Denegazione (ted. Verneinung) In psicanalisi, il procedimento usato dal soggetto per impedirsi di riconoscere un desiderio che invece ha prima affermato; S. Freud vi scorgeva l’affermazione difensiva del rimosso. (Enciclopedia Treccani)
Nevicava stamattina a Salonicco,
la prima neve, non destinata a durare;
mentre il tempo meteorologico
nel resto dell’Europa è nella media: freddo
Nel Ritratto di giovane donna (2008) di Giorgio Magister, la dama ha i capelli raccolti da una fettuccia nera, il caschetto, le labbra e il naso rilevati, lo sguardo egizio, il collo lungo su spalle strette che s’aprono in un seno ampio, un libricino tra le dita. A sinistra, sulla tela, un insetto, forse una piccola libellula. La bestiola, da sola, toglie equilibrio alla figura, storna l’attenzione di chi osserva. Infastidisce. Quasi come una mosca. La donna del ritratto riesce a ignorarla, sì, ma ancora per quanto?
Secondo Leopardi la “natura” è crudele e la teoria evoluzionistica darwiniana non ha fatto che confermare questo sospetto, quello di un grosso meccanismo continuamente stritolante, dove ogni tassello non ha nessun altro interesse se non quello di badare a se stesso, pensare alla propria sopravvivenza. È davvero così? Perché, allora, esiste l’empatia, come mai gli uomini (alcuni fra loro) tendono a far comunità, ad aiutarsi reciprocamente? In parole semplici, l’uomo è un animale individuale o sociale? Abbiamo posto queste domande a Telmo Pievani, filosofo della scienza ed epistemologo, grande conoscitore delle teorie evoluzionistiche che ci ha parlato di nuove frontiere, nello studio della nostra storia di uomini, di una selezione, operata a livello macro-individuale, fra gruppi, che tenderebbe a favorire gli individui cooperativi, a fare in modo che siano proprio loro (in apparente contraddizione con quanto sostenuto da Darwin nel suo L’origine della specie, 1859) a resistere nel tempo come modello vincente.
Parto con una domanda a bruciapelo: Homo sapiens è una specie individuale o sociale?
Non c’è alcun dubbio su questo punto: siamo una specie fortemente sociale. Dobbiamo la nostra fortuna, il successo demografico e quello evolutivo, che ci ha portato fin qua, alla socialità. Il problema è che si tratta di una socialità ambivalente. Non è una socialità che ci fa essere buoni e solidali con tutti. Quello che viene fuori dalle ricerche è che siamo capaci di grande cooperazione all’interno del gruppo in cui ci riconosciamo, ma esiste un rovescio della medaglia, quello che ci porta ad essere sospettosi, e talvolta aggressivi, nei confronti di chi non fa parte del nostro “noi”.
Quindi si creerebbe una sorta di competizione fra gruppi?
Esattamente. In base a quello che sappiamo, Homo sapiens da tantissimo tempo è una specie organizzata in piccoli gruppi, composti da una manciata di nuclei familiari, che formano unità che vanno dai 25 ai 150 individui. Ovviamente, ogni gruppo combatteva per la sopravvivenza, competeva per affermarsi. Quindi si rivelava per il singolo molto vantaggioso fare parte di un gruppo solidale, compatto e coeso al suo interno: le possibilità di sopravvivere, di ottenere risorse e di diffondere i propri caratteri aumentavano proporzionalmente. A questo punto si capisce come sia il gruppo a fare la selezione, operando in direzione di individui maggiormente cooperativi.
Mi spieghi meglio questo punto.
Immaginiamo che all’inizio vi fossero tanti piccoli gruppi, dove sono mescolati individui con atteggiamenti rivolti più verso i propri interessi e altri più tesi alla cooperazione, al benessere della comunità. Cosa hanno potuto verificare gli studiosi? All’inizio nulla di stupefacente: all’interno del gruppo, gli “egoisti” tendono ad aumentare, secondo le previsioni della selezione darwiniana, che privilegia gli individui più abili nel fare i propri interessi singoli. Ma in un secondo momento la situazione tende al ribaltamento: questo perché i gruppi dove prevalgono i generosi e gli altruisti hanno più chance di successo come gruppo. Quindi, se gli egoisti prevalgono numericamente nel corto termine e dentro il gruppo, poi, in virtù della selezione fra gruppi e dell’espansione demografica dei gruppi con più cooperatori, alla fine gli egoisti si ritrovano in minoranza e non prevalgono.
La cattiveria, mi conceda questo termine, c’è sempre, quindi, ma spostata, decentrata dall’io e rivolta al noi.
I termini di bontà e cattiveria non fanno parte del linguaggio degli scienziati. Sono giudizi morali. Quello che la biologia ci dice è qualcosa se vogliamo di un po’ frustrante, ma anche più corretto: noi siamo per natura ambivalenti. Non dobbiamo cercare nella natura se siamo buoni o cattivi. Siamo entrambe le cose. La scelta dipende da noi, dallo scarto umano di innovazione che siamo capaci di produrre. Siamo figli dell’evoluzione biologica, ma anche una specie capace di scrivere la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, il cui contenuto è profondamente contro-selettivo. Questo significa una cosa sola, che noi siamo capaci di creare innovazione, di produrre comportamenti inediti rispetto all’evoluzione passata.
L’altruismo sfugge quindi a qualsiasi inquadramento biologico. È un surplus, il figlio illegittimo della natura?
Direi di no. La parola “altruismo”, in natura, vuol dire due cose: c’è l’altruismo con reciprocità, che ti porta a comportarti in modo altruista perché sai che avrai una ricompensa immediata. Le leonesse cacciano in gruppo, è vero, ma perché sono consapevoli del fatto che in questo modo hanno molta più probabilità di raggiungere prede grosse e dunque più cibo in media. L’altra faccia della medaglia è più difficile da spiegare: Homo sapiens – ma anche altre specie di primati, come gli scimpanzé – è capace di comportarsi in modo altruista senza aspettarsi una contropartita, almeno non nell’immediato. La selezione di gruppo fornisce qualche risposta in merito: l’individuo rinuncia in parte ai propri interessi in virtù di un benessere più grande, quello del gruppo, che poi porterà un vantaggio a tutti, compresi i singoli.
Ma come si spiegano quelle utopie che mirano al benessere di tutti i gruppi? Dov’è il nemico in questo caso? Quale pressione esterna li spinge a spendersi per quegli ideali più alti, universali?
L’evoluzione biologica fornisce delle potenzialità, fa sì che siano possibili certi comportamenti. La logica del gruppo spinge l’individuo a rendersi conto che, rinunciando momentaneamente al proprio interesse, può ricavare un vantaggio per il futuro. Poi la specie umana, quando ha interiorizzato un comportamento, tende a generalizzarlo. È quindi possibile che la nostra mente sia capace di pensare a gruppi sempre più grandi. In questi anni siamo stati capaci di concepire la specie umana intera come un soggetto di solidarietà e quindi di dire che siamo tutti esseri umani, titolari di pari diritti e pari dignità. L’attitudine dell’egualitarismo è qualcosa di profondamente radicato in questa logica di gruppo. I gruppi che abbiamo citato all’inizio tendevano a essere egualitari, non ci dovevano essere troppi squilibri di possesso. È stata la rivoluzione agricola a scardinare questo meccanismo, perché ha reso possibile l’accumulo delle risorse e ha cambiato profondamente i rapporti di potere fra i membri del sistema.
Quando parliamo di individui capaci di fare breccia nella fredda logica della vita, che vorrebbe ciascun individuo col naso sprofondato nel suo personalissimo orizzonte di interessi e guadagni, viene in mente anche l’arte, ovvero la capacità, da parte di Homo sapiens, di stupirsi e autocompiacersi della qualità del messaggio usato per comunicare. Anche questo pare aver poco a che fare con la natura spietata e ego-riferita di cui soliamo sempre parlare.
Sì, l’arte fa parte di quelle novità inedite, mai viste prima, che sono comparse in natura con Homo sapiens. Sappiamo anche quando è apparsa nella storia evolutiva: tra i settanta e gli ottantamila anni fa, in Africa, c’è stata una vera e propria rivoluzione culturale che ha portato una sola specie umana tra le diverse presenti a fare una serie di cose strane e apparentemente inspiegabili tutte insieme. È Homo sapiens che inizia a produrre pitture rupestri, oggetti con caratteristiche simboliche, segni regolari con un significato. Per non parlare delle sepolture rituali, degli strumenti musicali, dell’abbellimento del corpo. Il tutto in modo sistematico, non occasionale. Questo è un po’ un mistero oggi, noi non sappiamo dire che cosa sia successo esattamente. La nostra mente ha iniziato a lavorare in maniera diversa, nuova. Sono comportamenti di una specie che non è più dedita soltanto alla mera sopravvivenza, ma ha trovato il tempo e le risorse per fare dell’altro, per sviluppare la capacità di associare a oggetti concreti significati altri. È l’apertura al simbolico.
Lei dice: mistero. Ma non ci sono delle interpretazioni? Credo che sia stato il gruppo a rendere possibile uno scarto di energie tale per cui si potesse iniziare a riflettere su elementi e campi non necessariamente legati alla sopravvivenza e alla riproduzione, o sbaglio?
Non c’è dubbio. Ho detto mistero perché non sappiamo esattamente cosa sia successo, ma abbiamo a disposizione due ipotesi, fondamentalmente. La prima è proprio la socialità, la capacità di trasformare il gruppo in una sorta di meta-individuo, di “super-organismo” come ha scritto Edward O. Wilson. Il secondo segreto risiede nel linguaggio articolato, cioè la capacità di comunicare in un modo più flessibile e più preciso. Siamo quasi sicuri che tutte le altre specie umane non avessero in dotazione un elemento così potente, almeno non come noi, che permette fra le altre cose di condividere con i propri compagni esperienze e cose viste, sviluppando in chi parla e in chi ascolta la capacità immaginativa.
Tornando alla questione iniziale, uomo animale sociale o individuale, le chiederei come mai nella stessa epoca, individui sottoposti agli stessi impulsi culturali tendano ad adottare strategie diverse, alcune cooperative e altre egoistiche.
È una domanda difficile. Non dobbiamo pensare che l’evoluzione biologica determini i nostri comportamenti, ci dice soltanto quali sono le nostre potenzialità. Che cosa fa un individuo singolo dipende da altri due fattori: il primo è l’individualità. La stessa evoluzione ci dice che ogni essere umano nasce unico, che non esistono due individui biologici perfettamente identici. Il secondo fattore riguarda la formazione del nostro cervello: esso si plasma per due terzi dopo la nascita. È vero che abbiamo dei vincoli biologici, che ci vengono dal passato, ma siamo una specie molto plastica, influenzata enormemente dalla storia, dall’educazione e dalla cultura.
Poi c’è la famosa questione del libero arbitrio. Come si pone, lei, di fronte a questo tema?
