Gli angeli custodi delle cave di marmo di Carrara
un film di Luca Galassi
di Giovanni Dozzini
Dio ci salvi dalle biografie di scrittori. Tutto ciò che abbiamo amato, odiato, capito, frainteso, tutto ciò su cui abbiamo rimuginato, speculato, ciò su cui ci siamo illusi, ciò in cui abbiamo trovato ragioni sufficienti per continuare a vivere, ciò che ci ha reso inequivocabilmente felici, o spaventati, o disperati, tutto ciò capitatoci nel momento di leggere un qualsiasi romanzo di un qualsiasi scrittore non ha nessun legame con la vita condotta da qualsiasi scrittore del pianeta in qualsiasi momento della storia. Né nessuna necessità di averne. La letteratura ha bisogno solo di se stessa, e di occhi e cervelli per essere letta.
di Tommaso Giartosio
Una premessa sulle premesse
La premessa obbligatoria di tutti gli interventi su questo tema è sempre uguale: non si vuole in alcun modo attenuare la colpa degli autori della strage; “ovviamente” la violenza e l’omicidio sono da condannare recisamente, fermamente, assolutamente; eccetera. Allevato alla scuola dell’”ho tanti amici omosessuali”, io sospetto di queste premesse obbligate.

(Un Manganelli inedito, che per lavorare bene ha bisogno di essere interrotto “con tenere molestie”, che si macera dolorosamente nell’attesa di una cartolina, e che inaspettatamente esperisce la supremazia della voce sulla parola scritta. Nottetempo raccoglie le lettere d’amore inedite di Giorgio alla sua Viola, Viola Papetti, “Viola infine, che altro posso dire, Viola”, scritte fra il 1966 e il 1973, e la corrispondenza della Papetti con Maria Corti, dal 1990 al 1996, dopo la morte di quello che resta, indubbiamente, uno dei maggiori autori italiani del Novecento. F.F.)
“Nulla per lui era indifferente, purché fosse vero; così i suoi discorsi erano singolari”
Lettere a Viola Papetti (1966-1973)
di Giorgio Manganelli
Roma, 26 luglio ’69
Viola, Viola carissima, carissima Viola, Viola infine, che altro posso dire, Viola,
ho ricevuto ora in data ventuno, e sono un altro uomo. Mi sei mancata, mi sei mancata, il tuo silenzio, il tuo ritardo mi hanno angustiato assai più di quello che tu possa immaginare. Ti scrivo subito, scendo subito a spedire, perché se non vieni domani, come spero con tutta l’anima, possa ricevere questa mia, lunedì. Voglio dirti che se ti ho salutato affettuosamente alla partenza, ti accoglierò al ritorno – la dirò quella parola amara e squisita, quella parola diffidente e fantastica, ti accoglierò con amore. Non amo questo telefono vedovo della tua voce. La tua voce blesa e inesatta, una adolescente Viola d’amore.
di Daniele Ventre
C’era una volta il cielo, con i suoi pianeti e il suo calendario prima lunare e poi solare. Insomma, la dea bianca sacerdotessa e poi l’eroe. O anche tutti e due, madre e pàredro, madre e pargolo, in varie forme. Servivano per varie cose: dal controllo delle nascite presso i cacciatori raccoglitori, alla misura dei cicli stagionali nel neolitico tardo e nell’età dei metalli, giù giù fino al tardo rinascimento. Più del sole e della luna, vicini all’uomo e alla terra e perciò umanizzabili o semidivini o dèi variamente incarnati sacrificati morenti e risorgenti, contavano i pianeti. I loro cicli e le loro orbite regolari li fecero apparire come dèi. Poi c’era anche tutto un corteggio di costellazioni di riferimento, da puntare con orologi di pietra sempre più imponenti e complessi: menhir, cromlech, piramidi, templi, tombe, cattedrali. Il tutto si inseriva in un sistema di atti psicomagici vòlti a costruire una tecnica del tempo e del controllo del tempo, in collegamento con la produzione e l’orientamento sul territorio (vie di canti, per mare e per terra, racconti degli aborigeni e odissee), o semplicemente con i tempi di attuazione delle tecniche elementari. Una rete di senso fatta di poesia, architettura, tecnologia, memoria, mappe del cielo e della terra, imperi universali (imperi di mezzo come la Cina) strutturati a volte su quattro direttrici e su quattro regioni (come l’impero tahuantisuyu degli Inca: “il regno delle quattro regioni prese insieme”, il dominio cosmico). La ierofania uranica declinata nelle sue varie forme, tende infine alla reductio ad unum. Gli dei sono ridotti ad angeli, il Dio degli dei (Elohim, Aton, Vishvadeva) ne assorbe le prerogative, in tutto o in parte. Anche quando il dio è plurale (Brahma Shiva Vishnu; Zeus Poseidon Hades, Tien, Tengri etc. etc.), le cose non sono mai così disseminate come sembra. Ovunque si impone, con diversi dialetti culturali locali, una forma di panteismo/pancosmismo, in cui si oppongono semplicemente il cielo “chiaro” (El) e la terra. Poi vengono le evoluzioni storiche: maestri ora mitologici ora reali, ma trasfigurati nel mito, da Mosè l’ariete a Cristo il pesce. Il dio è sempre lo stesso, le funzioni del suo mito cambiano nel tempo, ma i sacerdoti (non il dio), sono gelosi e non ammettono le vecchie versioni. Si mettono in politica, pretendono che il passato muoia d’autorità e se no gli si dà una mano ammazzando i fedeli del vecchio sistema di segni. L’universo/dio continua imperterrito a procedere sulle sciagure umane, sciagure umane rigorosamente autoprodotte dagli interessati. “Nate da noi le sciagure proclamano, mentre da soli,/ contro il destino, per loro follie, si procurano affanni”. L’universo/dio, ma potremmo ben parlare di natura/dea. La trinità alla fin dei conti (o meglio, all’inizio dei computi) è un’invenzione lunare. Forse è il caso di riflettere meglio sugli archetipi. Dopo aver fatto sparire dalla faccia della terra quelli troppo ignoranti per fermarsi a pensare un attimo, prima di premere il grilletto o lanciare scomuniche.
di Biagio Cepollaro

L’HO VISTA ANCORA (1998)
l’ho vista ancora distesa la linea bella e dritta
del mare e lo stupore pensando al vivo e non
ostante confusione immessa dall’odio dall’olio nostro
bisogna solo dimenticare staccare d’un colpo
la spina
vent’anni a mettere mattoni a credere edificare fosse aggiungere
sommità vent’anni dentro
l’idea
dell’alto e del basso a misurare il fatto col da fare
cosa faccio con linea dritta che sfodera onde apre
e chiude
pagine
apre
e chiude
questo denso di tenere molecole che s’affinano affinano fino ad essere più
leggere
dell’aria
così immagino un abbraccio e dico bisogna stabilizzare questa intensità
di ioni farne una splendida abitudine come la calda quiete del nucleo
della terra tutto fuoco e metallo tutta lentezza di rotazione perché sopra
ci sia erba ed acqua e noi a chiederci ancora se quello che c’è sopra la terra
sia cosa buona
vent’anni a mettere mattoni a credere edificare fosse aggiungere
non diminuire
vent’anni perso nell’attuale a simulare storia l’intreccio di miserie
senza presente che chiamano attività intellettuale li vedi anche tu
con in faccia
scritto il terrore di sparire e l’illusion di farcela a scampare per sola
malignità
e non dovrebbe non dovrebbe esserci ancora tanta rabbia
che ogni rottura fa lo sgambetto al flusso
di comprensione cosa ottunde cosa occlude in troppe
sere è come tornare a zero
il gatto che sul ramo avanti
e indietro non si fida
a saltare il millepiedi che ci pensa al prima
e al dopo
e non fa più un passo
la volontà non c’entra e non cresce
alla fine
sarà come un riflesso distratto anche per noi
il bene
e quello che invece si chiedeva da loro – da noi – era
aver attraversato
una volta per tutte deciso di scendere come l’acqua fa
per il pendio
verso il basso
non di star a galla comunque
chi s’aggrappa alla carcassa dell’ala
chi alla tavola che una volta fu nel salone delle feste piace così
tanto l’idea del naufragio
che parla di loro – di noi – in un giorno qualsiasi fermi al semaforo
tornando dal lavoro la chiglia immensa e ribaltata le luci all’incontrario
malconci poggiati su quello che una volta era il soffitto
ma poi s’ingrana e il mare torna a stare sotto
come un affare
d’agenzia
di viaggio
e si tratta di diminuire
farsi sorgente lasciar perdere andare
per tornare e smuovere acqua
tutta quell’acqua che non cresce e non si perde e vuole
abbattersi farsi muro e schiuma per poi calma
mente farsi indietro infinitamente ritirarsi
***
IL PICCOLO E IL GRANDE (1999)
(tra Carlo, il padre e Carlo, il figlio)
il piccolo chiede perché c’è buio e perché
luce
il grande risponde che la terra tutti noi giriamo
e lentamente
girando
viene buio e luce e poi luce e buio
che non scompare che ogni cosa luminosa ritorna
e varia
più cupa più pioggia e anche
allarme
dell’auto taglia notte e tuono
chiede abbraccio
poi infermiere strattonarono il corpo in una deposizione
senza pietà
mento penzolante
sul petto
pigiama
freschissimo
in fretta senza riguardo che proprio a loro
toccava il turno
dell’ora più calda di giugno in fretta a sistemare
il morto
a raccogliere lenzuola e fasce
da bruciare
altrove
non bisognerebbe chiedere alle cose
di parlare tra loro: sono lì
a graffiare per solo attimo il cielo e l’insieme
non dice più
delle linee della mano: foglia erba tronco tromba
d’aria
prima gli disse che poteva chiudere
in pace
il conto
che buono era stato
il passaggio
visto da fuori c’era stato di tutto
per una vita
media degli anni
sessanta
dall’ebete
giovinezza alle bombe
il paese fatto colonia comprato prima con pane
di grano e poi in sviluppo e progressione
con frigorifero ascensore auto
e televisione
la storia è cornice troppo grande
e sfilacciata l’omino neanche si vede
nel paesaggio e poi la cornice non è
che un altro quadro l’unico che c’è
fermo
sulla parete
il resto tutto il resto è apparso e sparso
però
che vuol dire visto
da fuori e media vita
non c’è fuori che tiene ma qualcosa uno
deve pur dire
nell’ultimo commiato: ti sei fatto già piccolo sei già
labile
ricordo
te ne vai
al tuo minimo termine
che un altro
anno
non avrebbe cambiato ma lui diversa
se l’era immaginata
non così oppressa da minuzie la credeva
solenne e per sola volta
immune
non bisognerebbe chiedere alle cose
di arredare le nostre attese e anzi
non bisognerebbe attendersi niente
dalle cose (calcolando le orbite
delle comete quando vaganti
montagne e città e le infinite
interazioni le magnetiche
passioni della terra)
se anche ora volesse leggergliela lei non avrebbe tempo
e riposo non avrebbe aria
libera
è così difficile pane guadagnarsi quotidiano o è un’altra
l’ansia
del tutto pieno
prende contegno il panico una misura e forse
sarà davvero sbucata su di una via
più sua
lui neanche ci prova
ora che tra i due interpone
un grande
vuoto
non bisognerebbe chiedere alle cose
di restare
né puntare ogni porta
che si apre
non bisognerebbe stare dove nulla
è stato
non è monumento: ecco è questa
la vecchia
abitudine della pietra
ad insistere
con pietra e carta, appunto,
si tratta solo di un momento
intanto
si sente uno che è scampato
col suo panino in sorte buona o saggia
ma poi non è importante che sappia
(non arriva mai
diretta
la vicinanza)
solo che è strano: è come essere ai lati
opposti
della terra
ognuno con ciò che chiama
buio
ognuno con ciò che chiama
luce.
Da Versi Nuovi, Oedipus Ed. 2004
[Annotazioni di lettura di Giuliano Mesa e Giulia Niccolai sono reperibili rispettivamente nel numero 20 e 26 de il Verri.
Si possono leggere anche qui . L’intero libro in formato pdf è scaricabile qui. B.C.]

