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Il difetto di avere ragione

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enel1Come è andata a finire con l’Area ExEnel

di Gianni Biondillo e Marco Belpoliti

Nel gennaio del 2012 su questo blog era apparso questo articolo. Altri in contemporanea ne uscirono su vari blog e quotidiani, a firma di Marco Belpoliti, Luca Molinari, Marco Biraghi, etc.

Sollevavano un problema: la costruzione nell’area di fronte al Cimitero Monumentale di Milano di due edifici fuori scala, di un albergo inutile e di un parcheggio sotterraneo di 250 posti camuffato da piazza in una zona di rispetto architettonico, con un progetto che lasciava molto a desiderare dal punto di vista estetico e urbanistico. Ne era nato un dibattito (vedi ad esempio qui) che aveva coinvolto giornali, architetti, intellettuali, politici. La questione si era trasferita, dopo varie vicissitudini e discussioni, nelle aule del Tribunale Amministrativo Regionale della Lombardia, che aveva bocciato il ricorso del gruppo di cittadini che si erano organizzati nella sigla Area Ex Enel con un suo sito.

Ora sull’intera materia si è espresso il Consiglio di Stato (Sentenza Ex-Enel.1), dando ragione ai cittadini che hanno sollevato il tema della legittimità della scelte della giunta Moratti, prima, e Pisapia, poi. Tutto questo è succintamente spiegato nella lettera che segue indirizzata a “il Corriere della Sera” che, unico giornale milanese, ha dato alcuni giorni fa con un ampio articolo notizia della sentenza, intervistando l’assessore all’Urbanistica del Comune di Milano e vice-sindaco, Ada Lucia De Cesaris, sostenitrice della scelta urbanistica e giuridica bocciata dal Consiglio di Stato. Ora che Milano è sotto i riflettori dell’intero paese per l’apertura imminente dell’Expo a maggio, vale la pena di tornare a riflettere su questo caso (60 milioni di euro investiti da privati che ora non potranno proseguire i lavori iniziati) che ripropone le questioni della gestione politica delle nostre città, della partecipazione dei cittadini e della bellezza architettonica.

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Su queste pagine pochi giorni fa è apparso un lungo articolo dedicato al cantiere dell’area Ex Enel. Il Consiglio di Stato ha dichiarato l’intera operazione illegittima bloccando i lavori, dopo il ricorso intentato da alcuni cittadini. Quei cittadini siamo noi. Vorremmo qui spiegare le ragioni del ricorso e di come si sia arrivati a questo punto.

L’area di fronte al Cimitero Monumentale, di ex proprietà Enel, e dunque pubblica, molti anni fa fu svenduta a una società privata. Dopo lunghi anni di abbandono, e di occupazione da parte del centro sociale Bulk, durante l’amministrazione di Letizia Moratti alcuni imprenditori decisero di costruire degli immobili residenziali.

Per fare questo il Consiglio Comunale di allora approvò una delibera che modificava le cubature edificabili, triplicandole. In un colpo solo quel terreno, comprato per 10, valeva 300. 

Per trasformarla in area residenziale edificabile, e per aumentare le cubature consentite per legge e concedere le concessioni, l’amministrazione comunale si avvalse dello strumento del “programma integrato di intervento”, uno strumento che, nel diritto italiano, è consentito solo ed esclusivamente in casi di evidente interesse pubblico e strategico per la città. 

Succeduta alla Moratti, nell’assolato agosto del 2011 la giunta Pisapia riportò in consiglio comunale la delibera e la approvò: senza nessun comunicato stampa, e senza che la notizia venisse riferita da alcun giornale.

Il progetto approvato prevedeva, in tre isolati situati di fronte al Cimitero Monumentale – il luogo più visitato dai turisti dopo il Duomo – tre palazzoni alti fino a 10 piani fuori terra, in un quartiere di edifici di 4 piani al massimo: residenze ad alta densità volumetrica e bassa qualità estetica.

Alla notizia di questo scempio, un gruppo di abitanti del quartiere e alcuni intellettuali, scrittori, architetti, hanno provato a intervenire. Abbiamo chiesto di incontrare la proprietà e il Comune, cercando il dialogo, sostenendo che andava bene il profitto economico dei privati, ma che l’operazione avrebbe potuto essere un po’ meno spregiudicata, contenere qualche spazio pubblico, e concedere qualcosa alla qualità architettonica. Non chiedevamo di scomodare grandi architetti, semplicemente di evitare il ricorso in pieno centro cittadino a un’edilizia così sfacciata e imbarazzante. In sostanza chiedevamo un’idea per la città che andasse oltre alla mera speculazione edilizia. 

Il Comune di Milano non ci ha voluto dare ascolto. Lo stesso atteggiamento hanno mantenuto i proprietari del terreno. Entrambi ci hanno liquidato dicendo di intentare pure una causa, che tanto l’avrebbero vinta loro. 

Soltanto l’impresa costruttrice di una parte degli edifici si è mostrata disponibile, modificando le facciate di loro pertinenza in corso d’opera e ridisegnando un piccolo parco. Da parte loro si trattava di un impegno che andava oltre il loro immediato interesse e quindi da considerare assolutamente apprezzabile. Furono i nostri unici interlocutori, non si trovò perciò un accordo sull’intero piano. È che il vero soggetto in grado di imporre un interesse pubblico all’area, vale a dire il Comune, non si prese carico con sufficiente lungimiranza del suo naturale ruolo di mediatore tra le parti.

Rimanendo convinti che l’operazione fosse sbagliata sotto il profilo architettonico, politico, urbanistico e legislativo, e non riuscendo a ottenere altri risultati se non quello – comunque importante – di far riprogettare gli spazi aperti, fummo costretti a non ritirare il ricorso. 

Oggi il Tribunale di Roma ha dichiarato l’intera operazione illegittima, in quanto priva del presupposto di un interesse strategico e pubblico. Ci ha dato ragione. Una pessima notizia, a ben vedere. Non soltanto perché ora il progetto è diventato un problema, ma soprattutto perché non eravamo e non dovevamo essere noi i paladini dell’interesse della città.

Non debbono essere i privati cittadini a vigilare sulla legittimità delle operazioni immobiliari, sulla qualità architettonica e sul rispetto delle norme urbanistiche. È un ruolo che spetta alle istituzioni.

Avere ragione non ci interessa: ci interessa, così come sin dall’inizio, che si costruisca bene, in modo sensato, intelligente, corretto, restituendo alla città vivibilità e bellezza. Ci interessava allora, e ci interessa ancora di più adesso che c’è un “buco”, una ferita, nel cuore della città.

Diamo a questa zona importante di Milano una nuova occasione, una soluzione degna della nostra città, anche alla luce dei numerosi fallimenti urbanistici di questo ultimo decennio. Ripartiamo da una logica diversa, con un orizzonte progettuale di più ampio respiro. L’orizzonte legittimamente alto e ambizioso di disegnare e pensare la città per i cittadini.

Si tratta di un compito arduo, che spetta in primo luogo al Comune di Milano. Speriamo che questa volta ci provi.

Gianni Biondillo
Marco Biraghi
Paola Lenarduzzi
Roberto Marone
Luca Molinari
Alberto Saibene

(pubblicato precedentemente su Il Corriere della Sera – Milano, il 22 marzo 2015. Questo post è da oggi on line anche su DoppioZero. Le vignette sono un regalo di Guido Scarabottolo)

Le latitudini delle braccia

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nino-iacovella-1di Nino Iacovella

POLAROID
(Scatto di prova)

Hai forse dimenticato le braccia
da qualche parte, in questa città,
dove puoi vedere ancora il fumo
denso dell’esplosione. Vedi, tutto
si compie all’altezza di un cielo
irraggiungibile. Eppure volevi
afferrarlo quel momento di cielo,
così, con la tua mano distaccata
da tutto il resto, un corpo ricaduto
a pezzi, il mosaico che pavimenta
i resti della stazione. È vero,
siamo qui, in tanti tra le macerie,
assieme alla testa di un cane
c’è come terra di carne sbranata

Nell’attimo prima che si compisse
lo scempio, eri lì ad interrogarti
sulla faccenda della vita, senza
aspettarti nulla, nessun fragore.
Ed eri solo a due passi dall’innesco,
vicino a chi avrebbe deciso le sorti
del vuoto d’aria che ti avrebbe preso
per alleviarti dall’insostenibile
peso delle braccia

Nemmeno la tua solitudine poggia
più sulle proprie gambe. Adesso è lì
mescolata a terra indistinta tra
lamiere storte, viscere e sangue

Sabato 2 agosto 1980 – Ore 10,25
Stazione di Bologna

 

 

Per non dimenticare i nomi
ogni dito che conta è fuori posto, non tiene il computo,
la somma che invece si fa con la voce è rotta
e per questo c’è sempre l’assenza di un volto
a discolpare il pianto

 

La linea Gustav

Vorrei cambiare nome agli inverni
tenendo più stretto il ricordo del freddo
il gelo nelle dita dei soldati

Veder sparare ancora i tedeschi
a denti serrati dall’alto del muraglione
con occhi che spezzano a vivo
la coda inerme degli sfollati

E cercarvi lì, tra i vecchi a coprire le madri,
le madri come rifugi per sagome minute
(tra il seno e la spalla, insenature
come porti per piccole teste
spaurite nella burrasca)

Sul paese come un’ombra la linea Gustav,
tracciato d’inchiostro sulle rovine,
il confine tra chi si butta a terra
prima o dopo lo sparo

*

Gli anni nascosti dietro la collina
ritrovati all’apice di un giorno:
adesso siamo il recinto di un giardino
dove nitido si scorge il filo spinato
A stringere questi nodi di memoria

è come mostrare il petto al nemico,
volersi ferire, rovesciando colori a terra,
far finta che non siano solo sangue

Con mani legate siamo in attesa
che si assesti di nuovo, colpo su colpo,
il battito sulla raffica

Del cuore rimane un proiettile irrisolto,
una traccia murale sfarinata.

Mentre la bocca è contro il muro
con la lingua si scioglie un sapore
di sabbia e calce viva che sa ancora
dell’attesa breve dei fucilati

*

Con l’alito delle bestie e il tepore
della paura, la guerra respira ancora
in quel ricovero, non si è spostata
di un giorno da quelle catene,
le mani chiuse dal freddo,
i muri ceduti delle case

Per questo tornerò a leccare la parte
vuota del bicchiere, unico superstite
di un tempo rovesciato sul tavolo,
che saprà di quel vino che macchia a fondo
e mostra il rosso dall’interno della giacca

Riconosco ancora i ganci del soffitto:
erano sempre stati lì per seccare la carne
o le altre cose buone da mangiare

Ma tu chiami
come se non ci fosse voce ad avvicinarsi,
fai poggiare un passo in più nel vuoto
sino a toccarmi

Rimango solo ad ascoltarti
e si chiude il cerchio attorno al buio:

la parte ruvida della corda che ti veste
mi sfiora, e ti sento quasi cadere dal soffitto
prima del silenzio definitivo
monocorde del cappio

*

Ci dissero di andare avanti
e noi svanimmo nella neve

Lettera
(Battaglia di Nikolajewka)

Abbracciami, come vedi il mondo
mi ha tranciato l’osso
che sostiene la carne,
per questo chiama da sotto i piedi
e mostra il vuoto
inesorabile dello squarcio

Attraverso le vene, prendimi,
prendi tutto quello che rimane

Se la mia faccia resta senza cielo
e gli ultimi sogni ad occhi aperti
soffocati nel fango
chiudili con la delicatezza della neve

e rivolgi il mio corpo
all’altezza del pianto

*

da CORTOCIRCUITI

Fossile

Ci si spinge a un punto morto,
dove la pietra è scavata
in attesa di un freddo fossile

Potremmo ferirci se non fosse una carezza
questo raschiare superfici
tra gli strati più duri del vuoto

Restiamo appoggiati al muro ruvido delle cose:
il letto, la sedia, la lampada a portata di mano
ma ora tutto è indistinguibile

Ancora una volta tremanti, al buio

Sappiamo che in casa non può esserci una voragine,
ma dentro siamo sempre in bilico
come uccelli primordiali
che da poco hanno smesso di precipitare

*

Natività

Potremmo ancora vederci
spingendo parte dell’oscurità
in un angolo, forzando con la spalla
come a chiudere un vuoto straripante
stipato in un armadio

Oppure riuscire a guardarci in faccia
al buio, tenderci la mano nella luce
nera che mi brucia le palpebre

E cercare la tua testa nell’oblio
è come tirarti fuori una seconda volta,
farti rinascere a mani nude, desiderando quella forza
che sorregga una presa forte
che sfibra le braccia

da Le latitudini delle braccia, deComporre Edizioni, 2013

 

Note

Nino Iacovella è nato a Guardiagrele nel 1968. Ha pubblicato una prima raccolta di poesie nel 2001 Ballate di un giorno solo e della notte (ExCogita Editore, Milano), seguito da Latitudini delle braccia, deComporre edizioni nel 2013. Dal 2011 al 2013 ha fatto parte della redazione de Il Monte Analogo, rivista di poesia e ricerca. E’ tra i redattori e fondatori del blog di poesia, scrittura e resistenza umana Perigeion.

[ Una mia nota di lettura videoregistrata si può trovare qui. B.C.]

12 domande a Iacopo Barison o anche breve storia sull’età per scrivere

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di Gianluca Giraudo

Iacopo Barison e io siamo amici. Siamo amici nell’unica misura che sembra avere un senso nel 2015: su Facebook. So che Iacopo ama dormire lungamente ma non più in là delle 10.30 «perché poi la giornata va sprecata», che guarda la televisione, soprattutto la sera tardi, e che apprezza tanto Sky Arte quanto Masterchef. So che ama leggere, naturalmente. Quando ho appreso della sua candidatura al Premio Strega 2015 con Stalin + Bianca (Tunué), mi è venuto da sorridere. Ho sorriso perché ho cinematograficamente immaginato come deve averlo colto la notizia: un telefono che squilla a volume massimo sul comodino, Ia mano insicura che lo afferra e Iacopo che si accorge, all’ora in cui gli impiegati sono mediamente al terzo caffè, di aver fatto tardi guardando una serie telesiviva o soffermandosi su un fumetto.

Prima di conoscere Iacopo, ero convinto che ci fosse un’età per tutto. Un’età per cominciare ad andare in bicicletta, per osare il primo bacio, per leggere Guerra e Pace e per canticchiare Taylor Swift in pubblico non risultando fuori luogo. Sapevo, come si sanno leggi del mondo che stabiliamo da soli un po’ per dare ritmo agli eventi un po’ per consolarci delle nostre inadeguatezze, che c’è un’età giusta per fare ogni cosa: come scrivere un romanzo a trentacinque anni. O partecipare allo Strega, a cinquanta.

La notizia della candidatura di Iacopo è la rottura di ogni equilibrio. Ho capito non solo che questo giovane scrittore è come me, socievolmente riservato, pigramente ambizioso, ma che sa parlare del nostro tempo: sa dormire fino alle dieci, ma anche scrivere un romanzo molto apprezzato. Sa distrarsi su Facebook, ma anche partecipare allo Strega. Tutto a 26 anni. Il suo immaginario, come emerge chiaramente da Stalin + Bianca, tradisce una passione per Beethoven e la poesia, ma anche molte influenze della cultura pop. Ho capito, in poche parole, che Iacopo rappresenta il bello della sua generazione. È la dimostrazione che se è pur vero che c’è un’età per iniziare a viaggiare, per scoprire i sentimenti, per affezionarsi alle letture impegnative, non c’è un’età giusta per fare di tutte queste esperienze, dell’esperienze di un individuo, un documento leggibile. Non c’è un’età giusta e unica per scrivere. E proprio di questo mi preme parlare con lui.

Iacopo, cosa significa per te, esordiente, ventenne, partecipare allo Strega?

Questa candidatura è il coronamento di un lungo e faticoso percorso. Prima del contratto con Tunué, ci sono state alcune case editrici, anche grandi, che hanno rifiutato il mio romanzo. Per carità, non voglio sindacare le loro scelte, ma certo è un’enorme soddisfazione aver venduto meglio e ottenuto più riscontro critico di quanto faccia il 99% dei loro esordienti. Penso che fosse innanzitutto un problema di età. Spesso, in Italia, la gioventù è vista come una colpa da espiare. Le belle storie,

invece, quelle che dimostrano che in Italia non fa tutto schifo, si scrivono anche dando fiducia ai giovani, non solo rifilandogli la solita manfrina del “si vede che hai talento ma sei ancora acerbo, devi crescere, risentiamoci al prossimo romanzo”. Comunque, ripeto, sono supercontento e non nutro nessun rancore, fa tutto parte del gioco, anche perché questi risultati probabilmente non li avrei ottenuti con una major, che mi avrebbe mandato al massacro e sicuramente avrebbe preferito candidare ai premi importanti qualche autore già famoso piuttosto che un giovane promettente.