La scienza a mio avviso non può rispondere direttamente a questo quesito. Il libero arbitrio è un’ipotesi plausibile solo se rinunciamo al determinismo, quindi all’idea che le scelte dell’essere umano siano determinate da qualche fattore, che sia naturale o sovrannaturale. Io credo che non sia un’illusione, il libero arbitrio, come hanno sostenuto molti importanti filosofi: esso si giustifica con il principio della contingenza, tema filosofico su cui ho lavorato molto. Siamo frutto di vincoli del passato, ma in ultima analisi siamo ancora liberi di scegliere. La natura non ci determina, e nemmeno la cultura. C’è uno spazio per la volontà del singolo. Questo ce lo dimostra la storia, che ci pone di fronte a figure capaci di dire di no ai vincoli che la natura ha posto all’uomo. Noi esseri umani abbiamo questo di straordinario, di inedito: sappiamo di avere degli istinti che ci ha dato la natura, e li studiamo, ma possiamo anche scegliere di non essere marionette passive nelle loro mani.
(precedentemente pubblicato su Confronti, n° 60, del 29 gennaio 2014)
I media italiani sembrano completamente impazziti. Articoli che raccontando di tagliagole scatenati e terrore per le strade di Tripoli, ci rendono una versione terribilmente naif di quello che sta avvenendo in realtà in Libia. Un po’ come nel 2011, quando si era un pugno di inviati in Tripolitania e dall’Italia arrivavano notizie pazzesche che, però, non avevano nessun fondamento sul terreno.
La strada per la quale voglio accompagnarvi oggi non è un esercizio di dietrologia complottistica, ma una analisi fredda e (spero) logica dei fatti che ci hanno portato a ingigantire in maniera abnorme delle notizie reali. Ho una opinione che potrà essere o meno condivisa, ma che, per esperienza pregressa sulla Libia, trovo abbastanza aderente alla realtà. Premetto che non voglio assolutamente sottostimare la presenza dello Stato Islamico nel Paese. Ma andiamo per gradi.
Prova di analisi di lettura
13 febbraio
Il Ministro degli Esteri Gentiloni rilascia dichiarazioni allarmanti sulla situazione in Libia dopo che l’Ansa, dal Cairo, pubblica un lancio d’agenzia nel quale la Farnesina invita tutti gli italiani a lasciare il Paese.
La nota però è del 1 febbraio, come si può leggere sul sito della Ministero degli Affari Esteri ‘Viaggiare Sicuri’. Passano quindi dodici giorni senza che nessuno faccia notare l’avviso. Il 13 però avviene qualcosa: a Sirte appaiono uomini armati che occupano una stazione radio e lanciano proclami pro-Isis.
Sirte, ex città natale di Gheddafi, non è nuova a omicidi mirati e attentati da parte di gruppi radicali, per chi segue quasi quotidianamente le vicende libiche. È una delle roccaforti di Ansar al-Sharia, gruppo jihadista che rientra nell’orbita della coalizione ‘Alba Libica’, contrapposta alle milizie dell”Operazione dignità’ del generale Haftar.
È fatto anche abbastanza noto, che poco fuori Sirte si trovino suoi campi di addestramento. Nell’ottobre 2013, una esplosione elimina sette miliziani di Ansar. Non è chiaro il motivo ma molti siti che si occupano di intelligence parlano di un attacco Usa con un drone. A Sirte non ci sono solo gli uomini di Ansar, ma anche quelli di Misurata e di milizie loro alleate. Torniamo ad oggi: uomini armati, dicevamo, occupano alcuni edifici pubblici e una radio. La notizia che viene diffusa dai media italiani è che Sirte sarebbe completamente in mano allo Stato Islamico.
14 febbraio
L’ambasciata italiana si prepara a chiudere. La scena ricorda l’evacuazione della nostra ambasciata nel marzo 2011. Stesse modalità. Anche in quel caso era pronta a salpare una nave nel porto di Tripoli ma tutto il personale diplomatico, insieme a qualche giornalista, alla fine lasciò la capitale con un C-130 dell’Aeronautica militare italiana.
Il ministro della Difesa Pinotti rilascia una intervista dove si dice pronta ad inviare 5mila uomini in Libia, anche se poi corregge il tiro e ammette che «sono solo ipotesi».
Intanto Gentiloni fa sapere che il governo riferirà per il giorno 19 in aula sulla situazione libica. Tanti politici italiani chiedono un intervento militare. E il vicepresidente della commissione Difesa del Senato, il leghista Sergio Divina, si spinge fino a chiedere a Pantelleria «l’invio di battaglioni specializzati nella lotta al terrorismo e la Marina a schierare le fregate a protezione delle acque territoriali. Sirte e Derna in mano all’Isis vuol dire – ribadisce Divina – il Califfato a 200 km come la distanza tra Napoli e Roma».
Divina mescola il problema dei migranti con il possibile arrivo di terroristi via mare. Molti non aspettavano che questo momento per criminalizzare i disperati che arrivano via mare. La gara a chi rende più vicino l’Isis è partita. Sirte è a 600 chilometri circa da Lampedusa. Via mare, non terra. La stessa Pinotti riferisce nell’intervista sopra citata che lo Stato Islamico sarebbe a «350 chilometri dalle coste italiane». Gentiloni parla invece di «200 miglia marine», che sono 371 chilometri, riferendosi entrambi probabilmente alla distanza marittima tra Tripoli e Lampedusa. Ma Sirte è a circa 500 chilometri a est di Tripoli. E Tripoli è ad almeno 500 chilometri dalla Sicilia. Via mare.
15 febbraio
Le notizie che vengono dalla Libia, riportate dalla stampa italiana sono sempre più allarmanti. Si parla di Sirte in mano ai miliziani dell’Isis, di possibilità di colpire l’Italia con degli Scud, mentre arriva la notizia delle terribile esecuzione di 21 copti egiziani e delle minacce all’Italia: «Siamo a sud di Roma».
L’Ansa riferisce addirittura di volantini dell’Isis che annunciano la marcia su Misurata. La Stampa, in uno degli articoli più insensati e privi di fondamento intitolato Libia, gli italiani: “Tagliagole in strada, è il terrore”, raggiunge il suo apice, raccontando di fantomatiche presenze dell’Isis a Tripoli presto seguita da «bandiere nere dell’Isis a Tripoli» di altre testate radiotelevisive.
L’autore dell’articolo, che di Libia ha visto forse molto poco, intervista Bruno Dalmasso, il custode del cimitero italiano di Tripoli, che è un personaggio interessante per la sua storia personale ma non dal punto di vista politico su cosa succede o non succede in città. È anziano e non è un analista, ma va bene lo stesso se dice: “Chi comanda ormai a Tripoli – dice Dalmasso – sono le bandiere nere, quelli dell’Is. In città vedi molti stranieri, siriani o iracheni che magari si sono tagliati le barbe o i capelli ma poi quando si tratta di accoltellare o sparare sono in prima fila».
Sempre per l’autore dell’articolo Tripoli sarebbe «una città fantasma». A ruota le televisioni nazionali intervistano uno degli italiani rientrati dal Paese che afferma: »La situazione a Tripoli è critica…E l’Isis è già da un pezzo che è a Tripoli, lo ha detto anche la televisione».
Se lo dice la televisione…allora è tutto a posto. L’Huffington Post pubblica un discutibilissimo articolo sull’impiego dei nostri militari in Libia. Irreale. Chiunque sa benissimo che mandare truppe in un Paese con una guerra civile in atto e che tra l’altro non ha richiesto nessun intervento esterno, non ha nessun senso pratico ed è irrealizzabile dal punto di vista normativo internazionale.
È un solo mero esercizio di retorica, quello sfoggiato da Gentiloni e dalla Pinotti. Nei fatti non c’è nessun modo per mandare truppe straniere nel Paese. E di sicuro non basterebbero 5mila uomini. Quindi analisi su chi si sarebbe già scelto di mandare con corpi e supercorpi alla ‘marines’ fanno molto ridere. Gli italiani non metteranno mai piede in Libia.
In ultimo Wired ci regala una perla indimenticabile, paragonando Lampedusa a Kobane, articolo che vi consiglierei di leggere per farvi due grasse risate e capire cosa voglia dire non avere il minimo senso della geografia in questo mare di allucinazioni collettive: «La situazione è seria: l’Italia è vicinissima alla Libia, l’isola è l’avamposto nazionale, è esposta al mare e presidiata prevalentemente per accogliere migranti o disperati; certo non per fronteggiare l’eventuale attacco delle milizie nere. Inoltre in Libia ci sono gli SS-1 Scud, missili sovietici a corto raggio con una gittata che va dai 300 ai 450 chilometri»…
Quindi, dopo aver analizzato gli eventi e la copertura mediatica, ci rimane il motivo per il quale si è scatenato un tandem di illazioni sia da parte della comunicazione pubblica che dei media italiani. Se date un’occhiata alla stampa estera, non c’è nulla o quasi a parte la notizia della chiusura della nostra ambasciata.
Per la stragrande maggioranza dei media internazionali Sirte non è caduta in mano all’Isis, anche perché non ci sono stati combattimenti di rilievo. Non ci sono ‘marce’ su Misurata e a Tripoli a parte una lunga sparatoria a Fashloum tra una milizia e dei sostenitori di Haftar non è successo niente di diverso da quello che succede da mesi. D’altronde solo un cretino potrebbe pensare che una milizia, che sia l’Isis o altre, possa «marciare su Misurata» senza problemi, visto che si scontrerebbe con la formazione militare più potente e più agguerrita della Libia.
L’Italia ha sempre mantenuto una equidistanza tra le due fazioni principali in campo. L’ambasciatore Buccino è anche andato a Ginevra nelle scorse settimane per partecipare ai round negoziali per i colloqui di pacificazione nell’ambito della missione Onu Unsmil (United Nations Support Mission in Libya, richiesta nel 2011 dalle autorità libiche e più volte prorogata).
È ovvio che la comparsa di gruppi legati all’Isis, probabilmente fuoriusciti dall’ombrello di Ansar al Sharia, e le successive azioni su Sirte, seguite all’attentato a Tripoli contro l’Hotel Corinthia, hanno spostato il baricentro italiano verso il governo esiliato a Tobruk, da qui la partenza dell’ambasciatore e del corpo diplomatico.
Abbiamo preso posizione con Tobruk senza dirlo ufficialmente e utilizzando il problema (reale) della sicurezza per allontanarci in maniera plateale e senza dover fornire ulteriori giustificazioni. Il timore è che il nostro interesse non sia soltanto concentrato sul governo di Al Thani, ma, molto più probabilmente suo più potente alleato, ovvero il generale ribelle Khalifa Haftar. Haftar ha il supporto delle forze armate egiziane e probabilmente sta guadagnando credibilità presso le cancellerie occidentali. L’uomo sul quale giocare l’ultima carta.
—
* L’autore è più volte stato in Libia, a partire dal 2011, come giornalista free lance. Questo articolo è stato pubblicato su Q Code Magazine.
Da “Un male incontenibile – Sylvano Bussotti artista senza confini”
– di Luigi Esposito – ed. Bietti, Milano 2013)
Prima biografia ufficiale approvata da Sylvano Bussotti
«Il peggio che può capitare ad un artista è di essere compreso», affermava Carmelo Bene nelle sue Lezioni sull’arte, e dava una esplicitazione chiara, legata al mondo della mercanzia e al gusto del pubblico, spesso manovrato e pilotato dalla condotta editoriale di gente d’apparato, e alle politiche di critici e galleristi, i quali convergono verso tutto ciò che è comprensibile alla massa perché immediatamente commerciabile, vendibile e, addirittura, venerabile. «Accidenti ai quattrini, accidenti alla cartaccia moneta. Questa orrenda matrigna dell’arte, di tutte le arti»[i].