di Gianni Biondillo
Per raggiungere i livelli alti del ponteggio Marco, uno dei responsabili del cantiere di restauro delle facciate, decide di farmi fare una deviazione sui tetti della Galleria. Da qui lo spettacolo è semplicemente incredibile. Guardare dall’estradosso della copertura vetrata le persone che passeggiano ignare sui mosaici, quaranta metri più sotto, toglie il fiato. È come stare dentro ad un film fantasmagorico, mi sento Hugo Cabret, m’aspetto da un momento all’altro Martin Scorsese che grida: “ciak, azione!”
Arriviamo ai piani alti dell’impalcatura, sul braccio sinistro della Galleria, e Marco mi racconta del portale semovibile che permette di pulire sezioni delle campate lasciando libero il resto delle braccia. Poi, finiti i lavori di pulitura, tutto viene trainato sui binari per ricominciare i lavori sulla sezione successiva. Anche questa impalcatura volante, a ben vedere, ha un che di favolistico. Marco mi espone con minuzia i lavori di restauro e io tocco, fremente, il capo di uno dei telamoni, o il cornicione in cemento decorativo. L’animo d’architetto che mi rugge dentro è felice come un bambino nel paese dei balocchi.

La storia di quest’opera titanica mi ha sempre affascinato. Da quando un giovane architetto, Giuseppe Mengoni, nel 1859 vinse il concorso del rifacimento della piazza del Duomo, sbaragliando 176 concorrenti, alle infinite traversie del cantiere, inaugurato ben tre volte, con gli scandali finanziari, i tracolli economici delle varie società appaltatrici, la deportazione forzata degli abitanti dell’area, le bustarelle a politici compiacenti, gli aumenti di volumetria in corso d’opera, insomma, tutto l’armamentario della più tipica, triviale storia italiana. Ma anche, altrettanto tipico del nostro paese, la voglia di edificare un monumento magistrale, capace di stupire chiunque passasse, per mettersi al pari con le altre nazioni avanzate dell’Occidente – noi, all’epoca nazione appena nata -, di rappresentare cioè un’epoca e i suoi sogni più arditi. Riuscendoci. Perché i milanesi perdonarono tutti gli scandali e adottarono da subito la Galleria trasformandola in uno dei luoghi deputati della loro identità cittadina. Non solo passeggio coperto, ma anche luogo dove scambiare opinioni, fare cultura, politica, socialità. Un posto dove stare, magari per consultare un libro, sorseggiare un caffè o bere un aperitivo. Il salotto buono di un’intera città.
Il salotto di tutti, però, non solo dei ricchi signori del centro. Ricordo che da bambino, quando abitavo a Quarto Oggiaro, mio padre diceva: “Vado in piazza” senza aggiungere nulla e tutti sapevamo dove. Lì, sotto la Galleria, in uno di quei capannelli di anziani che discutevano animatamente di tutto, dall’ultimo derby alle prossime elezioni amministrative. Milanisti o interisti, fascisti o comunisti, ogni scusa era buona per bisticciare. Erano anni senza internet o cellulari, ma se avevo bisogno di lui sapevo dove trovarlo: nel salotto di Milano, dove magari mi presentava orgoglioso ai suoi amici e poi mi portava a bere un caffé da Biffi.

Cammino su una delle balconate e guardo la gente passare sotto di noi; vedo alcuni turisti fotografare compulsivamente tutto, compresa l’impalcatura dei restauri, quasi fosse un’imperdibile installazione di qualche designer postmodernista. Sorrido. I milanesi ci sono abituati alle impalcature in Galleria. Ci passeggiavano già fra i ponteggi eretti dopo la grandinata estiva del 1874 che distrusse la copertura, o quando ancora la facciata con l’arco trionfale sulla piazza era un cantiere bloccato dalle pastoie burocratiche. Hanno continuato a farlo dopo i bombardamenti della seconda guerra mondiale che scempiarono l’edificio, o fra le strutture provvisionali di rinforzo, quando si scavò in Piazza del Duomo per la nuova linea metropolitana. La rossa. Altro sogno modernista di una Milano un po’ vanesia che si sentiva capitale economica e “morale” di una nazione.

Un monumento non è solo un edificio, è un luogo carico di memoria. Questi muri trasudano storie. Lo so da architetto, lo so da scrittore. Ancora nel secolo scorso in questo dedalo di cortili, scale, palazzi e strade interne – talmente grande che fece dire a un ammirato Mark Twain che si potrebbe vivere tutta la vita qui senza mancare di nulla – abitavano maestri di scuola elementare, sartine della Scala, artisti bohémien. Qui due milanesissimi siciliani, Giovanni Verga e Luigi Capuana, potevano conversare dei loro progetti editoriali degustando un risotto da Savini, qui, come si può ammirare in un dipinto di Boccioni, potevano scatenarsi zuffe fra donne pronte ad accapigliarsi davanti alla bouvette del Campari, le stesse che poi magari andavano a comprarsi una borsa in cuoio da Prada, qui Salvatore Quasimodo di ritorno dal Genio Civile di Sondrio tirava tardi parlando d’arte e poesia con De Grada, Cantatore, Messina, qui nel ’68 i figli ribelli della borghesia meneghina manifestavano per Cuba nel nome di Mao Tse Tung.
Ho visto col nascere del millennio perdere l’abitudine dei milanesi a frequentare questo luogo. Capannelli di sfaccendati, come quelli che frequentava mio padre, non se ne vedono più e la cosa mi intristisce. Mi sembra d’essere il testimone di un perduto amore. Da questa posizione privilegiata vedo passare scolaresche, turisti cinesi che si fanno selfie selvaggi, gruppi sparsi di russi o americani che ruotano divertiti i talloni sui testicoli del toro, senza sapere esattamente perché. I milanesi passano di corsa ma non si fermano. Oggi la Galleria appartiene ad un immaginario globale, è ammirata in tutto il mondo, tappa obbligatoria per chiunque venga in città. Pare, mi racconta Marco, che un magnate del Qatar ne stia costruendo una identica a casa sua, tutta in marmo di Carrara. Chi lo sa, gli dico, forse questo restauro che sta dando una nuova vita ad un luogo così carico di storia è il nostro modo di dichiarare un nuovo amore per queste pietre. Un regalo fatto prima di tutti ai milanesi, che tornino a fare della Galleria casa loro.

Era un freddo inverno quando Mengoni, il giorno precedente la consegna definitiva dei lavori, cadde dalle impalcature della cupola centrale perdendo la vita. Aveva la mia età. La leggenda dice che si suicidò per le troppe critiche ricevute e per l’affronto del Re a cui aveva dedicato la sua opera che non sarebbe stato presente al taglio del nastro. Le leggende non sono necessariamente vere, basta che siano belle.
Anche oggi è una fredda giornata invernale ma di buttarmi da questa impalcatura ovviamente non ne ho la minima intenzione. Non mi interessa entrare in alcuna leggenda. Invece ho voglia di scendere, di fermarmi sotto l’Ottagono, di comprare un libro, di discutere di politica con uno sconosciuto o di prendermi un aperitivo, come facevo con mio padre, quando si andava in piazza, senza specificare dove, che tanto poi ci si ritrovava sempre in questo luogo così familiare, così domestico. Il salotto buono di casa. Quello di tutti i milanesi e, ormai, del mondo intero.
(pubblicato su Vanity fair del 4 febbraio 2015. Le foto sono mie.)
di Marino Magliani, con illustrazioni di Marco D’Aponte (tratte dalla loro graphic novel “Sostiene Pereira”, Tunué, 2014)
Esistere con un passo indietro e l’altro che scalpita non perché si vuol andare chissà dove, ma perché fisicamente non si riesce a stare a lungo con un piede posato e l’altro per l’aria.

Il dattiloscritto rifiutato
di
Luca Ricci
Ai fini di questa storia- che forse non vuol dire nulla, tranne che siamo tutti miserabili, nessuno escluso, buoni e cattivi, vittime e carnefici- il mio nome conta molto meno della mia occupazione. Sono un editor, cioè un redattore editoriale che, tra le altre sue mansioni, si occupa di tanto in tanto di leggere e valutare i dattiloscritti che giungono in casa editrice. Non ricordo come venni in possesso del libro di cui voglio parlare (oggigiorno poi quasi tutti inviano tramite e-mail), forse qualcuno l’aveva prelevato dalla portineria e l’aveva poggiato sulla mia scrivania per errore. A ogni modo si trattava del dattiloscritto di un ignoto, nessuna raccomandazione ne aveva preceduto l’arrivo.
Una lettera trascurabile scritta a biro- calligrafia dozzinale, senza dubbio maschile, un po’ incerta- accompagnava il plico. In calce, subito prima della firma dell’autore, campeggiavano due numeri telefonici: un fisso e un mobile. La vista di quei numeri m’irritò immediatamente, era un tentativo di farsi rintracciare che sembrava già una supplica. Sì, fu per la vista di quei numeri, credo. Afferrai il dattiloscritto, ne sfogliai qualche pagina distrattamente e poi sbuffando lo misi sotto a una pila di lavori più interessanti e urgenti. In quella posizione, cioè da ultimissimo, il manoscritto passò almeno un paio di mesi. Poi, del tutto casualmente, presi io la telefonata che il suo autore aveva osato fare alla casa editrice, ignorando la prassi che è quella di aspettare una risposta scritta che nella maggior parte dei casi suona più o meno così: “Abbiamo letto con vivo interesse il suo romanzo ma non rientra nella nostra linea editoriale…”.
– Posso esserle utile?- domandai scocciato, appena collegai quel nome al dattiloscritto.
– Volevo solo sapere se avevate letto il mio libro.
– Non ancora, non ancora.
A quel punto l’autore prese un tono lamentoso che lo fece definitivamente approdare nella categoria degli scocciatori: – Ma sono già passati più di due mesi da quando ve l’ho spedito.
Attaccai e per un momento ebbi chiaro l’impulso di afferrare il manoscritto e buttarlo nel cestino che era proprio lì, a due passi dalle mie gambe distese sotto la scrivania. Mi trattenne solo uno stupido senso del dovere, stupido perché in cuor mio sapevo benissimo che per quel libro era finita, il suo autore con quell’atteggiamento respingente ne aveva decretato l’insindacabile morte prematura.
Richiamò una settimana dopo, chiedendo esplicitamente di me a chi gli aveva risposto, perché ero stato talmente ingenuo da dirgli come mi chiamavo.
– Ci siamo sentiti una settimana fa,- mi disse.
– Mi ricordo perfettamente di lei, ma deve capire che le tempistiche editoriali sono lunghe, molto lunghe.
– Potrò richiamarla quando crede, mi dica solo una data.
Deglutii a fatica, quasi spezzai il lapis che stringevo tra le dita: – Non funziona così, guardi. Le spiego: la casa editrice legge con i tempi e i modi che le sembrano più consoni, e poi invia una risposta scritta. E questo è tutto.
Credevo di essermi spiegato, erano cose semplici da capire, ci sarebbe voluto solo un po’ di buon senso, invece dopo una settimana esatta da quel discorsetto l’autore era di nuovo alla cornetta.
– Ha capito che cosa le ho detto la scorsa settimana?- domandai, ormai fuori di me.
– Sì,- ammise l’autore, e poi raddolcì la voce in modo davvero subdolo. – Volevo solo sapere se avevate iniziato a leggerlo, magari anche solo una sbirciatina alle prime pagine.
Disse proprio così: sbirciatina. Con tutto quello che avevo da fare- la ridda di incontri, autori e testi che mi frullavano per la testa-, lui aveva il dubbio che io avessi potuto dare una sbirciatina, così, di sfuggita, al suo libro. Lo ammetto, fui molto scortese e gli attaccai quasi il telefono in faccia. Una settimana dopo richiamava, per quello che ormai era diventato una specie di appuntamento fisso tra noi: si andava di lunedì in lunedì, e non c’era modo che sgarrasse, non ne saltava neanche uno.
– Ha letto?- mi diceva, con un intercalare atono, difficilmente attaccabile.
Rispondevo secco: – Non ancora.
Passato qualche mese i nostri rapporti settimanali presero una piega bizzarra. Attraverso le nostre brevi frasi di servizio capii che l’autore non voleva avere effettivamente un giudizio, ma si crogiolava nell’attesa. Quel supplizio in fondo era un limbo rassicurante, fatto di speranza, prima che un sì o un no giungesse a modificare la situazione in modo permanente.