Stalin + Bianca ha ottenuto un grande successo, sia in termini di pubblico che di critica, senza considerare la recente vendita dei diritti cinematografici e di traduzione all’estero. Hai mai pensato, scrivendo il libro, che sarebbe potuto arrivare a questi risultati o a muoverti ci son sempre state altre intenzioni?

No, non ci ho mai pensato. O meglio, ci pensavo, ma in modo quasi infantile. Era tutto confinato nella zona dei sogni, come il ragazzino che gira un cortometraggio coi suoi amici e spera, un giorno, di finire al Festival di Cannes. C’è stato un periodo, infatti, in cui tutta questa risonanza mi frastornava, ma ora ci ho fatto l’abitudine. Andare in TV a parlare del proprio libro, ad esempio, è sia bellissimo che molto ansiogeno. Ma accettando queste cose, facendole mie, ne ho ricavato grandi soddisfazioni. Poi è chiaro, il fatto che io sia giovane porta la gente a catalogarmi in automatico come un piccolo genio oppure come uno stronzo, come un impostore che ruba spazio a qualcuno con più esperienza di lui. Sono tutte idiozie, bisogna guardare avanti. Bisogna smettere di dividere gli scrittori – come tutti gli artisti – in “giovani” e “vecchi”. Sono categorie umilianti. Gli scrittori, al massimo, vanno divisi in chi ha qualcosa da dire e chi, invece, non ha nulla da dire ma lo fa lo stesso, con risultati talvolta pessimi.

Che opinione hai del Premio Strega?

Prima della candidatura, non ne avevo un’idea definita. Sapevo quello che si diceva in giro – che vigeva la legge del marketing, che gli editori facevano a gara, eccetera. Forse in passato era così, ma io penso che la candidatura di Stalin + Bianca smentisca almeno in parte tutte queste logiche. La sua candidatura è già un segno di apertura verso l’editoria indipendente. Con Tunué stiamo creando una realtà importante, di forte qualità letteraria, ma soprattutto stiamo dimostrando che, per fare le cose in grande, non servono per forza i calci nel culo, le intercessioni, il potere economico o le parentele importanti. L’editoria non è tutta yin o yang, è fatta di sfumature.

Stalin e Bianca, i protagonisti del tuo libro, viaggiano molto: sia nella realtà del libro sia effettuando una vera evoluzione come personaggi. Dovendo metaforizzare la tua candidatura allo Strega, la vedi più come un traguardo o come un punto di partenza che ti spinge a crescere come scrittore?

Ogni traguardo, per me, è sempre un punto di partenza. Sono fatto così, non riesco proprio a dormire sugli allori. C’è un punto, verso l’inizio del libro, in cui Stalin dice di voler vincere il Festival di Cannes. Anch’io sono fatto così. Quando mi pongo degli obiettivi, evito accuratamente di pormi dei limiti. L’ambizione è un incentivo a lavorare duro e a impegnarsi, non ha nulla a che vedere con la presunzione, seppur il confine sia molto sottile. Se non credi in te stesso, d’altronde, è assai improbabile che gli altri vogliano credere in te.

Tra i vincitori delle passate edizioni dello Strega c’è qualche autore che ami o cui, per ammirazione o spirito di identificazione, ti ispirerai per affrontare la gara?

Se intendiamo i vincitori di qualsiasi edizione, mi piacciono molto Alberto Moravia e Dino Buzzati. Negli ultimi anni ho apprezzato Sandro Veronesi e Tiziano Scarpa, ma anche Niccolò Ammaniti. Per ragioni anagrafiche, invece, mi sento in qualche modo legato a Paolo Giordano. La candidatura allo Strega comporta una certa pressione – gestirla da ventiseienne è ben diverso che gestirla da cinquantenne. A quest’età, infatti, non si può ancora esser saggi come il maestro Miyagi, ma ci si può permettere una freschezza e un’incoscienza che dopo, da cinquantenne, risulterebbe ridicola.

Stalin + Bianca fa parte della collana di narrativa della Tunué, nuova e piuttosto “sperimentale” nella linea editoriale. Che importanza ha avuto il lavoro svolto dalla tua casa editrice per il successo del libro e, di conseguenza, per la candidatura allo Strega?

La collana per cui sono uscito è diretta da Vanni Santoni, quindi nella maggior parte dei casi mi sono interfacciato con lui. Gli devo moltissimo, una buona percentuale di ciò che ho ottenuto è stato anche merito suo. Il resto di Tunué, comunque, ha svolto un ruolo fondamentale. Basta pensare alla traduzione del libro in Colombia e alla vendita dei diritti per tutta l’area di lingua castigliana – che, se non sbaglio, è la seconda lingua più parlata al mondo, quindi è possibilissimo che il romanzo venga tradotto anche in altri Paesi. Si è trattato, com’è giusto che fosse, di un lavoro di squadra.

Tornando al Premio, ti spaventa di più il confronto con un autore-fantasma come Elena Ferrante o la concorrenza dei grandi gruppi editoriali? Come vivrai la sfida?

Trovo molto divertente la definizione di autore-fantasma che hai affibbiato alla Ferrante. Vorrà dire che per farcela chiameremo i Ghostbusters. A parte gli scherzi, se devo essere sincero, mi spaventano tutti e non mi spaventa nessuno. Il libro ha avuto oltre cento recensioni, su tutte le principali testate, il che significa più rassegna stampa del 90% degli altri concorrenti, e senza nemmeno essere uscito per una

major, il che significa che ha una sua forza. Insomma, credo nel mio libro e sono convinto che possa giocarsela con chiunque. Se un romanzo come questo – pubblicato da un editore indipendente, il cui unico parametro è la qualità dei testi – riuscisse a finire in dozzina, farebbe onore anche allo Strega in sé. Vorrebbe dire che badano a come vanno effettivamente le cose, e non solo alle logiche di potere.

La notizia dello Strega arriva a pochi mesi dalla notizia della vendita dei diritti cinematografici del libro alla Redibis di Daniele Segre e Daniele De Cicco: quale delle due ti ha stupito o emozionato maggiormente?

Non so, il mio romanzo è pieno di riferimenti al cinema, quindi in un certo senso strizzava già l’occhio a quella forma d’arte. Ho sempre sperato che uno dei miei libri, un giorno, potesse diventare un film, ma non pensavo che sarebbe accaduto con Stalin + Bianca. Per quanto riguarda lo Strega, direi che vale lo stesso discorso.

Oltre alla prossima trasposizione cinematografica, i diritti di Stalin + Bianca, lo ricordiamo, son stati venduti per la traduzione in castigliano alla Rey+Naranjo. Temi di più il pubblico ispanofono, quello delle sale cinematografiche o la giuria dello Strega?

Penso, francamente, che un autore non debba mai e poi mai temere il suo pubblico, qualunque esso sia. Se non ci fosse il pubblico, i nostri lavori sarebbero degli specchi e basta, oppure una forma di masturbazione. Senza i lettori, gli autori sarebbero soltanto dei pazzi che parlano da soli. Questa è una cosa che molto spesso tendiamo a dimenticare. Il pubblico è libero di farsi una sua opinione – positiva o negativa che sia – ma è basilare per l’esistenza e la diffusione dell’opera.

Stalin + Bianca si caratterizza per l’assenza dei nomi di città, Paesi, e per una contestualizzazione temporale “poco nitida”: questo favorisce l’adattamento della storia su altri media o in altre culture?

Assolutamente sì, o almeno questa era la mia intenzione. Volevo che chiunque, in qualunque forma, potesse riconoscersi nella mia storia. Mi piaceva pensare che il lettore, ma più in generale il fruitore di Stalin + Bianca, potesse avere un ruolo attivo nei confronti dei personaggi, delle ambientazioni, della cronologia degli eventi, eccetera. Non volevo che leggesse la mia storia e basta, con lo stesso spirito con cui si guarda un programma in TV. Volevo che ne fosse parte, che potesse proiettarci sopra il suo vissuto e le sue esperienze. Sapevo fin dall’inizio che questo tipo di approccio sarebbe stato rischioso. C’era il pericolo di risultare generici oppure approssimativi. Ad oggi, però, stando ai riscontri che ho avuto, posso dire che l’esperimento è riuscito.

In altre interviste hai parlato della tua passione per il cinema e dell’intenzione di avviare una carriera da sceneggiatore o regista: lo Strega potrebbe convincerti a continuare nella narrativa o il cinema rimane un obiettivo primario?

Continuerò sempre a scrivere libri, indipendentemente da come e quanto lavorerò nel mondo del cinema. La narrativa – per me, per la mia vita, per il mio equilibrio – è davvero troppo importante. Quando non scrivo sto male, come le piante che appassiscono se non le bagni. È una specie di forza superiore a cui mi aggrappo, sia nel bene che nel male, allo stesso modo con cui i credenti si aggrappano alla fede.

Qual è, in definitiva e secondo la tua opinione personale, il segreto del successo di Stalin + Bianca? Che funzioni come libro – per la trama, lo stile, i personaggi – o perché descrive tensioni molto contemporanee in cui è impossibile non identificarsi?

Non saprei, è difficile da stabilire. Thoreau diceva che il vero successo è fare della propria vita ciò che si desidera. Io volevo scrivere questa storia – la storia d’amore e di viaggio fra due adolescenti con diversi problemi – e l’ho fatto con un certo trasporto, credendoci fino in fondo. Penso che il lettore abbia apprezzato la mia sincerità. Volevo spiegare cosa significhi essere giovani oggi, nel 2015. Ero stufo di leggere romanzi di formazione scritti da autori in crisi di mezz’età. È ora che miei coetanei si riapproprino della loro voce, sia collettiva che individuale.

Poetitaly al Palladium: “Saperi”, per Elio Pagliarani

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POETITALY al PALLADIUM

  
Cinque appuntamenti dal 23 febbraio all’8 giugno 2015 al Teatro Palladium di Roma
piazza Bartolomeo Romano, 8 – tel.  06 57067761
 

 Lunedì 23 marzo 2015

SAPERI

 in collaborazione con  Università di Roma Tre e Teatro Palladium
ore 17:30 Incontro-discussione sul tema e omaggio a Elio Pagliarani 
partecipano Cetta Petrollo Pagliarani, Andrea Cortellessa, Andrea Inglese, Arturo Mazzarella, Francesco Pecoraro e Marco Piazza. Coordina Paolo D’Angelo
ore 20:30 letture con Durs Grünbein, Andrea Inglese, Vincenzo OstuniAnna Maria CarpiMarco GiovenaleElisa Davoglio e Francesco Pecoraro

Durs Grünbein, Jürgen Bauer / Suhrkamp Verlag
INGRESSO GRATUITO
maggiori informazioni sul sito www.poetitaly.it 
 
ESILI, SAPERI, INTERAZIONI, CONFLITTI e DESIDERI: queste le cinque evocative parole chiave degli appuntamenti, sui temi-guida prescelti per ciascun evento tra reading, dibattiti e incontri di approfondimento sulle principali discussioni di poetica degli ultimi anni.
Dopo la prima edizione nel quartiere romano Corviale, dove la manifestazione ha avuto luogo nel settembre 2014 riscuotendo un buon successo di pubblico e di critica, l’itinerante POETITALY cambia “casa” e torna ancora nella Capitale con i nuovi 5 appuntamenti di POETITALY al PALLADIUM, ospitati nel cuore della Garbatella all’interno del primo tra i teatri romani di ricerca, grazie alla collaborazione con l’Università Roma Tre.
Oltre ad importanti voci della poesia italiana come Valerio Magrelli, Patrizia Valduga, Milo De Angelis e Gabriele Frasca (con i ResiDante), durante la rassegna saranno presenti anche grandi poetesse e poeti stranieri del calibro di Mariella Mehr e Durs Grünbein per dare voce a ideazioni performative all’interno di serate in cui si eseguiranno delle vere e proprie messinscene teatrali della parola poetica, con l’apporto delle arti figurative e delle nuove ricerche musicali.
Un esperimento, questo, che recupera la tradizione della multimedialità già propria delle avanguardie, pur superandone un certo rigore elitario ed aprendosi ad un nuovo pubblico, il più possibile composito, che va dagli studenti ai tradizionali fruitori di esperienze teatrali di vario tipo.
L’intento, infatti, è quello di fissare lo sguardo su un panorama in costante evoluzione, con una prospettiva il più possibile ampia e spettacolare, anche in vista della ridefinizione dell’io poetico.
La rassegna è curata da Simone Carella in collaborazione con Andrea Cortellessa, Gilda Policastro e Lidia Riviello e rappresenta una nuova tappa del progetto POETITALY, un format pensato come organismo “nomade” capace di portare la vitalità e trasversalità della poesia italiana contemporanea a contatto con molteplici luoghi della penisola, riservando una particolare attenzione alle diverse e variegate “periferie” d’Italia.
Tutti i video di Poetitaly al Palladium del 23 febbraio 2015: 
in collaborazione con 
Roma Tre, Teatro Palladium, Dipartimento Filosofia Comunicazione e Spettacolo, Doc Station, ESCargot.

cinéDIMANCHE #20 VIGO&KAUFMAN À propos de Nice [1930]

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di Orsola Puecher

 
Fra il 1920 e il 1930 per molte giovani speranze del cinema il genere “ritratto di città” costituiva spesso una delle prime occasioni di lavoro e di importante esperienza formativa: con ⇨ Manhatta [1920] di Sheeler e Strand, ⇨ Berlino. Sinfonia di una grande città [1927] di Ruttman, ⇨ L’uomo con la macchina da presa [1929] di Dziga Vertov lidouavviene l’incontro tra documentario e avanguardia, fra cinema sperimentale e cinema verità e il paesaggio urbano diventa un laboratorio di innovazione formale, attraverso la trasformazione artistica della realtà quotidiana. Nel 1929 Jean Vigo [1905-1934], un’infanzia complessa, segnata dall’assassinio in carcere, fatto passare per suicidio, del padre, l’anarchico Eugeni Bonaventura de Vigo i Sallés, che si firmava Almereyda, anagramma di “y’a la merde“, dalla salute fragile e da lunghi anni di collegio, con i soldi ricevuti dal padre dell moglie, Elizabeth “Lydou” Lozinska, fa un viaggio a Parigi e si compra una cinepresa professionale di seconda mano Debrie Parvo 35 mm. Per qualche settimana fa l’assistente volontario a Léonce-Henry Burel, direttore della fotografia dei film di Abel Gance. Poi fa ritorno a Nizza, in Costa Azzurra, dove è costretto a vivere a causa dalla tubercolosi che lo affligge dagli anni dell’adolescenza e che lo porterà di lì a pochi anni, il 15 ottobre 1934, alla morte.
Lydou_JeanDue giorni dopo, un venerdì, Jean Vigo morì poco prima delle nove di sera, mentre dal suo appartamento si poteva sentire “Le chaland qui passe” suonata da un musicista di strada all’incrocio fra la rue Gazan e l’Avenue Reille. Lydou, stesa di fianco a lui, lo teneva fra le braccia e sembrava non essersene accorta. Poco dopo sfuggì agli amici e si precipitò per un lungo corridoio verso una camera in fondo. Fu riacciuffata mentre stava per buttarsi dalla finestra.[P.E. Sales Gomes Jean Vigo Le Seuil, 1957]

 

Lys GAUTY Le chaland qui passe [1933]

Questa canzone molto in voga in quegli anni, versione francese di Parlami d’amore Mariù del 1932, scritta da Cesare Andrea Bixio ed Ennio Neri e cantata da Vittorio De Sica nel film Gli uomini, che mascalzoni…, fu imposta dalla casa di produzione in sostituzione alle musiche di Jaubert per il film di Vigo L’Atalante, che con questo titolo, Le chaland qui passe, sarà ridistribuito nel settembre del 1933, massacrato da moltissimi tagli indiscriminati, dopo la tiepida accoglienza alla prima del 25 aprile dello stesso anno.


Dunque, tornato a Nizza, Vigo, alla ricerca del soggetto per il suo primo film, legge molto sulla storia della città, prende appunti, spunti, fissa inquadrature che gli vengono in mente camminando per le strade e osservando le persone, con un pensiero visivo, un’immaginazione istintivamente cinematografica che, con sguardo poetico e ritmico, cattura il movimento del mondo e della gente.
 
JEAN VIGO

vigo

da Pierre Lherminier
Jean Vigo Cinema d’aujourd’hui
Seghers 1967 [pag. 70-1]

 

I viaggiatori escono dalla stazione/il viaggiatore si siede sulla valigia/i valletti/gli impiegati d’hotel/i taxi/le automobili/l’interprete/una porta d’hotel che si apre/i facchini /un fattorino d’albergo che corre/si spazza una terrazza, una sala di ristorante/il maître d’hotel si aggiusta la cravatta/gli hotel visti a rovescio si raddrizzano/un ragazzo si aggiusta la riga/l’albero storto si trasforma in palma/una palma/la ramazza dello spazzino/l’onda che porta dell’immondizia sulla spiaggia/lo spazzino, che spazza/il casinò del molo/l’immondizia in piccoli mucchi/vicino allo spazzino/in grossi mucchi/vicino allo spazzino/il mare/la scopa/lo spazzino se ne va/spinge la sua vettura/vista della passeggiata vuota e senza alberi/il cielo/la biancheria/le poltroncine sono pronte/il mare/i gabbiani gli alberi allineati/il cielo/i bucati/i giocatori escono dal casinò/. Un giocatore/i bucati al vento/l’acqua scorre/l’immondizia nell’acqua/una donna mette le braccia al collo di un giocatore/la casa nella città vecchia con la vite rampicante/le monete che rotolano/il battesimo nella città vecchia/i bambini che corrono/le monete/la ruota della roulette/il gioco della morra nella città/i fiori con un supporto/prendersi cura dei fiori/la coltivazione dei fiori/la battaglia dei fiori/colpo di scopa/le armi di Nizza.