E nella sua lezione-saggio non risparmia affatto «l’artista stesso», criticando sia la cosiddetta «vocazione del bello» (in cui ogni artista si rifugia e, negando altra scelta, condiziona ad un unico risultato la propria natura espressiva), sia gli «stati di vanità», che inesorabilmente provocano l’ansia di esprimersi attraverso l’ambizioso tarlo della «comunicazione» subordinata al successo tributato dal pubblico e dall’apprezzamento della critica: «Vediamo d’uscirne evitando inutili gineprai», cita una frase centrale dell’intero saggio: «Tutto il falso problema della produzione artistica è … sempre questo pervenire a questa o quella FORMA e comunque, solamente a UNA FORMA (identificata al suo contenuto); ma questa FORMA è nient’altro che una traccia residuale di un chissà quale ALTROVE, tuttavia, inespresso e puntualmente tollerato e spacciato dall’artista! Che fare? È chiaro, quanto meno nell’intento e nel metodo: […] = Bisogna ECCEDERE le FORME […]»[ii].
L’arte è una disciplina eternamente provocatoria, sempre al confronto con l’oscuro senso dell’essere. E in queste oscurità l’artista si impegna ad accendere lumignoli di conoscenza: simboli nuovi, nuove apparenze descritte, nuove scritture che reintegrino ed evolvano il presente già assimilato.
Ma spesso l’arte è manovrata da poteri e da dogmi subdoli, fino a diventare «borghese, idiota, mentecatta, soprattutto cialtrona e puttanesca e ruffiana»[iii]. E invece «l’arte deve essere incomunicabile, deve solamente superare se stessa»[iv], continua Bene. Ma per convergere verso questi risultati andrebbe assolutamente auspicata la provocazione pasoliniana sull’abolizione delle scuole, di tutte le scuole, e la riapertura delle «botteghe rinascimentali», il ritorno della cultura cosiddetta “alta e libera”, in una sola parola, della «cultura».
Con Carmelo Bene, Bussotti ha fatto uno spettacolo, Recital Majakovskij, o Spettacolo-concerto Majakovskij, un unicum messo in scena al Teatro alla Ribalta di Bologna e datato il 26 gennaio 1961, secondo le cronache dei quotidiani; mentre nella Vita di Carmelo Bene (un’autobiografia stilata assieme a Giancarlo Dotto, dove spesso scorre una frase a mo’ di motto: «ogni autobiografia è sempre immaginaria»), ci si riferisce all’anno precedente: «Era il 1960. Carlo Maria Badini, allora assessore alla cultura a Bologna, invitò me e Sylvano Bussotti a presentare qualcosa al Teatro alla Ribalta, importante all’epoca come spazio di avanguardia. Insieme a Bussotti concertammo un Majakovskij. Lui suonava in scena, improvvisando un sacco di cose, io ero la voce recitante. Ne ho fatti tanti di Majakovskij, questo fu il primo. Andammo alla “Ribalta” per quattro soldi, quanto bastava per mangiare e dormire due, tre giorni. Cose che si fanno da giovani»[v].
Erano anni magnifici, dove l’avanguardia era una dea desiderosa di avvenimenti, che emanava entusiasmo. E i protagonisti erano disposti anche a ricevere compensi stentati pur di esibirsi.
«[…] la Firenze-Bologna andata e ritorno, temerari, a tutto gas, su una “Giardinetta” che andava a spinta. Fu un trionfo. Sylvano mi precedeva a teatro. Una volta lo beccai alla tastiera, che trattava con la grazia d’un cherubino. Di solito lo sventrava il pianoforte, lo prendeva a calci, faceva di tutto, alla Tudor. Quella volta, era il nostro debutto, lo sorpresi che suonava con grande trasporto, forse ebbi un po’ d’invidia, “O terra addio, addio valle di pianti”…»[vi].
Non vi era una scenografia, tantomeno dei veri costumi per la serata al teatro bolognese. Tutto l’addobbo del palcoscenico era stato improvvisato, utilizzando quello che si aveva a disposizione o mettendo a disposizione le proprie cose che si portavano in scena: «I costumi di Carmelo Bene erano fantastici», racconta Bussotti, «solitamente non erano dei costumi veri e propri, lui comprava delle partite di stoffa costosissima, d’arredamento, velluti, sete, e se li drappeggiava addosso, buttandoli in scena e facendo lunghissimi strascichi, ottenendo anche degli effetti altamente scenografici, perché se sali su uno sgabello e dietro hai una stoffa lunghissima che si srotola davanti agli occhi degli spettatori, diventa un momento molto forte di teatro. Tutto questo avveniva con molta attenzione alla tecnica di palcoscenico, nel riavvolgere i drappeggi, nel tirarli su, farli diventare fondale, o utilizzando parte della stoffa anche come scenografia. Io ci andavo a nozze! E lui lo sapeva che ci andavo a nozze con queste cose, infatti riconosceva che le aveva imparate da me!»[vii].
Non era mai un’improvvisazione approssimativa quella attuata nelle loro azioni teatrali. Anche se realizzato con mezzi precari, tutto veniva accuratamente meditato, passava sotto il setaccio del loro senso critico, si arricchiva del gusto dei loro talenti. «Ma poi con Carmelo ci inventammo tutta una serie di concertazioni», continua Bussotti, «considerando le nostre figure sceniche come quadri viventi»[viii].
Il Teatro alla Ribalta, che aveva già ospitato giovani nomi come Laura Betti e Paolo Poli, aperse le porte a spettacoli nuovi, idee innovatrici, ed era, quindi, un punto di riferimento importante per la ricerca avanguardistica, ma non godeva di una propria attrezzatura teatrale. «Poi oltre al pianoforte», ci dice Bussotti, «sul palcoscenico c’era un set di strumenti a percussione che portava lui, credo di sua proprietà, ma in questo set di percussioni vi era un gong che aveva un suono inquietante, perché in una rappresentazione precedente – una performance che si tenne in una galleria d’arte – questo gong capitò nelle mani di un giovane artista, che preso dall’euforia si mise a picchiare così forte sullo strumento da sfondarlo. Quindi una volta sfondato, il gong non dava più armonici, ma emanava un suono fesso ed estremamente inquietante, e Carmelo non si fece scappare l’occasione di utilizzarlo nelle sue messe in scena, avvistando delle rarità sonore in questo strumento malridotto»[ix].
I canonici fischi di rito partirono senza dubbio, magari imbellettati da qualche insulto ben formulato; ma in molti affermano che lo Spettacolo-concerto Majakovskij fu memorabile: due grandi artisti che, offrendo i propri ruoli sul palcoscenico, mistificavano le azioni sceniche evocandole in un raro lirismo poetico.
Anche Giuliana Rossi, attrice teatrale, prima moglie di Carmelo Bene (madre del loro unico figlio, Alessandro, morto in tenera età) e amica di Bussotti dagli anni dell’adolescenza, – «Ero vicina di casa di Cesarino, un cugino di Sylvano, e all’epoca i vicini di casa erano come parenti, quindi Sylvano per me era come un cugino»[x] – ricorda lo Spettacolo-concerto Majakovskij come un evento di grande impatto, e afferma sul sodalizio tra Bene e Bussotti l’esistenza di un grande equilibrio. «Si rispettavano molto, Carmelo voleva molto bene a Sylvano, parlavano spesso, di arte, di tutto»[xi].
«Sylvano aveva sei anni più di me», si legge nella Vita di Carmelo Bene: «Era già allora un compositore molto dotato. In comune avevamo certa smania di misurarci con i limiti del linguaggio e delle partiture»[xii].
«In quello spettacolo», continua Bussotti, «vi era un omaggio di devozione da parte sua nei miei confronti, e di insegnamento da parte mia nei suoi confronti. Carmelo mi ha sempre considerato “il Maestro”; ed è capitato più volte che mi telefonasse nel cuore della notte per dirmi che io ero l’unico grande genio musicale degli ultimi due secoli! Che non me lo dimenticassi, e qualora me lo scordassi, o non avessi il tempo di pensarci, c’era sempre lui a testimoniarlo»[xiii].
Lo spettacolo generò un 45 giri per l’etichetta La Voce del Padrone, dove il settore prosa era diretto dall’attrice Sarah Ferrati.
«Tornato a Firenze spedii alla Voce del Padrone un nastro majakovskijano che avevo registrato con Bussotti e Taverna», continua Bene nella sua autobiografia. «Il settore prosa era diretto da Sarah Ferrati. Arrivò la telegrafica risposta: “Interessaci sua incisione”. Ecco, il mio debutto nella discografia. Dalla porta principale. Mi presentai a Milano. […] A Milano dovevo incidere per la Voce del Padrone due 45 giri di Majakovskij. Braibanti venne ad assistere in questa grande sala di registrazione. Sylvano suonava, io recitavo. Oltre a quei due 45 giri, che poi sciaguratamente uscirono con la mia voce sinistrata dall’inefficienza tecnica dell’epoca, avrei dovuto anche incidere un ellepì da Ulysses di Joyce. La spiaggia era il brano che avevo scelto. Non uscì mai. Non lo ritenevo all’altezza, quel mio Joyce. Lo feci a pezzi. Pur essendo alla fame, mi permisi questo lusso. I due Majakovskij uscirono, Joyce no»[xiv].
«La Ferrati non solo era una straordinaria attrice», continua Bussotti, «ma era anche una grande animatrice, con un carattere fortissimo, ferreo, e per il settore prosa della Voce del Padrone aveva ideato una collana riguardante attori che recitavano alcuni testi di scrittori noti, accompagnati da musiche di compositori contemporanei. Ma tra gli attori di questa collana lei non c’era, perché in quel periodo era completamente senza denti, si stava rifacendo i denti, e quindi non poteva recitare»[xv].
«Di Carmelo Bene ho un altro ricordo stupendo», continua ancora Bussotti, «quando lo incrociai in un hotel di una città importante dove lui recitava, che ora non ricordo bene quale fosse. Naturalmente, si svegliava nelle prime ore del pomeriggio, come solitamente fanno tutti gli attori che recitano fino a tarda sera, scendeva nella sala dell’hotel e faceva colazione col caffè latte. Ma la tazza che utilizzava era un oggetto di attrezzeria del teatro, ed era la tazza colante sangue, quindi una grande tazza scolpita e disegnata con un rosso vivo, dove il Conte Ugolino sputava il sangue dopo aver divorato i suoi figli! E Carmelo, mentre beveva da questa tazza, con tutta la serietà scenica, diceva: “sono il Conte Ugolino!”. E lasciava tutti stupefatti!»[xvi].
Dopo il Recital Majakovskij e la registrazione per il 45 giri vi fu solo un’altra collaborazione nel 1966 per le musiche di scena de Il Rosa e il Nero[xvii], uno spettacolo di Carmelo Bene su testo di Matthew Gregory Lewis. Poi non hanno collaborato più assieme. Forse non vi è stata occasione, o forse ognuno aveva da conquistare il proprio spazio, il proprio mondo, il proprio pubblico. E ognuno si è impegnato al costante servizio della propria arte, multiforme e unica, a difenderla dalle incompatibilità col proprio tempo. E ognuno sarà un insondabile mistero per sé, un mistero che l’accompagnerà, che potrà governare solo con la solitaria azione del proprio artificio.