– Neanche questa settimana siete riusciti a leggere il mio libro, vero?- chiedeva l’autore, sapendo perfettamente quale sarebbe stata la risposta.
Dal canto mio ormai avevo recuperato il controllo della situazione, aveva capito che quelle telefonate non erano frutto di un’insistenza, avevo compreso che avrei potuto anche non leggerlo mai, quel dannato libro.
– Purtroppo neanche questa settimana ce l’abbiamo fatta,- gli dicevo, con un rammarico un po’ sadico di cui avrei dovuto vergognarmi.
– Oh, che peccato- diceva l’autore. – Magari sarà per la settimana prossima, altri sette giorni d’attesa in fondo cosa mai potranno essere?
– Infatti,- rincaravo la dose io. – Un altro po’ di pazienza e poi forse sapremo…
Quanto durò? Sette, otto mesi. Poi le telefonate cessarono di colpo. Per un paio di settimane mi sentii sollevato, poi cominciai a preoccuparmi. Che l’autore si fosse stancato di quel giochino? Che alla fine avesse perso la pazienza prima di me? Che- ed era l’ipotesi peggiore, quella che mi faceva letteralmente impazzire- qualche altro editore gli avesse dato la risposta che attendeva? Il terzo lunedì senza chiamate recuperai la lettera d’accompagnamento, che era ancora dentro la busta insieme al dattiloscritto. Composi il numero del telefono fisso col cuore in subbuglio e le mani che mi tremavano.
– Pronto?- domandò l’autore.
– Non si è fatto più sentire,- lo incalzai.
– Mi scusi,- farfugliò lui, un po’ in difficoltà. – Sono stato occupato in altre faccende, ma non voglio annoiarla.
Altre faccende? Ma come si permetteva di lasciare in secondo piano la valutazione del suo dattiloscritto, la cosa più importante della sua vita (che immaginavo in fondo assai grama e priva di altre attrattive che non fossero quelle assai vaghe di aspirare a una qualche gloria letteraria)?
– Lei non deve più permettersi di saltare neanche un lunedì!- urlai. – Sono stato sufficientemente chiaro?
Mi disse che avrebbe senz’altro ripreso a chiamarmi eppure il lunedì successivo il telefono rimase muto. Provai a fregarmene, in fondo mi ero liberato di un peso, non sarei dovuto certo essere io a provare la sua mancanza, era lui che dipendeva da me, nella Sindrome di Stoccolma è la vittima che ama il carnefice! Strano a dirsi, ma resistetti solo un’altra settimana. Cercai di nuovo i suoi numeri. Non mi rispose né al fisso né al mobile. Non so per quanti minuti ascoltai quegli squilli, ma di certo un numero sufficiente per attestare uno squilibrio. Sulla busta che conteneva il dattiloscritto c’era anche l’indirizzo dell’autore. Mi ricordavo che abitavamo nella stessa città, così appena terminato il lavoro andai sotto casa sua. Mi attaccai al citofono come un disperato. Venne avanti la portinaia indispettita e allora chiesi di lui.
Fece una faccia greve: – Un cancro, signore.
– E’ morto?
– Gliel’ho detto, signore. E’ morto.
Mi precipitai in casa editrice a leggere, con le lacrime agli occhi.
di Andrea Inglese
Ho ripreso in mano Fortini, a vent’anni dalla scomparsa, non per celebrarne la figura: non ne possiederei le prerogative, dal momento che non sono né uno studioso della sua opera né ho pretesa, in ambito poetico, di continuarla in qualche forma, per prossimità di temi o di modi. Ma penso di poter testimoniare di un’eredità possibile proponendo, a partire da Fortini, una riflessione sul nesso poesia e minoranza.
Nel contesto storico attuale, in cui la stessa industria culturale novecentesca sembra avviata verso un’ulteriore crisi e trasformazione in senso ancora una volta monopolistico, guidata da imperativi di profitto sempre più assoluti, una scrittura come quella poetica oscilla tra lo stigma dell’obsolescente elitismo e quello della sventurata marginalità.
di Giacomo Sartori
se muoio prima io
solo pettegolezzi
e niente fiori recisi
e cazzatine da sgranocchiare
unte e un po’ letali
(per restare in tema)
poi pasta e fagioli
e vini laziali sinceri
[Per gentile concessione dell’autore, pubblichiamo la postfazione al volume L’Europa dei territori. Etica economica e sviluppo sociale nella crisi a cura di Emanuele Leonardi e Stefano Lucarelli, Orthotes, 2014]
di Stefano Lucarelli
Dalla luce del mio sepolcro
canto la parola armata
di Antonella Bukovaz
dedicato a Hanna Preuss
Soltanto solo,/sperduto,/muto, a piedi/riesco a riconoscere le cose.
Pier Paolo Pasolini
(voci fuori scena – inglese, sloveno, italiano)
Ho sognato che ero un uomo
un uomo perso nella terra
ho fatto un sogno che mi perdeva nella terra
ero un uomo
dovevo andare andare
attraversare la montagna
raggiungere… nel sogno, sono un uomo
raggiungere arrivare – andare andare…
Vani, scavati nella roccia
sono umidi e bui, entro
esco, per entrare in altri cunicoli
più piccoli più grandi… sono solo
perso
nella terra
… sono uomo
(Antigona)
guardami
sono lo specchio del corpo insepolto
riflessa, capovolta
la legge divina dimora e scorre
mentre viva, sepolta, mi divora
nel corpo acceso
sua dimora
guardami
tu sei in me
non per fusione ma per riduzione
ridotto a me
dico di me e di te
del tradimento e della legge
dico che sono sola
integra, incarnata
sola con te dentro di me
ora nasco alla storia
aspettavo da molto tempo
sola nella violenza del silenzio
in questo vuoto
in bilico
tra amore e conoscenza
(voci fuori scena – inglese, sloveno, italiano)
Ho sognato che ero un uomo
un uomo perso nella terra
ho fatto un sogno che mi perdeva nella terra
ero un uomo…
sono un uomo che parla alla terra
con la voce della terra… ho sognato… sono perso…
un uomo nel sogno… nella terra…
Quali parole? Dov’è la mia parola… la mia voce…
…
la parola di superficie
non corrisponde ai luoghi dentro la terra
non conosco i miei passi… le mie mani…
i miei occhi vedono ciò che non riconosco…
ma sono certo della prossima luce
stupito! del buio dopo altro buio
mai uguale ma altro e altro ancora…
guardami
qui dove ho posato il mio cuore, nasco
nasco dalla legge prima
dal diritto alla pietà, alla solidarietà
sono il diritto alla morte
sono la debolezza
la carezza del dolore
guardami
sono il tempo della resistenza
sono tutti gli antenati
e tutta la discendenza
la carne
innestata alla carne
un lupo affamato è il peccato di mio padre
in me, riflesso capovolto
che veglio sul dio disarmato
guardami
io dico che l’aria aperta dal flusso del cuore
porta in sé una forma di rivoluzione
degli spazi
può rivoltare i margini una corrente così
porta venti che arrossano
le nuvole all’orizzonte, disorienta
gli occhi dei tronchi dei faggi
(voci fuori scena – inglese, sloveno italiano)
Qualcuno mi aspetta e io sono un uomo, un uomo
perso nelle viscere della terra
un uomo, un uomo calmo e smarrito
di cunicolo in cunicolo… abito nel passaggio
nella frattura, nella frana…
Io partorisco qui il mio seme
lo rilascio intero alla terra e alla pietra
all’aria ai muschi al buio
alla corrente e al tempo.
guardami
muove verso la soglia la vita
non c’è luogo migliore per la rivolta
e sarà amore per l’ultima parola
e sarà parola-fondamento
sarà amore che genera metamorfosi
sarà civiltà, sarà diritto
parlerà la legge della creazione
intrecciata all’ultimo mio respiro
e tu? per chi? ricopri di splendore
il tuo potere cieco
dalla luce del mio sepolcro
canto la parola armata
nella sfida ti sfido e creo
sto nella cerimonia
col mio canto ti tengo, proteggo
tra le braccia della mia debolezza
la tua parola è muro senza salvezza
solo sangue senza rito
che uomini dopo di te tradiranno
moriranno i tuoi figli
io alzo la polvere – ricopro la pena
tra le mie dita scorre l’acqua
rigenera la vita, dà vita alla terra
saranno poi uomini nuovi
saranno donne con le figlie sulle spalle
i figli al fianco
(voci fuori scena – inglese, sloveno, italiano)
… nel buio della terra
nella commozione dell’ascesa
nelle braccia e nella forza
nell’oscurità
ho ancora mani per cercare il pane
dalla voragine apertasi alla mia ombra, risalgo
aggrappandomi ai sassi e alle radici che viscide
il vuoto della terra ha scoperte
mi aggrappo e risalgo intero, colmo, roteando, rilascio
odori di marcescenza e in questo, la vita
risuono e sono in me
spargo la mia voce nel tutto
e nel niente della storia
del buio trasudo la vita
seguo dentro me il dio sconosciuto
e non temo memoria
rallento, risalgo al fondo
mi attende un ritorno
lungo i sentieri della montagna
m’incammino con il pensiero ancora dentro
dove mi ero quasi perso l’animo
e nel buio dopo altro buio
mai uguale ma altro e altro ancora
che appartiene anche alla superficie
qualcuno mi aspetta e io sono l’uomo
l’uomo
e torno
…
“e nevi e piogge cadono su lei che si dissolve goccia a goccia”
Sezione Culturale-Educativa dell’Esercito degli Insorti [Makhnovisti]
27 aprile 19201. Chi sono i makhnovisti e per che cosa si battono?
I Makhnovisti sono operai e contadini che insorsero fin dal 1918 contro la tirannia del potere della borghesia germano-magiara, austriaca e hetmanita in Ucraina. I Makhnovisti sono quei lavoratori che per primi innalzarono lo stendardo della lotta contro il governo di Denikin e tutte le altre forme di oppressione, di violenza e di menzogna, qualunque fosse la loro origine. I Makhnovisti sono quei lavoratori sulla cui fatica la borghesia in generale, ed ora quella sovietica in particolare, ha costruito il proprio benessere ed è divenuta grassa e potente.
2. Perché ci chiamiamo Makhnovisti?
Perché per la prima volta durante i giorni più oscuri della reazione in Ucraina, abbiamo visto tra noi un amico leale, Makhno, la cui voce di protesta contro ogni forma di oppressione dei lavoratori risuonò per tutta l’Ucraina, esortando alla lotta contro tutti i tiranni, i malfattori e i ciarlatani della politica che ci ingannavano, Makhno, che ora marcia deciso al nostro fianco verso la mèta finale, l’emancipazione del proletariato da ogni forma di oppressione.
3. Che cosa intendiamo per emancipazione?
Il rovesciamento dei governi monarchici, di coalizione, di repubblicani, socialdemocratici e del partito comunista bolscevico, cui deve sostituirsi un ordine indipendente di soviet dei lavoratori, senza più governanti né leggi arbitrarie. Perché il vero ordine dei soviet non è quello instaurato dal governo socialdemocratico-comunista bolscevico, che ora si definisce potere sovietico, ma una forma più alta di socialismo antiautoritario e antistatale, che si manifesta nell’organizzazione di una struttura libera, felice e indipendente della vita dei lavoratori, nella quale ciascun individuo, così come la società nel suo complesso, possa costruirsi da sé la propria felicità e il proprio benessere secondo i principî di solidarietà, di amicizia e di uguaglianza.
4. Come consideriamo il sistema dei soviet?
I lavoratori devono scegliersi da soli i propri soviet, che soddisferanno i desideri dei lavoratori – cioè, soviet amministrativi, non soviet di stato. La terra, le fabbriche, gli stabilimenti, le miniere, le ferrovie e le altre ricchezze popolari devono appartenere a coloro che vi lavorano, ovvero devono essere socializzate.
5. Attraverso quale via i Makhnovisti potranno realizzare i loro obiettivi?
Con una rivoluzione senza compromessi e una lotta diretta contro ogni arbitrio, menzogna ed oppressione, da qualunque fonte provengano; una lotta all’ultimo sangue, una lotta per la libertà di parola e per la giusta causa, una lotta con le armi in mano. Solo attraverso l’abolizione di tutti i governanti, distruggendo le fondamenta delle loro menzogne, negli affari di stato come in quelli economici, solo con la distruzione dello stato per mezzo della rivoluzione sociale potremo ottenere un vero ordine di soviet e giungere al socialismo.