 
La visione poetica si trasforma nel film À propos de Nice grazie all’incontro con il direttore della fotografia russo Boris Kaufman.
 

Jean Vigo entra nella mia vita un giorno d’autunno del 1929. Non mi ha mai più lasciato, spiritualmente. In quel momento, in cui l’industria cinematografica mancava di coraggio, penso spesso alla maniera in cui Vigo si è buttato nella produzione del film.

da Bernard Chardère
Jean Vigo
SERDOC, 1961 [pag.28]

 
Lo spirito, la vivacità e la voglia di cinema di Vigo si unisce all’esperienza artistica e professionale di Kaufman, fratello tra l’altro di Dziga Vertov, che collaborerà con lui in altri due film della sua breve, fulminante e luminosa carriera, Zéro de conduit [1933] e L’Atalante [1934].
 

Lavorare con Vigo, il suo gusto sicuro, la sua integrità, la sua profondità e la sua leggerezza, il suo anticonformismo, l’assenza di routine di qualsiasi tipo, mi fecero entrare in un paradiso cinematografico.

[Chardère op. cit. pag. 33]

 
vigo
 

BORIS KAUFMAN

kaufman

da Bernard Chardère
Jean Vigo
SERDOC, 1961. [pag. 33]

 

Il punto di vista documentato. La vecchia Nizza, le strade strette, i bucati appesi fra le case, il cimitero barocco. I piaceri. Le regate. Le navi da guerra in rada. Gli hotel. L’arrivo dei turisti che abbiamo girato in stop motion con delle bambole da quattro soldi e un trenino per bambini. Le fabbriche. La vecchia donna. La giovane donna che si cambia i vestiti (effetto speciale) in piena passeggiata e alla fine appare nuda. Il funerale, girato in stop motion per velocizzare questa cerimonia poco piacevole per i turisti. I coccodrilli. Il sole. La donna struzzo. Il Carnevale, la battaglia dei fiori, le danze al rallentatore. Le ciminiere minacciose sopra questa assurda allegria.


 

 
À propos de Nice, il ritratto di città di Jean Vigo, comincia con un cielo notturno di fuochi d’artificio e una ripresa aerea, mosaico di piazze, strade, porto e mare, seguita da una sequenza di immagini da film di animazione per bambini, con un trenino giocattolo che deposita due turisti pupazzetti su un tappeto da roulette, poi spazzati via dal croupier. Il ritmo alternato delle brevi scene, montate per contrasto, racconta due mondi opposti: i giardinieri che potano e lisciano le palme della Promenade des Anglais, i camerieri che puliscono i tavoli e dispongono gli ombrelloni, gli spazzini che lavano le strade, sembrano preparare la scenografia per i turisti oziosi, i vecchietti catatonici venuti a svernare in Costa Azzurra, che presto popoleranno la città ancora vuota, indolenti e senza meta. Pupazzi di Carnevale, vengono anch’essi allestiti e dipinti per la sfilata dei carri. Nizza è filmata con una grande varietà di angolazioni inconsuete: da sopra, da sotto, anche in rotazione, disorientando le normali rappresentazioni da cartolina. La macchina da presa segue gli svaghi e i passatempi dei turisti con movimenti repentini attraverso la folla, spesso vicina al terreno e poi a zig zag tra i passanti; riprende lustrascarpe, venditori di cravatte e occhiali, fotografi di piazza, artisti di strada, una mendicante che mostra il suo bambino a una giovane signora elegante, che gira la testa schifata a lei e all’obbiettivo di Kaufman e Vigo. Riprese sportive di barche a vela, tennisti e giocatori di bocce in contrappunto con una corsa di macchine. La camera forse nascosta cattura lo scorrere del mondo: portare a spasso un cagnolino, bere, fumare, lo sbocconcellare annoiato al bar, spettegolare, leggere giornali, dormire. Il voyerismo è portato all’estremo, con ironia, nella famosa sequenza della donna che cambia vestiti in sovrimpressione, restando nuda nella stessa posa di neutra elegante nonchalanche. Le architetture liberty degli hotel candidi, in riprese ubriache, si contrappongono ai vicoli dei poveri, stretti, con camini storti, fili di bucati al vento, spicchi di cielo lontani. Al lavatoio donne lavano e immergono i panni nell’acqua torbida di sapone, in grandi teglie portate in bilico sulla testa arrivano le pizze di farina di ceci, i bambini per strada giocano alla morra con serio accanimento, i mercati popolari brulicano. Miseri i vestiti, mani deformate, volti mangiati da croste, pattume e rivoli di fogna, un gatto, elegante e incontaminato, come solo i gatti sanno essere, fra i rifiuti. Mentre nella città dei ricchi si balla, con abiti di lustrini e pose plastiche, sorrisi alla macchina da presa, inizia la sfilata dei carri allegorici, sguaiata e allegra, che dirompente domina il resto del film. Il Carnevale offre la visione di un mondo alternativo all’ordine costituito, di cui è un parodia grottesca e beffarda.
 

 
I pupazzi giganti di cartapesta rappresentano un eccesso sfrenato, un disordine controllato concesso una volta all’anno, e le ragazze sul carro si dimenano lascive, riprese dal basso, nel vorticare scomposto di cosce e mutande di un cancan al rallentatore, ben diverso dagli stilizzati Walzer da sala. Fra di loro balla, in un fugace cameo, alzando le gambe, Vigo stesso travestito da clown. Il regista che filma entra nel mondo che vuole rappresentare. Non è più un osservatore imparziale della realtà, ma sceglie una parte precisa, il Carnevale, in cui schierarsi. Ma l’allegria si vena progressivamente di minaccia e malinconia, appare una profetica parata militare, navi da guerra in rada nella baia di Nizza. Un cimitero monumentale sembra aspettare il futuro arrivo dei corpi dei ballerini, un funerale accelerato, come una scena di film comico, si contrappone alla sfrenatezza del Carnevale, in un movimento collettivo verso la morte di una società che, inconsapevole, ha i giorni contati. Le consuete scene sulla Promenade si mescolano con croci e tombe, statue addolorate, angeli barocchi, simboli di dolore, e in un verticalismo di ciminiere fumanti il viso maschera di una vecchi signora sembra essere inghiottito da una fornace di fiamme, fuoco in cui tutto pare bruciare e annullarsi: un grande forno crematorio in anticipo.
 
cinéDIMANCHE

 
cd Nella pausa delle domeniche, in pomeriggi verso il buio sempre più vicino, fra equinozi e solstizi, mentre avanza Autunno e verrà Inverno, poi “Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera“, riscoprire film rari, amati e importanti. Scelti di volta in volta da alcuni di noi, con criteri sempre diversi, trasversali e atemporali.
 

Inaugurata la descrizione del mondo

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cornice1-800x600E’ stata inaugurata oggi la mostra Descrizione del mondo presso l’Unione Culturale Franco Antonicelli (TO)

Si tratta di un’installazione collettiva di oggetti-reperti (pagine di libri, fotografie, fogli scritti e disegnati a mano, registrazioni audio) del modo “analogico” di descrivere il mondo. Ogni descrizione del mondo è sempre, contemporaneamente, una sua complicazione, un’estensione materiale, una stratificazione ulteriore. A questa impresa contribuiscono poeti e artisti da tutta Italia.

La mostra apre la LIBERA OCCUPAZIONE POETICA in occasione della giornata mondiale della poesia

Via Cesare Battisti, 4/b – Torino
(ingresso libero e gratuito)

Il sito della mostra:

www.descrizionedelmondo.it

 

Anelli

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Jeanloup Sieff
Jeanloup Sieff
Jeanloup Sieff

di Vittoria Baruffaldi

(una rilettura del saggio “Della seduzione” di Jean Baudrillard)

Viene alla mia scrivania e appoggia le mani sui fogli sparsi: sono mani con anelli d’argento. Io metto la mia mano sinistra, tutta d’oro – dall’indice all’anulare -, accanto alle sue. È la cosa più stupida di tutte questa delle mani d’argento e d’oro vicine.

La seduzione procede così, prima per gradi – per accenni lenti -, e poi tutta di un colpo.

Le interviste possibili: Marco Missiroli

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di

Bernardo Zannoni

Il libro Atti Osceni in luogo privato di Marco Missiroli mi ha strappato poche ore, due serate disteso sul divano e un pomeriggio di pioggia e nuvoloni. Quel tempo però ha saputo prenderselo con un certo fascino, con un mistero che soltanto lo slittare dei numeri a bordo pagina ha saputo farmi notare.

E’ una storia ordinaria quella di Libero Marsell, ingenua, scanzonata, svelata da qualsiasi intrigo che un romanzo possa tendere; si può dire che la direzione da seguire è una soltanto, quella della vita del protagonista, l’accompagnare il tempo che da bambino lo farà uomo.

E’ una bella passeggiata, quasi non fai fatica a vedere come da un bacio innocente si passa ad un amore vero e proprio, tutto si manifesta con una naturalezza tale che non può fare a meno di farti ricordare, vivere o rivivere quelle esperienze.

E’ un libro che ha il dono di far sovrapporre l’io di chi lo sta leggendo con quello di chi lo racconta, tant’è che quando l’ho finito, lungi dall’essere edotto di qualsivoglia verità oppure illuminazione, ho guardato però a quelle pagine con la stessa dolcezza con la quale si carezza una memoria intima, per un poco ho vissuto anch’io a Parigi e ho imparato ad amare.

Dopo aver letto il tuo libro ho pensato alla tua persona (e d’altronde, ci conosciamo); perché la necessità di scrivere un libro che parlasse degli atti osceni, e in particolare cosa intendi con quest’espressione?

 Avevo bisogno di prendermi le mie libertà. I miei libri precedenti seguivano una struttura ed erano impostati in un certo modo, erano imprigionati in un rigore che li rendeva senza una vera liberazione, sia per me quando li ho scritti che per chi li ha letti. Questo libro non segue apparentemente alcuna forma, o meglio lo fa, ma sotto altri punti di vista: ho cercato di essere più spontaneo possibile e di non filtrarmi in troppi giri di parole, non mi riferisco all’oscenità in sé, ma alla naturalezza con la quale l’ho scritto.

Gli atti osceni sono le piccole libertà che ognuno si concede in un luogo suo, in un momento che gli appartiene, sono necessità che non possono essere mostrate a tutti, altrimenti perderebbero il loro valore.

 Ci sono degli elementi collegabili con la tua vita? Quanto il protagonista (e più in generale la sua storia, i suoi incontri, le sue figure di riferimento) ha a che vedere con te?

 Assolutamente si, come Libero, ho perso la verginità molto tardi. A Rimini di solito si ha una prima esperienza all’età di quindici, quattordici anni, troppo presto per dare un peso reale ad un gesto del genere. L’aver aspettato un po’ di più prima di lasciarmi andare mi ha permesso di imparare ad osservare il femminile, a farmi un’idea della donna più consapevole, matura, per quanto innocente. Ho la stessa timidezza di Libero Marsell, lo stesso approccio tardivo, il rosicchiare il cuore delle donne che, come lui, non avevo all’inizio, ma ho maturato nel corso degli anni.

A proposito dell’amore contemporaneo e del perdere la verginità a quattordici anni, qual è il tuo parere sulla precocità con la quale si impara ad amare ai giorni nostri? In che modo ha influenzato la tua storia?

 Se Libero fosse cresciuto ai giorni nostri avrebbe scopato molto prima, e io non avrei scritto questo libro. Oggi la tecnologia è arrivata a velocizzare praticamente tutto, relazioni sentimentali comprese. I social network bruciano determinate tappe di un rapporto ma rallentano tragicamente un’educazione sentimentale che non si assimila ad un’età così giovane. La maturità sessuale va raggiunta gradualmente rispettando i suoi tempi e la crescita del cuore, se questa arriva in maniera forzata, quest’ultimo rischia di rimanere atrofizzato.

Perché hai scelto la scena di Parigi per la tua storia? So che abiti a Milano…

 Parigi è sempre stata una città che mi ha seguito nel corso dell’infanzia; ho dato lì il mio primo bacio all’età di quattordici anni, durante uno scambio scolastico. I francesi, la loro cucina, la libertà che hanno avuto nella cultura mi hanno destato da subito un profondo fascino, un’attrazione che sento ancora adesso.

Camminare a Parigi, poi, è molto diverso che camminare a Milano; se nella prima il movimento sussiste da sé, nel senso che fare una passeggiata ha un valore, nella seconda non ci si sposta se non per andare da qualche parte.

 Già partendo dal fatto che questo è un racconto diverso dai tuoi precedenti appunto perché divincolato da qualsiasi struttura, perché ha dato al protagonista il nome di Libero? E in che modo Anna glielo restituisce?

 Libero era il nome di mio nonno, un contadino di Ravenna. Appunto perché legato alla stessa terra che lo teneva in vita non è mai riuscito a sentirsi all’altezza del suo nome né in grado di poter cambiare la sua condizione. Ho voluto creare un personaggio che gliela rendesse, quella libertà così agognata, che desse dignità al suo nome.

Anna è l’insieme di tutte le donne del protagonista; non sarà la più simpatica, né la più bella, né la più folgorante di quelle che ha avuto, ma alla fine lo fa essere ciò che è.

Bello. E quindi qual è la libertà in un rapporto, per te?

 La libertà in un rapporto è quella di diventare se stessi, mentre quando si è soli, paradossalmente, spesso non lo si è; stando con alcune persone si può diventare altro da sé, con altre invece quello che siamo sempre stati, e Anna è una di queste ultime.

A proposito della tua candidatura al premio Strega…

 Io e Feltrinelli abbiano deciso che Atti osceni in luogo privato non andrà, è un libro che può fare la sua strada in altre maniere.

L’ultima domanda che ti serbo è giusto un po’ spinosa. Mica un’intervista dev’essere tutta in discesa. Sento spesso accusare gli autori formatisi nelle scuole di scrittura di non scrivere libri di “pancia”; tutto fumo e niente arrosto, quindi, molta struttura e poca anima. Cosa ne pensi al riguardo?

 E’ vero, alcune scuole di scrittura sono odiate per molti motivi; io ne ho frequentata una come studente lasciandola però a metà, ci sono tornato quest’anno coprendo il ruolo d’insegnante. Trovo che siano un ottimo banco di prova per misurarsi con se stessi e per approfondire la propria visione del mondo. Non sono scuole dove si impara il talento, quello deve essere preesistente al percorso che si è scelto, si cerca però di direzionarlo dove è più propenso a manifestarsi. Sono ambienti che possono servire a determinati tipi di personalità, ma che consiglio comunque di provare a chiunque ne senta la vocazione.

 

 

 

Miti Moderni/10: la rete

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uvotavotadi Francesca Fiorletta

I giorni della ripresa sono così.

Aveva provato a raggiungere il concerto, c’era il sound check, gli artisti con la chitarra, gli artisti obesi, svaccati, a bere birra intorno a un tavolo, giocare a carte, con le nuvole grosse dietro, pesanti, marroni, un brutto effetto dell’ iPhone, aveva addosso i pantaloni verdi, un top nero sdrucito dai carichi in lavatrice, senza ammorbidente, continuava a sudare, ha tolto i pantaloni senza curarsi delle serrande alzate, la donna grassoccia, dal palazzo di fronte, la fissava immobile, non era più tanto giovane, i capelli grigi raccolti da cento mille bigodini, la sigaretta in bocca, non batteva ciglio, aveva scelto una gonna lunga coi merletti, le infradito ai piedi.

Un amore crudele (Piero Pieri)

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di Francesca Tuscano

Nei romanzi di Piero Pieri il corpo, nelle varianti espressive della violenza e del sesso, ha sempre un ruolo centrale, anche se con funzioni stilistiche diverse. In La notte di Stalin (Stampa Alternativa 1999) e in Furio (Allori 2004), diventa oggetto di rappresentazione, grottesca e palesemente metaforica; in Vaporidis in carcere (Fernandel 2009) è elemento di denuncia esistenziale e politica; nei Nouveaux Anarchistes (Transeuropa 2010) è segno esplicitamente politico e sociale (con alcune sfumature esistenziali). Il corpo è luogo di incontro, di conflitto, di violenza, di dolcezza, di conoscenza, di mercificazione e spettacolarizzazione (nel senso debordiano del termine). Ed è, sempre, parte di quel sistema comunicativo che Pasolini aveva individuato nella “Realtà”. I corpi che Pieri racconta, dunque, parlano, dicendo cose che il linguaggio verbale non potrebbe mai dire.