[i] Carmelo Bene, in Momento 4. Arte (lezione impartita magistralmente in forma quasi confidenziale e colloquiale) tratto dalla serie di quattro puntate televisive, Quattro momenti su tutto il nulla, interpretate e dirette da Carmelo Bene. (Rai, maggio 2001).
[xvii]Il Rosa e il Nero, da Il Monaco di M. G. Lewis. Adattamento, regia, costumi e interprete principale Carmelo Bene; scene di S. Vendittelli; musiche di S. Bussotti e V. Gelmetti. Altri interpreti: M. Monti, L. Mancinelli, S. Spadaccino, O. Ferrari, M. Spaccialbelli; Roma, Teatro delle Muse, 12 ottobre 1966.
Due rose rosso bordeaux, una più grande, l’altra più piccola. Una piuma nera e una retina a forma di foglia che scende a velare un occhio, due api legate a un fil di ferro che odorano i fiori. Il cappellino era perfetto. L’avevo creato nella mia mente, disegnato, modificato. Avevo cercato i materiali più adatti, girato per negozi, esplorato mercatini per ottenere le tinte giuste e i tessuti migliori, per rendere la sensazione desiderata. Con pazienza avevo messo insieme i pezzi e avevo dato forma all’idea. Ero pronta per l’attesa festa, avrei indossato sul mio capo quella preziosa architettura che attendeva nella sua scatola tonda.
Arrivai alla festa con la scatola appesa al braccio emozionato. La aprii ed era vuota. Girando gli occhi intorno a me in cerca di una spiegazione della sua scomparsa, all’improvviso, tra le teste che già erano arrivate, si aprì un varco e subito lo riconobbi.
A pochi mesi di distanza nel 2014, sono usciti due libri di Audre Lorde, poeta americana di origine caraibica, impegnata fin dagli anni 50 su vari fronti di attivismo politico. In Italia era possibile leggerla solo in vecchie pubblicazioni underground degli anni 80 del movimento lesbico femminista, tradotta da Rosanna Fiocchetto e poche altre. Sui numeri dell’allora Bollettino del CLI (Collegamento lesbiche italiane) o delle sue edizioni si può rintracciare la genesi dell’accidentato percorso degli scritti di Lorde nel nostro paese. Oggi ci vengono offerti Sorella outsider e Zami – Così riscrivo il mio nome, di cui si consiglia la lettura a chiunque si occupi di razzismo, femminismo e omofobia, se non altro perché entrambi i libri chiariscono come ogni discriminazione rafforzi l’altra. Audre Lorde, lontana da fughe di comodo e da facili certezze, ha scandagliato a fondo le dinamiche che quasi sempre impediscono di vedere la totalità dell’oppressione e le sue diramazioni e quindi di conoscerne il peso.
Nata a New York nel 1934 da genitori immigrati da Grenada, trascorrerà in questa città quasi tutta la sua vita, a lungo, oltre che con i due figli, insieme a Frances Clayton incontrata nel 1968 e sua compagna per due decenni, a cui scriverà nel 1970: “Siamo parte dell’avanguardia rivoluzionaria”. (Zami, 295) Gli ultimi anni la vedranno invece nell’isola di St. Croix dove si rifugiò con il suo ultimo amore Gloria I. Joseph.
Zami (una parola che a Carriacou, piccola isola caraibica, indica le donne che “lavorano insieme come amiche e amanti”, 9) è un diario, un racconto, un monologo che tocca un arco di tempo che va dalla sua infanzia, negli anni della lunga depressione, alla fine degli anni 50. Liana Borghi scrive nella sua introduzione che Lorde ne declina “lo statuto di verità” definendo la sua narrazione una “auto-bio-mito-grafia” (Zami, 9). Tuttavia, l’espediente narrativo non cela niente della durezza di quanto Audre Lorde racconta e Zami ci ricorda come, nelle pieghe del razzismo e del sessismo, si celi una sofferenza quasi impossibile da dire interamente.
Razzismo e sessismo pervadono in modo totale la vita di chi li subisce, devastando psiche e affetti famigliari, su cui si sarebbe tentati di non dire niente e così fanno in tante/i, per concentrarsi solo sull’aspetto della discriminazione pubblica. Se i diritti umani sono qualcosa e dovrebbero esserlo ancora, è nel campo degli affetti che vanno rivendicati, perché il dolore di essere definiti in modo spregiativo e definiti comunque sempre da altri, rende l’esistere non solo difficile ma traumatico. Zami indaga, nei più piccoli dettagli, quel trauma e i modi in cui colpisce la vita intima di ognuno, indurendo le persone, confondendole e spogliandole della capacità di tenerezza, di confronto e quasi sempre anche di conforto. La dimensione pubblica di un’oppressione prende corpo con il disprezzo verbale e gestuale, con il rendere difficile trovare lavoro e casa, con impedimenti e divieti scritti e non scritti e da lì raggiunge la personalità, che ne è profondamente segnata e ferita. Quasi per tutti la difesa consiste nel negare questa umiliazione, o nel minimizzarla, così è per i genitori dell’autrice che non possono permettersi quest’ammissione e lo stesso per le compagne gay della giovinezza, che non sanno ricomporre la mappa del loro dolore nemmeno quando esplode con la malattia mentale, la povertà, la droga e il suicidio. Di conseguenza tutto concorre a nascondere la vera realtà della violenza ai subordinati, la sua portata e i suoi effetti a medio e a lungo termine. Uno dei suoi aspetti più atroci è la possibilità, per chi detiene i privilegi, di definire gli altri/le altre e di non vedere quali interessi particolari cela il proprio agire e parlare da una posizione di vantaggio.
Essere sopravvissute, ci ricorda Lorde, nell’America razzista, misogina e omofobica (ma vale per ogni luogo ostile), quando “non era previsto noi sopravvivessimo”, se pure rende forti, non lascia però indenni né i corpi né le menti di chi subisce questo oltraggio. Le ragazze che incontriamo in Zami sono persone molto lontane da quelle descritte da Mary McCarthy nel suo noto romanzo, Il gruppo, ma notiamo come la misoginia uccida in un caso come nell’altro.
Audre Lorde pondera e analizza le molte componenti del sé e i modi in cui si declinano, così che il suo non acconsentire ad essere definita “a senso unico” la rende un’outsider; posizione sempre difficile, ma quasi insostenibile negli anni 50 e 60, tempi in cui l’appartenere a un gruppo identitario era garanzia di protezione e sopravvivenza. Dalla sua analisi delle dinamiche di gruppo vediamo come il meccanismo dell’inclusione/esclusione in base alle somiglianze e all’aderenza a certe maniere, idee e abbigliamento, funzioni in maniera oppressiva e limitante e non renda immuni dall’odio di sé.
Le pagine del viaggio in Messico dell’autrice compiuto nel 1954, si focalizzano sulla doppia realtà dei rifugiati nord americani, espatriati per sfuggire alla caccia alle streghe cominciata con la crociata anticomunista di Joseph McCarthy. Un anno prima i coniugi Rosenberg erano stati giustiziati sulla sedia elettrica come spie sovietiche e molti intellettuali e dissidenti avevano lasciato gli Stati Uniti per paura di incorrere in sanzioni e carcere per attività anti-americane; ovvero essere membri del partito comunista o simpatizzanti di idee progressiste. Tra loro molti furono gli scrittori e gli sceneggiatori di Hollywood e i giornalisti noti o meno che avevano scritto verità scomode. Eudora Garrett apparteneva al secondo gruppo, ma era in Messico da molto prima e dopo l’incontro con Lorde e durante la breve relazione che seguì, la aiutò a giungere a una migliore accettazione di sé e le aprì le porte di un sapere non accademico sulle culture indigene. Audre Lorde trarrà molto dall’esperienza messicana, sia per come vedrà da allora in poi gli altri americani, sia per un primo raffronto su come, persino tra i progressisti, l’omofobia interiorizzata, impediva ogni discorso e ogni presa di coscienza politica riguardo la sessualità. Toccherà con mano i pregiudizi del partito al ritorno negli USA.
Sorella outsider raccoglie gli scritti politici di Audre Lorde e si apre con un lungo estratto da “I diari del cancro”, lucido resoconto dell’esperienza della malattia che la colpì al seno, del conseguente intervento e della medicalizzazione con le sue imposizioni. La vecchia e nuova misoginia traspare dalla narrazione di Lorde per come si appropria dei corpi offesi in maniera subdola, quasi dolce all’apparenza nel porsi come aiuto, salvezza, autostima rinnovata, ma in verità sempre fagocitante nei modi, nel sentire e far sentire nulla la vera esperienza di chi è malato ed ha altro da dire:
Avevo ormai visto la morte in faccia, che lo riconoscessi o no, e ora avevo bisogno di sviluppare la forza datami dalla sopravvivenza. La protesi offre un vuoto conforto: “Nessuno noterà la differenza”. Ma è proprio questa differenza che io, voglio affermare, perché l’ho vissuta, e sono sopravvissuta, desidero condividere questa forza con altre donne. Se dobbiamo trasformare il silenzio che circola il cancro al seno in linguaggio e azione contro questo flagello, allora il primo passo è far diventare visibili le une alle altre le donne che hanno subito la mastectomia. Perché silenzio e invisibilità vanno a braccetto con l’impotenza. Nell’accettare il mascheramento della protesi, noi donne con un seno solo proclamiamo di essere creature insufficienti, che dipendono da una finzione. (Sorella outsider, 71-2)
Audre Lorde dopo l’intervento rifiuta di nascondere il suo corpo “solo per mettere a suo agio un mondo che soffre di fobia verso le donne” (Sorella outsider, 72); una opposizione che fa pensare e pesare su ognuna la fobia e mania che copre o scopre, in una strano e solo apparentemente contrapposto gioco di potere, i corpi femminili, senza mai dare loro valore in sé e per sé.
Gli incontri con altre intellettuali importanti nell’ambito del pensiero femminista sono ben documentati nel libro e va segnalata l’intervista-conversazione con l’amica Adrienne Rich in cui tra l’altro Lorde parla del suo rapporto con la scrittura e in particolare con la poesia:
Quando qualcuno mi diceva: “Come ti senti?” oppure “Cosa pensi?” o mi faceva un’altra domanda diretta, io recitavo una poesia, e da qualche parte in quella poesia c’era il senso, l’informazione vitale. Magari un verso, o un’immagine. La poesia era la mia risposta. (Sorella outsider, 156)
Lorde ripercorre il rapporto con le parole e con il linguaggio, specialmente quello usato dalla madre da cui prende le distanze. Nello stesso tempo riconosce l’importanza della comunicazione non verbale per decifrare ciò che le persone dicono davvero.
I vari saggi introducono al pensiero di Lorde sui temi più brucianti degli ultimi decenni: razza e sesso, differenza e diversità, ma anche classe, età, malattia, morte, pratiche S&M, sessismo dei compagni, razzismo delle compagne, lotte per l’indipendenza di altri paesi.
