottonate, senza pretese, economiche (ma non sempre, vedi il menu del suddetto Covadonga che ti spella il portafoglio con cattiveria), vicine a quello spirito di desmadre e relajo che troviamo in Bolaño e che è tipico delle classi medio basse locali anche quelle che più si avvicinano alla bohème. Gli scrittori le preferiscono di gran lunga ad una rinfighettata libreria cool del francofono quartiere Polanco, o alle precedenti librerie del Fondo e del Pendulo, con i loro interni ben studiati.

“L’artefazione lasciamola nei libri”, paiono pensare e volere.

E qui si chiude, incompleta, brindando al martedì o al giovedì sera sotto indocili neon e amabili carcajadas (le risate fragorose dei messicani), la mappa esplosa della salvaje distribuzione dei luoghi e dei libri e delle loro passioni nella mia Città del Messico.

Consigliatissima per i palati e i globi oculari rinsecchiti di noi europei.