Nel suo ultimo romanzo, Un amore crudele (Marsilio 2014), l’autore fa ancora un passo avanti, concentrandosi sulla funzione espressiva della lingua del corpo. Rende quella lingua poetica, cioè eversiva della banale comunicatività, straniante. Il diciannovenne René e la sua quarantenne professoressa d’inglese, Anna (i protagonisti) usano il corpo per dirsi il dolore di esistenze sentimentalmente inespresse, “ibernate” dalle violenze ricevute, che hanno reso l’uno un diverso da controllare e umiliare, e l’altra una donna ferita in modo irrimediabile, proiettata verso l’autodistruzione. Con il codice del corpo Anna trasmette a René la disperazione e l’umiliazione, ancora pulsanti, per la violenza sessuale subita dall’ex marito e reiterata durante il matrimonio attraverso pratiche sadiche. E con lo stesso codice René parla dell’anaffettività (non meno violenta) nella quale è cresciuto. Esprimere tanto dolore non si può attraverso una “normale” comunicatività del corpo. L’autore lo sa, e perciò amplia semanticamente il codice dei suoi personaggi, concentrandosi sul tratto stilistico attraverso il quale il corpo-segno esprime la sua massima potenzialità espressiva – il sesso. Il momento in cui si conosce la violenza del possedere e la grazia dell’essere posseduti (ancora Pasolini) è quello che permette che i corpi si confrontino nella nudità che annulla la norma sociale e libera le pulsioni più profonde. Così la comunicazione diventa poesia. Il dolore distruttivo di Anna, però, ha bisogno di livelli espressivi sempre più alti, che il sesso “normale” non soddisfa. Perciò, lentamente e inesorabilmente, riesce ad ottenere da René la condivisione di esperienze di volta in volta più estreme. Quando, infine, il giovane amante la sottopone alla stessa violenza che rifiutava dal marito, la donna apre, con ferite reali, le ferite interiori. E René vi penetra, (come nel possesso dell’intero corpo di Anna), giungendo a toccare il dolore della donna, che ora può mescolare al suo – fluido con fluido, sofferenza con sofferenza (male che fa male ma cura il male):

Abbiamo mescolato parole e fluidi, sadismi orgogliosi e masochismi non rimossi. […] Due corpi solidali in ogni dettaglio, complici in ogni aberrazione. […] Il male è una percezione fisica che invade la mente senza creare problemi; il male è un assassinio condiviso.1

Il sadomasochismo, per i due, è un poetico grido d’amore, la richiesta non normata di un risarcimento emotivo e sentimentale. René ne acquisisce consapevolezza proprio quando comprende il limite della parola di fronte al linguaggio del corpo:

In Anna parla il rumore di una carne remota. Il suo dolore non è dissimile dal mio. […] Di questo dolore possiamo parlare solo per immagini frammentarie, celebrazioni discorsive, oscure evocazioni. Siamo sottomessi e dipendenti, nonostante lo strumento del linguaggio[…] Non posso liberarla da ciò che non conosco. […] Solo quando infierisco sul suo corpo Anna si rilassa completamente, abbacinata da tanta crudeltà regalata.2

Il ragazzo crudele cresciuto nella periferia, che non conosce gentilezza e che non possiede mediazioni intellettuali, sa usare il linguaggio della violenza, necessario ad Anna quanto quello della dolcezza, perché il sadismo l’ha già conosciuto sulla sua pelle, nei rapporti famigliari e sociali («Lo schiaffo è il mio catechismo, la mia regola»), e ne conosce le regole comunicative. Ma, com’è noto, in un rapporto sadomasochistico è il masochista colui che detiene realmente il potere – il sadico non è che uno strumento. Anche nel momento in cui subisce il sadismo di René, la professoressa non fa uscire il suo studente dal ruolo di ragazzo e di “sottoposto” intellettuale, oggetto necessario per il proprio autolesionismo, la propria autodistruzione. Gradualmente René inizierà a capirlo, e l’amore finirà quando la violenza del corpo sul corpo perderà la sua poeticità, per diventare lingua standard. I corpi non saranno più sacri, perderanno il valore di segni espressivi, diventeranno cose, sulle quali esercitare rabbia e frustrazione. Anna e René non potranno più dirsi nulla quando ciò che era straordinariamente loro diventerà quotidianità distruttiva (a quel punto, quale differenza potrebbe esserci tra il sadismo di René e quello dell’ex marito di Anna?). Nella standardizzazione della poesia, René deve accettare il fatto che il suo dialogo con Anna si è trasformato in un monologo della donna, all’interno della cui contorta prospettiva autodistruttiva egli ha la funzione di un attore che interpreta il ruolo delle fobie della “professoressa”:

Certo che capisco. Sono il tuo rovescio. La reincarnazione del marito. Capisco tutto, cara Anna, e quel che mi chiedi di fare lo faccio. […]Ora che ti hanno tolto Nadia sono finiti i discorsi accademici e le simulazioni sociali. Per questo mi hai chiesto di bruciarti con una sigaretta. Il dolore allo stato puro. La tortura che rischiavi, se i fascisti ti avessero presa con un messaggio per il capo brigata. Sono io il tuo fascista. È questo, Anna, che non ti perdono.(126)

La crescita politica ed intellettuale del ragazzo si svincolerà dalla professoressa, ed in Anna s’interromperà la crescita emotiva e sentimentale. Entrambi tenteranno la strada della normalità, il ritorno all’ibernazione del proprio mondo sentimentale.

Sullo sfondo della società degli anni Sessanta, soffocante ma già pronta ai grandi cambiamenti del ’68, Anna e René vivono importanti esperienze politiche (come un viaggio nella Grecia dei colonnelli, per portare aiuti alla resistenza) ed esistenziali, combattendo come possono contro il mondo piccoloborghese che li circonda (sia quello “di periferia” del ragazzo che quello “intellettuale” della donna). Ma il desiderio (piccoloborghese) di normalità può essere più forte dell’amore, e proprio Anna lo dimostrerà. L’intellettuale impegnata politicamente, che ha condotto il suo studente verso la letteratura quanto verso il sesso estremo, lascerà René per un collega della sua stessa età e del suo livello intellettuale. Ma, molti anni dopo la fine del loro amore, sarà René, ancora una volta, a permetterle di dire con il corpo il male di vivere, consentendole di completare il montaggio della sua esistenza con un ultimo e definitivo atto di autolesionismo. René, ormai fisicamente libero dalla presenza dell’amante-madre, s’immagina un nuovo amore, con la figlia di Anna, un amore finalmente normale. Ma, ci avverte una voce fuori campo, è proprio quella la via della depravazione.

1 Un amore crudele, p. 64.

2 Ivi, p. 47.

se fossi un intellettuale

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di Giacomo Sartori

 

se fossi un intellettuale

farei ogni mattina

(prima o dopo la defecazione?)

seriosi gargarismi cerebrali

esegetici o anche prescrittivi

come usano gli intellettuali

Cinque domande sul bookpride

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poster_def_donna_cornice2a cura di Giorgio Mascitelli

( Dal 27 al 29 marzo a Milano, ai Frigoriferi Milanesi in via Piranesi 10, si terrà il bookpride, fiera dell’editoria indipendente, promossa dall’osservatorioa degli editori indipendenti ( ODEI). Ho fatto qualche domanda allo scrittore Pino Tripodi di Doc(k)s, tra gli organizzatori, sull’iniziativa)

Il 27-28-29 marzo prossimi a Milano, si terrà il book pride, la prima fiera degli editori indipendenti, promossa dall’osservatorio degli editori indipendenti (ODEI) e organizzata da doc(k)s – strategie di indipendenza culturale. Si tratterà soltanto di una fiera, in cui sarà possibile trovare libri della produzione indipendente magari non sempre facilmente reperibili con l’accompagnamento di alcuni eventi culturali, oppure c’è un progetto più ampio?

Spero non rimanga solo una fiera. Si tratta di segnare una svolta importante nel processo di indipendenza culturale, di uno strumento – tanti altri ne dovremo inventare – per sopravvivere in un mercato, quello editoriale, che è oligopolistico nella produzione e semimonopolistico nella distribuzione. Senza culture, organizzazioni e strumenti dell’indipendenza culturale non sono a rischio solo tante case editrici; il rischio concreto è la distruzione della bibliodiversità. Il paesaggio urbano – con la distruzione metodica delle librerie indipendenti – già registra una forte riduzione della bibliodiversità. I media registrano una omologazione culturale senza precedenti. Ma anziché sollevare solite lagnette contro la barbarie, contro il libro spazzatura – riflesso della massificazione del junk food – è forse il momento di intraprendere pratiche di cooperazione con cui salvaguardare l’autonomia di ciascuno sviluppando l’indipendenza di tutti.

 

Come mai è stata fatta la scelta di non mettere un biglietto d’ingresso per la fiera?

In un mercato che si contrae anche per i morsi della crisi, far pagare un biglietto ci sembra eccessivo. Che un lettore debba pagare per poter comprare – è ciò che avviene in qualsiasi fiera – è inoltre un segno della protervia dell’organizzazione culturale ed economica dominante.  Bookpride non deve lucrare sui lettori, anzi li vuole aiutare ad emanciparsi dalla monocultura imperante, a diventare cooproduttori della comune indipendenza. Per fare ciò, per rendere possibile la più ampia partecipazione, abbiamo scelto di non far pagare il biglietto. BOOKPRIDE si finanzia con il pagamento degli stand degli editori. È uno sforzo economico che speriamo di sostenere. Non vi dovessimo riuscire, credo che nelle  edizioni dei prossimi anni dovremo studiare modalità di pagamento originali.

Negli ultimi decenni si è affermata una tendenza a considerare e a rivendicare, nel mondo dell’editoria, il fatto che il libro sia una merce come le altre, salvo per alcuni aspetti fiscali. Come si colloca il Book pride, rispetto a una tendenza del genere?

Ci sarebbe da fare un lungo discorso sulla peculiarità della merce. Discorso su cui la cooperativa doc(k)s fa molta attenzione. Tanto che per indicare il criterio che ci ha indotto a  organizzare l’enoteca indipendente all’interno del bookpride abbiamo scritto “L’oggetto vero della produzione non è la merce, ma è la vita”. Il libro, in quanto oggetto di scambio e di compravendita, è una merce. Come ogni altro prodotto, nella misura e nella modalità in cui viene scambiato, è indice di devalorizzazione cioè di riduzione della vita a merce. Ma la coda può e deve essere presa dall’altro versante cioè dal fatto che ogni merce – nel processo di progettazione, produzione, distribuzione – costruisce delle modalità d’esistenza. In ogni merce è possibile vedere con chiarezza le forme di vita che sono messe in gioco. Ogni merce è lo specchio fedele delle relazioni sociali e produttive. Chi intende trasformare queste ultime non può fare a meno di ripensare tutto il ciclo della merce trasformando se stesso come soggetto di relazione.

Il libro in questo discorso assume un’importanza particolare perché, come ogni altra merce, ha la sua peculiarità. L’assurdo del mercato dominante è pensare ogni merce semplicemente come merce-denaro. Il mondo dell’editoria dominante è pieno di gente che pensa: non dobbiamo vendere libri, ma spazi; non dobbiamo produrre libri, ma prodotti; non dobbiamo produrre cultura, ma confezionare cose facilmente leggibili e vendibili. È pieno persino di professionisti del libro – manager, direttori di collane, editori – che vanno fieri di non leggere neanche ciò che pubblicano. Così fanno male alla cultura del libro, certo, ma anche alla sua economia. In questo disastro, occorre rivendicare la peculiarità del libro, una merce in grado di riflettere immediatamente il grado di cultura, di civiltà, di complessità dell’organizzazione sociale.

Alcuni degli organizzatori, tra i quali tu, vengono dall’esperienza di Critical wine di una decina d’anni fa sempre a Milano. C’è un filo politico e culturale che unisce queste due iniziative?

Certamente. Partecipando a quell’esperienza, a quella successiva di Criticalbook&wine e a DeriveApprodi ho avuto modo di conoscere alcune filiere produttive importanti. In esse, nonostante le profonde differenze, accanto ai processi di concentrazione, di omologazione, di svalorizzazione dei prodotti sono nati formidabili esperienze di resistenza grazie alle quali si producono le vere eccellenze della cultura materiale e della cultura libraria di questo Paese. Queste esperienze anziché concentrarsi vanno diffuse, anziché entrare in concorrenza devono riuscire a cooperare. Hanno fatto di tutto per rimanere autonome, è arrivato il momento di divenire indipendenti.

Gli editori hanno lamentato in questi anni una flessione di vendite molto marcata, che non puo’ essere spiegata solo con la diffusione del libro elettronico, né tanto meno con la crisi generale, visto che il mercato librario aveva un andamento tendenzialmente anticiclico. Pensi che in un contesto del genere ci sia spazio per un circuito dell’editoria indipendente?

Sì, a condizione che gli editori indipendenti costruiscano spazi di produzione, di promozione e di distribuzione alternative a quelle dominanti. Per la filiera del libro dovrà chiarirsi quello che è già lampante nella filiera del food & wine: chi desidera cibarsi di spazzatura, vada pure nel supermercato del libro, chi invece vuole che produzione del libro e produzione di cultura siano più assorellati si rivolga agli editori indipendenti. Ciò vale anche per gli autori, i quali saranno chiamati a scegliere. Senza sviluppo delle reti d’indipendenza, l’eccellenza dell’editoria italiana continuerà a lavorare gratis per i gruppi oligopolistici, come già fa.

 

 

 

 

 

La curva del giorno nel giardino distopico

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Spazio Ostrakon

via Pastrengo 15 Milano

LA CURVA DEL GIORNO NEL GIARDINO DISTOPICO Reading di Biagio Cepollaro  il 19 marzo 2015 ore 19.00

innestato nella mostra del botanico artista Emanuele Magri

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Caro Emanuele,

sto immaginando La mia curva del giorno nel tuo Giardino distopico.Potrebbe essere un ulteriore innesto e trapianto la lettura dei versi all’interno della mostra e dei tuoi attraversamenti. E lo è. Una specie di installazione dentro la tua installazione.

Come ti accennavo a voce, in fondo ciò che ci accomuna è l’interesse per il corpo e per i livelli elementari della vita, vegetali, animali, basici. La tua ingegneria genetica letteralmente mostra il volto della degenerazione. Lo sradicamento di ogni senso è innanzitutto lo sradicamento di ogni parola da se stessa e di ogni immagine da se stessa: dici che attraversi la storia dell’arte e ricombini con i frammenti di essa il non più riconoscibile volto della nostra degenerazione. Non si tratta di un moderno entusiasmo per il nonsense e neanche del liberatorio calembour: si tratta proprio di fotografia. In un certo senso di dire le cose come stanno, o come sono diventate.

 

Bene, dentro questo tuo paesaggio le mie parole prendono le mosse da semplici percezioni. E’ come se la genetica tornasse sui suoi cardini a patto di rinunciare alle antiche complessità. Prima di scrivere La curva del giorno, ho scritto il primo libro, Le qualità, di quella che dovrà essere una trilogia. Nel primo libro il prologo prende le mosse dalla semplicità dell’evento della doccia, proprio del farsi la doccia come domestico rito di rinnovamento attraverso l’acqua. Altrove è detta la cura dedicata a tagliare il pane e a mangiare la carne di altri animali. O semplicemente viene indicata la differenza di luce

avvertibile in una giornata di primavera in un parco urbano. O anche del sistemare le lenzuola ogni sera nel costruirsi il letto che torna ad essere l’antico giaciglio. Niente di più.

occorre stabilire i confini del corpo: anche una casa con le sue camere e le sue funzioni è una guaina

e aderisce ai suoi moti. dormire al riparo dalla pioggia cucinando i cibi assaporando carni di altri animali

e foglie e frutti. dormire ancora dopo ogni rientro sistemando lenzuola e coperte lavando con cura

il piatto e il bicchiere affilando il coltello per il pane occorre lasciar passare da quei confini la notte

e lasciar mescolare i corpi perché parlino tra loro

 

Leggerò dunque questa poesia nel tuo giardino distopico e suonerà forse come una battuta di dialogo con i tuoi amabili mostri. O come il progetto di ricostruire un senso concreto, anche se limitato, a dispetto dell’insensatezza. Perché qui intendo il mescolare non come deformazione ma come silenziosa e fervida formazione e costruzione.

Forse sarà la nascita o rinascita del giardino utopico dentro il giardino distopico.Come il progetto o il

sogno di un modo di stare al mondo che possa generare un senso, nel possibile di una singola vita, oltre la degenerazione.

 

O anche sarà la coesistenza dei due giardini,uno dentro l’altro, come due poli per le nostre oscillazioni. Che ne dici?