Angela Davis in quegli stessi anni combatteva le stesse battaglie; se tardò nel coming out, che avvenne ufficialmente nel 1997, si era però scontrata con il maschilismo del movimento antirazzista. In Autobiografia di una rivoluzionaria, tra gli stralci di una lettera a George Jackson, leggiamo:
È sintomatico che Le Roi Jones e Ron Karenga e tutta la schiera dei vigliacchi nazionalisti culturali chiedano la totale sottomissione della femmina Nera come ‘riparazione ai torti secolari che ha fatto al Maschio Nero’. Come tu dicevi, George, ci sono alcuni ovvi criteri per stabilire in che misura coloro che si definiscono nostri compagni di lotta alimentano in realtà la controrivoluzione. Un criterio è il loro atteggiamento verso i bianchi. Un altro, il loro atteggiamento verso le donne. (400)
La lotta contro il sessismo all’interno della compagine antirazzista vide Audre Lorde non cedere posizioni, ma fu altrettanto incisiva nel non fare confusione nell’indicare chi traeva beneficio da un’oppressione specifica, qualunque essa fosse:
Ogni volta che sorge il bisogno di una finzione di comunicazione, quelli che traggono beneficio dalla nostra oppressione fanno appello a noi perché condividiamo con loro la nostra conoscenza. In altre parole all’oppresso viene affidata la responsabilità di insegnare all’oppressore i suoi errori. È mia responsabilità educare gli insegnanti che a scuola tralasciano la cultura dei mie figli. Ci si aspetta che noi Neri e quelli del terzo Mondo educhiamo i bianchi circa la nostra umanità. Che le donne educhino gli uomini. Che le lesbiche e i gay educhino il mondo eterosessuale. Gli oppressori mantengono le loro posizioni ed eludono la responsabilità delle proprie azioni. C’è un costante prosciugamento di energia che potrebbe meglio essere usata nel ridefinire noi stessi e costruire il futuro. (Sorella Outsider, 191-2)
La parte finale del libro torna al tema della malattia, del cancro. Una ulteriore immersione dovuta al ripresentarsi del tumore, in forma più grave avendola colpita al fegato, ed è una limpida e straziante testimonianza del costo umano di una resistenza che ha coinvolto ogni aspetto della vita dell’autrice.
Gli oppressi hanno un lungo cammino davanti, ancora più lungo da che le religioni tornano a dettare legge con la loro mescolanza di brutalità e ontologia. Nessun rifugio ci è dato dalla storia, usata come strumento di dominio da chi detiene sapere e potere, e non c’è al momento una narrazione che possa coinvolgerci profondamente, restituendo pensiero e fiducia. Questo non deve intorpidire, né portarci a una mera difesa identitaria. Dagli anni degli scritti di Lorde ciò che è mutato è proprio il senso di appartenenza. Più libere/i e più soli/e oggi; per cui ogni lettura è anche misurare il nostro altrove. E ogni lettura non è mai, non può essere volta al solo uso militante. È la vita, nel discorso di Lorde, quello che conta; e mentre chiediamo più giustizia non rinunciamo alla certezza che se auto-definirsi crea autostima, è dall’essere indefiniti che comincia la libertà.
Non ho mai visto la tomba di mio padre.
Non che la sentenza dei suoi occhi sia mai stata cancellata.
Né le impronte delle sue mani grosse
Sulle maniglie delle nostre porte, a sera,
Un mezzo giro ogni notte e lui veniva
Fosco degli affari del mondo
Massiccio e silenzioso come il desiderio di tutto un giorno, pronto
A ridefinire ciascuna delle nostre forme –
Questo, adesso, le maniglie delle porte
Aspettano, e non ci riconoscono quando passiamo.
Ogni settimana una donna differente
Regolare come il cicchetto che beveva ogni sera
Rasa il prato che la sua fissità ha coltivato
Chiamandolo erba. Ogni settimana
Una donna differente ha la faccia di mia madre
E lui, che il tempo tiene
Immutato
Deve ben stupirsi, lui che non conobbe e amò che una.
Mio padre è morto in silenzio, amando il creato
E le risposte definite.
Visse immobili sentenze sulle cose familiari
E morì, sapendo un quindici gennaio di quell’anno me.
È perché non voglio andare in polvere che
Non ho mai visto la tomba di mio padre.
[Era la forma del giorno e l’età antonina e il severo
tempo moderno che fu del medioevo che è già.]
Post-elegia
L’informazione non vale granché: non ne vale la pena:
la frenesia dello scambio anche ci informa di sé.
L’informazione si fa verità di futurizione,
quello che guadagnerà già te lo trafficano
informazioni infinite, molteplici, vere altrettanto,
informazioni di ciò che di sicuro sarà.
Tutti si fanno maestri così, per coloro che sanno:
quello che sanno, però, certo nessuno lo sa.
Con il continuo ripetersi e sottolinearsi l’asserto
che d’informarti hai bisogno, ecco il bisogno t’è qui,
più del diritto a informarti, il più truce e atroce bisogno,
dogma di sua nullità che ti santificano.
Che se vorrai mercatare nel traffico d’informazioni
s’ha da trattarle per sé, s’ha da appropriarsene chi
le rappresenta, le crea, le spolvera, te le ripone,
te le riscrive, ne fa compra e mercato e le fa
interagire nel luogo e nel tempo in cui ti ritrovi
dentro la selva dei tuoi mostri, o spartisce con te
quel che rimane del nulla. E però nessuno ti spiega
quello che informa di sé, che informazioni e perché
poi te ne informi e che cosa ci sia e che cosa non sia
e di che cosa ti informi e se ti informi di te,
o se si informi di sé o di sé ti informi per forme
di serendipicità o se la semplicità
nel suo mistero non sia che imprimere forma su forma
con artifizio di nulla -e ti manipolano
ti manodoperano, ti manovrano senza mani.
E non è chiaro perciò quante ne circolino
informazioni inviate intorno al medesimo obbietto,
già d’ogni obbietto a sé iniquo, orbo di obbiettività,
e se la forma che avrai ricevuta s’orbiti a un punto-
e te lo chiedono già e se ne interrogano
se sarà tale o talaltra o altro o magari lo stesso:
dove diretto però, certo nessuno lo sa.
Post-in-scena
Nel mondo postmoderno la maggior parte
dei ruoli si rovescia senza passato
-futuro forse (quel che è poco tradotto,
lo si tralasci -se ne imprimano targhe
di lapide e di ferro -tombe di veri).
Ma il tuo futuro è ovunque tu ti rivolga,
fuorché domani. Gli orologi starati
misurano la storia zoppa nel tempo.
E l’oratore postmoderno non parla
d’oggetto -solo di parole -le sue-
non riferisce -riferisce a sé stesso:
di solo a solo -per sé stesso. Si plasma
di sé negli altri che nel broncio ripete
bambino. E sono postmoderno un po’ anch’io
Così ti inizio al gioco del postmoderno
Così mi inizi postmoderno per scherzo.
Non puoi non farci caso. Giochi talvolta
ad acchiappare cieco mosche su mosche
che si nascondono e non lasciano pegno.
E vince chi la dice tana per primo:
ma non ci sono tane -dunque le tane
le scavi tu da solo, ma per te stesso
ti fissi regole al tuo gioco -confini-,
l’immagine del mondo che immaginavi
per quello che ti cerchia quello che intorno
ti ha circondato da nemico -e ci perdi
ci perdo e tutti siamo e abbiamo la matta.
In questa forma nel post-mondo si avanza
nel gioco e verso il gioco -guardalo il mondo
per gioco e per post-gioco: certo è cambiato
non è lo stesso è uguale sempre immutato.
Si può parlare di ignoranza, d’inganno,
di presa di fondelli -di rassegnarsi
al segno senza senso significato
dell’insignificante. Guardi il post-mondo
tracciato sulla rete (senza) sistema.
Di questa rete i nodi -ricevitori
mittenti dell’informe -vengono spesso
al pettine non certo come capelli
di corpi ma per nodi dell’arbitrario
dell’arbitrato -l’arbitro t’ha fischiato
un fallo inesistente -sesso-non-senso
e senza sesso – ciò che informa l’informe
di informazione. Ti prenota il programma
per il teatro -ti post-nota epigramma
o elenchi di segreti sempre svelati
da Pulcinella sulla scena del tempo.
ti mette dentro le segrete non-cose.
Il dramma che a soggetto reciti sempre
si chiude per sé stesso come il suo dramma
nei nodi senza pettine e scapigliati
e si ripara e si rinorma nel caso
per come è necessario. Pone domanda
il nodo cerca un pettine e si fa storia
nel pettine creato ma per sé stesso
Si contravviene contraddice e disdice
e si pospone fatto postdemoderno.
Think imaginary
Quello che poi si traduce e si porta in linea di note,
quello che circola qui quello che può, che si sa
far circolare, è sapere -di che non si sa -ma è sapere,
l’intraducibilità che non si sa si lasciò.
Non ci si appella per esso in esso e per quel che tradotto
sempre che si tradurrà -sempre che t’occorrerà,
ecco che allora è realtà. Siamo in gabbia in copie di copie
e tu lo vedi, anche io t’ho ricopiato fin qui.
Ti garantisco perciò che il più del sapere che sai
sia traducibile sia banca di dati per sé
riproducibili. Tutti i riproduttori di scienze
abbiano poi le scansioni e le specifiche e i bit
per ritradurre le schede in linee sempre lineari,
codici di identità che si riallineano.
E non si offenda per questo il carattere del sapere-
brutto carattere ci ha, questo sapere di sé,
questo sapere perché -tuttavia così maltrattato
e maltagliato, così immaginato a metà.
E non accade così che trascritto il mondo divenga
immaginario per sua nera singolarità?
Proprio così l’alimento di fresco ora andrà surgelato
e tramutato di tono ordine e di qualità.
E se nessuno ha mangiato del fresco, ecco muore il confronto
e non c’è più verità, né leggerezza, né più
forma, se non il consumo di cibi oramai congelati.
Ordini un senso corretto e te lo servono al bar
con il caffè più ristretto del tuo preconcetto mutato
in consumata realtà e lo rimasticano
per ulteriore materia le bottinatrici operaie:
tutto ha perduto il suo senso orfano d’utilità.
Tutto si muta in oggetto di scontro -in soggetto di sconto
tutto si vende al discount. Quel che si sa, chi lo sa?
Chi sa di che? Chi saprà di sapere o di non sapere.
E della sua disgrafia l’analfabeta non è
certo -così ti nasceva il post-mondo, ovunque nascesse
per accidente da sé -non dopo il mondo, però.
Post-domus argentea
E grazie a dio si può fissare l’attimo
preciso in cui le architetture muoiono
moderne e in breve si post-architettano-
lo scrive il saggio nel linguaggio alchemico
dell’accademia. Architetture muoiono
in Marktwainland nell’anno del protempore
nel tempo senza tempi. Come muoiono
le architetture, come si trasformano
le morti in un linguaggio, che si slinguano
le morti, queste morti un poco tribadi,
un po’ sensuali, un poco pornosofiche,
linguaggio d’architetto scritto in linea,
da prima forse ancora con immagini
E tutto ciò che non si può trascrivere,
rimane tralasciato -s’ha ricorrere
a ciò che si è trascritto). Nuovo genere
davvero! Accadde prima con i rotoli
al tempo in cui li si è mutati in codice.
E se la fine si architetta restano
ragioni che a ragione si autoescludono,
consistono al trasmettersi, nell’essere
sostituite dal recording, restano
i calembours che in giochi le sistemano.