Nella pausa delle domeniche, in pomeriggi verso il buio sempre più vicino, fra equinozi e solstizi, mentre avanza Autunno e verrà Inverno, poi “Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera“, riscoprire film rari, amati e importanti. Scelti di volta in volta da alcuni di noi, con criteri sempre diversi, trasversali e atemporali.
di Marco Zerbino
Uno dei lasciti più problematici di atti criminali come quello verificatosi lo scorso 7 gennaio nella redazione di Charlie Hebdo ha a che fare con il clima binario che tipicamente essi generano. “O di qua, o di là”, suonano sempre i primi commenti a caldo, e questo sembrava dire anche l’oceanica manifestazione tenutasi la domenica successiva al massacro, il cui slogan principale era “Je suis Charlie” (associato anche all’altro “Je suis Charlie, flic, juif”: “Sono Charlie, poliziotto, ebreo”). Buona parte delle analisi e delle ricostruzioni, come anche il vissuto (più o meno conscio e ammesso) del cittadino medio occidentale bianco, finiscono fatalmente per strutturarsi attorno alle ben note coppie antinomiche “bene/male”, “libertà/dispotismo”, “democrazia/teocrazia”, “lumi della ragione/tenebre oscurantiste”, “occidente/islam”, “civiltà/barbarie”, “Noi/Loro”… Lista che, va da sé, potrebbe continuare.
Vorrei tuttavia rassicurare il lettore. Quanto sta per leggere non contiene l’ennesima tiritera sulla falsariga di quelle che le prefiche liberal e progressiste amano intonare in riferimento ad accadimenti terribili come quello di rue Nicolas Appert: che il “vero” islam non ha niente a che fare con il fondamentalismo; che esso è anzi religione di pace e di tolleranza; che l’islam ha contribuito tantissimo allo sviluppo della civiltà umana sin dal Medioevo e via discorrendo.
Di capire se il messaggio del Corano sia o meno un messaggio di pace e tolleranza confesso infatti, mea culpa, che non me ne importa granché, e d’altro lato dubito che abbia molto senso un simile esercizio, considerato come il testo sacro dei musulmani, al pari della Bibbia cristiana e della Torah ebraica, sia un libro dal contenuto spesso simbolico, evocativo e contraddittorio, non un saggio fresco di stampa dal quale si possano pretendere una coerenza interna e una weltanschauung organica. Un prodotto storico, oltretutto, che non può non risentire, in termini di valori e mentalità sottostanti, delle caratteristiche della realtà sociale e culturale che lo ha espresso.
Quanto alla presunta esistenza di un “vero” islam da contrapporre al fondamentalismo islamista, facilmente liquidato come “falsa” impostura, ritengo si sia ben espresso nei giorni immediatamente successivi alla carneficina parigina Tariq Ali: “Ci sono diverse versioni dell’islam […]; è insensato parlare in nome del ‘vero’ islam. La storia dell’islam, sin dai primordi, è stracolma di conflitti fra fazioni diverse. […] Differenze di questo tipo esistono ancora oggi”.
Ovvero: proprio perché stiamo parlando di un fenomeno storico multiforme non ha molto senso andare alla ricerca di un’essenza “vera”, né distinguere aristotelicamente fra sostanza e accidente; d’altro lato e per lo stesso motivo, come è stato giustamente osservato, non ha neanche senso pretendere assurdi atti pubblici di dissociazione da parte di quella maggioranza di musulmani che non è mai stata sfiorata dall’idea di fare visita alla redazione di un giornale imbracciando un AK-47. È chiaro che il fenomeno social-religioso che chiamiamo islam ha assunto anche, particolarmente nel corso degli ultimi tre o quattro decenni, le sembianze del fondamentalismo islamista. Che in ciò abbiano avuto un ruolo importantissimo l’eclissi di un’opzione anticolonialista laica, diversamente marxisteggiante e socialisteggiante, e gli interessi delle nazioni capitalistiche occidentali che oggi dichiarano guerra al fondamentalismo in nome della libertà e della democrazia, e che tale situazione perduri tuttora, non cambia la sostanza: l’islam (analogamente alle altre due religioni del libro) ha anche un volto fondamentalista e lo ha oggi, per ragioni storiche precise, in misura maggiore degli altri due monoteismi, la cui forma attuale è il risultato di un lungo e per nulla pacifico processo di secolarizzazione.
Insomma e per farla breve: non penso che le tristi generalizzazioni richiamate all’inizio possano essere contrastate col piagnisteo intriso di senso di colpa tipico del liberal occidentale che mette le mani avanti esclamando contrito di fronte all’islamofobo di turno “Loro non sono così!”. Una parte (minoritaria) di “Loro”, in realtà, è anche così. Può esserlo e può diventarlo. Il problema vero nasce tuttavia nel momento stesso in cui, quando ancora riecheggiano i colpi dei kalashnikov, lo scenario del “Noi” e del “Loro”, questi fastidiosi fantasmi, viene posto in essere o nella maggior parte dei casi riattivato dopo un periodo più o meno lungo di stand-by.
Scenari e fantasmi: eccoli, i frutti avvelenati del massacro, quegli stessi che il jihadismo (al pari del lepenismo e del “salvinismo”) si propone consapevolmente di alimentare. Sono il Noi e il Loro ad avere la meglio su tutto il resto, a divorarlo. Non si è più lavoratori, colleghi, vicini di casa, compagni di scuola o di università. Si è innanzitutto arabi e musulmani, europei, bianchi e “cristiani” (che magari hanno messo piede in chiesa l’ultima volta al matrimonio dell’amico).
Questa lente deformante, sempre lì pronta ad essere utilizzata, dopo eventi come quello del 7 gennaio tende a diventare lo strumento privilegiato tramite il quale osservare il mondo. La questione che qui vorrei affrontare è quindi la seguente: in che misura la “sinistra reale”, ovvero la sinistra tardoriformista non-più-comunista-né-marxista odierna, disancorata com’è da una lettura di classe della realtà storico sociale e dimentica della nozione di imperialismo, ha finito per indossare anch’essa quelle lenti nei giorni successivi alla strage di rue Nicolas Appert? Di sinistra vorrei parlare, nelle righe che seguono, non tanto di Charlie, specificando preventivamente che non faccio rientrare all’interna di questa categoria la famiglia socialdemocratica tradizionale (che di sinistra non ha più nulla da decenni) e che mi riferisco invece a ciò che si muove “alla sinistra”, per l’appunto, del Pse. Per fare ciò, tuttavia, dovrò necessariamente parlare di Charlie.
Ridi, rivoluzione!
Nei giorni a cavallo fra la fine del 2010 e l’inizio del 2011 gli scenari e i fantasmi che da circa un decennio turbavano i sonni dei cittadini europei e americani subivano un duro ridimensionamento. Prima a Tunisi e poi al Cairo centinaia di migliaia di persone scendevano in piazza non per inneggiare ad Allah o chiedere di censurare qualche vignetta ma per ottenere democrazia, lavoro e la fine di regimi repressivi e corrotti. Meglio: il loro gridare, talvolta, “Allah akbar” non gli impediva di battersi per un futuro di democrazia e di diritti. Le immagini televisive delle strade di Tunisi lasciavano intravedere, oltre alle numerose bandiere nazionali, anche qualche bandiera rossa con l’effigie di Che Guevara e dopo le prime manifestazioni spontanee un ruolo importante veniva giocato nella convocazione dei successivi appuntamenti dall’Ugtt, la centrale sindacale del paese nordafricano. L’onda, cominciata ad ingrossarsi subito dopo il sacrificio dell’ambulante tunisino Mohamed Bouazizi, in poche settimane spazzava via due regimi decennali come quelli di Zine El-Abidine Ben Ali e Hosni Mubarak.
Nell’estate successiva a quegli eventi mi trovavo al Cairo con alcuni amici. Era Ramadan e, nella sede di un piccolo partito di estrema sinistra da poco emerso dall’illegalità, guardavo con uno stupore destinato a dissolversi nel giro di qualche giorno alcuni militanti di quell’organizzazione (non tutti) che osservavano il tradizionale digiuno. Ricordo bene come, nel corso di una riunione su questioni sindacali (l’Egitto postrivoluzionario vedeva allora la nascita di nuove confederazioni indipendenti contrapposte a quella ufficiale legata a doppio filo al passato regime), una donna velata prendesse la parola per fare un intervento quanto mai combattivo a sostegno delle nuove esperienze e contro l’Etuf, il sindacato governativo corrotto e colluso con la dittatura. Era una leader operaia nella sua fabbrica, mi venne detto dalla persona che si era offerta gentilmente di farmi da interprete. Se fosse anche una militante socialista non lo riuscii a capire, quel che è certo è che stava tenendo un comizio dentro la sede di un partito che si definiva socialista rivoluzionario. Lì per lì, mi tornarono in mente le parole del ritornello della canzone che avevo sentito qualche sera prima in piazza Tahrir: Idhaki Ya Thawra (letteralmente “Ridi, rivoluzione!”), un motivo composto e suonato durante le oceaniche manifestazioni di febbraio dal giovane cantautore autodidatta Ramy Essam, al quale la folla rispondeva immancabilmente con un fragoroso e liberatorio “Ah! Ah! Ah!”.
Voglio dire: cos’è una donna velata? Se a prevalere sono gli scenari e i fantasmi, il Noi-Loro, sarà inevitabilmente una donna sottomessa, o tutt’al più una bigotta felice di esserlo. Non nego che il velo sia in ultima analisi un segno di sottomissione, un’imposizione determinata fondamentalmente dallo sguardo dell’uomo-padre-fratello-marito che si posa sul corpo femminile. Contesto tuttavia che il concreto soggetto di sesso femminile che porta il velo debba essere privato, una volta immerso nello scenario del Noi-Loro, di una sua personale elaborazione riguardante il fatto di portarlo, vale a dire del suo status stesso di soggetto, e del diritto di non vedere ridotta la complessità della propria vita ed esperienza al fatto di essere una “portatrice-di-velo”. È un processo tipico della dinamica della vittimizzazione, del resto: alla vittima è assegnato il ruolo di passivo-abusato e nulla più e, in quest’ottica, non rimane che aspettare la Femen di turno in grado di spezzarne le catene (augurando alla forsennata in topless di spezzare magari un giorno anche le proprie).
Al contrario, una donna velata può essere mille cose: una lavoratrice incazzata, una bigotta, tutte e due le cose insieme, una lavoratrice tendente al bigotto ma non troppo, una vignettista di un quotidiano laico e progressista accusata di blasfemia dal governo dei Fratelli Musulmani, una per la quale il velo ha soprattutto un valore estetico e va ben abbinato alle scarpe, una donna che il velo non vorrebbe portarlo affatto ma che deve farlo perché glielo impone la famiglia (o lo Stato, o entrambi), una fondamentalista convinta e ideologizzata, una che vede il velo innanzitutto come simbolo di un’identità e di radici che ritiene importante rivendicare nella società occidentale in cui vive, eccetera. Da questo punto di vista, le differenze fra “Noi” e “Loro”, che pure possono esserci, sono senz’altro riconducibili a un più marcato processo di secolarizzazione che ha investito le nostre società, ma è altrettanto vero che la nostra realtà non è l’unica ad essere (stata) conflittuale e che non disponiamo del copyright della contraddittorietà. Tutto ciò senza tralasciare il fatto che un certo riflusso di tipo religioso e tradizionalista che ha caratterizzato diverse società mediorientali negli ultimi decenni ha cause politiche e geopolitiche: in fin de conti, nell’Egitto di Nasser le donne andavano al mare in bikini…
Per fortuna, sprazzi di tale complessità possono arrivare fino a noi, ad esempio quando le masse di paesi musulmani come la Tunisia e l’Egitto decidono di darci una lezione di dignità e democrazia rovesciando regimi basati sulla repressione poliziesca e la tortura (ridendoci poi anche su: “Ah! Ah! Ah!”), oppure (avviene sempre più spesso fra le giovani generazioni) quando la prossimità con “Loro” riesce a fare da contrappeso a scenari e fantasmi. Ciononostante, il Mar Rosso dei fantasmi fa presto a richiudersi al di sopra della complessità, soprattutto dopo fatti come quelli di Parigi.