 

Biagio

 

 

Caro Biagio,

 

le cose che dici sono molto belle. Devo dire che preferisco il tuo, di mondi, utopico. Il mio speriamo che non esista mai. Ma è difficile sapere, come si dice, dove andremo a finire. Ma, appunto, come dici tu, che almeno ci sia una convivenza. E questo possiamo intanto fare. Proporre la tua lettura nel giardino distopico. Chissà che non si aprano nuove vie …

 

Emanuele

 

 

Biagio Cepollaro, nato a Napoli nel 1959, vive a Milano. Esordisce come poeta nel 1984 con Le parole di Eliodora Forum/Quinta generazione), nel 1993 pubblica Scribeide (Piero Manni ed.) con prefazione di Romano Luperini e Luna persciente (Carlo Mancosu ed.) con prefazione di Guido Guglielmi. Sono gli anni della poetica idiolettale e plurilinguista, del Gruppo 93 e della rivista Baldus . Con Fabrica (Zona ed., 2002), Versi nuovi (Oedipus ed., 2004) e Lavoro da fare (e-book del 2006) la lingua poetica diventa sempre più essenziale aprendosi a una dimensione meditativa della poesia. Questa seconda fase del suo percorso è caratterizzata da pionieristiche attività editoriali in rete che danno vita alle edizioni on line di ristampe di autori come Niccolai, Di Ruscio e di inediti di Amelia Rosselli, a cui si aggiungono le riviste-blog, come Poesia da fare (dal 2003) e Per una Critica futura (2007-2010). Nello

 

stesso periodo si dedica intensamente alla pittura (La materia delle parole, a cura di Elisabetta Longari, Galleria Ostrakon, Milano, 2011), pubblicando libri che raccolgono versi e immagini, come Da strato a strato, prefato da Giovanni Anceschi, La Camera Verde, 2009. Il primo libro di una nuova trilogia poetica, Le qualità, esce presso La Camera Verde nel 2012. La curva del giorno, pubblicato nel 2014 presso L’arcolaio, costituisce il secondo libro. Sito-archivio: www.cepollaro.it

Blog dedicato alla poesia dal 2003: www.poesiadafare.wordpress.com

Blog dedicato all’arte: http://cepollaroarte.wordpress.com/

 

 

Emanuele Magri: dagli anni settanta si occupa di scrittura e arti visive. Ha creato mondi tassonomicamente definiti, nei quali sperimenta l’autoreferenzialità del linguaggio, come “La Setta delle S’arte” nella quale i vestiti rituali sono fatti partendo da parole con più significati, il “Trattato di artologia genetica” in cui si configura una serie di piante ottenute da innesti di organi umani, di occhi, mani, bocche, ecc, e il progetto “Fandonia” una città in cui tutto è doppio e ibrido. Ha sviluppato gli oggetti-parola Bandierine (dal 1990) e gli Stendardi (dal 1992), i  corpi-parola e vestiti-parola dell’universo parallelo de “La setta delle S’Arte” (dal 1995, con utilizzo di sciarade, palindromi, falsi vezzeggiativi), gli Oracoli Corporali (dal 2000, rebus con parole che indicano parti del corpo). Distopicus Garden, un progetto sull’ingegneria genetica che si avvale, per le varie fasi, di computer grafica, installazione, fotografia, video, poesia.

 

 

 

SPAZIO OSTRAKON | Via Pastrengo 15 Milano | Orari: da martedì a sabato dalle 15,30 alle 19,30 | Info:

3312565640 | info@spazioostrakon.it |  www.spazioostrakon.it

les nouveaux réalistes: Isabella Borghese

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Corpo libero

di

Isabella Borghese

La sala era rettangolare, profonda. Alla mia prima lezione non è stata l’attività fisica la vera protagonista, né il mio corpo; questa l’impressione che ho avuto.  Nell’ordine, a primeggiare l’olfatto, la vista, l’udito. Del gusto lì dentro ne facevano un rigurgito, un senso da riscoprire, una battaglia contro il peso. Il simbolo della vittoria. Il tatto solo alla fine.

A vent’anni ho scelto di regalare al mio corpo una possibilità nuova per riscoprire il privilegio e il piacere del contatto fisico. Riconsegnargli l’occasione legittima di essere toccata, di toccare in un terreno neutro, in una dimensione estranea al fastidio, alla prepotenza di una forzatura.

Non era il tempo di arrendersi. Davanti a me il momento di sfidare l’istinto, quel desiderio di chiudermi all’altro, che pareva volermi sconfiggere, privarmi di un’altra occasione; ho scelto di lottare servendomi della ragione, un’arma potente, potentissima, selezionata per riscoprirmi corpo, che può piacere, piacersi, darsi all’altro; per imparare di nuovo a muovermi con agilità e disinvoltura e a spogliarmi ancora, come un tempo ne sapevo cogliere ogni gradevolezza, nel terreno libero del piacere, nella sensualità di uno sguardo spudorato, fisso occhi negli occhi.

La lotta libera è stata la mia preferenza: la dimensione della lotta, quando nel carattere è combattere contro le proprie paure e per i propri ideali, nello sport confrontare il proprio corpo con la forza dell’altro, nella vita difendersi e aggredire la parola imposta da un prepotente.

In quella sala sentivo l’odore di chiuso, di aria viziata, di sudore quando nasce dallo sforzo fisico. Osservavo donne allenarsi in circuiti, flessioni, sforzarsi sulle spalliere. La severità di Augusto che insegnava o il gridare a tratti monosillabico di chi combattendo emetteva lamenti o grida di sforzo o incoraggiamento.

E quelle poche donne in sala, con me eravamo in tre, fiere di lottare sulla materassina, e ritrovarle poi, lezione dopo lezione, più magre. Sciupate. Guardarci a lungo nello spogliatoio, come esplorarci. Vicine, nude, libere e prese da un modo di lottare molto differente tra noi.

“Goliarda, stai dimagrendo troppo…”, mi sono confidata un giorno.

“E’ così sotto gara, Gabriella. Toccherà anche a te. Comincerai a lottare e dovrai dimagrire per gareggiare in una classe più bassa e poi vincere, perché non ti mancherà tutta la forza della categoria superiore. Nelle competizioni l’avversario si deve battere, corpo a corpo. Dev’essere tua la vittoria!”

Il problema delle competizioni, per me, questa fissazione di chi partecipa di guardare a tutti i costi e con determinazione alla “coppa”. Questo obiettivo che svaluta la partecipazione o che dà un senso compiuto alla gara.

 Forse avrei dovuto raccontare a Goliarda il reale motivo della mia lotta lì dentro, e farlo mentre ci allenavamo donna contro donna, o donna contro uomo, per esercitarsi a schienare l’avversario.

Io mi ingegnavo di più a sbilanciarlo. Far perdere l’equilibrio all’antagonista non annuncia mai una vittoria, ma consente, prima che questa avvenga, di intuire quale sarà la sua mossa e così di precederlo. Nel corpo a corpo in terra, prima dello schienare o dell’essere schienata, ero sempre lì intenta a sentire il corpo dell’altro, a percepire il mischiarsi della forza dell’uno contro quella dell’avversario che durante la lotta si fa sudore. Tentavo di raccogliere, mossa dopo mossa, il significato pudico di una stretta forzata, della necessità di proiettarsi sull’altro per combattere senza entrare nel campo della costrizione. Cercavo, ostinata com’ero, di fissare il suo sguardo senza abbassare il mio. Mantenerlo sull’antagonista, come necessità di vincere la timidezza prima, per capire con quale corpo il mio dovesse prendere confidenza, durante il combattimento.

In questi incontri preferivo l’allenamento contro un uomo. Era “il suo sul mio” la mia vera sfida, non il combattimento. Che mi schienasse, allora, non si trasformava mai in una sconfitta di cui crucciarmi. Mi affascinava il modo di Goliarda di stare nella lotta, la sua forza, quel mischiarsi con la tecnica e con il rigore. Goliarda, che tre settimane prima delle gare, fino al giorno della competizione, si nutriva di solo acqua e yogurt, o frutta e prima di pesarsi restava ore persino senza bere. Ecco il rigurgito del gusto, il simbolo della vittoria.

 Negli spogliatoi dopo la doccia ci mettevamo nude davanti allo specchio. Vedevo due corpi diversi da quelli che osservava lei. La sua bellezza sciuparsi, farsi stanchezza, le guance sparire, il seno rimpicciolire così tanto che persino una carezza lo avrebbe nascosto. Eppure l’eccitamento pareva inorgoglirla, come se avesse già vinto la sua gara.

“Devo perdere due etti ancora, poi entrerò nella categoria inferiore. Sarò pronta per gareggiare”, si esprimeva con fierezza. Lei nel suo, con lo sguardo, incontrava un corpo pronto a combattere. Poi mi intrattenevo sul mio allenato, armonioso. In attesa. Nulla mi suscitava del vanto. “Quando lotterai in gara dovrai sciuparti di più”, mi spiegava. Goliarda nel mio corpo individuava chili da sciupare. L’attesa, questa no.

Dopo più di un anno dal mio inizio in quella sala si è affacciato il momento più difficile.

“Goliarda, Augusto vuole farmi gareggiare. Aspetta il mio consenso tra pochi giorni”, mi sono confidata perplessa.

“Bene! Lo sapevamo tutti che avresti iniziato presto. Preparati alla tua dieta: acqua e frutta!”, si è messa poi a ridere. Io sono rimasta basita. Neanche una risata per me. Solo un’urgenza: lottare nella vita poteva significare mettere in campo la mia forza fisica, combattere con il corpo?

Pochi giorni dopo, quello precedente alla mia scelta, ci siamo sfidati per quarantacinque minuti. Prima io contro Goliarda. I nostri corpi, benché lei fosse più alta di me, si confrontavano con energia. La mia altezza si presentava perfetta per sbilanciarla e più facilmente di quanto non riuscisse lei con me. Ma era Goliarda a vincere più spesso. Tre volte su cinque. Quel giorno poi sono stata più di mezz’ora a lottare contro Errico. Il mio corpo, in attesa. La percezione precisa che avesse maturato una nuova confidenza verso l’altro, un saper stare contro, addosso e sotto, che nulla hanno a che vedere con la sottomissione, né tanto meno con la costrizione. Neanche con l’essere schiacciati da un peso morto addosso.

La terza volta che Errico mi ha schienata sono scoppiata a ridere, senza avvertire la fretta di dovermi liberare del suo peso. “Ti porteremo alle regionali quest’anno! Ha ragione Augusto!”, ha esclamato fiero. Era ancora sopra di me. Non ho badato a lungo alle sue parole. Avevo altro per la testa: non provavo alcun fastidio. Mi sentivo compiaciuta, rispettata. L’attesa di colpo finita. Schienata riscoprivo il piacere del tatto e riconoscevo nella competizione un modo così lontano dal mio di stare al mondo, che neanche uno sport ha saputo mai insegnarmi.

Dopo qualche giorno sono rientrata in quella sala rettangolare, profonda. Ma era l’attività fisica, adesso, la vera protagonista, con il mio corpo. Nell’ordine, a primeggiare il tatto, il gusto. L’olfatto, la vista, l’udito, solo alla fine. Il tatto, grazie al combattimento, ora primeggiava con la bellezza e la grandezza di un senso riscoperto, e la capacità di invertire, nella mia vita, l’ordine dei sensi. E’ stato il mio ultimo venerdì di lotta libera quello del combattimento contro Errico. Il mio corpo in attesa, oggi, solo un ricordo. La strada, come la vita, invece, è dove continuare a lottare.

LIBERA OCCUPAZIONE POETICA ° [i materiali]

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cartolina-fronte LIBERA OCCUPAZIONE POETICA è l’incontro collettivo che si terrà sabato 21 marzo 2015 a Torino, nella sede dell’Unione Culturale Antonicelli (Via Cesare Battisti, 4/b) a partire dalle 17.30. Presentiamo qui alcuni materiali che hanno contribuito alla preparazione di questo incontro. Quest’ultimo si è articolato intorno a quattro eventi principali: installazione + riflessione + manifesti + lettere. Eventi che corrispondono ad altrettanti modi di fare poesia possibilmente al di fuori, o al limite, dello specifico poetico.

LIBERA OCCUPAZIONE POETICA,

che vuol dire, se prendiamo i due ultimi termini, mestiere poetico, inerente alla poesia, ed è il lato derisorio della formula. In Italia, più che in qualunque altro paese d’Europa, l’attività poetica non può essere considerata degna non solo di un interesse mercantile (non produce profitto), ma neppure di un sostegno istituzionale (denaro pubblico per la poesia!!!!).

L’eccezione salvaje del libro messicano

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di Alessandro Raveggi

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Interrogato sul mondo del libro e dei luoghi frequentati dagli autori e dagli appassionati di libri a Città del Messico, non posso che menzionare a premessa quanto segue. Prima di tutto: Città del Messico è ben più letteraria di una pagina di Bolaño sulla sua Città del Messico letteraria – mi  riferisco ovviamente a Los detectives salvajes, uno dei pilastri della letteratura del XXI secolo, da me letto e acquistato agli inizi degli anni Zero a Granada e solo dopo 7 anni rivissuto magicamente e visceralmente nella carne e nelle ossa dei miei anni al Distrito Federal. E questo non significa che il suo universo sia costellato da un fiorire esoso di librerie indipendenti resistenti.

Bisogna anzi riconoscere che delle librerie menzionate da Bolaño solo una alla fine sopravvive alla storia e alla finzione: la Libreria del Sotano (una catena libraria, tra l’altro). La Libreria Mexicana sostituita da una rosticceria, la Libreria Pacifico non c’è più  o forse non è mai esistita, così come la Libreria Baudelaire. Resiste la gloriosa Calle Donceles, con le sue librerie dell’usato alcune risalenti agli anni 50.

Tuttavia, non si può dire che il mondo del libro messicano sia in crisi, affatto: per scrivere di o frequentare il mondo degli scrittori messicani bisogna spesso però avere palati adeguati e stomaci foderati. Bisogna saper camminare e conversare ebbri. Aggrapparsi agli autobus scalcagnati e respirare il loro sudore metallico. Mangiare tacos nocivi in strada, bere allappante pulque, bere birre artigianali o commerciali e sciape in grande copia. Frequentare l’università pubblica (tanto è gratuita), le feste nelle case mezze eleganti e mezze diroccate del centro storico o di Coyoacán, le piazzette del quartiere Roma con le copie scure di un David o le copie di uno pseudo Rodin, animate dai mercati dell’agricoltura biologica e del riciclo e del uso consapevole di qualsiasi cosa si possa usare. Aggirarsi nelle domeniche pomeriggio nel turistico centro storico a far la fila davanti all’ennesimo festival del libro, file chilometriche come fossero ad un concerto pop ed invece stiamo per entrare ad un incontro con Paco Ignacio Taibo II.

La letteratura nel Distrito Federal è fatta d’eccezioni salvajes, anche nei casi apparentemente canonici. E d’altronde della topografia letteraria dei Detectives ci sono rimasti evidenti due grossi pilastri: il Cafè Bucareli e il Cafè Quito (nella realtà: il Cafè Habana), due cantinas.

Vediamo così un po’ di districarci in veri e propri casi unici, eccezionalità che hanno a che fare anche con l’Italia: librerie di editori-Stato, cafebrerias, biblioteche universitarie foderate di murales, indipendenze italiche, festival del libro ovunque, e soprattutto barretti e balere.

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Il Grande Padre.
Le librerie del Fondo de Cultura Economica.

Oggi catena libraria per tutta l’America Latina e persino a New York, inoltre casa editrice e libreria istituzionale, di “regime” si direbbe qui da noi, il Fondo de Cultura Economica (di seguito FCE) ha per anni – oramai cento? – consentito a che gli illetterati di tutto il Messico post-rivoluzionario potessero cibarsi di cultura a bassissimo prezzo e buona qualità di stampa, da Balzac a José Rueveltas, da Maupassant a Vargas Llosa e ovviamente gli immancabili colossi Rulfo, Fuentes e Paz. La casa editrice è forte ora soprattutto sulla filosofia e la critica – editore di Zizek, per intenderci – sebbene pubblichi ancora i classici, e snobbi sovente la narrativa contemporanea (fermo restando che ha una delle collane di poesia contemporanea più belle del Messico, peccato che pubblichi poeti laureati over 60 o macabramente defunti da poco). Le librerie del FCE sono pressoché asettiche, bianche rosse e grigie in genere, ma ben fornite, distribuite tra parchi verdeggianti e avenidas da sud a nord della Città. È sempre un piacere incontrarle – forse di più se sei uno scrittore straniero residente, proveniente da un paese dove la cultura ha smesso di fare sistema, di essere cosa democratica obbligatoria da diversi anni. E soprattutto è un piacere per i professori della Universidad Nacional Autonoma de México, che, come io ho fatto per alcuni anni, usufruiscono di un sconto cospicuo sugli acquisti. Da menzionare specialmente la Libreria Rosario Castellanos, nel quartiere Condesa, col suo programma ricco di presentazioni con 50-60 persone in media, e il suo spazio ampio che ricorda più la hall di un museo o aeroporto che una libreria vera e propria. Di autori, a bazzicarle, forse però non se ne trovano molti, nei pomeriggio piovosi dell’estate in Città: librerie di grandi acquisti ma fuggenti, vuoi anche perché non molte (che io ricordi) hanno bar o caffetteria acclusi dove echarse un mezcal.