Monsieur Jourdan restò senz’altro attonito
scoprendo che per lustri fu prosastico
e non sapeva prosa. Un colpo simile
l’ha avuto l’architetto -forse il massimo
dell’universo no -senz’altro il minimo
del condominio che ci crolla facile
E certo architettare si considera
un buon tessuto in prosa (un po’ di simboli,
parole, frasi, un ordine sintattico
di segni, semi e sèmi, che ti segnano
metà linguaggi e per metà ti slinguano
puttane d’alto bordo filosofiche)
d’architettare si perdé la tecnica
l’archetipo l’archetto e l’archeozoico
e le archi-tette. Che non hai materia
o madre o dura madre -e si discorrono
discorsi universali. E ti strutturano
così valutazione d’una formula
universale che ti costruiscono.
Che mescono gli stili con le origini
Che della costruzione non è tipico
carattere non segna. In altri termini:
si tratta in vero di un processo simile
a quello in cui per verità si surroga
il farsi film. E questo ti valutano
secondo prestazioni di pornocrati
secondo il livellarsi della tecnica
orale e post-orale attori e cogito
e coito per sé stessi, utilizzabili
secondo volto e fama in più pellicole,
ti mescono e propinano la tecnica
secondo il performare delle macchine
da trucco e strucco. Nuovi film non filmano
né fermano realtà. Bisogna scegliere
i volti noti gli oligarchi eleggere
la qualità dei tecnici. Spettacolo
perfetto… e che magliette se ne vendono!
Tra le diverse realtà le singole
esprimono linguaggi d’ogni genere
però la forma resta la medesima:
è sempre si può dare che coesistano.
La società totalità (linguistica)
unita in ogni nodo t’immosaicano
per il linguaggio che d’insieme è tessera.
Post-logo
Si definisce d’etichette il post-mondo
con istruzioni che si cambiano sempre.
E l’etichetta che si incolla alla fine
segnò l’inizio. Verità sotto chiave
ed in sua vece l’ulteriore commento.
Se per errore si sospetta che bari,
in ogni caso non si gioca più gioco.
Le storie e le esperienze dimenticate
si mutano etichette. Per etichetta
si inscatola il sapere – quel che sapevo
non lo sapevo. Non esiste la cosa:
esiste solo il marchio per etichetta.
E l’etichetta non richiama sé stessa.
Rinvio si somma su rinvio. Ti derida
il sogno della tua realtà differisca
rimandi differanze. Circa l’essenza
non si domanda l’obbiettivo, davvero
postdemoderno. Verità quel che spesso
già all’alba imprime propagande e cartelli,
che poi nessuno vede. Gioco che giochi?
Ti giochi il tempo. Non c’è vincita. Il gioco
è di per sé sconfitta -tempo allo scacco.
Post-istoria/pre-isteria
Narra, la storia, dei nostri dintorni e di ciò che possiamo
scorgere, quel che possiamo vedere. E però nel post-mondo
post-demoderno e lyotardo non si è mai perduta una storia
non puoi far sì che la storia non debba anche tu con lo sguardo
scorrerla a volo di riga. E riguarda ciò che è accaduto,
come è potuto accadere -perché (di cui puoi tu pensare
che ci potesse accadere), è lo spazio per il sapere.
E se è possibile tutto (o niente), anche perde la storia
sfondo e realtà. D’ogni dove affluisce fine del mondo
e paspaspas de papa. Se qualunque azione ci importi
ecco che nulla ci importa, così come azione non fosse.
Ecco che allora il post-mondo è per sé la fine del mondo.
Forse la fine di un mondo era passo in quel meccanismo,
lo schematismo latente per quel che si regola a solo
e non spaventa nessuno. Al più per un po’ ti s’inceppa.
Ciò che procede, non può venire. Alla fine del mondo,
altri non può ricordare, non può stabilire il momento.
Dopo la fine del mondo è rimasto il nulla. Il Messia
giunto fra noi, ma nessuno poté riconoscerlo, ognuno,
può, se lo vuole, aspettarlo -un eterno ebreo musulmano
cristico -sua buddhità che ingrassò budino alla crema
Altro che gioco non fu. Quale gioco? Forse di lingua?
Forse di pornosofia? Non è gioco no, se davvero
anche la fine del mondo non sai se sia stata o non sia;
ma non ha senso neppure il parlarne. Dove e a chi mai
l’inosservata salvezza appartenne? E quale quel mondo
che ci pervenne alla fine? E che cosa infine è rimasto?
Chi lo staccò dalla spina? Una fine ancora s’aspetta.
Lungo un tratto costiero di selvaggia e intatta bellezza, la Costa di Teulada, si trova la spiaggia di Tuerredda, assai frequentata e nota, presente sulle principali guide turistiche. A poche centinaia di metri dalla spiaggia si incontrano i primi furriadroxus (dal verbo furriài, ritirarsi, abitare), le tipiche case locali, appartenenti all’agglomerato di Malfatano. Le persone che ancora oggi vivono nei furriadroxus sono tutti uomini, scapoli e con un’età media di più di sessant’anni. Vivono una quotidianità scandita dall’attività legata all’allevamento e all’agricoltura di sussistenza, fatta di collaborazione reciproca, ma anche di solitudine e marginalità. Il film racconta il microcosmo di questi abitanti, mettendo a fuoco alcuni momenti della loro cultura e del loro stile di vita, proprio durante il mese di agosto, quando la prossimità e il contrasto con la massa dei turisti che affollano la spiaggia di Tueredda sono particolarmente accentuati.
Nella pausa delle domeniche, in pomeriggi verso il buio sempre più vicino, fra equinozi e solstizi, mentre avanza Autunno e verrà Inverno, poi “Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera“, riscoprire film rari, amati e importanti. Scelti di volta in volta da alcuni di noi, con criteri sempre diversi, trasversali e atemporali.
Mi accingevo a intervenire, richiesto da questo giornale, su un tema di attualità per Caserta: la “scomparsa” annunciata dell’ultima sala cinematografica cittadina, il Cinema San Marco, al Corso Trieste. E nell’esaminare la “letteratura” già cospicua sull’argomento, fatta di articoli di varie testate, di dichiarazioni programmatiche o proclami politico-culturali pubblici e privati, mi son imbattuto in pagine di cronaca casertana che spesso scorro senza memorizzare, con un infastidito senso di sazietà. E son caduto anch’io da cavallo, come Paolo. Ho avuto anch’io, come lui, l’illuminazione.
Nell’arco di pochi giorni, quelli che hanno preceduto e seguito il grande “Twister”, la programmazione-tornado del film messa in scena nel buio di un Corso Trieste divenuto platea cittadina, in quei pochi giorni si sono concentrati nella nostra città e nella nostra provincia tutti gli episodi di una cronaca che tenta di opporsi, rimandando più volte la propria immagine o innalzando il tono della voce o facendo cubitali i suoi caratteri, all’assuefazione che pare produrre in noi la ripetizione ossessiva e dilagante dei suoi fatti. Si sono concentrati eventi “eccezionali” ed episodi forse “consueti” di cronaca nera e di costume, politica o culturale: è esplosa, ancor più violenta ed indiscriminata, l’aggressività della camorra, la faida tra i clan, la prevaricazione e la sopraffazione nei confronti dei deboli, degli esposti, dei taglieggiati, degli indifesi; si è ancor più reso visibile il degrado ambientale, per la “percorrenza” estiva di strade e paesi e spiagge e monumenti e piazze, di discariche o di cimiteri d’auto, di depuratori ed inceneritori inefficienti o di attività industriali e umane inquinanti, di cave enormi e biancheggianti come cancri, visibilità accentuata dal controcanto che le faceva lo svolgimento dell’ennesimo convegno su San Leucio e le sue possibili destinazioni d’uso; si è in varie forme manifestato il baratro che c’è tra benessere e povertà, fra partecipazione ed emarginazione, fra sanità e malattia, fra urla sgangherate d’una gioia ostentata e doloroso silenzio; si sono sommati e quasi “toccati”, nella quotidiana esperienza, gli immobilismi d’una coscienza e di una pratica politica diffusa tra gli amministratori pubblici, che si esercita soltanto nella celebrazione del “particulare” partitico e talvolta personale; si è denunciata malasanità, malascuola, malafamiglia, mala…; si è ripetuto il rito “spettacolare” dell’organizzazione dello svago estivo che ogni anno surroga la desertificazione culturale di paesi e città…
E procederei anche oltre nell’elencazione se, durante questa “ricognizione” della cronaca, non m’avesse preso l’improvvisa sensazione d’aver trovato una formula perché, finalmente, la nostra “provincia addormentata” potesse apparirci diversa: non più in cronico ritardo nell’esercizio della vita amministrativa rispetto alle esigenze del cittadino; non più isolata nella interna comunicazione culturale e nella sua proiezione verso l’esterno, perché incapace di riconoscere i suoi stessi soggetti e, con essi, gli interlocutori esterni; non più priva di strumenti di dialogo, non solamente culturale, ma anche sociale e politico e, aggiungerei, pensando agli extra-comunitari presenti sul territorio e alle loro provenienze europee, orientali ed africane, persino religioso; non più soltanto disponibile a ricevere e accettare supinamente qualunque sollecitazione di moda, di morale, di consumo, di mercato provenga dai media; non più incapace di salvaguardare la sua identità nella propria e altrui memoria, e così via.
Mi pareva d’aver trovato la chiave risolutiva dei nostri problemi in un facile, rapido cambio di prospettiva, in un semplice spostamento del punto di osservazione, come inventare l’acqua calda: perché attenuare le nostre contraddizioni, nascondere i nostri compromessi, ritenere inconfessabili i nostri delitti, se solamente un cambio di lenti avrebbe potuto modificare la realtà? La “concentrazione” degli eventi di cronaca mi “rivelava” la loro capacità di farsi segni rappresentativi di identità, disfunzioni, contraddizioni, malesseri della nostra Italia contemporanea. Invece di ripropormi la città di Caserta e la sua provincia ben ultime nella scala dei parametri significativi della qualità della vita, me l’hanno scoperta, insospettata, in prima fila, tra i territori più “aggiornati” della nostra “modernità” negativa: malaffare, corruzione, razzismo, consumismo, violenza, asocialità, incultura, inciviltà, opportunismo e così via. O forse un rigurgito di antico?
Non importa, per ora. Basta che quanto è accaduto di recente faccia, di Caserta, un vero e proprio territorio di frontiera dove antico e moderno dialettizzano nel peggio. E mi è nata un’idea, e ha preso corpo una proposta: perché non usare la nostra città, il suo territorio, l’intera provincia, come un “laboratorio” di ricerca e di riflessione per il nostro paese? Caserta come il territorio nazionale campione dei malesseri, delle carenze, delle patologie d’Italia, il grande malato da curare? Perché non dichiarare esplicitamente la sua disponibilità a farsi territorio eccezionale di una analisi non meno eccezionale? Un voto comunale, un auspicio regionale, una legge straordinaria nazionale potrebbero istituzionalizzare questo “status” e farne un volano di progresso. Una adeguata campagna promozionale metterebbe Caserta sotto lo sguardo di tutti. Attireremmo sulla città un interesse nazionale e internazionale di studiosi e sociologi, politologi ed economisti, uomini d’industria e di mercato, artisti e scrittori. Le ricadute economiche, politiche, culturali ed artistiche sarebbero enormi.