Per venire quindi al “Je suis Charlie”: certo che lo sono, se lo slogan sta a significare l’orrore verso un atto barbaro e la difesa della sacrosanta libertà di offendere qualsiasi religione. Il punto però è che la versione del “Je suis Charlie” vista all’opera domenica 11 gennaio ammiccava troppo, veramente troppo, a scenari e fantasmi. Non solo a sfilare era un Noi assolutamente contraddittorio (bastava dare un’occhiata alle prime file del corteo) ma era anche un Noi che si presupponeva come al solito immacolato, privo di scheletri nell’armadio e scevro da responsabilità in relazione al sorgere del jihadismo. Era, nello specifico contesto francese, il Noi della République dal passato coloniale che ben conosciamo, il Noi di una laicità di Stato troppo spesso usata come strumento di controllo e di discriminazione nei confronti di milioni di musulmani residenti in Francia.
Dunque, la sinistra. Può accettare di sfilare con Hollande, Netanyahu &Co una sinistra in grado di distinguere e di mantenere alcuni punti fermi, tipo che la responsabilità principale del sorgere del jihadismo è dell’imperialismo e che i palestinesi hanno diritto a una vita decente nella loro terra senza essere occupati militarmente? Può scendere in strada al fianco delle istituzioni della République, quella stessa République che ha ridotto in catene mezza Africa e che penalizza in diversi modi i propri cittadini di fede musulmana collocati ai gradini più bassi della scala sociale, una sinistra che aspiri realmente a cambiare il mondo rendendo protagonista di tale cambiamento chi per vivere deve lavorare (quando il lavoro lo trova) e non ha patrimoni accumulati né santi in paradiso?
Sta di fatto che la quasi totalità delle sigle della sinistra politica e sindacale transalpina hanno partecipato a quella marcia senza batter ciglio. Lo ha fatto ad esempio il Front de Gauche di Jean-Luc Mélenchon (che comprende anche il Partito Comunista Francese) e lo hanno fatto diversi sindacati, dalla Cgt al radicale Solidaires-Sud (qualcosa di simile ai nostri Cobas). Uniche eccezioni il Nuovo Partito Anticapitalista (erede della Ligue Communiste Révolutionnaire di Alain Krivine e Daniel Bensaïd) e Lutte Ouvrière. Di questa “sinistra reale”, il minimo che si possa dire è che è subalterna alla retorica ufficiale della laïcité e restia ad agire sulle contraddizioni di classe, come anche a guardare in faccia il passato coloniale del proprio paese.
Charlie razzista?
Charlie Hebdo, settimanale “ateo” fatto da ex sessantottini e da gauchisti anticlericali impegnati nella battaglia in difesa della laicità, risentiva non poco di questa impostazione. Nei giorni successivi all’attentato ho faticato parecchio, complici anche la distanza e il fatto di non essere francese, a chiarirmi le idee su quale fosse la vera natura del giornale. Estremizzazioni di segno opposto corrispondenti in parte a fasi successive di “digestione mediatica” dell’evento non mi sono state affatto di aiuto.
L’iniziale coro unanime attorno al “Je suis Charlie” e l’invito ossessivo rivolto a singoli e testate a ripubblicare vignette delle quali il minimo che si può dire è che possono non piacere ha in un primo momento offuscato un fatto. Stiamo parlando di un giornale che ospitava sì anche editoriali e articoli “seri”, firmati talvolta da personalità di spessore intellettuale come l’economista Bernard Maris, anche lui barbaramente assassinato il giorno della strage. Ciò non toglie, tuttavia, che le pagine più espressamente satiriche fossero per lo più animate dal gusto goliardico della battuta da spogliatoio e dell’oltrepassamento dei limiti fine a se stesso, conducendo non di rado sull’orlo della demenzialità nichilista. Nulla di male, per carità, senonché, nelle prime ore dopo il massacro, il processo di santificazione delle vittime della mattanza ha rapidamente raggiunto livelli di guardia, seguendo modalità che esse stesse avrebbero verosimilmente aborrito, fossero state ancora in vita. Non a caso il disegnatore Luz, uno dei superstiti, ha espresso in quei giorni il proprio smarrimento affermando in un’intervista: “Oggi tutti ci guardano, siamo diventati dei simboli, ma quelle che sono state uccise erano semplicemente delle persone che disegnavano pupazzetti”. Un’affermazione che lascia l’amaro in bocca, che comunica tutta l’insensatezza del gesto omicida, ma che è ciononostante tragicamente vera.
D’altro lato, nel giro di qualche giorno sono cominciate a fioccare, oltre alle analisi dietrologiche e complottistiche, le accuse di “razzismo” rivolte a Charlie (in realtà già al centro di polemiche passate, fra cui quella sollevata dall’ex redattore del giornale Olivier Cyran). Va detto che sono stati soprattutto autori e testate del mondo anglofono a indulgere a questo tipo di rappresentazione del lavoro di Charb e compagni, senza dubbio anche sotto l’influsso e del modello multiculturalista che vige negli Usa e in Gran Bretagna e dell’idea, peculiarmente statunitense, di una totale libertà di espressione, quella prevista dal Primo Emendamento, debitamente “calmierata” dall’osservanza del politically correct e delle leggi contro gli hate speech.
La tendenza a parlare di “razzismo” tout court ha inoltre contagiato nelle settimane passate la stragrande maggioranza delle realtà politiche e culturali di sinistra e di estrema sinistra inglesi e statunitensi, in una sorta di rovesciamento di quanto avvenuto in Francia. Se, come si è visto, la gauche e l’extreme gauche hanno dimostrato in questa circostanza di avere serie difficoltà a sottrarsi alla retorica laico-repubblicana e al clima da union sacrée, i vari partitini “extraparlamentari” della sinistra anglosassone (a partire dal britannico Socialist Workers Party) si mostravano subito inclini nelle loro prese di posizione pubbliche a calcare la mano contro Charlie Hebdo, menzionando solo di sfuggita l’attentato. Jacobin Magazine, la bella rivista creata da alcuni giovani leftists statunitensi che da qualche anno è ormai sulla cresta dell’onda, ha pubblicato lo stesso giorno dell’attentato un articolo firmato dall’intellettuale marxista Richard Seymour che definiva Charlie “a racist publication”, rimandando coloro che non ne fossero ancora convinti alla lettura di Edward Said.
Confesso di non aver letto Said, e cercherò di rimediare. Tuttavia, ritengo che l’uso di una categoria così fortemente connotata come quella del razzismo non aiuti molto a comprendere la vera natura di Charlie e ciò che in essa dovrebbe risultare problematico per una sinistra degna del nome. A tal fine, è necessaria un’analisi accurata del contenuto delle pagine del giornale, cosa che personalmente ho cercato per quanto possibile di fare (mentre c’è chi ostenta volentieri la propria ignoranza in materia dopo aver dispensato giudizi apodittici). La conclusione a cui sono giunto è che le accuse di razzismo non tengono, se per razzismo intendiamo un atteggiamento coscientemente volto a stigmatizzare un gruppo sociale e a sostenerne l’inferiorità in rapporto al resto della società, vale a dire un’intenzione razzista. Vignette fra le più controverse, come quella che ritrae la ministra francese Christiane Taubira nei panni di una scimmia o quella sulle ragazze nigeriane rapite da Boko Haram, sono state spesso citate da diversi organi di informazione di lingua inglese come prova del razzismo di Charlie. In realtà, per quanto personalmente le consideri detestabili e niente affatto divertenti, credo vadano viste in relazione al contesto che le ha prodotte e, per l’appunto, all’intenzione sottostante.
La “caricatura” della ministra venne ad esempio pubblicata in risposta alla sortita di un membro del Front National che aveva, lui, paragonato Taubira, originaria della Guiana francese, a una scimmia, ed aveva come obiettivo polemico innanzitutto lo stesso partito di Marine Le Pen (peraltro preso spesso di mira da Charlie). Scelta editoriale discutibilissima, va da sé, ma non direttamente equiparabile alla pubblicazione di una caricatura a sfondo razzista da parte del settimanale nazista Der Stürmer o di una rivista satirica letta dagli americani wasp negli Stati Uniti del Sud all’epoca delle segregazione razziale. Lo stesso dicasi per la copertina con le schiave sessuali di Boko Haram che gridano, gravide in seguito alle violenze subite (!), “Non toccate i nostri sussidi!”: la trovo francamente disgustosa, ma mi sembra abbastanza chiaro che è più che altro volta ad ironizzare sulla paranoia destrorsa che vede in qualsiasi donna di colore con figli una potenziale “welfare queen”, una “regina del welfare” che vivrebbe alle spalle dello Stato francese.
Detto ciò è altrettanto chiaro che ci troviamo di fronte a un esercizio dell’ironia che procede su una china pericolosa e che, nel suo disprezzo integralista per il politically correct, se pure non risponde a intenzioni esplicitamente razziste finisce di fatto per rinforzare pregiudizi e stereotipi razzisti. A conferma di ciò si potrebbero citare anche altre chicche su “negri” e affini che appaiono francamente raggelanti, tanto più se consideriamo che sono state pubblicate da un giornale “di sinistra” in un paese che ha il passato coloniale che sappiamo.
Anni fa, quando insieme a un caro amico conducevo un programma satirico su una radio locale romana, ebbi modo di confrontarmi in prima persona con i problemi etici connessi col mestiere di far ridere la gente. Una specie di rassegna stampa settimanale ci offriva il pretesto per ironie varie, tormentoni e battute. Eravamo ben lungi dall’essere dei professionisti, lo stile era casareccio, la preparazione prima di andare in onda minima e spesso limitata alla scelta dei materiali e degli interludi musicali, eppure ricordo perfettamente come più di una volta mi dovetti porre il problema del messaggio che avrei veicolato facendo una certa battuta. Non solo: in maniera anche più radicale, dovetti interrogarmi su quanto fosse lecito o meno ironizzare in assoluto su determinati argomenti. Con buona pace di Charlie, penso ancora oggi che fare satira comporti una responsabilità e che il fatto di sparare a zero indifferentemente su tutti non sia sufficiente, di per sé, ad eliminare il problema.

Veniamo quindi proprio all’idea per cui i redattori del giornale sarebbero stati degli equal opportunity offenders, equanimemente schierati contro tutte le religioni e soprattutto contro le loro manifestazioni più integraliste. Non credo si allontani troppo dalla verità, almeno per quanto riguarda cristianesimo, ebraismo e islam, tutti e tre presi di mira dal giornale. Com’è pure abbastanza vero che, se limitiamo lo sguardo alle vignette, la tendenza che emerge in linea di massima è quella a prendere per i fondelli le religioni in quanto tali più che i gruppi sociali associabili alla tal fede religiosa. La distinzione non è di poco conto: c’è differenza fra prendersela con Maometto pubblicando le famose vignette e prendersela con i musulmani (soprattutto se nel paese in cui usciamo in edicola quest’ultimi sono una minoranza che non se la passa poi benissimo), ed è diverso usare la caricatura di un barbuto dai tratti mediorientali e il naso adunco per significare un fondamentalista (cosa che si evince in genere dal testo e dal contesto) o per veicolare semplicemente lo stereotipo del musulmano.
Anche qui, tuttavia, il rischio di scivolare nella stigmatizzazione e nell’alimentazione del pregiudizio è sempre dietro l’angolo, come dimostrano alcune immagini che stereotipate lo sono eccome, basti pensare a quelle delle donne musulmane velate sottomesse e sgobbone in balia di un marito fannullone e maschilista (scenari e fantasmi, dicevamo…), o altre che suggeriscono un’associazione automatica fra islam/barbuti da un lato e spose bambine o mogli in saldo dall’altro. Perché non rappresentare allora l’Italiano con la coppola e la lupara, il mandolino e i baffi neri, la canottiera macchiata di sugo e la moglie vestita di nero che lava i piatti sullo sfondo? E perché non tratteggiare la figura dell’Ebreo con tanto di naso adunco e barbetta, intento a maneggiare soldi o a manovrare nell’ombra le sue pedine collocate nel sistema politico, mediatico e giudiziario?
Ateismo e guerra al terrore
In realtà, Charlie Hebdo ha mostrato di aver ben chiaro il concetto di stereotipo quando si è trattato di licenziare su due piedi Siné, lo storico collaboratore del giornale accusato di aver scritto un articolo in cui la presunta conversione all’ebraismo del figlio dell’allora presidente Nicolas Sarkozy, da poco convolato a nozze con la ricca ereditiera ebrea Jessica Sebaoun-Darty, veniva commentata con le parole “Farà strada, il ragazzo!”. “L’iter giudiziario” ha scritto su questo sito Jamila Mascat “avrebbe scagionato Siné e condannato Charlie a risarcirlo cospicuamente, ma intanto un gesto del genere, da parte di un giornale che si è sempre vantato di cantarle a tutti e non risparmiarle a nessuno, avrebbe suscitato più di qualche reazione sgomenta in redazione e fuori”. La decisione di silurare Siné venne presa dal direttore dell’epoca, Philippe Val, in seguito nominato da Sarkozy al vertice di France Inter, una delle maggiori radio pubbliche francesi.
Val (che da direttore dell’emittente avrebbe poi accusato Edward Snowden, la “talpa” dello scandalo Nsa, di essere un traditore della democrazia) rimase alla guida di Charlie Hebdo dal 1992 al 2009, ed è a lui che si deve la deriva parzialmente islamofoba del giornale verificatasi negli anni Duemila. Poiché da più parti si contesta l’uso di tale concetto sostenendo che è privo di significato o, peggio, indice di un atteggiamento pregiudizialmente favorevole all’islam (o anche paternalisticamente incline a risparmiarlo da ogni critica in quanto “religione degli oppressi”), tenderei a definirlo nel seguente modo: l’“islamofobia” è la costruzione sistematica dello spauracchio dell’islam prestantesi al clima da scontro di civiltà seguito all’11 settembre 2001 e funzionale alle campagne militari imperialiste successive. Esempio abbastanza paradigmatico di un atteggiamento islamofobo originato da un’attenzione esclusiva al tema della laicità nel quadro di un ateismo astratto è ad esempio quello di Christopher Hitchens, l’intellettuale britannico esponente del movimento dei new atheists deceduto nel 2011 e già sostenitore, in nome della critica antireligiosa, delle imprese militari di Bush jr. in Afghanistan e in Iraq. Con riferimento all’Italia si potrebbe invece citare il caso di Oriana Fallaci che, se pure arrivò a definirsi nell’ultima parte della sua vita un’“atea-cristiana” e un’ammiratrice di Benedetto XVI proprio in funzione filoccidentale e anti-islam, seguì una traiettoria simile a quella di Hitchens dopo l’11 settembre.
Ed è proprio alla Fallaci che rendeva omaggio nel 2002 dalle colonne di Charlie il filosofo Robert Misrahi. Erano gli anni immediatamente successivi alla carneficina delle torri gemelle, anni che videro almeno una parte della redazione del settimanale, a partire dal direttore e da alcune firme di punta come la giornalista Caroline Fourest, spostarsi su posizioni sempre più inclini ad accettare l’idea dello scontro di civiltà, così essenziale alla legittimazione ideologica della war on terror che muoveva allora i suoi primi passi. Diversi esempi di tale deriva potrebbero essere citati, tutti ricavabili dalle prese di posizione serie del giornale: dal furioso attacco di Val a Noam Chomsky, colpevole di essere “un americano che odia l’America”, alla pubblicazione, in piene campagne militari d’Iraq e Afghanistan, del Manifesto dei dodici, firmato da Val insieme a Bernard-Henri Lévy e Ayaan Irsi Ali e diretto contro la “nuova minaccia globale di tipo totalitario” rappresentata dall’islamismo, per finire con editoriali come quello vergato dal direttore nel 2006, nei giorni dell’offensiva israeliana in Libano: “Se prendiamo in mano una carta geografica del mondo e ci spostiamo verso est, osserviamo che al di là delle frontiere dell’Europa, e cioè della Grecia, il mondo democratico finisce. Troviamo solo un piccolo coriandolo nel Medio Oriente: lo stato di Israele. Dopo di che, più nulla fino al Giappone. […] Fra Tel Aviv e Tokyo regnano poteri arbitrari che hanno un unico modo per rimanere a galla, quello di tenere in vita, fra popolazioni all’80% analfabete, un odio selvaggio nei confronti dell’Occidente, per via del fatto che esso si compone di democrazie”.
Insomma, il problema non sono le vignette su Maometto o sull’islam. Lo sono forse un po’ di più quelle che, consapevolmente o no, finiscono per veicolare fastidiosi stereotipi. Ciò che dovrebbe invece realmente fare difficoltà, soprattutto a sinistra, è l’aver sacrificato sull’altare della laicità tutto il resto, trasformando così la battaglia atea e anticlericale in una linea politica “permeabile al sionismo” (l’espressione è di Jean-Patrick Clech), orfana di un’analisi di classe, totalmente dimentica della nozione di imperialismo e in ultima analisi incline a far propria l’idea di uno scontro in atto fra “civiltà” e barbarie. Il tutto è avvenuto all’ombra delle credenziali gauchiste del giornale, considerate come immunizzanti rispetto a qualsiasi tipo di critica, una sorta di lasciapassare utilizzabile all’occorrenza. In realtà, che alcuni dei membri della redazione di Charlie Hebdo fossero vicini a organizzazioni politiche della sinistra radicale francese (ai funerali di Charb l’orazione funebre è stata tenuta da Mélenchon in persona) non significa granché. Anzi, come si è già detto, suona piuttosto come una conferma dell’orizzonte “tricolore” e repubblicano entro il quale si muoveva da più di un decennio il giornale.

Le belle bandiere
Noi-Loro. Fantasmi. O anche “totem”, come ha scritto recentemente Alain Badiou. In quella che il filosofo definisce una guerra delle identità “la Francia tenta di distinguersi tramite un totem di sua invenzione: la ‘Repubblica democratica e laica’, o ‘il patto repubblicano’”. Tale totem serve a valorizzare, secondo Badiou, l’“ordine costituito parlamentare francese”, avendo svolto questa funzione sin dal momento della sua fondazione: “il massacro di 20.000 operai nelle strade di Parigi avvenuto nel 1871 ad opera degli Adolphe Thiers, dei Jules Ferry, dei Jules Favre e di altre star della sinistra ‘repubblicana’”.
“Questo ‘patto repubblicano’, al quale hanno aderito anche alcuni ex gauchisti, fra i quali quelli di Charlie Hebdo, ha sempre sospettato che si tramassero cose spaventose nei quartieri popolari, nelle fabbriche e negli oscuri bistrot di periferia”. “La Repubblica”, prosegue il filosofo “ha sempre riempito le proprie prigioni di giovani sospetti che in quei quartieri abitavano, utilizzando a tal fine i pretesti più vari. Si è anche, la Repubblica, resa autrice di diversi massacri e dell’istituzione di nuove forme di schiavitù necessarie al mantenimento dell’ordine nell’impero coloniale. […] Si dà il caso che attualmente una gran quantità di giovani che abitano in periferia, oltre ad essere dediti ad attività losche e ad essere poco istruiti, abbiano dei genitori proletari di origine africana, o siano essi stessi venuti dall’Africa per poter sopravvivere e che, conseguentemente, siano spesso di religione musulmana. Sono quindi ad un tempo proletari e colonizzati. Due motivi per guardarli con sospetto e per renderli oggetto di serie misure repressive”.
A partire dal 1905, anno di introduzione nell’ordinamento francese della loi de séparation des Églises et de l’État, il totem repubblicano individua nella laicità delle istituzioni pubbliche uno dei suoi elementi costitutivi. Nulla di sbagliato, anzi, ma l’uso che della laicità fa da qualche decennio a questa parte la République appare quanto meno intrecciato con le contraddizioni sociali innescate nella madre patria dalla smobilitazione dell’impero coloniale e dai flussi migratori ad essa connessi. Contraddizioni che arrivano a piena maturazione negli anni Ottanta e di cui le prime rivolte delle banlieues, che vedono protagonista un’intera generazione di giovani musulmani nati in Francia e cresciuti da apolidi de facto, sono la spia allarmante. È la generazione che, come il protagonista di Arabico, il fumetto del disegnatore franco-algerino Halim Mahmoudi, si pone domande circa la propria identità senza riuscire a darsi una risposta: “arabi” in Francia (anche quando formalmente cittadini francesi) e stranieri nel proprio paese di origine. In tale contesto, il confine fra la giusta applicazione del principio di laicità e la sua strumentalizzazione da parte dello Stato francese nel quadro della guerra delle identità di cui parla Badiou si fa sempre più labile.
La vicenda della legge contro i simboli religiosi nelle scuole pubbliche approvata dall’Assemblea Nazionale nel 2004 è da questo punto di vista paradigmatica. Non è certo un mistero il fatto che l’idea di una simile normativa, formalmente rivolta contro tutti i simboli religiosi appariscenti, sia nata in realtà soprattutto con la finalità di proibire l’uso del velo da parte delle allieve di religione islamica. Sostenuta a destra e a sinistra (compattamente dal Partito Socialista e con qualche mal di pancia in più dal Pcf) in quanto legge “femminista” e volta a scoraggiare derive identitarie e comunitariste, a più di dieci anni dalla sua introduzione la sua efficacia in tal senso è ancora fortemente in discussione. Più plausibile è che essa abbia invece contribuito ad esasperare la polarizzazione identitaria, verosimilmente anche nelle ragazze che ha inteso liberare e che, piaccia o no, oltre che donne si sentono magari anche musulmane e membri della propria comunità di origine.
Che anche la sinistra di matrice socialista e comunista abbia, con buona pace di Élisabeth Badinter che afferma il contrario, perso la bussola fuorviata dal proprio lealismo nei confronti delle istituzioni laico-repubblicane dovrebbe far riflettere. In realtà, già quasi trent’anni prima di quel 1871 in cui le strade di Parigi si macchiavano del rosso del sangue dei comunardi, il Marx della Questione ebraica faceva notare come la religione non costituisse “il fondamento”, ma “soltanto il fenomeno della limitatezza mondana”. “Per questo” proseguiva il giovane pensatore, “noi spieghiamo il pregiudizio religioso dei liberi cittadini con il loro pregiudizio mondano. Non riteniamo che essi debbano sopprimere la loro limitatezza religiosa, per poter sopprimere i loro limiti mondani. Affermiamo che essi sopprimeranno la loro limitatezza religiosa non appena avranno soppresso i loro limiti mondani”. Nel polemizzare quindi con Bauer e con la sua idea di Stato laico figlia di una critica astratta della religione incapace di spingersi oltre il terreno non pratico delle idee, Marx era senz’altro disposto a concedere che “nella sua forma, nel modo proprio della sua essenza, in quanto Stato, lo Stato si emancipa dalla religione emancipandosi dalla religione di Stato, cioè quando lo Stato come Stato non professa religione alcuna, quando lo Stato riconosce piuttosto se stesso come Stato”, ma aggiungeva anche: “L’emancipazione politica dalla religione non è l’emancipazione compiuta, senza contraddizioni, dalla religione, perché l’emancipazione politica non è il modo compiuto, senza contraddizioni, dell’emancipazione umana”. O anche: “La questione del rapporto tra l’emancipazione politica e la religione, diviene per noi la questione del rapporto tra l’emancipazione politica e l’emancipazione umana”.
Quindi: che fare? Può il patrimonio di idee della sinistra e del movimento operaio esserci d’aiuto al fine di liberarci da scenari e fantasmi o siamo invece destinati a soccombere ad essi? L’emancipazione politica che si dà entro lo Stato democratico-borghese, anche uno Stato più avanzato del nostro come quello francese, è un punto d’arrivo finale e indiscutibile o va piuttosto considerata un punto di partenza, immersa com’è in un universo di rapporti sociali nel quale l’“emancipazione umana” di cui parla Marx è di là da venire? Una cosa è certa: se vogliamo porci seriamente queste domande dobbiamo anche cominciare a fare lo sforzo di distinguere, cercando di capire sotto quali bandiere vogliamo sfilare. “C’era un tempo” scrive sempre Badiou, “nel quale in Francia si tenevano due tipi di manifestazioni: quelle con le bandiere rosse e quelle con le bandiere tricolore. Credetemi: anche al fine di annientare le bande fasciste e assassine, tanto quelle che si rifanno alle versioni più settarie della religione musulmana quanto quelle che invocano l’identità nazionale francese o la superiorità dell’Occidente, non sarà il tricolore, imposto e utilizzato dai nostri padroni, ad esserci d’aiuto. Sono le bandiere rosse, piuttosto, a dover tornare”. Scegliendo con discernimento in che piazze stare e accanto a chi lottare potremo senz’altro anche dedicarci alla critica della religione, tenendo sempre presente che essa è “in germe, la critica della valle di lacrime, di cui la religione è l’aureola”.
Installazione | Performance | Suoni | Visioni
Site specific | Rialto Sant’Ambrogio, Roma | 22/02/2015 – dalle ore 19
a cura di Fabio Orecchini
°
di casa in casa, a stanare a far mambassa hanno mannaie
e tubi col gas, per amnesie ordinarie, manuali di rito ortodossi al
martirio di anime hanno l’anima, l’anonimato li preserva
sono abili, abilitati al male pre-ordinato, sono morfine mordono
i polsi le caviglie vene in combustione sono muta di cani
leccano i crani ancora aperti, le ferite dei colpevoli
parti adunche sbavando di sorrisi e suppliche
un, enzima del tempo rovinando decortica
[donando nuova vita
proprio ora che mi sbrani]
°
L’atto poetico come funzione_finzione rammemorante, oscillazione e scarto che apre al senso del presente, contagiato_ricontamina il passato, nella forma aporetica del dialogo mancante -inutile dire, inutile non dire- omesso il vero, il verso: come porsi nell’abisso_l’epicentro, tracciare un nesso, col mondo della realtà superstite, la memoria estromessa: tenere a mente non occorre, cosa occorre ? ricucire la frattura, lo iato tra rimozione e rigenerazione, tra scrittura e storia, la faglia emersa della gola: spalancare la bocca, seppur l’ultima, inseppellibile che slarga, rantola, si fagocita nel dirsi: sondare i buchi con l’orecchio, le porte di legno, toccare con mano la ferita, che rimargina e riapre, essere un tramite tremante, voce trapassata, che trapassa, occultata traccia del remoto, della terra il moto : l’Aquila estinta, la città che sprofonda nel giorno, infinito tendere e tenere di mani, con mani, questo scavare, continuo come di cani, in un infinito presente.
Il Rialto immaginato come paesaggio/passaggio [ visivo/semantico/sonoro ] di rimemorazione che sedimenta_si dimentica, sequenza di bocche per voci mancanti, allegoria dell’odierno luogo “comune”: il nostro tempo, che non da scampo, e come un forcipe attrae_sottrae vita, verità e vita. (fo)
°
Artisti coinvolti :
Fabio Orecchini/poeta, ideazione e cura | Kate Louise Samuels/performer | Pane/musiche e voce Marco Vitale/video | Alessandro Morino/artista
°
a seguire – dalle ore 21:00
Pane [Live Acustico]
Claudio Orlandi/voce
Vito Andrea Arcomano/chitarra acustica
Claudio Madaudo/flauto traverso
Pane, folk impregnato di radici jazz, colta, etnica e palpabili impronte progressive. Un folk-rock prima del rock, acustico ma scosso da un’energia che presagisce elettricità, il lirismo che si nutre di inquietudini antiche come base e sfondo di una crisi contemporanea; ogni brano un atto di questa tragicommedia umana troppo umana appesa al filo della voce vibrante e stentorea di Claudio Orlandi, interprete dalla vasta e furibonda sensibilità che diresti discendere in qualche modo dalle evoluzioni terrigne e febbricitanti d’un Demetrio Stratos e di Tim Buckley.
°
fa parte di
Giardini d’Inverno 015
poesia contemporanea riconnessa [ritrasmessa] relata
a cura di Ivan Schiavone
di Francesco Clemente
Un gomitolo di vicende che si dipanano fra intimismo profondo e turbinosa peregrinazione geografica è il nocciolo ossuto del nuovo cimento narrativo di Andrea Melone, che con il suo Strategia delle ombre (2014) rinnova il connubio editoriale con l’editore Gaffi di Roma. Questo nuovo romanzo segue quei Giardini di loto del 2010, nei confronti del quale dimostra di possedere una certa affinità, intuibile nell’impianto narrativo. Tuttavia, mentre nell’opera di quattro anni fa Melone offriva al pubblico un plot in cui il protagonista si affannava nella ricerca del misterioso musicista Friedrich Thomas Ashkenazy in lungo e in largo per il nord e l’est dell’Europa, adesso, in queste nuove pagine, il protagonista non insegue nessuno, ma avviene il contrario: s’invita il lettore a braccarlo, alla ricerca dei motivi profondi che lo spingono continuamente a fuggire da una città all’altra. Melone appare come uno scrittore “poco italiano”, predilige atmosfere psicologiche scandinave, abbandona qualsiasi indulgenza verso l’immediatezza esemplificata, l’edulcorazione di maniera, lo smussamento degli angoli esistenziali per far deglutire l’indigeribile.
di Daniele Ventre
3. Opinion-makers
in fondo siamo tutti opinionisti ci facciamo opinioni
opiniamo davvero opinabile è tutto anche la morte
anche la vita opinabile è tutto anche l’aria anche l’acqua
opinabile è anche la legittimità dell’opinione
il diritto a opinare opiniamo su tutto purché sia
opinata perfino l’opinabilità dell’illegittimo
e di ciò che è legittimo opinare inventiamo perfino
la figura opinante del fascista opinoso e dubitoso
il fascista del dubbio per cui si è nati colpa d’opinione
il fascista opinoso e liquido che poi non c’è ragione
opinioni le cose perfino il sasso che ti rompe il naso
opinione anche il colpo di fucile verità solo il grido
di chi siede più in alto nella cattedra e sa insultarti meglio
bambina mia bambino mio perché non sèi alto abbastanza
e tu sai che i papaveri dell’oppio dei popoli son alti
alti alti alti alti e la tua opinioncina piccola no non conta
specie se sèi l’agnello a pie’ di fonte con il lupo sul monte
in fondo siamo tutti opinionisti opinione anche il lupo
opinione l’agnello opinione anche il caldo il freddo e il dolce
e l’amaro ma vero solo il vuoto di mente e le opinioni
atomiche se è vero che il mondo è collezione d’opinioni
meglio se espresse solo per insulto meglio se poi morbose
della morbilità dell’opinione di vagina o di verga
meglio se un po’ curiose maliziose meglio ancora ominose
d’ominazioni e disominazioni d’omuncoli e d’omini
e domini e strutture a dominante troni dominazioni
da omarini di carta e d’accademia da paranoici anziani
attenti a non usare le parole che usano anche loro
perché è quella la lingua che si parla se no poi anche i microbi
se solo adorni di pubblicazione sia pur in condominio
nel loro piccolo hanno poi materia di inventarsi una rabbia
una rabbia che poi si fa opinione una rabbia qualunque
che poi si fa opinione per la rabbia d’opinare comunque
su chiunque si opini l’opinabile come l’inopinabile
così che per finire non ci resta altro che l’opinione
implausibile senza più criterio d’essere o verità
senza definizione d’essere o verità segno segnato
dalla mancanza di significato di significazione
la civiltà dell’insignificanza fatta ormai d’opinione
opinione incarnata e poi disincarnata per ragione
di chiacchiera che poi vale per sé non si può confutare
d’argomento o ragione perché noi non s’ha più che l’opinione
e l’opinione di comunicare e di comunicarsi
di pensare al da farsi avendo l’accortezza di opinare
anche se dietro l’opinione in tanto non esistono fatti
non esistono dati anche se dietro il tuo comunicare
così comunicato e comunicativo per tuoi vasi
comunicanti il vas dell’elezione o del colpo di stato
mediatico per mezzo d’opinione in mezzo al vuoto statico
non esiste più nulla da opinare né da comunicare
non resta che la febbre in cui mi rodo e mi detta ragioni
febbrili non rimane che la furia e la termodinamica
del tuo corpo alterata dalla febbre opinione anche il caldo
opinione anche il freddo anche l’ipotermia da antipiretico
opinione anche gli atomi che siamo isolati nel giorno
senza giudizio opinione la storia che non mette giudizio
e difficile è poi che si riesca a cambiare opinione
se dietro l’opinione non c’è nulla da obbiettare davvero
che dietro l’opinione non c’è nulla e al nulla non si obbietta
se l’obbiettivo è il nulla e non si vede nulla in obbiettivo
* * *
2. Le goût nouveau
in fondo è veramente molto facile seguire ciò che è male
e di cattivo gusto poiché in genere la stupidità è facile
l’intelligenza e la bontà difficile i buoni sono falsi
difficile capire ciò che è bello al tempo della plastica
che copre i monumenti e i monumenti in fondo se li scorda
chi c’è davanti tutti i giorni in fondo scordate il paesaggio
perché il cemento l’ha coperto in fondo scordate anche le nuvole
perché le piogge sono inacidite come vecchie zitelle
e sono spesso sterili scordate i monumenti in fondo
quei monumenti sono noiosi tutta quella geometria
ma avete il postmoderno e il postmoderno ci va bene tutto
e col postdemoderno potete fare tutto che ci costa
ci costa solo un po’ di civiltà quel poco che rimane
della decenza a stento accumulata in secoli di sangue
perché a guardare bene d’una certa politica hanno colpa
gli amorfi che non sanno mettere in riga i contorni d’un volto
hanno bisogno di sponsor potenti che gli va bene tutto
e di tifoserie e di segnalazioni a buon mercato
e parentele e consanguineità e tutta la catena
tirata alle privadi del potere e ben inscatolata
e chiamano poi questo denuncia dell’artista ripetibile
e inscatolano merda e merda si produce dalla merda
inscatolata perché poi gli sciocchi credevano che al tempo
delle statue di marmo si vivesse nell’eden della storia
e invece le città traboccavano fogne a cielo aperto
e non era che sangue e patiboli e fuoco nei villaggi
braccia e gambe segate dai boia dei soldati di ventura
e stermini di massa e guerre di cent’anni e di trent’anni
e non è poi che intorno al Partenone si campasse da dio
anche l’effigie crisoelefantina che funge da tesoro
è fiorita fra il tifo petecchiale e le stragi di Melo
in fondo è veramente molto facile seguire ciò che è male
ed estenuare il gusto e venerare la plastica che copre
i monumenti e dura mezzo secondo in un mondo che dura
mezzo minuto il tempo di espellere la merda dell’artista
giusto il tempo che basta a premere un pulsante dentro un silo
e sì potrete dirmi meglio forse la merda inscatolata
fra le città ordinate che il Partenone fra il tifo e le stragi
si potrebbe pensare che abbia senso non fosse il controsenso
che le città ordinate e le democrazie restano figlie
del Partenone ma non so che figli possa avere nel tempo
dal declino la merda inscatolata e le città ordinate
di scuole semichiuse di ospedali che funzionano male
e di amministrazioni un po’ colluse per mafia-capitale
e capitale mafioso non sono dopotutto ordinate
come si crederebbe a prima vista e la merda rimane
inscatolata e ben confezionata e ben convenzionata
e ben convenzionale e finanziata e la merda servita
a chi e da chi lo si vede in un vecchio film della neoavanguardia
e nel suo paradigma letterario che l’uomo si consuma
e nei muffin di Ikea e nei piattini del cinese all’angolo
e per tutta l’Eurasia e l’immondizia che è isola in oceano
e nel frattempo però fra le stragi non ci cresce nemmeno
il Partenone ma solo le buone confezioni di merda
che sembra quasi non si dica d’altro né si conosca d’altro
che il rifiuto l’organico rifiuto d’ogni corpo e futuro
è facile del resto ritirarsi a meditare in cesso
e stiano i malebranche un poco in cesso che ne verranno sette
che ne verranno sètte e i settari e i serpenti e gli altri sciocchi
si appagheranno di quest’acqua reflua percolati coi fiocchi
finché da un’arte d’amorfo risorga la frusta coi suoi schiocchi
* * *
3. Scuole
congrega delle suore fantaccine del sacro parapiglia
per insegnare nelle scuole pie si deve essere pii
ma per gestirle tante scuole pie si deve essere spie
del tempo del degrado e della crisi e delle sue gramaglie
per vasto piglia-piglia ci trovi pie suorine fantaccine
in via dell’evangelo pascalino del sangiovanni bleso
dove la vecchia musica si intona al nuovo contratto capestro
ut queant laxis resonare fibris ti pagheremo ex libris
libri truccati ai conti mira gestorum famuli tuorum
a un quarto della busta solve polluti labii reatum
sancte johannes pagarli è reato pagarli troppo quanto
serve a mangiare pagare bollette riempire mezzecalze
di befane che è poi quello che siamo suorine fantaccine
è più importante pro sanctus johannes e lascio stare i santi
e tasso sempre i fanti e le fantesche e poi le maestrine
quelle da malpagare maltrattare quelle da malpalpare
quelle da licenziare da tagliare di cattedra e lavagna
che vengono da noi e le paghiamo poco o meglio niente
che insegniamo da sempre la carità cristiana da schiodare
cristi e madonne per le blasfemie del sacro parapiglia
della sacra famiglia beata me che poi chi mi si piglia
beata te maestrina che ci servi da serva e non ti piglia
lo Stato ademocratico che noi l’abbiamo ademocratizzato
noi suore fantaccini e noi papi e papini e padri e madri
e sorelle e la grande famiglia che noi siamo di cristiana
immanità congrega delle sacre di paese le sagre
del Paese dei furbi e delle suore è questo il compromesso
il compromesso storico che serve a darvi l’ignoranza
la beata ignoranza dei beati l’ignoranza che è forza
che regna il bispensiero ma non era però da comunisti
questo lavoro ma da banche e banchi dell’università
e della chiesa e delle fantaccine e delle società
nostre inegualitarie e per deprivazioni identitarie
e delle loro scuole e scolette private o paritarie
che sempre venne quello papa sancto nel sacro parlamento
parlamentò di parità di scuola universis plaudentibus
universis gaudentibus trovata la formula che forma
la formazione deforme e conforme degli informi ignoranti
manipolati per informazione la disinformazione
pura e semplice è roba da totalitarietti dilettanti
da siparietti e guitti recitanti con la feluca in capo
e lo sanno le suore fantaccine del sacro parapiglia
che ti pagano a un quarto della paga le caste maestrine
con la cintura di metallo stretta sotto il tailleur dimesso
perché non accettiamo conviventi o coppie non conformi
alla cristiana immanità di nostra empia inumana chiesa
perché serviamo dio danaro e nostra signora delle paghe
ridotte a un quarto per nostro imponibile e rivediamo i conti
in nero come l’abito delle nostre suorine fantaccine
mandiamo avanti il sacro parapiglia con le nostre bugie
con le nostre asofie coi nostri conti santamente truccati
moltiplichiamo sempre i pani e i pesci però le paghe a un quarto
perché siamo cattolici sapete si prega e si lavora
si prega e si lavora il lavoro è preghiera e non vorrete
essere poi pagati per pregare i poveri dovranno
fare ai ricchi elemosine infinite per tante iniziative
caritative e non caritative è questo il compromesso
il compromesso isterico che serve a darvi la speranza
e a toglierla di nuovo da mihi animas cetera tolle
cetera tolle tolle lo stipendio ma adde il vilipendio
arte che non si vende è vilipesa non ne franca la spesa
e le nostre suorine fantaccine del sacro parapiglia
di spese ne hanno tante s’ha da allestire il presepe morente
del dio morente che non è già morto e non sarà risorto
perché gli dèi non muoiono per chiodi e croce non per fuoco e ferro
ipocrisia ci serve per uccidere un dio come si deve
e falsità e tortura per uccidere un dio come si vede
nella storia infinita finita a volontà di Fukuyama
che non abbiamo letto noi suore fantaccine non leggiamo
altro che il libro truccato dei conti e te lo ritrucchiamo
non potendo truccarci noialtre per il voto d’umiltà
d’umiliazione che infliggiamo ad altri umiliando noi stesse
nell’umiliare quelle maestrine le caste maestrine
che volevano streghe tizzoncine da roghi avere paghe
per lavorare chiedere una paga per chi lavora-prega
è contra ecclesiam pravitate eretica da tizzoni da rogo
perché pregare è lavoro e il lavoro è preghiera è la regola
della congrega delle fantaccine del sacro piglia-piglia
e non credete che per la faccenda del papa di facciata
che ci ridona orgoglio e bergoglio la messa sia cantata
in altra nota che non sia la vecchia infine lo spettacolo
è lo stesso non cambiano i contorni l’abuso di miracolo
è da sempre lo stesso e non ci cambia soluzione al contorno
e perfino ripeterlo è banale è banale ridirlo
è banale riscriverlo le nenie dei vecchi mangiapreti
è materia banale la salmodia dell’anticlericale
anticlerico errante non è al passo coi tempi e coi post-tempi
perché avete imparato a credere di credere e a pensare
di pensare però nessuno pensa che poi le maestrine
licenziate ti sporgono denuncia che hanno la pretesa
di farsi parte civile in contesa per causa di lavoro
come se poi il lavoro fosse ancora compreso in questa causa
inefficiente dell’economia ma noi siamo cattolici
e non paghiamo che a un quarto di paga o meglio ancora niente
e mandiamo finite locazioni la notte di natale
così vedrete le sacre famiglie aggirarsi per strada
perché l’affitto si paga è la legge della nostra congrega
di preti fantaccini di suore fantaccine e il piglia piglia
angele stelle gemme del carmelo madonnine infilzate
non da quel che vorrebbero resta l’affare del pregalavoro
ché arte non si paga e non si vende però si vilipende
sono tutti cattolici e dio ce l’ha mandata questa piaga
con altre due d’oriente e non d’Egitto il sabato non paga
e non paga domenica né il venerdì ma la piaga ci resta
col suo pregalavoro e ricorda santifica la festa
santifica il bonifico per noi e tieniti la paga
ridotta a un quarto o vattene questo passa il convento e questo vento
tira da queste parti in questo tempo che ti rubano il tempo
e non rendono indietro il contrappeso ma solo il contrattempo
dio del tempo è padrone e per ciascuno ti ripaga cento
ma noi l’amministriamo quel che paga noi suore fantaccine
e preti fantaccini del sacro parapiglia essere pii
costa fatica e certo la fatica dovrà pagarsi a modo
in via dell’evangelo pascalino del sangiovanni bleso
ut queant laxis resonare fibris ti pagheremo ex libris
libri truccati ai conti mira gestorum famuli tuorum
a un quarto della busta solve polluti labii reatum
sancte johannes ci cambiano i tempi la musica è la stessa
di quando si era pie da inquisizione da quando si era spie
per gli sgherri di Spagna o di Lamagna per boia o per tenaglie
in laude del mistero gaudioso della fiamma e del capestro

C’è un crinale sottilissimo dunque che merita la nostra attenzione; le parole devono essere maneggiate con cura ma allo stesso tempo vissute, viste, assaporate, ascoltate.
Ecco:
«Fry
Rye
Die
Cry
My
My
My
My
My.»
Un triplo elogio al ritmo, al suono, al cibo. Non è forse questo, farsi trasformare dai fulmini delle parole?
Antonella Anedda.
Esce oggi, per L’orma editore, nella collana fuoriformato diretta da Andrea Cortellessa, Arrenditi Dorothy!, il nuovo libro di Marilena Renda. Ne proponiamo qui di seguito un estratto.

di Francesco Borrasso
C’è un luogo dove le cose assumono forme straniere. Questo luogo è un evento, il ricordo di un addio che non sono riuscito a bruciare; come una foto piantata davanti agli occhi, è la zona dalla quale non sono stato di capace di evadere.
Una parte di me ha cominciato a pretendere una scissione, è stata messa in dubbio la mia unicità, il mio fisico è venuto a conoscenza dello scontro contro se stesso; ho imparato l’odio per un movimento, la rabbia per un atteggiamento, la collera è diventata presenza naturale, frustate veloci verso l’atro io, sacrificato nella sottrazione. È stato facile non muovermi da quel luogo, è stato naturale restare nella sofferenza, perché il dolore è una terra fertile, ti ammalia in fretta, ti stordisce il corpo con la continuità, vince sul tempo. Il mio uno diviso, in conflitto, assomigliava ad una battaglia tra due guerrieri della stessa armata, che si conoscono alla perfezione, che si annullano continuamente.
Come fai a credere che una persona possa non esserci più? Possa smettere la sua solidità perdendo materia? In quale parte della testa bisogna andare a cercare l’accettazione?
I primi giorni avevo un viso teso, la pelle livida, i muscoli in coma, le braccia dure, le guance bianche; non piangevo. Le lacrime sono arrivate successivamente, sono state la sua presenza che cercava di emigrare dal mio corpo. La parte mia disubbidiente ha perduto la memoria, ha codificato il linguaggio delle emozioni, trafugandolo, nascondendolo. Mi ha fatto svenire per la paura, tremare per la rabbia, ha spinto le mani contro il petto ingolfandomi i polmoni, ha annullato le mie convinzioni.
Non sarei mai stato preparato a trovare questo posto vuoto vicino al mio fianco; forse, con un po’ di allenamento, sarei riuscito almeno ad usare il pensiero come palliativo.
Un giorno sono stato costretto ad arretrare, arrestare la corsa verso l’autodistruzione; un obbligo feroce quando ho scrutato i mostri vicino alle mie figure preziose; le lacrime di una madre che non riusciva a dare forma alle parole; la desolazione struggente di una sorella, spogliata dalla protezione, con un fisico crollato e un viso collassato. Sono diventato permeabile al vento, agli umori, alla pioggia; permeabile ai volti, ai loro movimenti. Ho assorbito la stanchezza; la mia pelle ha perso spessore, fino a sparire sotto gli abbracci pieni di domande vicine alla scadenza, risposte cercate a morsi, non trovate, a denti rotti. Ho permesso al dolore degli altri di diventarmi amico, ho permesso al dolore straniero di entrare nel mio stomaco; ne ho subito le conseguenze con un cuore che balzava perdendosi qualche battito, spezzandomi in un terrore che non conosceva padrone.
Cosa rimane di un’assenza quando ammetti materialmente il suo esilio? Abituarmi alla sua mancanza è stato come riabilitare un corpo dopo una stasi durevole e forzata; come aprire le finestre di una casa, sigillate da anni, e trovarle murate. Rendere familiare il suo posto vuoto è stato come provare a nascere nuovamente, ma con il carico di consapevolezze che mi hanno dato tutti questi anni. Quelle notti in cui ho provato ad abbracciare un ricordo ho avvertito le gambe vuote, erano involucri prosciugati, la testa pesante; ho visto oggetti che imitavano la vita vera. Quel ricordo non si poteva toccare, era materia astratta. Tutte la parti di me hanno dovuto imparare una vita nuova: le mani si sono dovute abituare a trovare il vuoto, dopo i sogni in cui si era fatto presenza; gli occhi hanno dovuto accettare che non c’era più niente su quella sedia, su quel letto, su quel divano; le bestemmie sono dovute diventare silenziose, a bocca chiusa, per non disturbare la fede degli altri; le lacrime sono diventate fredde, i giorni di festa, nascosti dai sorrisi per forza. Cosa ha pensato nell’ultimo istante? A lui o a me? Che non voleva morire? Oppure a come io, noi, avremmo fatto senza la sua presenza? La forza del lutto è un oggetto meccanico che ti si aggancia alle membra, se non c’è rigetto, puoi andare avanti, avvertendo per sempre un corpo estraneo che fa peso; altrimenti spegni la luce, e decidi di restare al buio, di provare in anticipo a stare in mezzo ai morti.
Dopo tutti gli abbracci: quando piangevo per le sciocchezze, quando mi spiegava come si vive; dopo i contatti della pelle, della mani, le mie piccine dentro le sue, grandi, che facevano protezione; dopo tutte le grida, le delusioni, autonome o inflitte; dopo i sogni messi in condivisione, raccontati; dopo tutto, non resta niente; se non la mia vita che trascina ostinata la sua assenza.
Ho dovuto correggere e modificare tutte le mie parti, perché convivevo con un segnale che mi scattava dentro continuamente, un allarme fasullo, che raccontava al mio corpo un pericolo che non c’era; un pericolo fantasma che non smetteva di farmi paura; che non finisce, mai.
* foto: mariasole ariot