Simili ma di tono inferiore le catene Gandhi (da ricordare però per intelligentissime campagne pro-lettura tramite banner giganteschi per tutta la città), El Sotano, Porrúa (e sicuramente dimentico qualcuna in più!).

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Mangia (bene) leggi (bene) sogna (meglio). 

Le cafebrerias di El Pendulo.

Simili o forse anche più fornite del Fondo de Cultura Economica, ecco quindi le librerie targate El Pendulo, o meglio le loro cafebrerias, librerie caffè che per programmazione, dettaglio e fornitura di libri farebbero impallidire qualsiasi tentativo nostrano di mischiare il pane e il companatico culturale. Immaginatevi una catena di librerie-caffè, con un teatro-auditorium dove ogni giorno suonano cantautori folk, o si presentano compagnie indipendenti, mentre tu te ne stai pranzo e cena ben serviti a mangiare prelibatezze messicane a la carte, huevos, enchiladas, hamburger con avocado, chiles rellenos, o un Manhattan a fine pomeriggio. Nessun possibile paragone. Anche qui, però, il mondo dei letterati, forse per snobismo forse per folla, non è molto visibile. Rimane solo lo straniero incantato che finalmente può leggersi un buon libro mangiando un buon pasto e bevendo un buon alcolico, tutto assieme, senza compromessi, fregature e specchietti per le allodole.

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Independencia Italiana.
Il caso della Libreria Morgana.

Città del Messico è una metropoli assolutamente à la page, la prima in linea retta ad acciuffare le mode newyorkesi e canadesi ed a trasformarle con il classico sincretismo messicano che rende spensierato l’arido concettualismo del design d’interni di bistrot e cafè e sushi bar: una città dove un ottico fa vernissage d’arte, un corniciaio ospita una galleria temporanea, un parrucchiere vende vestiti usati anni ’70, un fruttivendolo vende t-shirt di Banksy. Una città solcata da tensioni e rivolte, da continue manifestazioni e picchetti, da ventenni agguerriti e neo-zapatisti, da estudiantes enojados e femministe spunzonate di piercing dal collo tatuato e le braccia poderose. Ciononostante, non si trovano librerie indipendenti nella città, pensate cioè in quanto tali. Forse perché i luoghi di culto del libro sono esplosi ovunque e non necessitano di piccoli ricettacoli o santuari. Fioccano, quello sì, librerie dell’usato, ed anche ben condotte: ne prendi una a caso, entri e chiedi, come mi è successo, un’edizione in spagnolo di Carlo Coccioli, e ti dicono “Certo, Cossióli!” – così lo pronunciano – “abbiamo diversi libri suoi. Ricordo ancora quando scriveva nel El Excelsior in prima pagina, un eccentrico!” (Vai a fare la stessa domanda ad un qualsiasi libraio italiano e ti dirà “Coccioli chi?”).

Se dovessi pensare ad una libreria indipendente come io la intendo – la versione aggiornata della vecchia idea di libreria polverosa con il libraio ben assiso al suo centro, il genere di libreria dove il librario è quell’esperto jongleur di saperi con il quale approfondire sulle ultime uscite delle case editrici medio-piccole e magari fare un po’ di gossip cultural-letterario – non ne troverei di evidenti. O se dovessi pensarci bene, una l’ho frequentata, sebbene un po’ di traverso o ad uso e consumo accademico (ora capirete perché): l’unica libreria indipendente che in effetti conosca è quella curata da Clara Ferri, traduttrice e docente di traduzione alla Università pubblica, la Libreria Morgana di libri italiani, nella Calle Colima del quartiere Roma. La mia frequentazione è stata scarsa vuoi perché la full immersion latinoamericana mi imponeva l’acquisto di libri in spagnolo, dei Sada, dei Rulfo, degli Ibargüengoitia, vuoi perché spesso grosse casse di libri mi arrivavano dall’Italia, ad omaggio o in acquisto.

Il catalogo della Morgana è ben fornito, particolarmente legato all’aria di sinistra radicale (vedi ad esempio alla voce Wu Ming e il gruppo di scrittori attorno a Carmilla, in primis ovviamente Valerio Evangelisti) e sorprende l’attenzione per il contemporaneo – utile specie per i miei corsi di letteratura e seminari in città. Un punto di riferimento per docenti e italiani intellettuali residenti a Città del Messico – come i bravi giornalisti d’inchiesta Fabrizio Lorusso e Federico Mastrogiovanni – anche per un lampante impegno politico che li caratterizza e che li aggruppa con determinazione e brio.

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Passare alla Storia (e alle Lettere). 
Le biblioteche della UNAM.

Se volete invece incrociare Jorge Volpi, Fabio Morabito o uno stuolo di poeti, pensatori e filosofi messicani viventi il consiglio è quello di far un salto alla Biblioteca Central della Universidad Nacional Autonoma de México adiacente la Facoltà di Filosofia e Lettere. Oltre a vivere a pieno la gioventù messicana agguerrita, ridanciana, sensuale e attentissima sui libri di Ricoeur e Derrida, Negri e Bachtin, respirerete, affacciandovi dai finestroni, un po’ lo spirito del Bolaño di Amuleto, in un luogo che per estensione e valore è una vera e propria torre eburnea del pensiero latinoamericano che si scorgerebbe idealmente dalle terre europee d’oltreoceano. Un pomeriggio in Biblioteca e vi sentirete osservati come stranieri, accolti come amici e pensatori, inghippati in mille ragionamenti e suggestioni e attratti – se ancora ci sono – dalle bancherelle di libri usati che precedono l’entrata in Biblioteca e in facoltà.

Poi potete anche sdraiarvi sull’erba a leggere o semplicemente ad annusare l’aria tersa di certe giornate trasparenti non rare nella pur sempre inquinata Città del Messico, la grande spianata delle cosiddette islas farà al caso vostro – il consiglio è di affrontarle con una buona protezione solare, a dare un tocco di inadeguatezza particolare alle vostre pose d’intellettuale bianchiccio. Lì potreste tra l’altro incontrare anche il buon Eugenio Santangelo, magrissimo, col suo sguardo serio sempre pronto a farsi mutare dalla spinta di un sorriso sornione, uno dei fondatori della fu rivista underground bolognese Tabard e ora uno dei più ferrati esperti e ricercatori accademici su Bolaño in Messico e non solo. Poi vi volterete, farete dei passi indietro, e noterete che dietro Eugenio si staglia l’enorme e futuristico mural di Juan O’Gorman che ricopre le pareti della Biblioteca Central.

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 Fiumane ai festival nelle piazze storiche.
Il successo scomposto dei festival del libro

Fiumane di persone in tuta sportiva con berretti e cappucci da baseball, di anziani con le vene varicose, di giovani rasati ai lati delle tempie, di bambini obesi, attendono in fila per le strade del Centro Historico al mattino di una domenica qualsiasi: sotto ombrelli, sotto k-way, per la pioggia o per il sole, sventaglianti ventagli per il caldo arso e manducanti panini portati da casa: stanno aspettando di entrare dove? In un acquario? In un museo gratuito? In un’attrazione pirotecnica di massa? In una conferenza stampa di Jared Leto? No, in un festival del libro nuovo o usato! In uno di quei tendoni librari che si montano ogni mese nel Zocalo, la sterminata piazza centrale della capitale centrale, a pochi passi dalle rovine del Templo Mayor, oppure dentro al Palacio de Minerias. Oppure ancora, ritornando alla UNAM, nel giardino del campus, aperto anche la domenica per fare jogging, passeggiare, far pratica da principianti con l’auto, o andare al teatro, al ristorante, al centro d’arte contemporaneo MUAC (altre eccezionalità messicane, di cui ora non parlerò). L’osservatore straniero verrebbe a rompere l’idillio con le classiche domande di spocchia del tipo: “Sì, ma quanto leggono i messicani? Quanto sanno? Quanto studiano? Che tipo di educazione? Servono a qualcosa questi festival? Che tipo di scrittori vengono presentati?”.

Io guardo queste fiumane bizzarre venute ad adocchiare i libri, a volte di edizioni pessime, usato di bassa lega, altre volte di autori contemporanei e degne della più internazionale Fiera del Libro di Guadalajara, e me ne beo, lasciandomi alle spalle tutta la presunzione dottrinale e quantificante, e l’accademismo educato italiano e europeo. Queste file sono un bel vedere per uno che i libri li scrive e l’insegna: un segno di rispetto intellettuale involontario, che manca spesso in Italia, per chi magari non esce la domenica e sta sulle sudate carte e sente di essere sempre più marginato da una società dove tutti vogliono fare gli scrittori e gli artisti, mentre i governi negli anni tagliano fondi alla cultura, non esistono un sistema di borse di studio per artisti, e nessuno alla fine legge o va alle mostre d’arte contemporanea. Un’eccezionalità inversa, poco selvaggia, delle mie terre – con qualche recente miglioria visibile.

alemessico

A donde van los escritores?
Le cantinas.

Paola Tinoco è la rappresentante messicana della casa editrice Anagrama (che è quella di Bolaño, di Sada, di Mario Bellatin, di Bernhard, di Auster, di Tabucchi, ma anche di Calasso e Ammanniti). Ho conosciuto Paola tramite un amico poeta e gran bevitore che collaborava con la rivista Letras Libres. L’ho conosciuta al bar, non in libreria, o ad una presentazione di libri. Interrogata ultimamente da me sui luoghi letterari della città, ha sbottato con una sberla verbale: “Alessandro, pare che tu non abbia vissuto nella Colonia Roma, cazzo!” E si riferiva alle cantinas, ai barracci frequentatissimi da scrittori e intellettuali messicani. José “Pacho” Paredes, bassista storico del gruppo rock Maldita Vecindad, direttore del Museo El Chopo ed ex direttore della bellissima esperienza di festival internazionale di poesia Poesia en Voz Alta, anche lui cita le cantinas: “Gli scrittori e letterati messicani vanno nelle cantinas”, mi dice, “Fadanelli si vede spesso al ristorante Xel-ha nella Roma, molti vanno al Cafè Habana, quello dei poeti infrarrealistas, di Bolano, per intenderci”. Le poche volte che ho incrociato scrittori messicani li ho effettivamente incrociati “in borghese”, cioè svaccati a giochicchiare con le bottiglie e i tappi di bottiglia in una tavolata ridanciana. La Luiselli, Yuri Herrera, quando passano dal D.F., sicuro li trovereste in questi posti in compagnia di un Tryno Maldonado, di un Juan Villoro, di un Alberto Chimal.

E come sono queste cantinas? Degne se non peggiori di quelle spagnole, simili per certi versi, come quella che ho più frequentato, il Salón Covadonga (anche perché a 100 m da casa mia), a polverose balere incrostate di vecchia storia iberica, di nicotina, di suppellettili pigolanti in legno, o a volte tipo circoli ricreativi culturali ARCI toscani anni 70 con maxischermi per le partite. Gli scrittori le trovano autentiche, sbottonate, senza pretese, economiche (ma non sempre, vedi il menu del suddetto Covadonga che ti spella il portafoglio con cattiveria), vicine a quello spirito di desmadre e relajo che troviamo in Bolaño e che è tipico delle classi medio basse locali anche quelle che più si avvicinano alla bohème. Gli scrittori le preferiscono di gran lunga ad una rinfighettata libreria cool del francofono quartiere Polanco, o alle precedenti librerie del Fondo e del Pendulo, con i loro interni ben studiati.

“L’artefazione lasciamola nei libri”, paiono pensare e volere.

E qui si chiude, incompleta, brindando al martedì o al giovedì sera sotto indocili neon e amabili carcajadas (le risate fragorose dei messicani), la mappa esplosa della salvaje distribuzione dei luoghi e dei libri e delle loro passioni nella mia Città del Messico.

Consigliatissima per i palati e i globi oculari rinsecchiti di noi europei.

Swank oder Spass – Inediti

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Immagine5di Daniele Ventre

Incipit

Ma il compostaggio e il suo composto
era dopotutto il principio
della carreggiata alla fine
del mio principio e al principio
della mia fine e della fine
di tutto la coincidenza
degli opposti rimane
dietro la linea gialla
e perde il treno
-e ne era contento

* * *

ἐκλαλέοντ’ἀλαλοῦντες ἀπεκλαλέουσ’ἀποροῦντες

* * *

Metà-poesia à deux

La poesia del linguaggio enfatizza
il ruolo del lettore nel tirare
fuori dalla parola il significato
si sviluppa per certi versi in risposta
a ciò che un poeta considera l’uso
acritico dell’espressività lirica
del sentimento fra i precendenti
movimenti poetici negli anni Cinquanta
e Sessanta certi poeti seguirono
uno nell’uso della lingua degli idiom
piuttosto che l’uso del tono elevato
o del linguaggio scopertamente
poetico preferito dalla nuova critica
o quel che era certuni enfatizzarono
il discorso della montagna nera
(beati i poveri di vocabolario
perché vedranno il dio al neon
di Simon & Garfunkel sulle pareti
delle metropolitane e nei suoni
del silenzio e il pubblico colto
còlto dalla banalità della citazione
sarà còlto da un raptus di risa
o di nausea per l’autore incolto)
e le sineddochi e le metonimie
e i giochi di lingua e qui
si scivola nel pornografico

La prosa del non verbale minimizza
la marginalità dell’ascoltatore nel non capire
il significato dei gesti per sordomuti
e involve per certe righe come domanda
su ciò che un prosivendolo considera l’abuso
acrilico dell’inespressività antipoetica
del risentimento fra le antecedenti
stasi prosastiche degli anni Dieci
e Venti del nuovo secolo certi prosivendoli
seguirono l’abuso della neolingua
degli idiot-savants piuttosto che un minimo
sindacale che sapesse di qualcosa
o del non verbale copertamente
verbalizzato evitato dalla vecchia
acriticità o quello che altri minimizzarono
il silenzio della montagna incantata
[…and John Domini shot Frank Sinatra
and Túrelio shot Mother Teresa
and Mark Seliger shot Christopher Walken
and Loomis Dean shot John Wayne
and Jim Hendin shot Marvin Gaye
and Ron Edmonds shot Ronald Reagan
and Carl Van Vechten shot Orson Welles
and Marion S. Trikosko shot Malcolm X
and Andy Warhol shot Andy Warhol…
]
e il grado zero della scrittura
e la cintura di castità e qui
si infibula nel corno d’Africa

* * *

κικκαβαῦ κικκαβαῦ
κικκάκικκα κικκαβαῦ

κλαῖε τε καγχαλόωσ’ἀπέκαιέ τε θύματ’ἀρῶσα

* * *

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Non vi taccio la verità -cette n’est pas une imitation

no nonò nononò nonononò
no nonò nonno no nonnò
nonnò nonnò nonno no nonò
no vi no io vi nonnò no nonnò
no vi no io vi no nonno nonnò no
nonò nonò nonò nonò nonò
nonò nonò nonò non vi
non vita no nonò nonò non vita no
non vita ciò no non vita ciò
non vi taccio no non vi taccio
nonò non vita ciò nonnò
no non vi taccio no là ve’
no non vita ciò no non là
no non là non là ve’ nonnò
nonoò nonò nonò non vita
no vita ciò novità ciò non vita
novità non vita ciò nonnò no
ciò nonnò no ci ho nonnò no vita
novità non è non è novità no vita no
no vita nonnò no nonnò non vita
non vita ciò non vi taccio no vi taccio
no vita non ci ho ci ha non vita ci ha
non vi taccia non vita taccia no taccia
nota ci ha nonnò non taccia no
nonnò vi io vi no io vi no io non vita
non vita ci ho non vi taccio novità
no non là ve’ no non vita là
no nonò non vita novità non vi ta ci ho
non vi taccio non vita là ve’
novità non vita ciò non vi ta ciò là ve’
non vi ta ciò la ve’ rito non rito
no rito no nonnò non vita novità no
non vita non vile t’ha non vita ciò
non vile no non vi no non vi ni l’è
non vi ni l’è no non vile è no non vita
non vita è vile non vita ciò è vile no
non vita è vino no non vita vini l’è
vita no non vita vino l’è non vita
ciò non vi taccio là ve’ no rito
no rito no nonnò non vi no non vi l’è
non vile no non vino l’è no non vinile
non vinile no non vini l’è no non di’
no non no di’ nonnò no non di’ di’
no non no di’ novità no nonnò non vi
no non vinile no nonnò non no di’
di’ di’ scorie di’ scorie disco rie
no non vini l’è no no vinile disco
disco no non vini no non vi taccio no
non vi taccio no non vita ciò no non vita
no non vi taccio là ve’ ve’ no non rito
no non vi taccio là ve’ ritagli no
ritagli no non vita no non vi taccio no
non di scorie no non disco rotto no
no nonnò non disco rotto no non vi
no non vita no novità no non vita ciò
no non taccia no non vi è no non vi è
no non v’è taccia no non v’è taccia
no non vi taccio no non vitaccio non vi
taccio là ve’ non vi taccio là ve’ ve’ di’
ve’ di’ ve’ di’ vedi no vedi vedi no vedi
vedi vedi no non vita no non vita vedi
no non no di’ ve’ di’ di’ là ve’ di’ là ve’ di’
no non v’è di’ no nonnò non v’è di’ di’
non vedi no nonnò vedo no v’è non do
non vedi no nonnò non vita no non v’è
non v’è vita no nonnò non v’è no vita
non v’è novità non vita ciò non vita ciò l’è
non vi taccio la ve’ rito no, non vi taccio
vedi vedi vedi non v’è taccia non vi taccio
non vedi vedi non vedi no no non vedi non
vi taccio non vi taccio là non vi taccio
non vedi no non v’è taccia non v’è di’
non vedi no non vi taccio la verità

* * *
πολλὰ πάραντα κάταντά τ’ἄναντά τε δόχμιά τ’ἦλθον

lungo fu il viaggio, di su, di giù, per vie oblique e traverse

* * *

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That was silly, man!

-50. sarà forse un pentacolo rovesciato nella terra di flatlandia.

-49. sarà silenzio

-48. sarà un caos senza ordine -una folla opaca.

-47. sarà pura frammentazione -residuo fissile.

-46. sarà uno sciocco comportamento emergente.

-45. Il est un produit un produit du chômage -cherchez l’homme par les ages.

-44. Non sequitur.

-43. È Mumbay, Napoli, Lhasa.

-42. Perduto il pre-referente -e la preferenza –i’d prefer not toi’d refer not to.

-41. Principium individuationis – e pluribus plura.

-40. È urbano -come solo l’inurbano.

-39. È androgino.

-38. Era atteggiamento.

-37. Velo di Maya non sollevato.

-36. Non divide né condivide in assenza di lavoro.

-35. Toti-impotente.

-34. Impoetico.

-33. È inutilmente complesso -ma semplice si finge

-32. ricorda la perdita dell’oralità primaria con rimpianto ma senza tristezza -in ogni caso resta indifferente alle cartoline postali

-31. Su questo solo siamo d’accordo.

-30. Era una scoordinata indefinitezza sulla rete rotta del mutismo e dell’antropocene

-29. Vario ed eventuale -avventizio- comunque fittizio -abusuale

-28. È un’irruzione nell’inarticolato -con reuma articolare.

-27. Ha silenzi che coalescono appena alzi gli occhi e rimangono comunque anche se li riabbassi.

-26. Eppur si muove si parafrasa si riformula si rovescia, si calzina, io ti floro

-25. metaforizza e metà no.

-24. Nulla peraltro diverte -troppi convertono o convergono -avremo divergenze.

-23. Non pensa a divergere -converge.

-22. Svilisce il singolare -ma il collettivo non se ne giova.

-21. È più grande del Peloponneso e più piccolo di tutti noi.

-20. C’è un sentimento in questa classe? Is there a feeling in this class?

-19. Catene da perdere mondo da guadagnare e il tutto in leasing.

-18. Non è nemmeno il paradiso riguadagnato.

-17. Né considera l’odio come la prostesi oncologica del nostro contrattempo.

-16. Riconosce che la vita è deprivata ma non trova sufficiente motivazione per disapprovare o per approvare.

-15. È contrario al natio borgo a cui peraltro resta selvaggio e indifferente

-14. Anche volesse essere presidente, non conterebbe.

-13. la classe dirigente ha un culo di bronzo, avendo la faccia come il culo -calciarla è controproducente e comunque rotola come masso di Sisifo.

-12. Ricordava parole -per lo più ne ha ricavato insulti -o sberleffi -per lo più da ignoranti -o mediocri.

-11. Non parla più.

-10. Sarebbe etica del discorso -avesse un peso.

-9. È para-atattico.

-8. No -decisamente non è carino.

-7. Che cosa è storicamente necessario? Che cosa è storicamente? Che cosa è necessario?.

-6. Sottrae.

-5. Toglie -non legge.

-4. In principio era Vac (RgVeda).

-3. Tutto ciò che è reale non è razionale, ma potrebbe diventarlo quando meno te l’aspetti -sciocco.

-2. Un’immagine è un’immagine è un’immagine è un’immagine

-1. Non sostituisce una mona di monaca.

0. Positivo il fatto che lo zero sia un numero.

* * *

ἔκλαιον τ’ὤρυξαν ἀγάλμασι μορμώλυξαν

* * *

qualis rictus! qualis mictus!
qualis victus valedictus
vale salve domine

quale factum! male tactum
quale pactum! tepefactum
anonymo nomine

* * *

Non-explicit

è la stanza e la galleria
d’arte moderna che avvicina
per intenzione l’officina
e la scrittura del contempo,
non nella forma di una pura
apposizione attributiva
affiancando l’arte musiva
alla musica campionaria
però provando e riprovando
e dimostrando e rimostrando
(dimostrazione e rimostranza)
che infine quest’arte elusiva
e la musica del frattempo,
e la litura di ricerca
e la palla di guttaperca
nelle conversissime forme
sono fatte d’unica stoffa
d’una sola uguale domanda
e d’un solo unico pensiero
e però non si fa mistero
che ogni altra stoffa la si manda
al macero: e sarebbe chiaro
un carattere installativo,
gelato non performativo
un po’ preformistico forse

e gli impegni a termine medio
di liture e di palinsesti?
Ne vogliamo soddisfazione
prese e da prendersi in visione
È nel ventaglio di risposte
a domande poco previste
(o non sarebbero domande)
ad argomentari incompleti
(Goedel per certo ha i suoi divieti)
circa la lettera che vuoi
tu ma di cui non sento attesa
se quest’epica di ricerca
nell’epoca di guttaperca
per gramatica poco pratica
rimane elettricità statica

βρεκεκεκὲξ κεκὲξ κεκέξ

ἔκλαλε κωκύουσα ἁπεῖπέ τε αἰνὰ λέγουσα

κτε.*

_________________________

* Prima di tutto proscrissero la rima e l’allitterazione.
Io fui contento, perché scocciavano: difficili da trovare.
Poi proscrissero gli accenti di posizione.
Io stetti zitto, perché mi suonavano martellanti.
Poi proscrissero le sillabe di numero fisso.
Io ne fui sollevato, perché mi erano fastidiose da contare.
Poi proscrissero anche le cellule ritmiche.
Io non dissi niente: non ero un percussionista.
Poi proscrissero anche le parole,
perché nulla da dire era rimasto.

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Napoleone e la meglio gioventù

1

-1

di

Francesco Forlani

Adio, adio, Cjasarsa, i vai via pal mont
Mari e pari, ju lassi, vai cun Napoleon.
Adio, vecju paîs, e cunpagns zovinuts,
Napoleon al clama la miei zoventût

Il soldàt di Napoleòn- Pier Paolo Pasolini

 

Il protagonista dell’ultimo romanzo di Vittorio Giacopini non lascia Casarsa, evidentemente, ma Grenoble, e non da semplice soldato ma come geografo di gran talento, sospeso tra “la tavola” e il “globo”, innamorato del disordine naturale dei rilievi. Sarà il talento a condurlo dritto al Generale che lo vuole con sé per  la Campagna d’Italia. Prima viene la mappa, indi l’azione.

Molti sono gli interrogativi che questa Éducation Sentimentale e, aggiungiamo noi, politique dispiega con l’avanzata dell’esercito e degli ideali rivoluzionari che il Generale incarna, prima di sottometterli alla propria persona e dunque sconfessarli con il potere. Serge Victor il nome che richiama l’anarchico Victor Serge  – del resto Giacopini ha scritto forse uno tra i più bei libri su Malatesta qualche anno fa, Non ho bisogno di stare tranquillo – è un anarchico. Lo è nella maniera di affratellarsi, entrare in empatia con il vivere fino in fondo le proprie rêveries nonostante la presenza costante di una macchina, la rinomata papera meccanica” che gli è stata data in dotazione per esplorare nelle città nemiche il grado d’insurrezione, misurare la temperatura del complotto, insomma spiare le piazze facendosi passare per un saltimbanco.  Serge è davvero l’interprete di una bella gioventù prodotta dall’âge des lumières votata a un sapere costruito grazie alla grande lezione di universalità dellEncyclopédie,  che diventa nel non più giovane antieroe la vera arma di sopravvivenza allo scacco della storia.

In un paesaggio letterario che sembra da anni dominato da una critica cartografica divisa tra letteratura della lingua, dove in genere succede poco che non sia nel testo, e quella di una fiction dove la marchetta al lettore impone una narratività dei fatti avant tout e con una lingua neutralizzata e asettica, la prova di Vittorio Giacopini è una boccata d’ossigeno; la sua prosa è un’esplosione polifonica e perfino audace a partire dalla ricreazione di una lingua in grado di farci sentire dell’epoca tutta la sua vitalità. Sarebbe riduttivo definire “La mappa” un romanzo storico soprattutto per la maniera in cui il lettore si lascia portare grazie a un passo di scrittura e a un ritmo incalzante in paesaggi mentali che è difficile confinare in una storia o addirittura in un solo continente. In questo Vittorio Giacopini si comporta, da autore, come il suo protagonista quasi raccogliendo l’eredità di Jacques Élisée Reclus, grande pioniere nella disciplina che amava dire di sé: Geografo, ma anarchico.

La  mappa è un omaggio alla geografia politica,  a una geografia provvisoria e allo stesso tempo perenne. Cambiano solo le linee di demarcazione, le frontiere, che si spingono oltre attraverso conquiste o che indietreggiano con le sconfitte, mentre quello che è al di qua o al di là non muta. Serge Victor mi ha fatto pensare ad un tipo incontrato a Parigi che, poco prima del crollo del muro di Berlino, aveva investito tutti i suoi soldi della liquidazione in un mega acquisto di mappamondi; globi nuovi di fabbrica che sarebbero diventati nel giro di pochi giorni cartastraccia. C’è un’illusione commovente e tragica dietro ad ogni geografia ma nessuno meglio di un geografo o di un romanziere, la potrà mai sapere.

da La mappa (pp 90-93)

di Vittorio Giacopini

Così era iniziata quella fantasia di notti interminabili, un pellegrinaggio dei sensi e della mente capace di scancellare ogni altra cosa annullando la pazienza dei giorni avviliti e avvilenti dell’assedio. Niente pendole a battere le ore (adesso soltanto loro, in esclusiva); niente – orbe – meridiane né clessidre. Il tempo c’era e già non c’era più: era sconfitto. Vivevano di dilatati istanti, attimi eterni. Tutta questione di ritmo, se vogliamo. Li guidava l’intelligenza muta di un istinto e una sapienza del corpo, mai provata. La perduta memoria della pelle, ritrovata; una specie di alchimia, senza alambicchi. Inoperosa, poltriva la papera ai piedi del letto; inutili, vestiti e biancheria giacevano abbandonati sull’unico seggiolino o sul pavimento. Un uomo e una donna nudi, quanto basta, e i loro sospiri, sussurri, sbuffi, gemiti, orgasmi. Mappe questa volta soltanto tattili, da ciechi. Percorsi e sentieri e strade di altra natura da perlustrare, curiosi, con altri gesti. Carezze, leccate, succhiate, spinte, sfioramenti, baci e slinguate a seguire curve sinuose o spigoli sulla pelle sino a scoprire punti delicati e reattivi, nei segreti, macchie e voglie e lentiggini, efelidi. Misteri della carne, senza mistero; tutta una geografia del desiderio. L’albore diurno che si annunciava col contrappunto del primo canto, discreto, degli uccelli, poi con lo stentato pallore dell’inverno, poteva sorprenderli a scopare o a parlare, mai nel sonno.

Due opposte reticenze e una complicità ancora da inventare, da costruire. In missione segreta, Serge Victor avrebbe voluto raccontarle ogni cosa di sé, aprirle il cuore; glielo impediva il ricordo, severo, di Saliceti (rigido geco nemico di ogni maga, di ogni sirena) e una visione, vaga, del suo dovere. Dal canto suo, lei non era da meno, l’indecifrabile. Tutta un «non chiedermi questo», un «non chiedermi quello», «sta’ tranquillo». Tutta: «Un giorno te lo dico; forse un giorno». Forse un giorno. Donde venisse, per dire, restava avvolto da un alone, sfuggente, di mistero, e quanto al nome le andava bene Zoraide, concedeva, e non era importante averne un altro (ma un altro doveva pure averlo, pensava Serge, e lei faceva: «Sì, un giorno te lo dico, forse un giorno»).

Sui suoi compagni di viaggio, la Maga si mostrava decisamente invece più ciarliera. Stavano insieme da un paio di mesi, a dire tanto; s’erano conosciuti in Svizzera, a una fiera. Mangiafuoco, il capo della banda, il truce Agorante, le si era presentato come Emir – serbo giramondo, ex mercenario, ora aspirante comico, teatrante. Quanto al biondino, Guenter, era l’amichetto di quello («Che c’è di male?»), il suo compagno. Tedesco di Baviera, pareva tanto un caro ragazzo, un agnellino, ma in verità era un temibilissimo lanciatore di pugnali e coltelli, un assassino. Chi avesse ucciso, e per quale cagione, restava incerto. «Mi ha raccontato che lo stanno cercando e se lo trovano gliela faranno pagare con la pelle, ma tanto non lo trova- no, lui è furbo. Poi hai visto come recita? È un portento.» Di sé ammetteva di essere orfana di madre, dalla nascita, e di avere un padre scombinato, te- sta per aria (nota che a Serge poteva anche suonare confortante).

«S’è ritirato a vivere in una specie di rocca-monastero, giù in Liguria. Sta sempre al santuario, scruta le stelle o Dio solo sa cosa. Un giorno ti ci porto, te lo presento.»

«Mi farebbe piacere. Dopo la guerra, però, dopo l’assedio.»

«Tu non starci a pensare, finisce presto.»


«Lo credo anch’io, ma è tutto fermo, adesso, tutto ristagna.»

«Meglio per noi, non trovi, francesino?»

«Meglio d’accordo, sì, ma poi per quanto?»

«Che domanda cretina; non ci pensare. Le cose durano quello che devo- no durare; quando finiscono, dovevano finire; se finiscono.»

vittò

Poi lo inchiodava alle sue curiosità, vizio di donna. Senza potersi pronunciare sui caratteri veri della sua missione – e a parte che di giacobini, qui, neppure l’ombra, nonostante l’affaire ancora irrisolto dei volantini –, Serge non chiedeva di meglio che accontentarla. Per la prima volta gli capitava di raccontarla a qualcuno, la sua vita, piuttosto che subirla, confusamente, o ancor peggio starcisi a tormentare su, senza costrutto. Gli anni di Grenoble e il caro ricordo del nonno, la montagna e il disegno, la matematica, le angherie di un padre codino, della matrigna, le lezioni gesuite, la passione per le carte, la geografia, e infine l’avventura guerresca – ancora in atto –, l’incontro col Generale, con Saliceti. Tutto d’un tratto scopriva di averne di cose, da contare, e mica cose da niente, irrilevanti. Nuda sul letto, capelli sciolti e certo più incline all’ascolto che alle confessioni, Zoraide se lo stava a sentire, tutta presa. «Parla ancora; mi piace da matti il suono della tua voce, quello che dici.» Lui altro non domandava, e con stupore si scopriva insolitamente ciarliero. L’amore è anche questo, pensava, un Grande Orecchio. Più che di Napoleone e delle battaglie, la Maga sembrava ansiosa di sapere proprio tutto del suo mestiere di ingegnere-geografo e di cartografo.

«Insomma disegni paesaggi? Che diavolo fai? T’ho sempre visto soltanto con la paperella scema, sai com’è.»

«No che non disegno paesaggi, non è questo. Lavoro sull’astrazione, sulle essenze. Della natura m’interessa semmai lo schema segreto, semmai il fantasma. La Geografia» e citava a memoria chissà qualche manuale o sussidiario, «la geografia, vedi, non attende a disegnare o dipingere la propria forma d’alcuna parte o luogo del mondo, se non quanto importa a mostrar la figura de’ suoi contorni. Per esempio in una palla o tavola di Geografia universale, o particolare, mettendo l’Italia, il Geografo la farà nei contorni di forma quasi d’una calza, o d’una gamba, con la sua coscia.»

«Bella, mi piace: una forma di gamba, con la sua coscia; una calza di seta, uno stivale…»

«Dai, non scherzare.»

«Attento: questo lo dico io, bel francesino.»

«Non sto scherzando.»


«Stavolta lo vedo da me. Ma in generale…»

«Lavoro sull’astrazione, sulle essenze.» Per non farsi trascinare via giù dalla corrente, si nascondeva dietro una regola e un metodo, una posa. Trasporti erotici e struggimenti di cuore, palpitazioni, mai confessate ombre di gelosia: doveva darsi un tono, darsi un contegno. Ma erano momenti senza pari, senza confronto, e la luce del giorno – coi suoi impegni – era solo una pausa tra due oblii. Gelide, grige, spente, stremate dall’assedio, tramortite, le strade mantovane erano sempre lì, indifferenti, scenario ormai ristretto, troppo angusto. Piazze che una volta avevano visto scambi fiorenti e giorni di mercato, carnevalate, processioni votive e parate di gala, sfilate in armi, ora intristivano semideserte e mogie nell’inverno. I vapori dai laghi, le brume del mattino, certe volte la nebbia, come una cappa, davano almeno un tono più uniforme e aggraziato a quella scena che poi i raggi del sole smascheravano in tutta la sua squallida mestizia. Intabarrato come un cospiratore illuso da operetta, Serge Victor vagava a lungo nelle vuote mattine di un Nevoso senza neve. La paperotta, ormai, oziava in camera inerte ai piedi del letto sfatto dove Zoraide continuava a dormire e a sognare – beata lei –, e anche gli zingari avevano rinunciato a esibirsi. Soltanto i ratti – topi di fogna e sorci di campagna e pantegane – si ostinavano a uscire allo scoperto ma ogni giorno era peggio, anche per loro. Pochi rifiuti e avanzi, rari scarti.

Il romanzo di Vittorio Giacopini “La mappa” (edizioni Il Saggiatore) verrà presentato – sabato 14 marzo alle 20 – all’Officina3 nell’auditorium del Parco della musica di Roma (Viale Pietro de Coubertin). Illustra l’opera, dialogando con l’autore, il critico letterario Filippo La Porta.

L’esercito di cenere

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di Matteo Moca

“Era un brutto giorno per morire”.

Così si apre L’esercito di cenere, il romanzo di José Pablo Feinmann pubblicato da SUR con la nuova traduzione di Francesca Lazzarato. E questo è uno di quei casi in cui l’incipit, se riletto a fine del romanzo, illumina tutto il testo e, retrospettivamente, lo ha già realizzato. La storia di Feinmann è una storia di morte, una morte che assume ogni volta una sembianza diversa ma che si presenta vivida in ogni istante della vita dei protagonisti. Diversi tra loro moriranno, ma non è solo questo, si tratta di un presentimento di morte che si respira, un senso di sofferenza che si dilata tra tutti gli interstizi delle pagine, come un veleno che si vaporizza e si espande, divenendo inarrestabile (le parole del tenente Quesada sono un triste manifesto: “L’ho ucciso perché era un vecchio arrogante e vile” oppure “L’ho ucciso perché mi annoiavo” o, ancora, “Il mio destino aveva bisogno di una morte”).

Nel 1828, duecento soldati guidati dal misterioso colonnello Andrade, cavalcano in mezzo al deserto, sconvolti dal caldo insopportabile, dalla marcia forzata e dalle tempeste. L’ordine di partire è arrivato dalla Buenos Aires messa in subbuglio dalla morte del governatore Dorrego; le nuove forze (salite al potere, ricordiamolo, attraverso un’uccisione) credono che per governare lo stato sia necessario sconfiggere la barbarie, impersonata dal metafisico nemico Angel Medina, demonio più temibile di tutto il deserto, che da servitore dello stato si è trasformato in brigante, ladro di bestiame e saccheggiatore di villaggi. Eppure il nemico è molto altro, tant’è che non appare mai se non in una notte senza luna: è il simbolo di un male informe che necessita di essere allontanato per sempre. La marcia capeggiata dal colonnello Andrade (e guidata da un personaggio meravigliosamente creato da Feinmann, il cercatore Baigorria, bussola umana nel deserto, sconfitto anch’esso dall’incertezza del nemico e dall’impossibilità di seguire le sue tracce) diventa un corteo funebre, un Esodo senza una direzione ma, laddove nel testo biblico si fuggiva dalle violenze del Faraone egizio in cerca della terra promessa, qua si muove da un luogo relativamente sicuro (il forte nel deserto) verso la morte, guidati da un Mosè al contrario che non risparmia neanche i suoi uomini.

E la morte e la violenza esplodono nel passaggio da una fattoria recentemente devastata dalle truppe del nemico: “L’odore della devastazione copre ogni cosa. Il nemico lascia solo putredine al suo passaggio. […] Appesi agli alberi, impiccati, apparvero i primi corpi. C’erano più cadaveri che alberi, anche perché gli alberi non erano molti. […] Era così perché in quel deserto niente cresceva con facilità. A parte i morti che pendevano dagli alberi come una fioritura mostruosa, pestilenziale”. In questa devastazione fa la sua apparizione una bambina costretta dagli uomini di Medina ad assistere al massacro della sua famiglia e lasciata viva perché questa paura possa continuare a vivere; muta per lo spavento, il colonnello Andrade deciderà di prenderla con sé facendone la sua confidente afasica ma appassionata, a cui apre il cuore con candore quasi infantile. Ribattezzata Armida, come la maga musulmana bellissima e migliore fra tutte, diviene emblema dell’intelligenza, testimoniando la speranza che la devastazione e la barbarie non riusciranno ad eliminare tutto, che un fondo di civiltà rimarrà sempre. Tuttavia nel fatidico incontro con le truppe di Medina anche lei perirà, dando il colpo di grazia al colonnello Andrade già uscito di senno a causa della marcia infinita. In questo scontro rarefatto e trascendente, a sfidarsi non sono solo due eserciti ma l’inumano e la civiltà o meglio i barbari e chi i barbari li vuole far fuori. Il vero cortocircuito epistemologico (che sta poi alla base anche del sentimento contro la guerra in generale, che traspira dalle pagine del romanzo) è che qui l’inciviltà e la violenza vengono combattute con le loro stesse armi, cioè con la guerra. Questa tautologia colpisce più di chiunque altro il colonnello Andrade che, partito per la sua missione, è il primo ad avvertire la vanità di questa dialettica, rimanendone irreversibilmente colpito.

Qui sta anche il significato dell’operazione quasi microstorica di Feinmann: parlando di questo inseguimento e di questa lotta marginale a tutto quello che succede nella capitale argentina, illumina il grande dramma sudamericano, consegnandogli nuova luce e nuova interpretazione (non è secondario il fatto che Feinmann sia editorialista politico per il quotidiano di Buenos Aries Pagina/12).

Lavorando un po’ per comparazione sono almeno tre i testi che vengono in mente come antecedenti o semplici spunti per questo romanzo: due di questi (Il deserto dei tartari di Dino Buzzati e Moby Dick di Herman Melville) sono esplicitamente nominati dallo stesso Feinmann nella felice nota dell’autore in coda al romanzo, l’altro, Meridiano di sangue di Cormac McCarthy, invece è frutto di un accostamento personale). Per quanto riguarda il romanzo di Buzzati, l’accostamento appare immediato anche se, come sottolinea Feinmann, con una differenza fondamentale. Laddove i soldati del sottotenente Giovanni Drogo sono gettati nel buco nero del nulla da un’attesa e una staticità che non culmina mai nell’avvenimento che aspettano, qua la truppa di Andrade agisce, insegue questo nemico da sterminare che però non appare mai. Più pregnante invece il confronto con il capolavoro di Melville, potendo ricreare in tutto e per tutto la quadrangolazione che vive nel romanzo dell’imprendibile balena: il colonnello Andrade è chiaramente paragonabile al capitano Achab, guida della folle impresa di cattura, entrambi rosi dalla “idea incurabile” della sconfitta del nemico; il tenente Quesada è un novello Ismaele, narratore di questa lotta; il deserto metafisico privo di qualsiasi riferimento è il titanico mare che solca la nave Pequod; e il male assoluto, quello che si cerca in ogni modo di combattere (umanizzato nella figura di Angel Medina) è la demonica balena bianca, colei che, nel disegno di Melville, si vede sempre trionfante.

E poi c’è l’ambientazione in sé, sospesa tra il western e le atmosfere da romanzo d’avventura, permeata però da un senso di trascendenza che rende inafferrabile la geografia del luogo o quantomeno impedisce di disegnare confini netti alle dune del deserto, alle mura dei fortini e ai vicoli di Buenos Aires. Questo viaggio/vagabondaggio è il nucleo anche dell’opera di McCarthy, dove i cacciatori di scalpi guidati dal capitano Glanton si muovono allo stremo delle forze tra paesaggi torridi e desolati al confine tra Stati Uniti e Messico: “Cavalcarono e cavalcarono, e a est il sole accese pallide strisce di luce, poi una colata più marcata di un colore come di sangue che mandò verso l’alto raggi improvvisi allargandosi sulla pianura, e là dove la terra defluiva nel cielo, ai margini del creato, il sole spuntò dal nulla come la testa di un grande fallo rosso fino a uscire completamente dal bordo invisibile per accovacciarsi alle loro spalle, pulsante e ostile”.

Sembra di rivedere i paesaggi di Feinmann, la truppa del colonnello, sembra di vedere, anche qua, la trasposizione violenta del male dentro la natura e il sempre vano inseguimento della civiltà da parte dell’uomo.

Al parco

0

di Elisabetta Scantamburlo

al parco

Avevo una cotta per Gabriele, il ragazzo dai capelli rossi della classe vicina alla mia. Anche Valentina, mia compagna di classe, aveva una cotta per lui. Nessuna di noi due lo ammetteva, ma entrambe lo sapevamo. Quel pomeriggio di inizio maggio le nostre due classi avevano organizzato un incontro di pallavolo al parco. Ecco l’occasione per parlargli, per ridere insieme, per piacergli. L’occasione per capire chi di noi due avrebbe avuto la meglio alla resa dei conti. Avevo messo la maglietta più carina, il pantaloncino corto, ma non troppo, avevo fatto la coda di cavallo che mi stava tanto bene, diceva la mamma, e che non portai più. Ero pronta a volare al parco, già la porta di casa alle mie spalle. Se esci ti porti tuo fratello. La voce di mamma. Non feci in tempo a dire ‘a’. Alla mia espressione sconsolatamente ribelle, mia madre rispose con il suo solito sguardo deciso e risoluto, un verdetto senza possibilità di appello. Affrettavo il passo verso il parco, la coda che sbatteva a destra e sinistra, trascinando per la mano il mio fratellino.
Il parco era più verde del solito, l’estate sembrava appena esplosa, in anticipo. I rami alti e imbottiti di foglie erano un muro soffice che separava all’improvviso la città di macchine e palazzi da una tavolozza fatta di verdi di tutte le tonalità, che diventava di volta in volta per i suoi piccoli visitatori una savana per la caccia, una foresta selvaggia che nascondeva tesori da svelare, una palude da cui i pirati erano fuggiti abbandonando una barca. Bambini giocavano a rincorrersi, mentre le mamme sedute parlottavano accavallando le gambe sulle panchine verdi. Altri bambini salivano e scendevano dal trenino, coppiette contavano i fili d’erba, adulti solitari correvano per i viali, il solito vecchio del chioschetto vendeva gelati e bibite fresche. Tutto era sempre lo stesso, una girandola di colori, un ciclo di vita che proseguiva identico a se stesso e che dava sicurezza. Vicino al chiosco stavano i miei compagni. Tra tutti, eccola la testa di lui, spiccava come se illuminata dall’alto, di un rosso bellissimo. Lei invece, Valentina, non c’è ancora. Non potevo perdere l’occasione e mi avvicinai con la timida speranza di potergli parlare. Mio fratello mi tirava il braccio, voleva salire sulle giostre. I giochi per bambini si trovavano dall’altro lato del chiosco, non così vicini, ma facilmente visibili. Gli dissi di sì, che poteva andare, e di stare attento. Poi mi giro. E poi lui che mi chiede se è mio fratello. E noi che iniziamo a parlare e forse io che arrossisco un po’ all’inizio. E io che più per l’imbarazzo che per la responsabilità mi giro alla terza parola, verso il fratello che corre verso le giostre. Poi alla decima. E mio fratello è sull’altalena. Poi non mi giro più per non so quante parole. La girandola di verdi, profumi di fiori e pollini, di brezze leggere, è entrata nella mia testa. Volano farfalle e sbattono foglie di tutti i colori, le voci intorno diventano un sottofondo lontano. Lontano.

All’improvviso mi ricordai che anche mio fratello era diventato lontano. Mi girai sicura di vederlo dove l’avevo visto l’ultima volta, sulle scale dello scivolo o sull’altalena a farsi spingere da quella bambina dai capelli lunghi, per rivoltarmi subito verso il volto che mi incantava. E, poi mi rigirai di scatto, perché no, mio fratello non era né sullo scivolo né sull’altalena. Mi voltai di nuovo immediatamente, cercando la sua piccola sagoma sugli altri giochi. Nemmeno. La mia testa come una piccola trottola che andava su e giù, all’improvviso si fermò immobile. Le altalene, le corde, gli scivoli diventavano sempre più grandi. Non mi ero accorta che stavo correndo verso di loro. Così, all’improvviso, senza dire niente mi ero lanciata lì. Non era possibile. Mio fratello non era lì, su nessuno dei giochi, né nello spiazzo che li conteneva, né girandomi tutto attorno sull’erba che circondava l’area e che si espandeva per tutto il parco. C’erano ancora dei bambini, non più la bambina dai capelli lunghi. Chiesi a tutti, nessuno sembrava avere notato la sua presenza e quindi nemmeno la sua assenza. Il parco divenne in un attimo un deserto arido e sconfinato che non sapeva darmi appigli, suggerimenti sul dove guardare, dove correre, dove cercare, dove urlare. Perché l’avrei trovato, sì ne ero certa, non poteva che essere che così, ma avevo tanta voglia di urlare il suo nome. Di urlare e basta. Il ragazzo dai capelli rossi, gli amici, non esistevano più. Ero in un deserto verde in cui esistevo solo io e la mancanza di mio fratello. La mamma. Cosa avrebbe detto la mamma. Cosa avrei detto alla mamma. No, l’avrei trovato. Stava sicuramente giocando e voleva farmi uno scherzo. Che mi stava spaventando a morte. Perché lo chiamavo. Lo chiamavo ancora e ancora, ma non c’era risposta. Le voci dei bambini che incredibilmente continuavano a giocare come se il mondo fosse rimasto lo stesso, diventavano un amalgama indistinto di suoni, lontano. Una parola. Una parola usciva distinta e sembrava essere la sua voce. Mi giravo verso la direzione da cui proveniva e sulle macchinine che giravano in tondo tante piccole teste vorticavano ridendo, tutte differenti e tutte uguali, perché nessuna di loro era la testa di mio fratello. Iniziai a correre. Il prato verde dove il sole giocava con l’ombra sfumò presto in un bosco buio, dove alberi antichi insinuavano le loro grosse radici nella terra come mani che nascondono nel fango. Il laghetto che celavano era uno specchio scuro che tratteneva il fiato. Il riflesso sulla superficie densa era più reale del reale. Avrei voluto tuffarmi per cercare lì dentro. Ripresi fiato e corsi ancora su per i gradini di roccia. Un odore di cantina, di vecchio, mi avvolse, come se fossi entrata, eroina coraggiosa, in un antro mai esplorato, per salvare il mio fratellino dalla strega cattiva.

Ma non era una favola. E nemmeno un brutto sogno. Avevo perso mio fratello. Ma come si può perdere una persona? Si perdono le chiavi, gli occhiali, ma una persona, che respira, parla, vive? Era assurdo. Sempre di più nella mia mente si concretizzava la sensazione dura e amara: avevo perso la vita di mio fratello. La mia testa, i miei occhi velocissimi, frugavano tra i rami e nei sentieri che si aprivano, incrociavano, sparivano nel verde sempre più scuro. Tra i sassi delle rocce, le conchiglie imprigionate sembravano palpebre chiuse. Di mio fratello. E invece no. Più in alto l’ombra di un profilo. Eccolo. Nemmeno. Era il busto di un qualche personaggio storico che ignorava il mio sguardo con antica alterigia. Acqua, sembrava dirmi. Correvo, e i miei occhi più veloci di me, davanti a me, e le mani che cercavano di acchiappare l’aria, non so se nella speranza di correre più veloce o di stringere quello che cercavo.

Mi riavvicinai al prato dove prima si trovavano i miei amici. Erano spariti. Quanto tempo era passato? Anche le mamme non c’erano più. Solo qualche vecchio con un cane a passeggio. Il silenzio aveva preso il posto di quel coro lontano di vocine sottili, ma faceva molto più baccano nelle mie orecchie. Una sottile brezza muoveva le foglie degli alberi. Mi infastidiva, mi impediva di sentire la sua voce, se per caso mi stava chiamando. Il chiosco aveva chiuso, ma fuori era rimasto il cartello con la lista dei panini. Mi parve di leggere il suo nome in quell’elenco. Mi guardai attorno, immobile. Ogni minimo rumore, ogni piccolo movimento mi urtava dolorosamente, perché non era suo. Mentre io sprofondavo in un verde che diventava sempre più cupo, mi resi conto per davvero che non stava giocando. Mio fratello era sparito. Nella mia mente tutti i perché, i dove, i come prendevano forma senza diventare parole. Tutte le paure si concretizzarono in un mal di pancia acuto, che da allora mi stringe lo stomaco ogni volta che entro in un parco.