Certo, un titolo del genere potrebbe essere ambìto anche da altri, conteso, invidiato, ma non ci mancano risorse e fantasia per conservare il primato. E soprattutto, ne vale il fine. Sotto i riflettori dell’attenzione mondiale, la provincia cambierebbe: assisteremmo a una sua trasformazione genetica. Quale camorra potrebbe più sopravvivere, pedinata dall’occhio del regista cinematografico; quale scarto sociale potrebbe ancora esistere sotto l’intervento delle multinazionali pianificatrici, con lo slogan: tutti eguali nel consumo!; quale gioventù si perderebbe, pressata da assidue manifestazioni canore pro-disperati o anti-disperazione; quale degrado ambientale sfuggirebbe al controllo del “lifting” turistico-alberghiero rinnovato e remunerativo d’un’“isola” così rappresentativa dell’intero paese? Caserta laboratorio d’Italia, dunque. Uno slogan per tutti i cinema, per tutti i teatri, per tutti i malavitosi, per tutti i politici, per tutti gli intellettuali: i presenti, gli assenti, i passati e i futuri. Caserta laboratorio d’Italia: un progetto politico e culturale che ci trasformerebbe, tutti, non più in spettatori dei film altrui, ma in protagonisti d’uno spettacolo offerto al mondo.
Peccato che ci sia ancora la Reggia a sopravvivere, piazzata lì, alta ed ingombrante, monumento allo splendore d’un tempo. Se pensiamo a Casertavecchia, ch’è divenuta già deposito di noccioline e lupini, birre e taralli al pepe, possiamo sperare che il Palazzo vanvitelliano non rimanga l’unica residua offesa a questa straordinaria “identità negativa” da affermare. Come potremmo altrimenti vendere il nostro “corpo morto”, il nostro cadavere, con quel residuo artistico sullo stomaco? Ma si possono sempre accelerare i tempi, prendendo spunto dalla recente vicenda del cinema San Marco. Immaginate quale bell’evento, grandioso e collettivo, potrebbe essere quello, da trasmettere in mondovisione, di raccoglierci sul pubblico viale Carlo III, semmai con l’aiuto coordinato di tutti i costruttori casertani che hanno messo a disposizione centinaia di poltroncine, a deprecare la scomparsa del monumento, che una multinazionale consociata, forse giapponese, ha messo all’incanto, pezzo per pezzo, come “souvenir” borbonico. Qualcuno, poi, raccogliendo i mattoni a prezzi d’amatore, lo potrebbe ricostruire altrove; Bill Gates ne potrebbe realizzare uno splendido CD-ROM come per il leonardesco Codice Hammer e a noi rimarrebbe, finalmente, tra gli “spassatempi” di Casertavecchia o i film della Flora, la memoria di un evento per cui era valso la pena di vivere.
(pubblicato in versione ridotta dal quotidiano «Il Mattino», edizione di Caserta, giovedì 17 luglio 1997, p. 22, con il titolo di Greco: fare Caserta laboratorio d’Italia. L’opinione)
Nota
Ho saputo da suo figlio Fausto che finalmente esiste un sito dedicato a Franco Carmelo Greco. Allievo di Salvatore Battaglia, storico del teatro, intellettuale oltre che studioso di riferimento nella disciplina per l’Università Federico II di Napoli, Franco Carmelo Greco è stato un vero maestro e un esempio da seguire. Questo suo testo, di grandissima attualità, è del 1997 e fa parte dell’archivio di contributi messi in rete. (effeffe)
Sartoria Utopia,la capanna editrice di libri cuciti a mano, ideata e curata da Francesca Genti e Manuela Dago, torna con tre volumi traboccanti d’amore in tutte le sue declinazioni: la ristampa di Poesie d’amore per ragazze kamikaze di Francesca Genti, da tempo introvabile; la riedizione aggiornata e con copertina personalizzata (ogni libro è un pezzo unico) del primo libro del catalogo, il Manuale per la Devozione del Fertile Gaudio di Paolo Gentiluomo; e infine le Poesie d’amore splatter di Marco Simonelli, che raccoglie testi noti come il Sesto Sebastian, un cult ormai fuori stampa, e inediti. Stasera alle 21 presso la Libreria Trebisonda di Torino, il reading inaugurale per i tre libri con gli autori. Tutte le informazioni QUI. Non perdetevelo!
CANE UNGHERESE
di notte mi sveglio
di soprassalto per un incubo.
vedo la mia anima in giro per la stanza:
faceva una passeggiata
e non ha fatto in tempo a rientrare dentro di me.
è un piccolo cane ungherese
dal manto color baio.
mi corre incontro:
apro le ossa
la faccio entrare.
nella notte
la mia anima a cuccia
dentro l’armadio del corpo.
sogno:
un albero davanti al ristorante cinese
con fiori rosa e strisce d’alluminio
tu che ordini un piatto piccante
vento che sposta polvere, pieno di fascino.
sogno:
una canzone
che forma una scala
che mi porta lontano.
e tanto polline
e un arcobaleno appiccicato al muro.
STAI PARLANDO CON UNA
che oggi ha modellato cento funghi con il DAS.
che ha passato un pomeriggio intero a scrivere una poesia con la pastina al farro
su una tela dipinta di azzurro chiaro.
che una volta era così felice di avere passato indenne un capodanno
che si è messa a ballare per la stanza
è scivolata e si è rotta un piede
e la sua felicità – anche al pronto soccorso – non è scemata minimamente.
che tiene una lavagna sotto il letto
dove scrive tutte le bugie che dice
a chi le dice e la data
e ogni mattina si ripassa lo schema generale
che cerca di salvare i cuccioli di scarafaggio.
che mantiene sempre il patto narrativo
e così non può guardare i film dell’orrore
e neanche andare al luna park nel castello della paura.
che si è colorata un paio di paperine con lo spray argento
poi le ha indossate ed è uscita
e la sera a casa aveva i piedi completamente luccicanti
due stelle brillanti nella Via Lattea
e la notte non ha dormito
per paura di morire intossicata dalla vernice.
che (molto tempo fa) ha ucciso alcuni pulcini stringendoli troppo forte
e ha fatto saltare la dentiera a sua nonna materna
con un bacio con rincorsa.
che se le racconti qualcosa di vagamente ripugnante
o se sente un odore troppo forte
è capace di vomitare all’istante.
che – grappa&vinci grappa&vinci grappa&vinci –
da sempre le piace ubriacarsi
e farsi invitare a cena
da chiunque
a ogni latitudine
in qualsiasi tipo di ristorante.
che la cosa di cui ha più bisogno
è l’abbraccio
la comprensione
il sì del mondo.
quindi, per favore:
sciacquati la bocca prima di parlare.
e fammi volare. se ci riesci.
Francesca Genti, Poesie d’amore per ragazze kamikaze (Sartoria Utopia, 2015)
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le 95 tesi di via Martinlutero
filosofia gota
-precotto è l’unica stazione della metropolitana con l’odore di cioccolata
-il passo ha quella leggerezza di respiro che si avverte camminando nei boschi
-parrebbe inadeguato nel mezzo di edifici, anche se l’orecchio tenta di percepire un cinguettio
-sei e dieci, da giocare ambo secco sulla ruota di milano
-quindi si entra andando a sinistra, superando la portineria, poi sempre a pianterreno sulla destra…
-e non è solo una porta che si apre, un varco di luce in testa, una spia luminosa nel cuore, una gocciolante attesa che ora s’asciuga
-dire ciao
-scendendo alcuni scalini
-bacio come trasmissione di parole lingua a lingua
-percorrendo tre stanze in fila con la luce proveniente da destra e una gatta lunga lunga stesa
-in bagno osservi cosa succede dall’alto di un nido
-non mi basta la mia solita ingordigia del guardare
-non c’è passo senza parole scritte
-e l’acido muriatico è pronto ad avvertire di sè tramite insegna gialla
-questa tesi dice che sei debole di stomaco
-principi d’avvelenamento odorando
-ma tu mica sei pop, e nemmeno ironica, ecco…
-bacio come morso
-morsicarti mi piace
-questa è la ventesima tesi che dice solo di se stessa
-novantacinque è numero storico e dovuto
-e se sarò troppo lungo potrai sempre appendermi al muro
-facciamo che qualche tesi la semplifico
-facciamo che un bacio può compensare
-un bacio di gioco
-un gioco di baci
-(queste tesi brevi non sai quanto le amo!)
-sorrido per averne ancora di bacio uno per il gaudio che sei e rechi
-e ancora uno
-uno e non più altro
-odorare allo spasimo colla bocca
-silenzio tattile morbido
-passaggio di memorie
-incollare francobolli?
-(sai, le ultime tesi mi parevano prendere una piega un po’ troppo… come dire)
-dunque baci. E che altro?
-le orecchie del computer parlano, perbacco!
-la musica che cala l’ernia
-tuoi cataloghi, tuoi dischi, tue cassette e tue casette, tue antitesi formosette
-un buon arrosto, una buona torta, ancora due fette
-la gatta pigola cibo e poi s’inscatola
-e altro?
-bene, se ci trovi anche dei fiori in questa storia sono tuoi
-sguardi passati in alcune foto
-una calligrafia che ancora barcolla incerta sui suoi propri versi, ma ricca di densi paesaggi vuoti
-altrimenti rimuginare i versi fino a rimetterli lì su pagina al proprio posto
-domandare il segno zodiacale del confessore
-allontanare da sé gli abiti in piena campagna
-darsi forti colpi sul corpo, corpo che non attutisce la propria mano, la propria carne
-la dentata, un lago di sangue…
-rompere l’assedio di chi non lascia scampo al sorriso
-capire il nucleo profondo dell’altrui senso dell’umorismo
-si tratta di linee tracciate nella testa dalla lingua
-io continuo a farne tesi, a proposito siamo alla numero cinquantaquattro
-me ne gioco un altro paio con le antenne che non ricevono, le piante che van potate…
-sono i vicini di un altrove e di un poi che si manifestano per via telematica
-potrei ricamarci sopra tesi sulla contemporaneità, ma non ci casco e svicolo a mancina
-viro al privato, ma ci vuole un picco d’ascolto
-se cade un amore cade un quadro cade una lampada tutto in eccellente sincrono?
-meglio essere nudi
-un bacio in memoria della contemplazione del rosmarino
-e poi pacchetto sicurezza, la gardenia che non arriva alla terza settimana, il gradozero dello zerogradare…
-l’eventuale pubblico mormora
-va detto dunque che qui c’è l’uomo che non viene mai
-è lui! attenta! il falso magro! il finto russo!
-il profilo mostra una ineliminabile deformazione sul naso pur dritto, un indizio…
-e le grandi orecchie e i grandi piedi ce li metto sempre io
-primum impastare, deinde rimuginare, mumble mumble
-e un desiderio di accogliere, ospitare, farsi valva…
-l’indizio è l’assenza di peli
-prendo un respiro
-già perché adesso c’è una tesi importante
-una tesi che si lega a un anno di nascita
-la prossima tesi è la numero settantacinque
-la tesi dice come sai essere instancabilmente bella, di bellezza che s’inanella e poi s’accoccola a ciambella
-solo mangiarti
-mangiarti solo
-se ti respiro troppo rischio
-allora pausa
-se il corpo fosse un flipper
-l’occhio si osserva marrone nei pressi della pupilla e sfuma in un meraviglioso sottobosco
-l’occhio più tardi si dice grigio per un suo stare emotivo che segue la luce
-l’occhio legge tutto, tutti gli inciampi del pensiero, li registra
-decifrarli è altra storia…
-arrotolarti tutti i pensieri in un canto, srotolarli a tempo debito
-l’umorismo tuo sì, lo spero giocondo, di azzannarlo tutto tondo fino in fondo al mondo
-per intanto intuirti, indurti a lasciarti intuire
-ed ecco il momento della manzìa!
-da tempo immemore la lettura delle viscere segna la linea del comportarsi venturo
-ma tu devi concentrarti, santapolenta!
-altrimenti la sotto copertina o la copertina di sotto rimane ineludibile taglio poco conosciuto e poco richiesto (l’oracolo è oscuro, forse troppo cotto)
-concentrati (vedi tu dove mettere l’accento)
-tu sei un taglio per intenditori (ma è un complimento a me, quindi!?…)
-la parte moderatamente intelligente e la parte significativamente babbea vanno a braccetto nell’illustrare le magnifiche sorti progressive del nostro dire
-suvvia! mi devi indicare la via per non andarmene via di qui
Paolo Gentiluomo, Manuale per la Devozione del Fertile Gaudio (Sartoria Utopia, 2015)
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L’azienda sanitaria se ne frega
non controlla la nostra epidemia,
l’infermità pulsante che ci lega
invalidi in medesima corsia:
un herpes che ci arrossa dall’interno,
un virus che patogeno ci guasta.
Lo spasmo partirà sotto lo sterno
schiacciandoci la vena cava e vasta.
Tossicomani in crisi d’astinenza
cronicamente fusi qual siamesi
esigiamo reciproca assistenza.
Dall’incidente non uscimmo illesi.
Urgente si richiede trasfusione.
Un cuore nuovo, dopo amputazione.
***
PAN – VILLANELLA KILLER
Suonarti, toccarti, percuoterti gli arti
e metterti addosso le mani, potessi
distorcerti il corpo di urti, tagliarti
a fette sottili togliendo gli scarti.
M’impongo. M’astengo. Rinuncio agli eccessi.
Suonarti, toccarti, percuoterti gli arti
e farti strumento, spezzarti in più parti.
Io voglio condurti in mezzo ai cipressi,
distorcerti il corpo di urti, tagliarti,
baciarti con lame taglienti, squartarti.
Necessito sesso. Se solo potessi
suonarti, toccarti, percuoterti gli arti…
Potessi spogliarti, sventrarti, bruciarti.
Prometti di starci? Forarti gli ingressi:
distorcerti il corpo di urti, tagliarti
le ossa, soffiarci per sempre, portarti
con me per non perderti mai. Potessi
suonarti, toccarti, percuoterti gli arti,
distorcerti il corpo di urti, tagliarti.
Marco Simonelli, Poesie d’amore splatter (Sartoria Utopia 2015)
(oggi si apre la mostra dei disegni di Nora De Cicco e Angelo Micheli THANK YOU MILANO allo Showroom Salvatori. Proseguirà fino al 27 marzo. Qui di seguito il mio testo introduttivo. G.B.)
di Gianni Biondillo
La realtà esiste solo se viene raccontata. Siamo animali sociali, se non condividiamo il mondo con chi ci sta affianco ci sentiamo esclusi, alienati. Raccontare la realtà non significa necessariamente descriverla attraverso le parole, si può narrare con una fotografia, con un disegno, con una melodia, con un oggetto. Giovanni Michelucci diceva che creare una forma è il modo che l’uomo ha di comunicare tacendo. Questo fanno gli architetti: comunicano attraverso le forme. Sempre.
Angelo Micheli, cremonese, e Nora De Cicco, napoletana, hanno deciso di rendere un omaggio a Milano, di raccontarla. E, da architetti, lo hanno fatto attraverso delle forme.
Pochi amano questa città come chi ci è arrivato da adulto. Si sceglie d’essere milanesi, è come se averla raggiunta, averla conquistata, significhi averla compresa per davvero, messa a fuoco alla distanza, più ancora di chi c’è nato, che la dà troppo spesso per evidente, scontata, prevedibile.
Se un architetto racconta una città inevitabilmente disegna delle mappe. Che non sono necessariamente quelle scientifiche del geografo. Non ostante il côté tecnico, nel petto di ogni architetto pulsa un animo d’artista. Se mappe devono essere che siano mappe sentimentali.
Ciò che raccontano i lavori di De Cicco e Micheli è la relazione sentimentale, affettiva che hanno con questa città, niente quindi che possa essere misurato con un approccio quantitativo.
La città disegnata da Nora De Cicco non ha le proporzioni, la scala, la logica di una mappa così come la intendiamo generalmente. Il tratto ricorda quello Saul Steinberg – architetto anch’esso -, infantile solo all’apparenza. Le sue mappe sono, piuttosto, il racconto di derive continue, fra effettivi camminamenti e digressioni della memoria, nei luoghi necessari che costituiscono il suo senso di cittadinanza, di appartenenza a questa città.
Derive, dicevo. Mappe che assomigliano a quelle dei situazionisti francesi. Dove non bisogna orientarsi ma perdersi – attività fra le più complicate in una metropoli, come ci ricorda Benjamin. Perdersi, cioè, nel riflesso di se stessi. Questo in fondo, vuol dirci il timbro dell’Ordine che Nora De Cicco stampa al contrario su ogni tavola. I disegni che state guardando sono di un architetto, è vero, ma non sono progetti in senso stretto, sono il riflesso del mio io, del mio cuore caldo, intimo.
Così riconosciamo i suoi luoghi affettivi, i suoi architetti feticcio – Gio Ponti, Giovanni Muzio, Vico Magistretti – o, nella profusione di oggetti trovati “per caso” in giro per la città, i suoi designer e artisti di riferimento, quelli che l’hanno formata come professionista e come persona – Bruno Munari, Achille Castiglioni, Fausto Melotti, Michele De Lucchi. E poi c’è lei, autoironica Venere di Botticelli, ritratta dall’amico Alberto Stampanoni emergente dalle acque della fontana di Piazza Gae Aulenti, o in cammino per la città, con un abitino che è già architettura (e fashion design). Piante, prospetti, sezioni, prospettive, assonometrie. Architetture moderne, contemporanee, storiche. Il Centro storico, compulsivamente reiterato, e le periferie, spesso più abbozzate, come terre ancora da scoprire. Milano. Vista come realtà organica, immaginata alla stregua della chioma della monumentale quercia rossa di piazza XXV Maggio. Viva e pulsante.
Ma se quelle di Nora De Cicco sono, con tutte le peculiarità del caso, evidentemente mappe, come si può dire lo stesso del lavoro di Angelo Micheli?
Eppure, in modo forse più criptico, sono mappe anch’esse. Basterebbe guardare i taccuini di Micheli per capire il senso di questa affermazione. Questi ritratti sono la metafora di un viaggio, quello che ogni mattina Micheli fa in treno dalla provincia di Cremona a Milano.
Troppo spesso crediamo che il paesaggio sia composto solo di cose, di orografia, di edifici, dimenticandoci così che il colore, il senso di un luogo è fatto, su tutto, dal paesaggio umano. Da chi quei luoghi li vive, li attraversa. Micheli, antropologo sentimentale, ogni mattina appunta il carattere di un viaggiatore, suo simile, suo compagno di ventura. È una sorta di performance quella che intraprende, con regole ben precise: il tempo limite del trasbordo – è per questo che spesso i ritratti restano incompiuti – e la decisione di ritrarre solo i viaggiatori che stanno leggendo, assorti. Trovare cioè in ogni viaggio fisico il viaggio mentale che ogni lettura ci dà. E perciò trovarne l’omologia, la somiglianza.
Mai come in questo caso vale il concetto che assomigliamo a ciò che leggiamo, ne siamo l’evidente riflesso. Micheli appunta sul taccuino sia il volto che la lettura. Poi, giunto a destinazione, riproduce in tavole più grandi il viso abbozzato e lo completa, come un mosaicista pop, con i ritagli dei libri o delle riviste che il suo ignaro compagno di viaggio stava leggendo. La sovrapposizione diventa il modo di esplicitare sui tratti del volto il viaggio interiore che lo sconosciuto stava facendo. Sconosciuto eppure compagno di viaggio, perduto ogni mattina giunto a destinazione e ritrovato, molto spesso, la mattina appresso. Abitanti tutti della stessa metropoli.
Quella così tanto amata da Nora De Cicco e da Angelo Micheli. E da tutti noi.
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NORA DE CICCO ANGELO MICHELI THANK YOU MILANO 12 visi + 12 mappe in mostra Opening 13 Febbraio 2015 ore 18,30
14 Febbraio · 27 Marzo 2015
lunedì-venerdì 10:00-13:00 · 14:00-19:00
Una vera specialità, nei film: la scelta, sublime, dei tempi.
Smettere di parlare, spiegare, giustificarsi, indagare, approfondire, sviscerare tematiche e situazioni, estrapolare sentimenti e paure, speranze e delusioni, preconizzare e verbalizzare e dissimulare e arrivare persino alle mani, troppi lividi bui, le borse sotto gli occhi, lo spigolo dell’armadio, e poi chiedersi scusa, ancora mi dispiace, e piangere e gridare e mordersi le orecchie e fare l’amore e perdonarsi e straziarsi, più forte ancora, ancora più in alto il braccio, ogni volta è peggio, ogni giorno è più lontana, la fine del film, i titoli di coda che ancora mancano, l’assistente alla regia è un soggetto clinicamente depresso, di stazza bipolare, riscontrati evidenti disturbi della personalità.
testi di Mariagiorgia Ulbar
fotografie di Gaetano Bellone
C’era una volta
Una stanza per stare seduti
in cui io mi sdraiavo.
Da un ingresso di vetro
persone entravano e uscivano.
Io rivedo con occhi velati
e pupille che guardano dentro
primavere snervanti, erbe già marcescenti
così tenere acerbe grafie
che desidero ancora toccare.
Vuotarsi; ci si espone a tutta la pressione dell’universo che ci circonda S. Weil
Stamani hanno spostato le poltroncine arancioni : la chiusura dev’essere libera, la porta in entrata e non in uscita, una donna vigila come un arbusto sulla soglia. Allunga uno ad uno gli arti, parla dei suoi cani sfogliando i giornali del 1998. Il tempo è fermo, nessuno se ne cura, le bave delle lumache si affacciano prima dei loro volti : escono di sera, quando l’ambiente è più umido, si cibano di cavolarie, disfano il raccolto seminato, scombinano l’ordine del campo.
Annamaria ha pianto tutta la notte. Si contorceva nel sonno, si alzava a tratti, pregava che l’inesistenza finisse, che il vuoto in cui l’aveva rinchiusa la figlia maggiore avesse uno spazio cavo all’interno : ma il vuoto non è mai cavo, si prende gioco della materia, non dell’umano, non del disumano. Il pianto è una scia lunga di parole, l’accavallarsi di ricordo e di futuro
“Quando sarò qui non mi sarà permesso di bere. Quando sono uscita non potevo seminare : i bambini giocano con la nonna e non hanno una madre. L’hai vista mia madre? Sarà per sempre una figlia. Mi ha inchiodata al muro con le dita – spesse come chiodi infilzati nella carne, ha urlato : prendetela, è questo il momento giusto.”
Ha disegnato un crocifisso al muro per fare una chiesa. