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les nouveaux réalistes: Agnese Azzarelli

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Figure della stasi

di

Agnese Azzarelli

 

 

I

L’interno dell’appartamento nel quale venni ricevuto mi parve, ad una prima occhiata, spazio funzionale, emancipato dalle antiche costrizioni: tavolo ribaltabile, scaffalature ed elementi componibili. Spazio ritmato d’una sua logica combinatoria, ove i colori pastello si alternavano al bianco fumo e alle stampe d’autore.

Le Cirque di Seurat… obiettività intellettualistica e purezza formale… Scivolò, d’un tratto, lo sguardo, seguendo la rutilante corsa del cavallo e si abbandonò, stanco, all’atmosfera rarefatta di Une baignade à Asnières. Avrei avuto a che fare con uomo raffinato, non semplice fruitore, né proprietario d’ambiente, ma suo attivo informatore.

“Prego, si accomodi dove meglio crede”.

Il lessico ambiguo dello psicanalista andò ad intaccare il sapiente calcolo che trapelava dalla disposizione degli elementi della sua sala d’attesa. Assunsi, tuttavia, con la volontà di non destabilizzare l’uditorio, gli elementi propri di un setting psicoanalitico, compreso il mio posizionamento su di una scomodissima chaise longue.

Un crittogramma alquanto complesso mi si parava innanzi. Al suo centro l’opera omnia di Sigmund Freud. Alla sua sinistra, incassata nella libreria, una riproduzione fedele di Las Meninas di Velázquez, segno che il sistema di segni era edificato su più livelli e invero prevedeva anche un meta-discorso su se stesso. Alla destra del padre, una minuscola scacchiera color avorio… forse…ma sì – pensai – la chiave d’accesso all’intero sistema.

Mi concentrai sulla scacchiera. Il lessico ambiguo dell’analista mi aveva, nondimeno, concesso d’esser io stesso a dare inizio ai giochi. Quale pedina muovere per prima? Avrei scomodato la sorella! Le relazioni familiari avrebbero rassicurato l’uditorio, invitandolo a procedere indisturbato sul suo proprio terreno.

Ed è così che io e il mio medico curante prendemmo a parlare della mia situazione familiare, situazione tipica, per quanto estranea al problema che mi affliggeva. Madre apprensiva, padre pressoché assente, etc., etc… fino al termine della nostra prima seduta.

Si voltò per aprire la porta dello studio e così congedarmi.

Mi ritrovai, in men di un batter di ciglia, in via Taldeitali, curvo, furtivo, tornai presto ai pensieri che affollavano quelle mie giornate.

Sarebbe stato alquanto arduo persuadere il medico prescelto a considerare emblematica del mio caso la relazione tra Achille e la tartaruga. Zenone e il suo maestro…l’origine dei mali del mondo… e non tanto Eva, come certa misoginia tenta da secoli di dimostrare. Ingenerato e incorruttibile, omogeneo, atemporale, indivisibile e continuo, da ultimo senza fine… che possa andarsene al diavolo l’essere parmenideo! Ciò che più mi tormentava era l’impossibilità di confutarne l’immobilità, ché, una volta ammessa questa eventualità, ogni pensiero ne risultava minato, vacante nell’immensità dischiusasi tra la testuggine e il pelide.

I giorni passavano e anch’io mi feci vincere da una certa disponibilità del medico curante, dichiarando di amare infinitamente la Signorina Y, donna irraggiungibile e che in me altro non creava se non una situazione di stallo, di imbarazzo. Situazione che regolarmente si ripresentava ogniqualvolta l’analista provasse ad entrare nel merito di ciò che poteva esserne stata l’origine, la causa.

Fu così che il medico medico, con la convinzione di esser lui stesso l’artefice di cotanta concezione, venne indotto a pensare che obiettivo non sarebbe stato tanto il raggiungimento dell’irraggiungibile Signorina Y, quanto la creazione di un primo movimento del suo assistito, paralizzato e compreso in una situazione d’inamovibilità.

Gli suggerii uno scambio di posti, convincendolo del fatto che, in tale modo, altro non sarebbe sancita se non la responsabilità dell’assistito nei confronti di se stesso, artefice in ultima istanza della sua guarigione. Le mie parole piacquero al medico curante che, in un primo tempo, intravide in questo capovolgimento di termini, un segno positivo, niente altro che l’inizio di un movimento da parte mia.

Ma ciò a cui l’analista sembrò non badare fu che la destrutturazione del setting terapeutico indusse nelle parti coinvolte un inevitabile capovolgimento di ruoli. Il medico prese a parlare ed io, costretto fino ad ora in una scomoda chaise longue, presi ad annotare le sue osservazioni comodamente seduto su di un’ampia poltrona in pelle.

Ci rivedemmo il tal giorno alla tal ora, secondo l’abituale scansione dei nostri incontri. Esordì l’imputato, domandandomi di poter riavere il suo adorato block notes, strumento indispensabile per il suo quotidiano lavoro. Acconsentii alla richiesta ed ecco ciò che il medico annotò sulle pagine sgualcite del taccuino comune:

spirale

 

Una spirale aurea che non poté non impressionarmi. Gli chiesi spiegazioni.

“Ebbene – fece questi – immagini di essere la X”.

La posizione del medico curante si chiarì in seguito. Data la necessità d’avviare un movimento in X, sarebbe ricorso ad un’operazione. Avrebbe operato su di una relazione precedente al nostro incontro, relazione passata a cui lui imputava le mie inibizioni. In tale modo, io sarei, secondo quanto prefigurato dal disegno riportato sul block notes, riuscito a raggiungere la Signorina Y.

La spirale disegnata dall’analista mi aveva persuaso. Invero, un disegno spiraliforme richiedeva un ripetuto riavvolgimento su se stesso e un progressivo movimento retrocedente. Non ero sicuro d’esser pronto a ripercorrere la catena causale che mi precedeva, temevo d’essere il prodotto di tale catena; ma, d’altronde, questa pareva, al momento, l’unica possibilità di procedere innanzi.

Strana cosa: avrei dovuto camminare pian piano in una direzione per poter poi trovarmi, d’un colpo, dalla parte opposta. Mi trovavo ad essere nient’altro che il doppio di me stesso.

E così, mentre rimuginavo su questa mia nuova condizione, incontrai, senza averlo preventivato, la Signorina Y, ché questa esiste davvero. Carnagione chiara, chioma raccolta d’un biondo discreto ed occhi vispi, sinceri, forme sinuose, gesticolare vivace e risposta sempre pronta, tagliente. La invitai a prendere quello che sarebbe stato il nostro primo caffè, ma questa non ne volle affatto sapere e avanzò, immersa in chissà quali pensieri, nella direzione opposta, dichiarando d’esser intenta a compiere chissà quali misteriose commissioni.

Da quel giorno precipitai in una tal confusione, ché forse ella si era accompagnata nientemeno che al mio alter ego. Geloso di questi, avrei punto riferito il tutto al mio compagno di disavventure, il caro e fidato analista, residente in via Taldeitali, numero civico 32. Ma la cosa bizzarra fu che quegli che credevo essere un amico, altro non fece se non interessarsi alle avventure e prodezze del mio alter ego.

 

II

 

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Volantini e manifesti invasero la città recando un invito. “Questa sera al varieté quattro uomini senza volto non ci saranno”.

La platea si assiepò ai lati del palcoscenico su cui sedeva un uomo in bombetta i cui arti parevano esser retti dai fili d’un burattinaio invisibile. Un secondo uomo si scaraventò al limitare della ribalta, tenendo con la mano destra la propria bombetta. Una voce dall’alto: “Hai mai pensato di non essere uno?” Ed ecco che l’uomo tornò a nascondersi dietro le quinte, ma il cappello non ne volle sapere di accompagnarlo. Un terzo uomo sedeva in proscenio tenendo tra le mani le fila della propria bombetta. Un quarto uomo, semplicemente, mancava all’appello.

Avrebbero spaccato il cappello in quattro! Dovevano necessariamente poter disporre di un principio a partire dal quale i loro attori avrebbero potuto muoversi e pervenire, secondo un logico sviluppo, ad una conclusione.

Il drammaturgo ebbe per un attimo l’impressione che la loro scelta di chiamare l’amico filosofo potesse concludersi in un nulla di fatto. Sarebbe ricorso a Godot! Afferrò il bavero di un attore, “Si mette in scena Godot!” gli disse e questi non fece in tempo a raccapezzarsi che venne scaraventato alla ribalta. L’attore non trovò nulla di meglio che esordire con un “…Godot dice che…”. Cercava evidentemente di riportare alla memoria il significato e le linee essenziali del testo, ma immediatamente si rese conto della gaffe a cui si era reso soggetto e non trovò nulla di meglio che concludere in un passaggio dalla terza persona in una prima persona singolare “Salve sono io Godot”.

Si sarebbe messo in scena l’Edipo! Tutto sarebbe andato per il meglio se non che l’attore protagonista dimenticò la parte assegnatagli, invitando un secondo attore a mutare i propri costumi in quelli di Edipo, nella speranza di suggerire negli spettatori uno scambio di ruoli e poter quindi condurre a termine la rappresentazione. A non comprendere lo scambio fu l’attore protagonista. La scena si concluse in un confronto tra Edipo e il suo doppio.

Data la complessità del pervenire ad un principio, avrebbero preso le mosse dalla conclusione. La conclusione avrebbe indossato i costumi di un principio e quell’esausta serata, rintanata in un varieté a cui si poteva riconoscere il possesso di una discreta mole di testi tragici, non riuscì ad offrire nulla di meglio che una fine epigonale, che avrebbe mantenuto una sua continuità con la gaffe dell’Edipo, evitando così una netta rottura con un primo tempo dallo sfortunato insuccesso.

 

 III

 

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Ad incrociarsi, dando o meno origine ad un punto, erano sempre e solo traiettorie. Ella amava scrutare con i propri occhi le linee disegnate dal percorso dei passanti e abbandonarle laddove fuoriuscivano dal proprio campo d’osservazione; ricercava una scienza capace di predire le inclinazioni e forme che queste traiettorie avrebbero assunto, la loro origine e destinazione.

Arzigogolate, volubili o tenacemente regolari queste traiettorie appartenevano ai volti più imprevedibili che avevano attraversato quella piazza, inconsapevoli a riguardo del mistero che l’attanagliava, o semplicemente assorti in altri pensieri, come quegli uomini in bombetta e giacca scura, che ella a stento distingueva l’uno dall’altro. C’era chi con un biglietto di sola andata era partito, salendo sulla piccola locomotiva a vapore; c’era chi aveva calcato il proscenio del quadro, c’era chi ancora s’era soffermato dinnanzi alle bellezze di Arianna.

Nascosta dietro il simulacro della fanciulla dormiente, alle solite ore diciannove di una tiepida sera di settembre, giacché dove ella viveva il sole sempre tramontava su di una tiepida sera di settembre del 1964, ella ebbe modo di osservare uno stormo di rondini che aveva affollato quello spazio solitamente desolato. Un intrecciarsi di linee e volute, ellissi e ricadute verso il basso riempirono quella sera il cielo di punti, di quelli che erano soliti disegnare solo gli innamorati, i quali si incontravano per poi riprendere ognuno il proprio viaggio, nonostante le loro traiettorie avessero subito un mutamento indelebile. Pochi erano gli uomini e le donne che ancora osavano innamorarsi in quella pubblica piazza ed ella aveva imparato a riconoscerli, distinguendoli tra la folla. Tutti uguali e al contempo così diversi, malinconici ed esuberanti, assorti nelle più falotiche architetture e chimere. Quella sera le rondini, terminata la loro danza, si unirono in un unico fascio e ripresero il loro volo innalzandosi al di sopra della torre. Forse anche gli innamorati avrebbero condiviso un uguale destino, ricongiungendosi al limitare di quella zona d’ombra oltre la quale la propria vista si affievoliva e le traiettorie scomparivano immancabilmente.

Un giorno ella sentì dire da due uomini in giacca scura e bombetta che un loro pari si era soffermato a lungo dinnanzi alla visione dell’Orizzonte, per poi attraversare la piazza, di corsa, nascondendosi allo sguardo di Arianna. Prova ne era una traccia lasciata sul suo cammino. Da allora quei due bizzarri individui, immobili dinnanzi alla cornice d’un quadro, discutevano su come fosse stato possibile per l’uomo attraversare la piazza, senza lasciarsi irretire dalla visione dell’Orizzonte. Ella immaginava che questo misterioso individuo fosse riuscito a racchiudere la visione che aveva avuto in una campana di vetro, di quelle che scuoti perché scenda la neve, di quelle che vedi vendere nelle maggiori piazze d’Italia come souvenir a turisti di ogni colore e paese.

Arianna dormiente, dacché ricordava, se ne era sempre stata lì, immobile anch’ella, in attesa. Invece lei da quella piazza sarebbe voluta fuggire. Costretta nel perimetro di una cornice, la piccola donna nascosta tra le pieghe di un quadro, avrebbe presto intrapreso il suo viaggio. Voleva verificare se realmente le linee che ella aveva visto passare condividessero un destino comune. Voleva essere una di quelle linee. Voleva anche solo sottrarsi a quel quadro che impudicamente si offriva agli occhi dello spettatore e così decise di trovare quell’uomo che da lì era passato, lasciando una traccia.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La caduta

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di Gianni Biondillo

Diogo Mainardi, La caduta, Einaudi, 2013, 155 pagine, traduzione di Tiziano Scarpa

Mai come in questi anni, proprio quando barbuti professoroni dichiarano la definitiva morte del padre, c’è un florilegio di romanzi che trattano il tema della paternità. Sta quasi diventando una moda. Poi fortunatamente ci sono libri di una bellezza rara, che ti rimettono in pace con le letture, come La caduta, storia vera di Tito, un bambino che per colpa di uno sprezzante e tragico errore medico nasce afflitto da una paralisi cerebrale. A raccontarla è Diogo Mainardi, il padre.

Di fronte alla disabilità del figlio Mainardi, colto da terrore panico, riorganizza la sua esistenza, diventando, negli anni, una sorta di sacerdote del culto filiale. Tito è un Dio generoso e bizzarro, puro e disarmante. Tutto, la vita quotidiana, il lavoro, gli affetti domestici, ma persino la Storia dell’intera umanità, ruota attorno alla storia di Tito. Il padre, grazie alla diversità del figlio, al suo continuo metterlo alla prova, ricostruisce la propria visione del mondo e delle sue priorità. Legge i gesti, i sorrisi, le continue cadute di Tito come un aruspice che interpreta l’oracolo volto a svelargli i misteri oltre-umani.

La caduta non è un romanzo, non è autofiction, nega la prosa memorialistica. È scritto per punti, per illuminazioni, per aforismi. Cita artisti e filosofi, mostra opere d’arte e foto private, collega tragedie a commedie, i fatti personali a quelli collettivi. La verità e la vita sono così potenti che ogni espediente è lecito. La scrittura di Mainardi – leopardianamente – assomiglia a quella di una fiaba morale. Libro colto, scritto con una lingua semplice, diretta, senza sconti, furberie o patetismi; in certi momenti al limite del comico. Eppure di una profondità etica e di una qualità letteraria unica.

Vedere le cose del mondo attraverso il precario equilibrio di Tito è comprendere come l’umanità stessa sia altrettanto precaria, sempre ad un passo dalla caduta. Sempre pronta, però, a rialzarsi. Come Tito, Dio vivente dell’eccentricità delle cose.

(pubblicato precedentemente su Cooperazione, n°13  del 25 marzo 2014)

ditemi dov’è morta la giacca

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di Giacomo Sartori

avevo anch’io una giacca

nera con il collo cinese

sento ancora l’odore di treno

sul burro del velluto

le notti diafane di neve

dove sarà andata adesso

io non butto mai niente

La cognizione dello spazio

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di Mariangela Guatteri

Non è sufficiente dire: “io non sono il corpo”. Bisogna anche realizzarlo. Non è così semplice. Bisogna non essere in preda al delirio.

L’universo è diviso in tre sistemi planetari, quello superiore, quello intermedio, quello inferiore. La Terra fa parte del sistema intermedio. Anche gli altri pianeti dell’universo sono popolati da innumerevoli esseri viventi; sulla Terra non esiste alcun luogo privo di esseri viventi. In profondità nel terreno ci sono i vermi, nell’acqua ci sono gli animali acquatici, nel cielo ci sono gli uccelli.

Tutti sono intrappolati.

Si potrebbe usare la propria energia in modo da ottenere un corpo che permetta di entrare nel pianeta.

Al momento della morte bisogna staccare gli occhi dalla contemplazione degli oggetti, e impegnare le orecchie ad ascoltare la vibrazione.
Se la mente è turbolenta, va fissata e il respiro condotto alla sommità del capo. Si può raggiungere la perfezione.
A questo stadio si decide dove andare. Esistono innumerevoli pianeti.
Si hanno informazioni dell’esistenza di questi luoghi attraverso la letteratura.
Se per esempio si vuole andare in America, ci si può fare qualche idea di questo paese leggendo i relativi opuscoli.
Se si conoscono tutte le descrizioni che i testi contengono, ci si può trasferire secondo il proprio desiderio su qualsiasi pianeta.
Il viaggio con mezzi meccanici non è il metodo riconosciuto.

 

*

 

I piedi sono provati dai sassi, dalle ardesie sonore e dalle spugne spinose.
I punti d’acqua segnano la traccia delle piste. Si circola di pozzo in pozzo.

La distanza tra due fonti d’acqua va da zero a seicento chilometri.

Un recinto di frecce attorno ad un arciere concretizza la capacità del suo arco.

Una campana d’alluminio di 25 Kg posta su una base di un porto nella Tierra del Fuego appare e scompare ogni 12 ore a causa della marea.

Una proprietà pubblica viene definita come “area pubblica di transito”. Questa definizione si riferisce al deserto. L’area esterna è il deserto e il movimento all’interno è un’azione di peregrinazione che culmina con l’appropriazione di un luogo.

trenta porte formate da pali di metallo con una canna da pesca tesa tra i due, posti tra mura e recinto. Un confine continuo all’interno.

Una proprietà privata viene definita come “zona delimitata”, circondata da partizioni alte non meno di 4,5 metri o delimitata da un fossato profondo 4,5 metri e largo 2.

I suoni della foresta, della pioggia, delle attività degli uomini, i versi degli animali.

La Terra resta lontana. La parola “luogo” non è ancora stata definita. Una serie di regole definisce luoghi e regni.
Un ampio trattato sulla parola “luogo”.

 

*

L’Art d’exposer. Carlo Scarpa museografo

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di Enrico Camporesi

 

Alla Biennale di Venezia del 2003, Gabriel Orozco presenta la scultura Shade Between Rings of Air. Si tratta di una replica 1:1 della pensilina preparata nel 1951 da Carlo Scarpa per il padiglione centrale dei giardini, nel cortile interno aperto nel tentativo di sopperire alla ventilazione insufficiente delle sale. Secondo Alberto Viani, che nel 1951 si astenne dall’esporre le sue sculture in tale spazio, la forza plastica e « l’esito poetico » della pensilina erano giustamente paragonabili a un’opera scultorea, e quindi inutilizzabili come spazio di esposizione. Orozco non fece che additare tale presenza, iscrivendo, per mezzo della copia, un elemento architetturale nello spazio di esposizione adiacente, in una sorta di divertito gioco di specchi (nel quale il modello mantiene le stesse proporzioni della copia, la quale è a sua volta concepita come “il modello” dell’originale).

In un gesto teorico che replica idealmente la pratica artistica di Orozco, lo storico dell’architettura Philippe Duboÿ ha approntato per i tipi di JRP Ringier – La Maison Rouge un’antologia intitolata Carlo Scarpa. L’Art d’exposer. Nel volume l’autore raccoglie i minuti interventi scritti di Scarpa, e più precisamente quelli dedicati al suo lavoro di museografo, accompagnandoli e mettendoli in dialogo con commenti, riflessioni, critiche e apprezzamenti di altra provenienza. La traiettoria è chiara: Duboÿ invita a leggere l’opera di Scarpa, ovvero, come richiama puntualmente il titolo, un’arte di esporre. Tale arte, che presume dunque di mettere in valore una produzione artistica, viene a sua volta esposta come tale – così come la pensilina della Biennale veniva investita di un altro valore tramite lo spostamento nella sala del padiglione centrale. Le realizzazioni commentate da Duboÿ coinvolgono due musei, una decina di mostre, e un incontro con Marcel Duchamp. L’andamento è cronologico e parte da un testo programmatico: “Adesioni al movimento razionalista”, pubblicato su Il lavoro fascista nel 1931. L’articolo in omaggio a Piacentini, firmato da Scarpa assieme ad Aldo Folin, Guido Pelizzari, Renato Renosto e Angelo Scattolin, racchiude una preziosa dichiarazione d’intenti nelle ultime righe, che si potrebbe applicare come esergo all’opera di Scarpa (così poco prolifico nei testi): «sappiamo benissimo che, se il pubblico interroga, bisogna rispondere con delle opere, non coi manifesti». L’indicazione di metodo è chiara: è alle realizzazioni concrete di Scarpa che bisogna guardare per cogliere la sintesi del suo pensiero, che non trova numerose occorrenze nei suoi interventi scritti. Basta volgersi alle produzioni capitali di Scarpa per comprendere la traiettoria teorica dell’architetto. Si pensi per esempio alla risistemazione delle Gallerie dell’Accademia di Venezia, compiute fra il 1941 e il 1947 sotto la supervisione di Vittorio Moschini. Il primo gesto, radicale, è quello di abbassare il ciclo delle storie di Sant’Orsola del Carpaccio, che erano state sistemate a quasi due metri dal suolo dopo la prima guerra mondiale, in un goffo tentativo di ricostruzione ideale della “vecchia scuola”. Scarpa sceglie di posizionare i dipinti più in basso, in modo tale da renderli leggibili allo spettatore (una preoccupazione che sarà una costante del suo lavoro). Non solo: si sbarazza pure delle cornici, di provenienze eterogenee, e degli stalli che circondano le opere.

In quegli anni, estremamente produttivi, Scarpa non si cimenta solo con le collezioni storiche, ma partecipa alla realizzazione della prima Biennale del dopoguerra (1948). Il segretario generale Rodolfo Pallucchini (membro della commissione con Lionello Venturi, Nino Barbantini, Roberto Longhi, Carlo Ludovico Ragghianti, e gli artisti Pio Semeghini, Carlo Carrà, Felice Casorati, Giorgio Morandi e Marino Marini) affida a Scarpa la disposizione di alcuni spazi centrali fra i quali la retrospettiva di Martini e quella di Carrà/De Chirico/Morandi, la sala di Paul Klee e la collezione Peggy Guggenheim nel padiglione greco. Nel salone centrale Scarpa si adopera per ottenere, scrive Duboÿ, «una vera e propria prospettiva teatrale metafisica animata dalle sculture di Arturo Martini», adattando alcuni principî scenografici desunti dalla sala “Moda e Sport” allestita da Josef Hoffmann (una delle influenze dichiarate di Scarpa) al Werkbund di Vienna del 1930. Per Klee invece Scarpa adotta una soluzione diversa, allestendo uno studiolo con i dipinti su una serie di pannelli, secondo un dinamico rapporto di sovrapposizioni. In particolare della sala si ricorda la “striscia” di opere che si dispiegano, seguendo un sapiente gioco di allineamenti, come in un nastro, la cui altezza è determinata dalla misura di L’uomo grigio e la costa (1938). Scarpa riprenderà poi l’idea, radicalizzandola, in un altro sodalizio con il curatore Pallucchini – il pannello obliquo concepito per la celeberrima mostra di Giovanni Bellini al palazzo ducale di Venezia.

Il progetto museografico di Scarpa è orientato secondo una precisa preoccupazione teorica: strappare l’opera d’arte alla pedante ricostruzione storica, e immetterla con decisione in un dialogo proficuo con il passato, senza la necessità di ricrearne le sembianze posticce. Si tratta di un’operazione comprensibile non solo iscrivendo le trovate di Scarpa nell’ambito dell’architettura razionalista ma in quell’alveo, ben più ampio, che coinvolge la storia dell’arte italiana del dopoguerra e – perché no? – anche i fondamenti teorici del restauro di Cesare Brandi. Tale è il percorso adottato nella prefazione al volume di Patricia Falguières, che avvicina Scarpa ad alcuni professionisti contemporanei (come Franco Albini, autore del supporto telescopico per la Margherita di Brabante di Giovanni Pisano, presso il Palazzo Bianco di Genova) e a pensatori chiave nella teoria e nella storia dell’arte italiana coeva. In questo senso, un’affermazione giovanile di Giulio Carlo Argan

Gipsoteca canoviana di Possagno (progetto Carlo Scarpa, 1955-57)
Gipsoteca canoviana di Possagno (progetto Carlo Scarpa, 1955-57)

(1938), che ricordava come l’allestimento di un museo non fosse solo una questione di “atmosfera” ma anche «il risultato e la condizione di un progetto critico», pare l’accompagnamento ideale del lavoro di Scarpa. Lo stesso Argan continuava, ancor più esplicitamente, affermando che è possibile «paragonare la disposizione di un quadro in un museo all’edizione di un’opera poetica».

In questo senso insomma, la museografia pare fare tesoro di un precetto della filologia letteraria: l’originale è (per definizione) perduto. Il museo non è uno spazio per mimare un passato inattingibile (nessuna concessione alle Period Room) bensì il luogo ideale per iscrivere l’opera nel contemporaneo e renderne così leggibili i valori formali ed estetici. È proprio su questo punto che Falguières richiama l’attenzione del lettore nelle ultime righe della sua prefazione. Il formalismo di Scarpa prende le distanze tanto dalle soluzioni museali adottate all’incirca allo stesso periodo da Alfred Barr al MoMA, quanto dalle formulazioni moderniste di Clement Greenberg, che sfoceranno implicitamente nel White Cube, lo spazio immacolato della galleria, sprovvisto di qualunque distrazione percettiva per uno spettatore ridotto a puro occhio. Non vi è prospettiva più distante dal fare di Scarpa, che si rivendicava spesso prossimo di un certo “bizantinismo” in virtù dei suoi natali veneziani. Ora, è certo curioso ricordare che Scarpa realizzerà nella seconda metà degli anni cinquanta, proprio una sorta di White Cube che suscitò non poche controversie: la gipsoteca di Possagno. I candidi gessi di Canova vi sono presentati contro un fondo dello stesso colore – che si tratti di una parodia del cubo bianco modernista? Ma qui è la luce, e la collocazione spaziale delle opere, a fare la differenza. La scenografia di Scarpa deriva da un via forse “impura”, come sostiene Falguières – l’arredamento d’interni, ma si origina ugualmente da un sapiente studio delle opere da mettere in scena. E forse un’altra via “impura” ci consegna, di sbieco, il ritratto migliore di Scarpa: la cucina. Philippe Duboÿ ricorda che, parafrasando Brillat-Savarin («cuoco si diventa, ma rosticcere si nasce»), Carlo Scarpa soleva affermare: «museografo si diventa, ma architetto si nasce». Un altro parallelo ci pare a questo punto irresistibile. Nelle parole di Aldo Buzzi, lo scultore Arturo Martini (prossimo di Scarpa) definiva la cucina come fatto d’istinto: alcuni devono assaggiare la zuppa per sapere se è salata, ma a Martini bastava uno sguardo per capirlo. «C’è l’Artusi, e poi c’è l’inafferrabile», continuava Martini. Carlo Scarpa, il museografo bizantino amante del dettaglio, ha di fatto cercato di valorizzare proprio quell’inafferrabile che sta al di fuori dai volumi di teoria o di storia dell’arte – tale è “l’arte dell’esporre”.

Philippe Duboÿ, Carlo Scarpa. L’Art d’exposer, JRP Ringier – La Maison rouge, 2014, pp. 240.

 

LIBERA OCCUPAZIONE POETICA – 21 marzo a Torino

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L’Unione Culturale Franco Antonicelli organizza le prime iniziative culturali
del progetto Liberazioni del nuovo Polo del 900

LIBERA OCCUPAZIONE POETICA
La giornata mondiale della poesia all’Unione Culturale
Sabato 21 marzo 2015
Via Cesare Battisti, 4/b – Torino
(ingresso libero e gratuito)

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Da Versi Nuovi (2004). Terza parte

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Biagio Cepollaro,Ken-2008

di  Biagio Cepollaro

Da Nel tempo e dietro  (2001)

ma come sorriso che risale
a galla vieni da noi
dal fondo dell’onda più alta
non come pensiero

che ciò che oggi desideriamo
è uscire un poco dall’ignoranza

e per questo chiniamo la testa
e per questo chiniamo la testa

 

I (il tempo, dopo)

*

servirà a qualcuno tanto dispendio
di parole?
farà luce dove prima era solo
buio?
a cosa altrimenti e perché tanto chiacchiericcio
stampato o mandato
in onda?

niente: bisognerà non ambire
a tanto
ai tanti: lo vedi da te come è affollata
la mente
e quanto in realtà vale appunto
niente
o forse è proprio questa la truffa:
valutare… valutare ancora cosa c’è
nella mente: ancora distrazione

e allora
cosa potremmo dire alla fine
diremmo sbagliando
che si perse molto tempo

non dovremmo dire nulla: ma detto
riconquistare silenzio
come se appunto non avessimo
detto nulla
o non fossimo stati noi
a dire
ma un si dice che era
nelle cose (come secolo
di storiche utopie che possono fallire
nel sangue o in ore
di televisione o semplicemente perché
il bene viene prima
di ogni sua materiale
condizione: e noi non fummo pronti
come specie
e se terra
nacque da stella nostra bellezza
non fu pari alla ferocia: la scimmia
che ci turba non c’incalza
ci precede)

così puoi vedere la vittoria
del capitale su scala globale come scacco
dell’intera specie come difetto
greve dell’evoluzione:
forse per questo
sempre più si biologizza il male e nasce
imbarazzo nuovo nell’apparente
neutro di scienza a fronte di incerta
morale

e allora se c’è del marcio
nella scienza marcio nella morale
dove trovare il bene? È che sin dall’inizio
compimmo errore di dare
peso e consistenza
al chiasso della mente e quella volta
che le cose sembrarono risponderci
ne ricavammo universale
presunzione
fino a dire legge
di natura
una fisica locale
ed era ancora angoscia
di morire o di sentirsi
astronauta a cui si stacca
il filo
che lo tiene
alla nave
né sopra
né sotto
né davanti né dietro
solo freddo
e aria

che manca
diremo : ringraziamo ancora
per come è andata
per i nostri morti
che furono troppo
solleciti
e per i vivi che non sappiamo
ancora salvare
dalla distrazione

**

e dovremmo noi ricordarci ora
e domani
che non fummo magnanimi
col tempo
che non solo perdemmo
-non pensandoci- le albe
viste dall’aereo
sul pacifico (e lo notava
contrito via e-mail Taro Okamoto
tornando a casa)
ma anche perdemmo -indurendo troppo
spesso la faccia-
l’occasione per sentirci agli altri
uguali

è vero ci premeva ansia
di non farcela ogni mattina
allo specchio
aggiustandoci i capelli ancora
arruffati dal sonno
dovevamo presto darci contegno
ripeterci come mantra
all’incontrario
di esser abbastanza forti
per non soccombere
e portare a casa parte
che sembrava giusta
(a torto o a ragione)
di tutto il becchime
e dovremmo ricordarci ora
e domani
di chi più vecchio ci accolse
e ci dette ascolto
mentre noi già pensavamo
di essere strumenti troppo
docili
e per troppo tempo dialogammo
solo con noi stessi credendo
ragioni
due o tre ossessioni

(quelli che per strada
parlano da soli
per protesi e auricolari
fanno ad alta voce
ciò che comunque faremmo
per impulso della mente)
mente satura ed esplosiva
stanza che scoppia
e che nessun trasloco
potrà prosciugare
che resta palude e pantano
che resta fetida
nella mente
l’aria
diremo. A noi ci parve
di scegliere e decidere
ma fu lo stato
della nostra mente
e le sue macchie
a vedere o a non vedere

noi dicemmo esiste solo purezza
della mente
che ancora così chiamiamo mistero
di queste galassie che procedono lente
a fare spazio
inventando cosa
nel niente
inventando insieme cosa e niente

***

e ogni giorno
nuovo è come terrazzo
della festa il giorno
dopo. forse da questo
lasciare andare ciò
che comunque è andato
senza rincorrere voci
che non ci sono più
senza tristezza per piatti
di carta accartocciati
e per le cicche
con la stessa nube
che illumina gli occhi
anche noi partecipammo a sociale
rimozione
del dolore e della tenerezza
a noi che in antico fu affidata
memoria
fummo i primi per due righe
di giornale
a dimenticare

che non si trattava di affermare
questa o quella verità
ma di essere nel giorno
diversi
e invece al semaforo
suonammo più volte
il clacson
appena verde

e in casa fummo gelosi
degli spazi facemmo notte
e giorno ronda
intorno a nostro accampamento
a difendere tempi
e oggetti
che altrimenti avremmo dimenticato

(come solo ci riuscì in quei mezzi
abbandoni quasi umani
che nominammo ignari
vacanze)

e fummo sordi ai più vicini
e fummo ciechi all’evidenza

e mille facce ci passarono davanti
che non vedemmo

mille voci ci cercarono
che non ascoltammo

e ora tutte quelle facce e tutte quelle voci
fanno ressa davanti ai cancelli
della mente
e ora che siamo usciti
di casa lasciandola al disordine
esitanti facciamo il nostro bagno
di folla nella folla dei visi
e delle voci

la terra comincia dalle nostre case
il cielo comincia dai nostri occhi

e francesco via e-mail mi dice
che azione crea spazio
e penso alla danza che lo ricama
e penso a dimenticare i nomi
ai fogli bianchi sempre nuovi
e ai visi e alle voci fuori dalla stanza

e all’aria e al tempo che rimane
che il tempo che resta
non aggiunge più nulla

che questo tempo ci farà
muovere sul posto

che abbiamo fatto cose
nell’ignoranza
e ora queste cose
ci fanno sorridere

o vergognare ché queste
cose non sono più cose

ma movimenti alla cieca
e colorati accecamenti

 

****

diremo che abbiam visto
e non abbiamo visto niente che in tutta
la storia ne scorgemmo
solo quattro con certezza
di supernove e allora brillò
per due anni il Granchio e venti
giorni quella che oggi diciamo
nebulosa e Lupo e l’onda
più vicina che ancora spazza
forse iniziò nell’anno che dissi
a piero una prima poesia e veniva
da stella trenta volte più grande
del sole mentre fissavamo il fondo
del bicchiere finita la birra

disimparammo a leggere e leggemmo
solo parole

disimparammo a scrivere
e scrivemmo solo parole

disimparammo a guardare
e vietammo l’imprevisto

disimparammo ad ascoltare
e facemmo del mondo un nulla

ricordate lodi
ci fecero esultare
e come allora chiudemmo occhio
su chi lodava
(in cuor nostro
a nostra volta lo lodammo
sedendoci comodi
e terrorizzati sul divano
con nostri fantasmi)

è così banale il meccanismo
della gloria

come quello di far danaro

proprio ieri pino diceva
che chi pur avendo necessario
non si sente ricco
non gli resta
che sbattimento all’infinito
dell’accumulo
e suggeriva sorta
di pietà per questi avidi
a cui le cose
non bastano mai
come in film di woody allen
quando attore conclude
battuta in arguzia:
poverini quelli, additava, fanno sesso
ché non sanno fare arte

eppure sia pure in breve
raggio da giovani il mondo per noi
era più largo
potevamo per ore stare su scoglio
e lasciare alle mattine loro luce

(giulia chiama meraviglia
questa improvvisa slabbratura
del tessuto del mondo
che lo rivela)
e forse non era altro il segreto
di questa scena che lo starcene
in silenzio nella parte
che non conta
un pò di polvere
mista a ghiaccio
in coda
di cometa

(come ieri andando a trovare
ragazza che suona violoncello
neanche ha cominciato
che d’un tratto musica non era più
importante e l’arte in quel momento
era lenire dolore
a destino squadernato)

e questo fu forse riprendere
a guardare

e questo fu forse riaccogliere
imprevisto su altra corda
riprovando l’aria

la terra comincia dalle nostre case
il cielo comincia dai nostri occhi

e folata più forte
di vento scompiglia
in questo momento duna
nel deserto
ma quella
che si alza vorticosa
e quella che resta appena
smossa
è sempre la stessa
sabbia

(non sapremo mai dire
che è abbastanza)

(….)

Da Versi Nuovi, Oedipus Ed. 2004

[Annotazioni di lettura di Giuliano Mesa e Giulia Niccolai sono reperibili rispettivamente nel numero 20 e 26 de il Verri. Si possono leggere anche qui . L’intero libro in formato pdf è scaricabile qui. B.C]

 

Sguardi dal Novecento

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di Giacomo Verri
sguardi dal novecento(Nicola Vacca, Sguardi dal Novecento, Galaad, pp. 133, euro 13)

Gli sguardi di Nicola Vacca fanno nascere nella mia mente l’immagine di due occhi, isolati da tutto il resto, che accusano o che subiscono un’accusa, che inchiodano o che vengono inchiodati a una colpa. Sono Sguardi dal Novecento, come recita il titolo dell’ultimo volume del poeta e critico letterario di Gioia del Colle. Sono occhi di uomini in rivolta, come quelli di Albert Camus, sono finestre su pensieri complessi in cerca di continuità e di coerenza con se stessi. Sono sguardi di donne e di uomini illustri, da Alda Merini a Ennio Flaiano, da Sciascia a Calvino, da Borges a Barthes, e di altri che illustri lo sono stati di meno, a tutto nostro svantaggio (com’è il caso dell’autore di In margine a un testo implicito, Nicolás Gómez Dávila, o di Edgardo Marani). Di là dalle loro peculiarità, con finezza indagate da Vacca, ciò che li rende fratelli nella sorte è il loro ruolo di testimoni scomodi del secolo breve, di decrittatori dei totalitarismi, di scrittori, per dirla con Silone, non proprietà dello Stato ma della società.

Quelli di Vacca sono perciò sguardi di chi non ha nascosto i guasti della democrazia, né di chi dietro alle gabbie ideologiche si è trincerato, provocando quel “ritardo sullo sviluppo e sui bisogni dell’uomo contemporaneo” che oggi ancora ci fiacca. Sono piuttosto occhi fieri, quelli che ci vengono incontro, di creature che, pur braccate dalle accuse del pensiero dominante, hanno scelto “la solitudine riservata ai disturbatori e ai pensatori scomodi”. Donne dei margini, come Alda Merini, “grande visionaria”, educatrice del cuore che entrava “con l’amore per la scrittura dalla porta chiusa a chiave della follia, per spalancare finestre di celesti mutamenti sul divenire di un pensare totale”; e uomini appartati, traditori delle altrui aspettative per non diventarlo di se medesimi, ricercatori di questioni morali che fanno della poesia un mestiere quotidiano.

Kraus, Cioran, Luzi sono pensatori inattuali, bestie dell’intelletto che scagliano lontane le maschere dei dogmi, all’inseguimento, come Pessoa, di quel “vasto libro dell’inquietudine, che cerca nelle elucubrazioni dell’abisso interiore i principi dell’immortalità dell’anima” per salvarsi dal quel “disastro troppo recente” che è la modernità. Questi sguardi dal Novecento tracciano una mappa del disastro, seguendo i passi di chi ha aperto la via a salvifiche considerazioni inattuali, a quell’“altrove che bisogna frequentare per riscoprire il fascino della differenza”, fascino che è sentimento profilattico rispetto a ciò che la dittatura del benessere desidera che diventiamo: una folla innumerevole di uomini eguali (per ripetere quanto Alexis de Toqueville scriveva a proposito della democrazia in America quasi due secoli or sono), intenti a procurarci piaceri piccoli e sguaiati con i quali soddisfare il desiderio. Gli autori di Vacca, ed egli con loro, ci avvertono del pericolo di una esistenza vuota di stupore in cui vegetiamo senza vivere, in cui tocchiamo gli altri senza amarli, respirando in noi stessi e per noi stessi, ignorando che sulle nostre teste grava un potere immenso e assoluto e particolareggiato e viscido che cerca di fissarci senza revoca nelle irresponsabilità delle maschere che indossiamo.

L’invito è quindi a svelare e a svelarci, a mostrare lo sguardo di ciò che è umano, consapevoli, come scrisse Wislawa Szymborska, che “solo ciò che è umano può essere davvero straniero. Il resto è bosco misto, lavorio di talpa e vento”.

Paura di volare

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Si-alza-il-ventoIl proprio dovere: disciplina del lavoro in Miyazaki e Eastwood

di

Paolo Mossetti

I protagonisti di due film usciti negli ultimi anni, premiati entrambi da grande successo di pubblico e – seppur in diverso modo – di critica, ci offrono chiavi di lettura molto peculiari sul rapporto tra disciplina interiore, morale individuale e cultura del lavoro.

[Attenzione: contiene spoiler]

Si alza il vento, diretto da Hiyao Miyazaki nel 2013, è la biografia romanzata del Jiro Horikoshi, l’ingegnere che negli anni Trenta disegna il caccia Mitsubishi “Zero”, punta di diamante dell’aviazione nipponica durante il secondo conflitto mondiale. È il percorso formativo di un ragazzo di campagna che diventa genio senza mai perdere la sua pudica umanità. Jiro sogna di diventare pilota, ma la miopia glielo impedisce. Apparendogli in sonno, il conte inventore Giovanni Battista Caproni (un italiano che è esistito davvero, tra la fine dell’Ottocento e prima metà del Novecento) lo persuade a costruire aerei piuttosto che guidarli. E lui così fa: studia, si impegna, si laurea, viene ammesso in un importante studio di ingegneria. Conquista la fiducia dei suoi capi. Trova, per caso, l’amore.

Miyazaki sceglie di raccontarci la vita del protagonista soffermandosi sulle minuzie: gli strumenti di lavoro, le cicche di sigaretta spente durante lunghe nottate di lavoro, gli scorci di pianura del Giappone centrale intravisti dai vagoni popolari su cui spesso viaggia Jiro, il rumore della matita quando si posa sulle tavole. È difficile ricordare qualche dialogo degno di nota: le persone interagiscono, parlano tra loro, ma sempre con una certa riluttanza. In una scena memorabile, quando la città di Kanto viene devastata da un terremoto, Miyazaki fa muovere le masse investite dalla catastrofe in un silenzio surreale.

Anche il contesto storico non sembra sovrastare più di tanto la trama. Jiro si trova a vivere un momento cruciale per il suo Paese – è consapevole di produrre macchine che un giorno potrebbero diventare di morte – ma il suo antimilitarismo è solo lievemente accennato, la sua estraneità all’ambiente si percepisce da ciò che non dice più che dalle parole che pronuncia.

È facile riconoscere in American Sniper, il campione di incassi questo inverno, diretto da Clint Eastwoodil motivo di tante controversie politiche: il film si basa sull’autobiografia del cecchino più letale della guerra in Iraq, con almeno 160 cadaveri sulla coscienza. Il contesto in cui cresce Chris Kyle, il protagonista, è quello piatto della provincia americana: lui va a caccia col padre, che divide l’umanità tra “pecore”, “lupi” e “cani da guardia”. Un giorno assiste in tv agli attentati dell’11 settembre, sogna di vendicarsi, viene tradito dalla sua ragazza durante un rodeo e decide di arruolarsi. In Si alza il vento i toni sono più lievi, distanti dalla brutalità dell’epoca in cui si svolge la trama. La vita di Jiro sembra seguire un percorso estremamente elegante, quasi fastidioso nella sua perfezione professionale: si intravede quasi la figura dell’ “eroe” distaccato, virtuoso e nobile di cui parlava il gesuita ‪Baltasar Gracián‪ tre secoli fa. Non c’è stakanovismo nella sua ricerca ma una dedizione costante, senza lampi di follia o paranoia. Horikoshi è soltanto “Jiro”, il ragazzino timido che diventa uomo, mentre Kyle è il grilletto che spara dall’inizio alla fine, che si arruola volontario in una guerra d’invasione non dichiarata e illegittima.

È facile, da “sinistra”, schierarsi contro il grande pubblico americano, plaudente e patriottico, e odiare Kyle. Richiede invece uno sforzo molto più raffinato trovare immorale il protagonista di Miyazaki. Eppure il film, e soprattutto il suo soggetto, ha avuto non pochi detrattori: in molti nei circoli pacifisti e radical giapponesi si sono chiesti perché un autore di stampo notoriamente umanista come Miyazaki abbia scelto di raccontare, con evidente affetto, un complice della macchina di guerra, un costruttore di aerei. Può la “nobiltà” di Jiro, paragonata alla rozzezza bovina di Kyle e alla ferocia che guidava il suo ingaggio, rendercelo più simpatico, nonostante i suoi aeroplani sono stati costruiti, come sappiamo dalle testimonianze storiche, da migliaia di prigionieri di guerra cinesi e coreani?

Il lavoro è diventato nella nostra epoca l’unica religione tollerata dalla classe media impoverita, venute a mancare le ideologie novecentesche e visti con sospetto i predicatori di qualunque sagrestia, tranne quella che esalta il valore della competizione e dell’etica “da ufficio”. Quando Ulrich Beck 25 anni fa parlava di “soluzioni individuali a contraddizioni sistemiche”, sembrava riferirsi con un quarto di secolo d’anticipo agli venti-trentenni lasciati soli con le loro ansie di fronte alle ingiustizie del mondo, alle quali non sembra esserci alcuna soluzione che la carità dei Vip, la solidarietà “online”, il ricorso a formule inspirational – come direbbero in America – che si possono riassumere tutte con un “fa il tuo dovere, sii buono, e verrà il tuo turno”.

Eppure è difficile non restare affascinati – specie se si è abituati a ondeggiare tra la disperazione della marginalità e il conformismo dello stare al “centro” – da chi riesce a farsi rispettare dal “sistema” pur non sentendosi interamente parte di esso. Kyle è un lupo solitario, un tormentato, ed Eastwood sembra indugiare ambiguamente tra comprensione e sguardo inorridito, ma il film è piaciuto alle platee destrorse anche perché racconta la storia di un vincitore, almeno in campo lavorativo: il suo dovere Kyle lo faceva bene, i nemici dell’America, gli attentatori alla vita dei suoi commilitoni lui ne ammazzava a dozzine, e conta poco, in fondo, che la sua esistenza sia finita con un colpo sparato da un militare squinternato come lui, in un banale poligono di tiro. Anche Jiro è un vincente: dopo cinque anni di praticantato  riceve dai suoi superiori l’affidamento del progetto più importante, quello di disegnare il caccia che avrà il compito di supportare le truppe di terra durante una probabile invasione dell’Asia continentale. È difficile, pur disprezzando la logica della competizione e dell’obbedienza, rimanere indifferenti alle lusinghe professionali, ai complimenti del capo, alla soddisfazione per un primato. E dunque la domanda è se si può conciliare il “proprio dovere” – inteso come docilità nei confronti delle regole imposte da un’organizzazione – con una diversità radicale, con il “non accetto” di camusiana memoria.

Un secolo fa, l’anarchico Nestor Makhno a tal proposito aveva idee ben precise: nestor_makhno_hope_by_marmontx-d36gwpz

“Non posso restare indifferente allo stato di noncuranza e di negligenza che esiste attualmente nei nostri circoli. Un tale di stato di cose impedisce la formazione di quel collettivo al cospetto del quale tutti coloro che si sono aggrappati all’anarchismo senza capirlo in fondo […] sarebbero rappresentati sotto una luce diversa e verrebbero respinti per andare ad occupare un posto più adatto a loro. Ecco perché parlo di una organizzazione anarchica fondata sul principio della disciplina fraterna. [….] La responsabilità e la disciplina organizzativa non devono spaventare i rivoluzionari. Sono esse le compagne di strada della pratica dell’anarchismo sociale.”

In qualche modo Makhno sembra parlare anche ai ribelli di oggi, squisitamente anarchici e non, per dirci: far quadrare i conti non vuol dire tradire i propri compagni, ma separare i guastatori dai persuasi; rispettare una responsabilità di gruppo non può che favorire la causa di quel gruppo.

Se Jiro risulta ai più sensibili una figura digeribile e meritevole di identificazione rispetto a Kyle, non è solo perché egli proviene da un background più colto e aristocratico rispetto alla formazione anabolizzata del secondo. Né, tantomeno, per le opportune scelte narrative di Miyazaki, che hanno preferito le vicende sentimentali rispetto alla crudeltà della guerra. Il motivo è che se Kyle, in nome di un malinteso senso di cameratismo e dell’onore, si mette a disposizione del gruppo come un automa privo di qualunque compassione, Jiro non sembra aver perso lo sguardo umanista sul mondo – che è quello del suo autore.

A metà film Jiro ritrova una ragazzina (Nahoko), dai tratti quasi angelici, che aveva incontrato di sfuggita diversi anni prima. Lei è il simbolo di una possibile salvezza in un limbo di ignavi su cui incombe il peggio, ma lui, come il Marcello de “La Dolce Vita”, perso nei suoi pensieri non la riconosce subito. A differenza di Marcello, però, che col tempo si era lasciato corrompere dal suo stesso cinismo scegliendo di sguazzare in mezzo allo sterco dei padroni, Jiro ha mantenuto una splendida pulizia interiore. Nei suoi tratti c’è il rigore progressista di un Enrico Fermi o di un Ettore Majorana; la sua vita è fatta di scompartimenti stagni ma il modo in cui riesce a bilanciare l’amore per la nuova compagna con la carriera non ha il sapore né del cinismo né dell’alienazione che si vedono nel mercenario di American Sniper.

Jiro e Nahoko si corteggiano, si fidanzano senza clamore, si sposano in segreto. Il sesso arriva solo molto dopo. Lei, intanto, è già malata. Lui le dedica corpo e spirito senza perdere di vista gli obiettivi del lavoro, poiché il tempo stringe e c’è da completare un velivolo cruciale per l’esercito. La loro storia può sembrarci improbabile ma è dignitosa, brevissima e commovente. Jiro è consapevole che anche i sogni più spensierati non possono prescindere da una fortissima disciplina interiore: ciò che ahimè manca a molti “persuasi” tra noi, che troppo spesso confondono nichilismo con spontaneità, passioni tristi con ozio sacrosanto.

Solo pochi film sanno essere davvero trascendenti, e lavorare sulla nostra coscienza e la nostra immaginazione come una sinfonia, una preghiera o un immenso panorama. La maggior parte di essi ci racconta di protagonisti con un obiettivo in testa, che viene poi raggiunto dopo difficoltà comiche oppure drammatiche. Quello che a detta di molti sarà l’ultimo cortometraggio di Miyazaki, il cui titolo si ispira ad una poesia di Paul Valèry – «Si alza il vento, dobbiamo vivere!» -, ripetuta spesso dal protagonista, non parla di una missione ma di una ricerca, di un bisogno. Come sapevano fare i film di Kubrick o, con mezzi più ingenui, una certa cinematografia italiana dei primi anni Novanta, per esempio Amelio, Faenza o Martone, e qualche solitario autore di oggi. Il suo è un lungo, lento, melanconico, dolce addio, permeato dal sentimento della morte, che ci fa rivalutare l’aristocrazia del distacco rispetto alla compulsione dell’obbedienza. E come una commovente pagina gramsciana, ci invita a credere alle capacità dell’Uomo, e al fatto che non siamo solo carne ma intelligenza.

Cenni sul paese più infelice del mondo

1

di Mauro Baldrati

Baldrati_Jimi hendrix-copertina2 CONTRASTO(pubblichiamo l’incipit del romanzo di Mauro Baldrati “Il mio nome è Jimi Hendrix”, Edizioni Arianna)

 

In principio era palude.

Banchi di sabbie mobili e canali di acqua salmastra formavano un enorme acquitrino malarico che tutti evitavano come una pestilenza. Era il “Luogo di morte della carne e dello spirto” di cui vagheggiava Amedeo Loriani, il satrapo della Romagna dotta ottocentesca, nel tremolante (e purtroppo studiato a memoria nelle scuole) Cantico di campagna.

Eppure, in tempi antichi, un manipolo di fuggiaschi vi trovò un accogliente rifugio: trecento barbari venuti da est, braccati dalle legioni romane, si avventurarono nel “fango maledetto dagli dei”, dove i carri sprofondavano, e di loro si perse ogni traccia e memoria. Per la verità nel papiro conservato nell’ufficio del sindaco non vi sono riferimenti precisi, ma lui, il glorioso maestro Follicelli, l’instancabile ricercatore del nostro oscuro passato, giura che quei fatti si svolsero proprio qua, su questa terra emersa, dove ora i concittadini giocano a carte e a Mah-jong.

Il primo insediamento umano stabile risale al 1600. Un gruppo di prigionieri arabi fuggiti dalla Sicilia si addentrò nell’intrico di canali, e a nulla valsero i tentativi di stanarli. Alla fine il vescovo di Ferrara, in cambio di una professione di fede cristiana, concesse loro il diritto di abitarvi, purché si arruolassero nella legione di manovali che lo stato papalino stava reclutando. Un editto di Clemente VIII, infatti, ordinava l’avvio di quell’immane lavoro di bonifica già tentato dai duchi d’Este, dai Calcagnini e di cui si parla persino nelle antiche carte bizantine. Erano ladri, carcerati, prostitute, prigionieri di guerra, attirati dall’illusione di un impossibile riscatto sociale. Molti morirono, alcuni fuggirono nella vecchia vita dopo avere derubato i compagni, quasi tutti si ammalarono di malaria.

Nel 1740 i discendenti dei lavoranti e, pare, di popolazioni giunte dall’Albania, gettarono le fondamenta di un centro abitato sulle terre bonificate. Poiché sul muro di un magazzino costruito dai primi ergastolani era dipinta una falce di luna gialla, al paese venne dato il nome di Mezzaluna.

Mezzaluna, il paese più infelice del mondo.

La definizione è del mio amico Dennis. Avevamo appena letto “Storia e preistoria di Mezzaluna”, il libretto-culto pubblicato a cura del Comune dal nostro glorioso sindaco. Dennis era entusiasta. Quell’andirivieni caotico di pirati, barbari e malfattori lo metteva di buonumore. Ha steso davanti a sé le braccia coi pugni chiusi, per mettere in evidenza le vene: “Qui scorre cattivo sangue” ha detto, parafrasando il suo amato Rimbaud. “Siamo un miscuglio di razze inferiori. Stirpi tarate. I degni abitanti del paese più infelice del mondo.” E ridacchiava soddisfatto.

Mezzaluna è un paese a due piani. Di tre piani c’è qualche casa che sembra costruita per errore, di quattro solo il palazzaccio del comune. Le case sono tutte uguali, intonaci graffiati di colore grigio, verde muffa, azzurro smorto. Nessun abbellimento, nessun fronzolo. Sono raggruppate fitte in quartieri residenziali come tante conchiglie sulla schiena di una balena addormentata.

Anche gli alberi sono tutti bassi: frutteti, canneti, pochi pini o abeti spelacchiati nei cortili delle case. Quando un albero comincia a crescere e a distendere con fierezza i suoi rami viene immediatamente tagliato e sostituito con uno giovane. Gli abitanti di Mezzaluna – i mezzalunatici – amano il pulito, non sopportano tutte quelle foglie da spazzare in autunno. Gli unici alberi a cui è concessa l’età adulta sono le pioppe, torri solitarie nelle vaste spianate di grano e barbabietole che si perdono all’orizzonte. I grandi pioppi sono tollerati perché costituiscono i punti di sosta degli uccelli migratori. Esausti dopo avere sorvolato oceani e montagne, vengono abbattuti da decine di cacciatori, praticamente l’intera popolazione adulta maschile di Mezzaluna, nascosti dentro capannucce costruite con giunchi o teli mimetici militari (chiamano questi sterminii caccia a capannino).

In una di queste case-conchiglia a due piani, una villetta nel paese nuovo, cioè uno dei quartieri nati una decina d’anni fa sulla rive-gauche del fiume Lepre, ci sarei io.

 

Miti Moderni/8: fine di un amore noir

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tumblr_mkhd493FR91qghl49o1_r1_500di Francesca Fiorletta

Non si dovrebbe tenere un diario, quando si soffre, si rischia di ricordarlo sempre, quanto fa bene, quel dolore. Si rischia la confessione, e lo sparo.

Senti come pulsa, la lingua gonfia, l’amianto sterile non ha sapore, dopo il caffè, resta ancora lì accucciato nel giardino dei ricordi di mammà, anche un secolo va bene.

Hai sempre la bocca bagnata, perdi l’udito, senti fischiare, continuamente, starai piangendo, ti confiderai con un amico, scattano opachi i secondi impressi sopra al contatore in miniatura dell’autovelox, la luce gialla si fa di vetro inconsistente, senza accorgervene vi allontanate ogni giorno dalla meta prefissata, non avete mai saputo dove andare, a sbattere.

Art. 22 : I comunisti dandy e dio

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Teologia-della-liberazioneI comunisti dandy non amano le maiuscole, in generale, eppure, quando si scrive dio un’esitazione di certo prodotta dall’infanzia ammanta il tratto, le dita. In totale armonia con quanto prescritto dal proprio decalogo laico,  i comunisti dandy hanno scoperto che, comunque sia, va sempre a finire che sia vana la prece e questo a prescindere dalla condotta del richiedente. Il comunista dandy, fin dalla tenera infanzia, vive con estrema serietà la contraddizione pratica cui si presta il catechismo appreso in classe. A pochi minuti dalla fine della partita del cuore, con risultato a reti inviolate delle due formazioni, il bcd avvolto nella sciarpa della propria squadra, generalmente con Stella rossa e quasi sicuramente  con il titolo Dinamo o Spartak nel nome, osserva non senza trepidazione la lunga corsa del proprio attaccante preferito interrotta da un piede cattivo avversario in piena area; fallo punito dall’arbitro con un calcio di rigore. Nel momento in cui il proprio uomo sta per calciare la palla il bcd pensa forte, quasi a farselo scappare dalle labbra : dio ti prego, faccelo segnare ! Nell’istante successivo realizza che probabilmente nella curva opposta alla propria un altro bcd ha appena profferito la stessa invocazione con una leggera variazione sull’ ultima parola : dio ti prego, faccelo parare !
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La questione delle preferenze di dio, ovvero di assecondare la preghiera del bcd uno rispetto al bcd due, comporta la quasi automatica messa in discussione dell’onnipotenza dello stesso dovendo quest’ultimo, qualsiasi decisione esso prenda, portare beneficio all’uno arrecando danno all’altro. Ora, ammettendo che i due bcd non abbiano veramente nulla da rimproverarsi e ancor più da farsi rimproverare, quale che sia la decisione dell’altissimo, si comprenderà bene quanto la delusione dell’uno o dell’altro possa concorrere al futuro ateismo di uno dei due. Ecco cosa pensa il bcd facendo seguire a tale pensiero  la certezza che dio non esiste. Il che accade nel momento in cui il proprio giocatore, spiazzando il portiere, la mette dentro. Lo fa per solidarietà con il bcd due che gli sta di fronte e infatti, lasciando lo stadio, nella gioia di una curva delle due, quasi sussurra spingendo il tornello : adieu !

Dove mente il fiume

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di Daniele Bellomi

[un estratto da dove mente il fiume, Daniele Bellomi, Prufrock spa 2015]

di maree, anatomia

ancora in corsa dal poco al niente, nel cordone
donato alla discarica, messo da una parte il plastico
dell’acqua vista quando ancora sborda fuori, nonostante
la fatica nel respiro: andarsene negli anni a nominare
spazi vuoti, posti di blocco, detenzioni. il doppio
rimane l’uno che sbanda, viene via assieme alla sacca
del figlio che separa la sezione di guida e il passeggero,
in fase d’urto: dal contagio rimediato nel macello
si conservano le anatomie dei fiumi deviati fra le tempie,
attesi quando il male retrocede, per non capire più.

dove mente il fiume

 

 

 

 

 

 

 

 
 
 
 
 
 
il taglio ostina il mare del morire, oltre l’arrivo che sarà
sul dorso della mano, ancora in corsa, ricomposto
in poco spazio, non più immune e che si schianti
ovunque sia una fibra liberata e non rimessa apposta.
nel filtro che scola, dal niente, vìola e rimaneggia
la faringe spalancata nella doccia, il minuto andato
in sangue, riportato al suo vedere, a non resistere
per sempre. potrà farne cura, o insistere per come
si trascina dall’impatto: indurre un parto,
con ordine, magari mettersi a gridare.

Oui, je suis Permunian

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PERMUNIAN-COUVERTUREdi Romano A. Fiocchi

Francesco Permunian, La Casa del Sollievo Mentale, Nutrimenti, 2011; La maison du soulagement mental, traduit de l’italien par Lise Chapuis, Éditions de l’Arbre Vengeur, 2015.

Peut-être est-ce le vent descendu impétueusement des Alpes il brouille les herbes des prairies et les humeurs féminines qui remue le sang et l’esprit de certaines femmes du lac de Garde. Lorsque tante Arpalice, par exemple, fut frappée de cette maudite apoplexie qui la cloua sur un fauteuil roulant, elle sembla tout à coup avoir été heurtée de plein fouet par le vent tourbillonnant et sournois de la folie. Privée désormais de retenue et de pudeur, elle commença par alterner des moments de prière avec d’interminables parlottes truffées de phrases à double sens. Après quoi, la situation s’aggravant, elle se mit à jurer comme un charretier du matin au soir, à la maison et au dehors, et finit par perturber les enfants du quartier avec ses expressions obscènes et ordurières”.

(Forse è il vento di primavera che scende impetuoso dalle Alpi – e scompiglia le erbe e dei prati e gli umori femminili – a rimescolare il sangue e la mente di certe donne del lago di Garda. Quando alla zia Arpalice, per esempio, capitò quel maledetto colpo apoplettico che la ridusse su una sedia a rotelle, tutto ad un tratto sembrò essere stata investita dal vento turbinoso e maligno della follia. Senza più freni né pudore, all’inizio cominciò ad alternare momenti di preghiera a interminabili sproloqui infarciti di frasi a doppio senso. Dopo di che, peggiorata la situazione, prese a sacramentare come un turco dalla mattina alla sera, in casa e fuori casa, finendo col turbare i bambini del quartiere con espressioni oscene e scurrili)

Così le prime parole di La maison du soulagement mental, uscito a gennaio in Francia nella traduzione di Lise Chapuis, storica traduttrice di autori italiani del calibro di Antonio Tabucchi. Grazie al cielo continuiamo ad esportare cultura a livelli di piccola editoria. Il che significa esportare non solo best seller di largo consumo ma anche Letteratura con la elle maiuscola. E per di più, in questo caso, verso una nazione che è restia a concedere spazio a tutto ciò che non sia prodotto nazionale. Non per nulla Permunian, come ho scritto nel luglio scorso, qui, è autore così singolare da fare della sua scrittura un genere letterario.

Ho letto dunque La Casa del Sollievo Mentale (2011) dopo aver letto Il gabinetto del dottor Kafka (2013). L’ho letto quasi d’un fiato, come se l’esercizio effettuato su quest’ultimo avesse rodato il mio motore di lettore di Permunian. E allora mi sono chiesto: qual è il segreto della sua scrittura? Voglio dire, come è costruita questa macchina complessa di personaggi grotteschi, di continue discese tra gli inferi, di alternanza di voci narranti, e di follie, certo, follie che in un modo o nell’altro contaminano tutti, protagonista compreso? (Discese tra gli inferi, ho detto bene, perché La Casa del Sollievo Mentale è una vera e propria cantica dantesca con tanto di rinvenimento della personificazione del male – alias Lucifero – nel gran finale con coda)

È stato così che ho deciso di smontarla, questa macchina letteraria. A cominciare dalla dichiarazione di responsabilità all’inizio del testo: “Tutti i personaggi del libro sono stati inventati dall’autore e vivono unicamente nei suoi sogni. Nei suoi incubi”. L’ho comparata con quella anteposta a Il gabinetto del dottor Kafka, dove le stesse parole giocano su sfumature diverse: “Tutti i personaggi del libro esistono o sono esistiti realmente. Anche quelli inventati dall’autore”. Dunque La Casa del Sollievo Mentale è popolata di fantasmi dei sogni di Permunian, Il gabinetto del dottor Kafka di personaggi esistiti realmente o di fantasmi divenuti reali. Ho preso allora i fantasmi della Casa e li ho messi da parte. In quanto fantasmi letterari, il solo elencarli ne fa già una narrazione nella narrazione, come a dire che ognuno di loro porta nel romanzo la sua propria storia che va ad incastrarsi in una macrostoria più generale. Eccoli qui, più o meno in ordine di apparizione:

Ludovico Toppi, bibliotecario folle (alter ego di Permunian); zia Arpalice, trasformata in ninfomane da una sorta di improvvisa demenza senile; Camillo Gruber, spietato nazista in incognito; il barone Alfonso Maria Manotazo, per gli amici don Alfonso o addirittura Alfonsino; il padre di lui, Ottone Manotazo, con la sua splendida ed esilarante rassegna di ritratti che adattano l’espressione a seconda dei reparti del manicomio in cui sono collocati; Madame Pompadour, ex “bomba sessuale” che con l’avanzare della vecchiaia si è convertita a esempio (esteriore) di devozione religiosa; Guido Ceronetti, proprio lui, il poeta “dall’impareggiabile volto clownesco”; lo psichiatra psicopatico Diomede Korea, che scrive un libro sulla seduzione dal titolo “Immobili come gechi” ovvero “Brevi raccomandazioni pratiche per corteggiare una dama nelle sale cinematografiche durante il periodo invernale”; don Tibaldo, cappellano del manicomio; il fidanzato dell’impazzita zia Arpalice, incendiario irriducibile; donna Maria Reginalda Manotazo, presidentessa delle Dame di San Vincenzo pronta a prostituirsi per la causa; Amalia Barroso, cognata di don Alfonso, ex ballerina ormai ridotta a rottame umano per abuso di alcol; le signorine Eburnea e Leocadia, Real Doll ovvero bambole a grandezza naturale che si muovono come automi intelligenti negli ambienti del romanzo; il signor Armando o Armandino, necroforo necrofilo e sfruttatore delle due bambole; il vicino di casa Osvaldo, prostatico impotente e assassino per corna, rinchiuso anche lui nella Casa del Sollievo Mentale; il vecchio e monomaniaco falegname Girolamo Toppi e moglie, genitori del protagonista, dediti all’agioterapia; Ninetta e Cristoforo, ambigui custodi dell’Albergo del Mutilato.

Nella mia opera di demolizione della macchina permuniana ho stilato altri elenchi. Quello delle voci narranti: Ludovico Toppi, in prima persona sino al cap. XXI; Camillo Gruber, in prima persona dal cap. XXII alla fine, con eccezione delle chiusure dei capitoli XXIV, XXV e l’intero capitolo XXVI, tutti in terza persona. Poi l’elenco delle ambientazioni: l’Imperial-Regia Casa del Sollievo Mentale, con annessa l’inquietante Villa dei Bambini (“Mi piacerebbe farne un museo dell’infanzia. Dell’infanzia perduta del Novecento” – dice il Korea in una drammatica anticipazione del finale); la casa del bibliotecario, con annessa scena del crimine dove il signor Osvaldo scatena la sua pazzia pluriomicida; l’Albergo del Mutilato, che si rivela un doppio della Casa del Sollievo Mentale.

Permunian_casa_sollievoPoi c’è l’elenco delle epigrafi in testa ai capitoli: dalla dedica a Benedetta Centovalli “che crede ancora nella letteratura”, ai brani tratti dall’introduzione di un libro di Bruno Schulz o da un saggio su Fogazzaro, a citazioni di Terenzio, Cioran, Prezzolini, Giovanni Macchia, György Konrad, sino alla lettera di Kokoschka alla signorina Moos con cui si apre il libro e della quale si scopre il senso solo a pagina 110: “Ultimamente mi sto appassionando alle lettere di Oscar Kokoschka indirizzate a Hermine Moos, un’artigiana di Stoccarda da lui incaricata di costruirgli una bambola di stoffa che fosse la copia esatta di Ala Mahler, da cui il pittore era stato piantato in asso. E al cui abbandono non si rassegnava”.

Altro elenco, quello degli oggetti: qui ne cito solo due, la sega elettrica a cui paròn Toppi dedica l’ossessiva manutenzione serale, e lo straordinario bastone di Antonin Artaud – vero o falso che sia – che il barone Alfonso Maria Manotazo trasforma in una “Colonna Traiana da passeggio” incidendovi un fregio a spirale di caratteri alfabetici con “la sintesi del pensiero ateo di tutto l’Occidente”.

Tolti tutti questi ingranaggi – personaggi, ambienti, oggetti, – cosa rimane della Casa del Sollievo Mentale? La potenza della scrittura di Permunian. Una lingua pulita e tagliente, ruvida e colta, quasi dantesca: intendo di quel Dante che passa con disinvoltura dalle più bieche parole attinte dal volgare ai termini colti delle citazioni latine ed ebraiche. Allo stesso modo Permunian non si scandalizza a spaziare dal doppio senso sarcastico del “gioco dell’usignolo” all’umorismo puro e raffinato di don Alfonso: “È un mio sacrosanto diritto di ateo, perdio!”, sino alla spassosa scenetta del festival di Mantova con cui Guido Ceronetti vuole farsi sostituire da una controfigura letteraria: “Ma ci vada lei al posto mio, caro don Alfonso, ci vada lei a incontrare il pubblico che mi aspetta! Tanto nessuno se ne accorgerà, glielo garantisco. Ci parli lei, per favore, a quella massa di imbecilli ammucchiati là sotto, uomini e donne che leggono con occhi di ciechi e hanno l’impudenza di ritenersi miei lettori! Analfabeti che corrono su e giù per l’Italia da un festival all’altro, tirando per la giacca ogni scrittore che incontrano… Idioti con la testa rintronata per i libri mai letti e convinti che il festival di Mantova sia un reality televisivo. Per queste ragioni, gentile amico, io le conferisco seduta stante la carica di mio sosia letterario con funzioni di rappresentanza su tutto il territorio nazionale e le rinnovo l’invito ad affrontare quei coglioni che poco fa l’hanno scambiata per il sottoscritto”. E via così sino all’opposto di questa verve, ossia gli stati di depressa ma poetica malinconia: “Umiliato dagli anni e dalla solitudine, sto invecchiando come un imbecille che non sa rassegnarsi al fallimento della sua vita e solo adesso, nell’ora del crepuscolo, mi accorgo di essere ricoperto della polvere dei sogni”. Oppure la scrittura rabbiosa di quando sputa veleno sugli psichiatri, “medici idioti che s’illudono di guarire la follia a suon di farmaci”.

Scrittura potente, dicevo, che sfoggia tutta la sua forza espressiva quando i temi si fanno crudeli, quando i fantasmi non sono più – o meglio, non sono solamente – fantasmi del suo mondo interiore ma rispecchiano il mondo al di fuori, la parte violenta e drammatica della vita. E allora Permunian passa dalla descrizione spietata dell’alienazione mentale a quella evocativa e più terribile del male, di quell’umanità che fa del male con la consapevolezza di farlo e con l’assurda ignoranza di non comprenderne la gravità. Male che si concretizza nell’infierire sui deboli, soprattutto bambini, nel negare loro la facoltà di vivere una vita, come appunto è successo nei campi di concentramento. Il male è lui, Camillo Gruber. Ex nazista che come tanti gerarchi responsabili dei genocidi si è riciclato nel nuovo mondo. Plastica facciale, una cattedra a livello universitario e la possibilità di continuare, anche se non con la stessa libertà, gli esperimenti più atroci. Sì, perché Gruber ha appunto a che fare con l’inquietante Villa dei Bambini, con le stragi di Treblinka, di Terezín, di Auschwitz. In un continuo evocare i bimbi uccisi, vero e proprio esercito ai suoi comandi, il vecchio Gruber è in realtà un evocatore di fantasmi. Sembra quasi non si renda conto dell’orrore compiuto (anche se usa espressioni come: “Ancora oggi mi dolgono i polsi, tanti ne ho strozzati”), e in questo sta la sua malvagità più raccapricciante. Esalta il massacro e la pedofilia, le camere a gas e quelle ad acido cianidrico, la sua “macchina prediletta”, il tutto in una visione deformata della realtà che confonde esseri esistiti con fantasmi inventati.

Follia criminale da un lato, follia creativa dall’altro. In fondo anche la letteratura è follia, una follia benefica. “La scrittura è illusione”, dice Permunian, “una ridicola farsa”. Ma è grazie ad essa, alla possibilità di creare mondi paralleli a quello reale, che lo scrittore si salva. Scrive Permunian: “Senza la mia dolce e lucida follia, sarei già morto da un pezzo”.

Leggere i romanzi

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di Giuseppe Zucco

legge

Lei allora leggeva a lui un estratto del suo nuovo romanzo
Lei allora leggeva il proprio estratto, e nell’estratto c’era un uomo, un uomo seduto a un tavolino, un uomo seduto a un tavolino di un bar, fuori, all’aperto, in mezzo a altri tavolini vuoti, tavolini e sedie di alluminio su cui la luce si smaterializzava in puntini e bagliori, mentre aspettava che il cameriere arrivasse con il suo caffè.

Giochi di potere

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hoc3(prima della fiction americana c’è stata la serie tv britannica. E prima della serie ci sono stati i romanzi di Michael Dobbs. Fra pochi giorni esce il terzo e ultimo della serie, House of Cards 3 – Atto finale, traduzione di Stefano Tummolini e Giacomo Cuva. Qui di seguito un estratto regalato dalla casa editrice Fazi, che ringrazio. G.B.)

di Michael Dobbs

Il posto di un uomo nella storia non è nient’altro che questo: un posto, un singolo punto in un universo infinito, una gemma che, per quanto possa essere lucidata e fatta brillare, comunque si perderà in un mare di ricchezze.

Un granello di sabbia nella clessidra.

Per Urquhart quello era un luogo venerabile: lo scranno di pelle lucida graffiata dall’affondo di unghie ansiose, il casellario di bronzo e antico legno di Puriri levigato dal passaggio di migliaia di palmi sudati, travi e pilastri finemente decorati che, a un orecchio attento e allenato, rimandavano ancora gli echi delle grida dei grandi leader fatti a pezzi e trascinati verso l’oblio. Sembrava che ogni carriera politica dovesse finire in disfatta, il verdetto di quel tribunale gotico non cambiava mai. Colpevole. Condannato. Un luogo di arringhe, fugaci approvazioni ed esecuzioni inevitabili.

Ultimamente, ogni volta che si allontanava dalla ribalta, delle voci dall’ombra gli sussurravano che il giorno della sua caduta sarebbe arrivato, era solo questione di tempo. Mentre se ne stava seduto sullo scranno, i sussurri erano ricominciati, sempre più imperiosi, insolenti, quasi estenuanti. E in mezzo a quel brusio, sentì la voce di Thomas Makepeace.

«Il mio onorevole collega è consapevole», la finzione istituzionale dell’amicizia scivolò dalle labbra di Makepeace come fiele, «del fatto che la comunità greco cipriota residente in questo paese è profondamente turbata dall’esistenza di luoghi di sepoltura occultati dai tempi della guerra di liberazione, negli anni Cinquanta?».

Vecchi ricordi si ravvivarono come braci, guizzando e avvampando fino a che il crepitio delle fiamme non ebbe cancellato le parole con cui Makepeace stava chiedendo che il governo britannico aprisse i propri archivi, che rivelasse tutte le morti e le tombe non segnalate, «in modo che si possa finalmente mettere una pietra sopra le tragedie di quegli anni lontani?».

Per qualche istante, l’aula rimase a guardare l’insolito spettacolo del primo ministro rigidamente seduto al suo posto, apparentemente impassibile, impietrito, perso in un altro mondo, fin quando un brusio d’impazienza non lo riscosse. Si alzò con movimenti legnosi, come se l’età gli avesse saldato le giunture.

«Non mi risulta», cominciò a dire con inconsueta incertezza, «che vi siano elementi che lascino supporre l’esistenza di tombe occultate dai britannici…».

Makepeace protestava, agitando un foglio di carta che, urlò, proveniva dall’Archivio di Stato.

Altre voci gli fecero eco. Nella sua testa risuonavano battibecchi e confusione, discorsi su tombe, su segreti che sarebbero stati inevitabilmente riesumati insieme alle ossa, su faccende che dovevano restare sepolte per sempre.

Poi un’altra voce, più familiare. «Combatti!», gli intimò. «Non farti vedere vulnerabile. Menti, urla, dimenati, insulta, colpisci basso e dove fa più male: qualsiasi cosa, basta che combatti!». E che preghi, avrebbe potuto aggiungere quella voce. Francis Urquhart non sapeva pregare, ma Cristo se sapeva combattere.

«Credo sia estremamente pericoloso andare per armadi a curiosare, a infilare il naso in atmosfere ormai stantie e insalubri», cominciò a dire. «Dovremmo piuttosto guardare al futuro, con le grandi speranze che ci riserva, anziché rimuginare sul lontano passato. Qualsiasi cosa sia accaduta durante quella vecchissima, tragica guerra, lasciamola sepolta, insieme alle eventuali malvagità compiute, probabilmente da entrambe le parti. Concentriamoci sull’amicizia incontaminata che da allora abbiamo costruito insieme».

Makepeace stava cercando di ribattere, protestando ancora, aggrappato a quel suo foglio di carta. Urquhart lo mise a tacere col più spietato dei sorrisi.

«Naturalmente, se l’onorevole collega ha in mente qualcosa in particolare, oltre a fare irruzione in un archivio polveroso, mi darò pena di esaminare la questione per lui. Non dovrà far altro che scrivermi con tutte le specifiche del caso».

Makepeace si acquietò e, con estrema gratitudine, Urquhart sentì che lo Speaker stava annunciando il successivo punto all’ordine del giorno. Nella sua testa rimbombava un caos di voci, grida, esplosioni e proiettili che rimbalzavano. Non ci vedeva più, accecato dal ricordo del sole del Mediterraneo che si riflette sulla roccia antica, mentre le sue narici dilatate si riempivano dell’olezzo dolciastro della carne che brucia.

Francis Urquhart si sentì improvvisamente decrepito. La clessidra della storia si era capovolta.

Da Versi Nuovi (2004). Seconda parte

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di Biagio Cepollaro

Biagio Cepollaro,Kan-2008
DOPO DUE ANNI (2000)

i cieli e la terra sono pieni della tua gloria

suonava così nel tempio e mi trovavo lì
per starmene un po’in pace e per vedere come in altra
lingua si dicesse quel sapore
vivido
di mattina di maggio quando a fondo radendo
la barba un poco ci si rinnova la faccia e si
svuota

come se fosse bastato sapere
del paradiso
perché comune fosse il cammino
(ma non c’è cammino e quel che può essere comune
non riguarda il paradiso né qualcosa
che si possa progettare) e chi
l’avrebbe detto prima
che non c’era
niente da conquistare che il culmine
era tutto nell’inizio

chi l’avrebbe cercata lì
la gloria
dei cieli e della terra
quando cielo e terra erano solo oggetti
di previsione
come quando prima di partire si vuol sapere
del tempo e se il volo
avrà rinvii o per nebbia
dirottamenti
quando anche andando tutto
come previsto il massimo che ci è dato
è soddisfazione di chi
quotidianamente puntella
il suo stress
come se fosse qualcosa
e non invece
un nulla

fosse stato per me
non sarei mai divenuto: è atto quasi violento
il nuovo
che l’amore
impone e quando ci sei dentro
è arretrare continuo

(resterà nella memoria della figlia
la spiaggia
di Palma
la buca scavando
come da piccola
indaffarata e briosa)

fu allora nell’altrui gloria che vidi
la vita in parte
andata:
che vada!
dedicherò gli anni (se lo sono
e non mesi o minuti)
che avanzano ad addestrarmi
ad essere felice ed aperto
a meritare l’inizio di ciò
che continuamente comincia

(e pensare che uno crede che l’importante
viene dopo attenta riflessione che il destino
possibile
sia frutto
di elezione)

cancella cancella le tracce
al tuo passaggio
prima che il cuore si richiuda
prima che normalmente ghiacci

e intanto a quanti
di energia a pacchetti
postali le stelle
senza fretta si parlano in radio
o in luce
si tengono strette
in scambio fitto
fitto di particelle o corde
e dentro questo flusso nella mescolanza
dei tempi infiniti arriva un tempo in cui l’arte
non ci concede più
di nasconderci
e richiede per sé ciò a cui da sempre crescendo
abbiamo temuto di dover rinunciare: non il verso
imperfetto – che la tecnica si fa quasi
presto ad imparare- ma il verso
gratuito quello già nato per essere ascoltato

tra cielo e terra
le diecimila creature

prima che il cuore si richiuda
prima che normalmente ghiacci

tra cielo e terra
parlandosi in radio o in luce
in un continuo di radiazione

cancella le tracce al tuo passaggio

che consapevole sia la passione

prima che il cuore si richiuda

senza intenzione né progetto prima che lentezza sia ritardo

prima che resti solo il guscio

perché l’amore che ci metti
resta
e non si perde

(intonando) i cieli e la terra

l’amore che ci metti qualcuno o qualcosa
(intonando) son pieni

tra cielo e terra qualcuno o qualcosa
(intonando) i cieli e la terra

lo ritroverà

 

  ***

 

DOPO TRE ANNI (2001)

perché le parole non siano ancora
solo parole

perché il tempo destinato ogni giorno
non sia ancora il tempo

in cui sia poco
il realizzato e perché cambino davvero

anche il modo e la motivazione
di dirlo

perché dal risveglio alle prime avvisaglie
del sonno una sola sia
la naturale propensione

lo dicevo a giulia ieri
al cinese
quest’anno è passato leggero
leggero come vorrei
la morte fosse appunto

passaggio

ad altra leggerezza

quest’anno ha qualcosa del cielo

e dunque
al dunque si tratta
ancora della capacità
di amare

(e dimenticare)

e davvero non c’era nulla
da portare
sulla soglia
a dimostrazione che qualcosa c’era stato
o come si dice qualcosa
abbiamo fatto e costruito e non siamo
passati invano

l’inganno è in quell’intendere
il passare
(cosa passa cosa no quando poi
si sa che tutto ma proprio tutto
passa
se mai la domanda è chi
e come
e in mezzo a che
passa)

di più c’è consapevolezza
del male
(ma non ancora
accettazione)

perché gli atti bruciano
come carcasse
di passate intenzioni e cadono
giù
a ferraglia

si compie oggi ciò che un passato
lungo quanto l’occhio con disattenzione
e arroganza ha preparato
e non solo la personale cecità
che ha chiamato proprio
destino
la banale chiusura
del cuore
ma anche l’iscrizione
nel cuore
della cellula
di ciò che la specie e il gruppo
hanno costruito e distrutto nella paura
e nell’allucinazione

**

quest’anno ha qualcosa del cielo
e non perché sia stato volo
e luce

(come ieri che ero uscito
per prendere aria e sono rientrato
subito
per incidente sotto
casa e oggi
mi telefona sorella del motociclista
in coma
chiedendo se ho visto
di chi è la colpa)

si passa la vita a non pensare
che la vita finisce

e quel mancato pensiero
indurisce il cuore
e fa moltiplicare i codici
che separano ridicole
le cose
dalle parole

quest’anno ha qualcosa del cielo

(deve esserci peso
anche nell’aria
o anche terra che fa cielo
e luce dentro la terra)

(lo dicevo stretto stretto
via e-mail a giuliano: non si tratta
di assistere
al naufragio: è che i topi
sul vascello
non possono dare senso
alla storia
ma tenersi stretti
mentre rotolano nel buio
e nel fragore
passarsi un brivido da pelle
a lucida pelle
prima del tonfo
questo si, questo è per ognuno
possibile)

***

(dopo tre anni la voce
è ancora troppo grossa

e il blababla oscura
la mancata estromissione

di orgoglio
e vanagloria)

perché le parole non siano ancora
solo parole

perché vi sia fervore
e nell’ordinario devozione

e qui s’interrompe stesura di poesia
perché anche speranza vuole concretezza e la più alta
aspirazione per noi e per gli altri che conosciamo o che possiamo
solo immaginare in carne
e affanno
deve avere realismo

che non è volare basso ma aver mostrato
senza esibizione che la pace chiesta per gli altri
siano giorni
per sé
e non per esempio come ieri al parco
alla signora che si lamentava dell’ingratitudine
altrui senza gentilezza
dirle che sua disponibilità
ai casi altrui non era autentica

intanto parliamo per rassicurarci come diceva giulia
e si scrive anche una parola che non si è
o non si è ancora

e le si gira
intorno come se da parola venisse
significazione

e non da qualità dell’intenzione

come se da parola venisse
significazione

e non da qualità
dell’intenzione

perché le parole non siano ancora
solo parole

perché vi sia fervore
e nell’ordinario devozione

perché dal risveglio alle prime avvisaglie
del sonno una sola

sia la naturale propensione

perché la voce si assottigli

perché le parole non siano ancora
solo parole

continua la poesia
continuala pure
senza parole

 

Da Versi Nuovi, Oedipus Ed. 2004

[Annotazioni di lettura di Giuliano Mesa e Giulia Niccolai sono reperibili rispettivamente nel numero 20 e 26 de il Verri.

Si possono leggere anche qui . L’intero libro in formato pdf è scaricabile qui. B.C]

 

 

 

Un Borges piccolo piccolo

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Borges copia

Tlön, Babele, Borges

di

Carlo Cenini

 

Nel celebre racconto di Borges La biblioteca di Babele, contenuto nella raccolta Finzioni, viene descritta una biblioteca forse infinita nella quale vengono esaurite tutte le possibili combinazioni di lettere, tutti i possibili linguaggi, tutte le possibili storie. In quella biblioteca sono contenute anche le parole che state leggendo in questo momento. La biblioteca è descritta da un bibliotecario che vi abita, e che nel descrivere i volumi, per la grandissima parte incomprensibili, dice che tra i migliori della zona di cui è responsabile ce n’è uno intitolato Axaxaxas mlö, titolo che in apparenza non ha nulla di interessante o comprensibile. Ma due circostanze rendono notevole questo titolo: la prima, interna al racconto, è che nei paragrafi precedenti il bibliotecario, nel descrivere i volumi della biblioteca, ha tenuto a precisare che “Il numero dei simboli ortografici è di venticinque”, e a questo punto un non meglio identificato editore annota a piè pagina che “il manoscritto originale non contiene cifre né maiuscole. La punteggiatura è limitata alla virgola e al punto. Questi due segni, lo spazio, e le ventidue lettere dell’alfabeto, sono i venticinque simboli sufficienti che enumera lo sconosciuto [Nota dell’editore]” (J. L. Borges, Finzioni, trad. it. Einaudi 1955, p. 71): com’è possibile dunque che uno dei libri della biblioteca contenga il carattere ö? E dato che si è ritenuto necessario introdurre la figura di un editore: come ha fatto il manoscritto del bibliotecario ad attraversare l’infinità della biblioteca per giungere nelle sue mani? La seconda circostanza bizzarra è che il lettore ha già incontrato le parole di quel titolo nel primo racconto della raccolta Finzioni, intitolato Tlön, Uqbar, Orbis Tertius. Non solo: il lettore di quel racconto sa benissimo cosa significhino quelle parole; nell’emisfero australe di Tlön, infatti, “Sorse la luna sul fiume si dice hlör u fang axaxaxas mlö, cioè, nell’ordine: verso su (upward) dietro semprefluire luneggiò” (Ivi: 14). La presenza della ö accanto alla nota dell’immaginario editore della Biblioteca di Babele serve proprio a fermare la nostra attenzione su quelle lettere, a chiederci perché tra tutte le possibili combinazioni il narratore abbia scelto di riportare proprio quella che potrebbe contraddire una delle presunte regole della biblioteca (a meno di non intenedere l’umlaut come un uso decisamente lasco del segno del punto fermo, ma l’editore si è addirittura premurato di dire che tra i simboli mancano le maiuscole…). Il fatto poi che quelle parole abbiano un significato nella lingua di un paese immaginario citato in un altro racconto può suscitare grosso modo due reazioni: la prima è dire, con modalità più o meno elaborate, qualcosa che bene o male si può riassumere in “Ma guarda un po’ Borges che si diverte a citare se stesso”; la seconda è chiedersi se la presenza nella biblioteca di Babele di un bibliotecario che comprende il linguaggio di Tlön possa avere un significato di tipo narrativo. Qui voglio provare a seguire questa seconda strada.

 

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Avverto il lettore che la piena comprensione di quanto segue presuppone una conoscenza abbastanza puntuale della raccolta Finzioni.

 

Una prima ovvia considerazione sarà che, se il narratore del racconto cita Axaxaxas mlö come esempio di titolo dotato di un sia pur minimo senso, sarà perché conosce il linguaggio di Tlön. Altrettanto plausibile è l’ipotesi che il bibliotecario sia addirittura uno degli abitanti di Tlön. Questa seconda ipotesi viene confermata da numerosi indizi contenuti sia in Tlön, Uqbar, Orbis Tertius che nella Biblioteca di Babele.

Com’è noto, la descrizione della struttura architettonica della biblioteca di Babele nell’omonimo racconto di Borges è delle più confusionarie. Tra l’edizione del ’41 e quella del ’44, Borges ha introdotto delle varianti nel passo che contiene quella descrizione; queste varianti, aggravando le contraddizioni, fugano qualsiasi dubbio che possa essersi trattato di una svista.

Edizione del ’41: “L’universo […] si compone d’un numero indefinito, e forse infinito, di gallerie esagonali, con vasti pozzi di ventilazione nel mezzo […]. Venticinque scaffali, in ragione di cinque per lato, coprono tutti i lati meno uno […]. Il lato libero dà su un angusto corridoio che porta a un’altra galleria, identica alla prima e a tutte” (Ivi: 69)

Edizione del ’44: “L’universo […] si compone d’un numero indefinito, e forse infinito, di gallerie esagonali, con vasti pozzi di ventilazione nel mezzo […]. Venti scaffali, in ragione di cinque per lato, coprono tutti i lati meno due […]. Una delle facce libere dà su un angusto corridoio che porta a un’altra galleria, identica alla prima e a tutte” (traduco da J. L. Borges, Ficciones, Alianza Editorial, 1971, p. 89)

Come si vede, dal ’41 al ’44 Borges rende se possibile ancora più oscura e lacunosa una descrizione già di per sé sconcertante nella sua imprecisione. Se nella versione del ’41 la presenza di un unico lato libero per ogni esagono impediva di immaginare come la biblioteca potesse estendersi all’infinito in direzioni diverse da quella verticale, nella versione del ’44 ci sono sì due lati liberi (il che in ogni caso non sarebbe sufficiente per costruire una biblioteca che si sviluppi in tutte le direzioni), ma il narratore descrive solo uno di questi lati liberi: dove porta l’altro?

“L’intenzione di Borges, e a questo collabora la maniacale precisione della descrizione, voleva [sic] che noi decidessimo di non tentare affatto di vedere la biblioteca, se non come si vede alla fine di un sogno, svegliandosi al mattino, con gli occhi annebbiati e impastati” ( U. Eco, Les sémaphores sous la pluie (I), qui).

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Sebbene la precisione sia tutt’altro che maniacale, è innegabile che l’effetto è di un qualcosa che lì per lì, a una prima lettura, “funziona”, ma che a ripensarci e a rileggere non “funziona” affatto: una di quelle descrizioni che ci fa provare, da svegli, l’abbaglio del sogno. Limitarsi a pensare che Borges abbia voluto dare una descrizione deliberatamente imprecisa per creare un particolare effetto psicologico è senz’altro legittimo, ma numerosi altri dettagli spingono a fare un’ipotesi più interessante; forse questa imprecisione, che come abbiamo visto è voluta e persino perfezionata tra un’edizione e l’altra del racconto, è l’indicazione per qualcosa d’altro, forse, per venire subito al punto, la sensazione straniante che proviamo di fronte alla biblioteca non è semplicemente frutto dell’abilità dello scrittore Borges, quanto effetto di un universo mentale e percettivo, quello del narratore bibliotecario di Babele, perfettamente estraneo al nostro. Viene in mente il celebre passo del naturalista Uexküll (1864 – 1944) sulla percezione del mondo in una zecca: per questo parassita l’intero universo si riduce a intermittenti emanazioni di acido butirrico che sono stimoli a lasciarsi cadere su corpi pieni di sangue. Descritto da una zecca, il nostro mondo sarebbe un universo completamente alieno, e a meno di non conoscere i modi percettivi della zecca, non ci potremmo mai rendere conto del fatto che si tratta, in realtà, dello stesso mondo in cui viviamo noi. Forse qualcosa di simile è accaduto per la Biblioteca di Babele, forse quel luogo ci sembra tanto strano e incoerente perché chi ce lo sta descrivendo fa parte di un paradigma percettivo radicalmente diverso dal nostro.

Nella sezione centrale di Tlön, Uqbar, Orbis Tertius Borges si sofferma appunto a spiegare le bizzarre caratteristiche mentali e percettive degli abitanti di Tlön: ciascuna di queste caratteristiche può rendere ragione delle aporie nella descrizione della biblioteca di Babele. Gli abitanti di Tlön faticano a concepire “che lo spaziale perduri nel tempo” (Borges, Finzioni 1955 cit., p. 15), e uno dei paradossi più incomprensibili a Tlön è quello dell’uomo che perde nove monete, sette delle quali nel corso di due giorni vengono raccolte da altri due uomini, cosicché alla fine l’uomo ritrova solo due delle monete che aveva perso. Ciò che su Tlön risulta alieno da ogni logica, è concepire che le varie monete raccolte siano le stesse che sono state perdute; questo fatto che per noi è normalissimo, su Tlön è considerato un paradosso di livello eleatico, e per renderne ragione si arrivano a concepire le spiegazioni più astruse: forse le nove monete sono in realtà la stessa moneta, i tre uomini lo stesso uomo… su Tlön l’uguaglianza e l’identità occupano un posto diverso e più incerto che tra noi.

Gli abitanti di Tlön non sono i soli a soffrire di questa confusione: Funes el memorioso è infastidito dal fatto che “il cane delle tre e quattordici (visto di profilo) avesse lo stesso nome del cane delle tre e un quarto (visto di fronte). Il suo proprio volto nello specchio, le sue proprie mani, lo sorprendevano ogni volta […]. Egli ricordava, infatti, non solo ogni foglia di ogni albero di ogni montagna, ma anche ognuna delle volte che l’aveva percepita o immaginata” (Ivi: 105); il detective Lönnrot, in La morte e la bussola, prima di raggiungere il luogo della sua morte passa “per gallerie e retrocucina uscì in cortili uguali, o più volte nello stesso cortile” (Ivi: 128); nello stesso racconto troviamo uno spunto fondamentale: “«La casa non è così grande, – pensò. – L’ingrandiscono la penombra, la simmetria, gli specchi, i molti anni, il mio straniamento, la solitudine»” (Ivi: 129). Forse anche la biblioteca di Babele non è poi così grande, e le stesse cose che hanno contribuito a rendere più vasta la casa in cui si trova Lönnrot, unite alle caratteristiche mentali di un abitante di Tlön, hanno reso infinita la biblioteca (noto per inciso che il nome Lönnrot è l’anagramma quasi perfetto di Tlön più hrön; la parola hrön indica una particolare categoria di oggetti di Tlön).

La geometria di Tlön è afflitta dagli stessi paradossi della sua ontologia: “Questa geometria ignora le parallele e dichiara che l’uomo che si sposta modifica le forme che lo circondano” (Ivi: 19). I matematici di Tlön, dal canto loro, hanno per base la nozione di numero indefinito e “affermano che l’operazione del contare modifica le quantità e le trasforma da indefinite in definite. Il fatto che vari individui, i quali calcolino una stessa quantità, giungano a risultati eguali, è per gli psicologi un esempio di associazione di idee o di buon esercizio della memoria” (Ibidem). Descritte da un uomo che vivesse in un simile cosmo mentale, anche le cose più banali o esatte ci apparirebbero di colpo come enigmi incomprensibili.

“La luce procede da frutti sferici che hanno il nome di lampade” (Ivi: 69): la sfacciata goffaggine di questa frase del bibliotecario di Babele, forse ancora più sconcertante della descrizione della biblioteca, lo è meno se si suppone che l’uomo che l’ha pronunciata provenga da un paese come Tlön, abitato da tigri trasparenti e torri di sangue (Ivi: 13); un uomo cui l’immagine di un frutto sferico che emana luce riesce più familiare di quella di una banale lampada, a quale figura potrebbe affidarsi per descrivere una biblioteca?

Insomma, al lettore della Biblioteca di Babele le caratteristiche mentali degli abitanti di Tlön appaiono tutte congegnate, nessuna esclusa, per spiegare ciascuna delle incongruenze e stranezze della descrizione della biblioteca. Da un abitante di Tlön, potremmo aspettarci di vedere una stessa cosa, una stessa persona, una stessa stanza esagonale moltiplicate infinite volte, quante sono gli istanti che quella cosa, quella persona, quella stanza, hanno attraversato nel tempo: non essendo in grado di concepire che lo spaziale perduri nel tempo (Ivi: 15), un abitante di Tlön potrebbe essere costretto a moltiplicare un certo corpo nello spazio per giustificarne la permanenza nel tempo; incapace di pensare a un unico esagono che attraversa infiniti istanti, preferirebbe concepire ogni istante popolato di infiniti esagoni. “Le cose, su Tlön, si duplicano” (Ivi: 22). Le quantità numeriche, posto che la matematica di Tlön si fonda sull’indefinito, sarebbero tanto più sospette quanto più fossero precise. La difficoltà a conciliare quantità indefinite e definite compare con nettezza anche alla fine del racconto: subito dopo aver chiarito che il numero dei volumi possibili è, per quanto immane, limitato, il narratore, commentando in nota una considerazione di Letizia Alvarez de Toledo, parla della possibilità di contenere i libri della biblioteca in un volume unico, “stampato in corpo nove o in corpo dieci”, con un numero infinito di pagine, passando poi ad enumerare le aporie di questo “serico vademecum” (Ivi: 78); ma, tanto per cominciare, se le pagine sono infinite a che serve preoccuparsi del corpo dei caratteri? e poi perché dovrebbero essere infinite, se il numero di libri possibili è limitato?

Su Tlön, le forme geometriche non sarebbero nient’altro che conseguenze del movimento. Per un abitante di Tlön sarebbe quindi del tutto naturale descrivere una biblioteca convenzionale sotto la specie di un improbabile e incoerente alveare di esagoni che si diffondono all’infinito e che, se fossimo noi a doverli descrivere, sarebbero semplicemente un solo esagono, un’unica stanza che il bibliotecario di Tlön ha moltiplicato per quante sono le volte che vi è entrato o uscito o vi ha ripensato o la ha vista riflessa nello specchio in fondo al corridoio, o la ha sognata. Sempre riguardo la geometria, c’è poi un passo in cui il bibliotecario tradisce, in modo che mi pare incontrovertibile, la sua appartenenza a un mondo mentale e percettivo che non ha nulla a che fare con il nostro; il passo ricorda molto, molto da vicino certe incapacità degli abitanti di Tlön di concepire cose che per noi sono banali, quotidiane: (i corsivi e i punti esclamativi/interrogativi sono miei) “Gli idealisti argomentano che le sale esagonali sono una forma necessaria dello spazio assoluto o, per lo meno, della nostra intuizione dello spazio. Ragionano che è inconcepibile una sala triangolare o pentagonale [!!??]. (I mistici pretendono di avere, nell’estasi, la rivelazione d’una camera circolare con un gran libro circolare dalla costola continua, che fa il giro completo delle pareti; ma la loro testimonianza è sospetta; le loro parole, oscure)” (Ivi: 70). La descrizione del libro circolare per noi non è affatto oscura: lo è per una persona che trova inconcepibile anche una sala pentagonale. Non è tanto che i bibliotecari di Babele conoscono solo ambienti esagonali (conoscono le latrine, gli stanzini, i corridoi, le scale a chiocciola, i frutti sferici che emanano luce…): è che la loro geometria, condizionata dal loro movimento nello spazio, è incapace di applicare una forma astratta a un oggetto concreto. Traviato dalla metafisica capricciosa del suo pianeta (“abbondano i sistemi incredibili” (Ivi: 16)), un bibliotecario di Tlön troverebbe del tutto normale sdoppiarsi in altrettanti bibliotecari quanti sono i diversi pensieri che ha fatto; dire che ciascun volume ha un preciso numero di pagine e di lettere, certe invariabili dimensioni geometriche, equivarrebbe per lui ad indicare, con la massima approssimazione, la diversità di ogni volume; per lui ogni corridoio sarebbe sempre due corridoi: quello in cui passa e quello in cui non si trova più: uno dei due viene sempre utilizzato, l’altro è sempre deserto, e questo è il motivo per cui il narratore non dice dove porta. Un solo scaffale di libri, persino una sola parola sarebbero sufficienti per fargli presumere (e con ciò stesso considerare una delle realtà da descrivere) la totalità dei significati possibili. “Nessuno può articolare una sillaba che non sia piena di tenerezze e di terrori; che non sia, in alcuno di quei linguaggi, il nome poderoso di un dio” (Ivi: 77).

L’avvertenza che segna il culmine del racconto: “Tu che mi leggi, sei sicuro d’intendere la mia lingua?” (Ivi: 77) sarà allora da intendere con la massima serietà, non tanto perché non in tutte le lingue “il simbolo biblioteca ammette la definizione corretta di sistema duraturo e ubiquitario di gallerie esagonali” (Ibidem), quanto perché una stessa definizione può dar luogo a rappresentazioni e realtà radicalmente differenti a seconda del sistema mentale e percettivo, prima ancora che linguistico, in cui venga collocata. Non è escluso insomma che se finalmente ci portassero nella biblioteca di Babele, ci troveremmo davanti una biblioteca come tutte le altre, e scopriremmo che gli altri bibliotecari sono in realtà sempre lo stesso bibliotecario narratore, incapace di pensare che quello che lui era il giorno prima, l’ora prima, l’istante prima, sia la stessa persona del presente (una delle scene finali del recente film Interstellar di Nolan, in cui una camera viene vista attraverso un buco nero, può dare un’idea – un po’ grossolana – di quello che intendo). Inversamente, se noi proponessimo al bibliotecario di Babele la descrizione di un uomo solitario che passa gli anni in un’unica biblioteca in cui volumi di varia dimensione sono costantemente, un giorno dopo l’altro, gli stessi, non c’è dubbio che egli riconoscerebbe in quest’immagine un artificio affascinante e paradossale, a tratti incoerente, infine inaccettabile.

In base a questa lettura, La biblioteca di Babele sarebbe allora un racconto proveniente da Tlön: insieme alla Encyclopaedia of Tlön, il reperto di un mondo immaginario destinato a contaminare irreparabilmente la nostra realtà: nel Poscritto al racconto Tlön, Uqbar, Orbis Tertius, Borges spiega infatti che la minuziosa creazione dell’Encyclopaedia of Tlön è il primo passo di una congiura dell’ingegno umano per eguagliare Dio nella capacità di creare un mondo. Il primo passo di questa congiura è la diffusione di oggetti provenienti da Tlön. Borges descrive due di questi oggetti, ma forse il racconto La biblioteca di Babele è un terzo oggetto? Anche Borges, nonostante le sue dichiarazioni di estraneità alla cosa, è uno dei congiurati di questa “intrusione del mondo fantastico in quello reale”?

Qui l’analisi deve necessariamente fermarsi. Quello che mi premeva suggerire è che l’accostamento tra i racconti di Finzioni può generare almeno un ulteriore racconto, racconto il cui fascino estremo consiste nella sua costante assenza, nella necessità che il lettore cerchi (inutilmente) di catturarlo, una specie di labile vapore narrativo che aleggia sulla raccolta come una instabile nebulosa, ipotetica e nello stesso tempo innegabile, incerta e deliberatamente oscillante tra esistenza e non-esistenza, come tra la vita e la morte il gatto di Schrödinger.

Perché dare un significato narrativo alle stranezze e incoerenze di Finzioni? È Borges stesso, per bocca dell’amico Bioy Casares, a suggerire di avere un ruolo più creativo nella lettura; siamo, di nuovo, in Tlön, Uqbar, Orbis Tertius, all’inizio del racconto e di tutta la raccolta Finzioni: “Bioy Casares, che quella sera aveva cenato da noi, stava parlando d’un suo progetto di romanzo in prima persona, in cui il narratore, omettendo o deformando alcuni fatti, sarebbe incorso in varie contraddizioni, che avrebbero permesso ad alcuni lettori – a pochissimi lettori – di indovinare una realtà atroce o banale.” (Ivi: 7) Al lettore decidere se raccogliere o meno la sfida implicita lanciata da Borges.

 

Di fronte agli indizi che ho mostrato ci si trova, come ho detto all’inizio, di fronte a un bivio interpretativo. Una strada porta a mere considerazioni estetiche (“Borges si diverte citare se stesso”), l’altra conduce a un più complesso ordine di eventi…

“Lequel prendrez-vous donc?” (Pascal, Pensées, 233).

 

 

Questo saggio fa parte di un intervento più lungo intitolato Innere Stimme, Innerer Roman, pubblicato nel volume edito dall’università di Trento nella collana labirinti a cura di W. Nardon e S. Carretta, intitolato “Comporre. L’arte del romanzo e la musica”.(qui ).

 

Il Verri: doppia presentazione a Milano

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Lunedì 2 marzo alle ore 21.00, presso la Libreria Popolare di via Tadino 18

Presentazione degli due ultimi numeri della rivista “il verri”

Filippo Pennacchio presenta:

il verri n.55, giugno 2014

Eccessi dell’io

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Contributi di:
Mariarosa Bricchi, Fulvio Carmagnola, Domenico Cipriani, Fausto Curi, Alessandro Dal Lago, Paolo Fabbri, Daniele Giglioli, Helena Janecsek, Giulia Niccolai, Sara Sullam, Ivan Schiamone

Stefania Sini presenta:

il verri n.56, ottobre 2014

La mente in-diretta libera

la mente

Contributi di:
Dorrit Cohn, Monica Fludernik, Paolo Giovannetti, Marco Giovenale Fredric Jameson, Alan Palmer, Daniele Papuli, Cetta Petrollo, Gilles Philippe, Sara Sullam, Lisa Zunshine

Intervengono Daniele Giglioli, Paolo Giovannetti, Milli Graffi, Sara Sullam, Paolo Zublena

www.ilverri.it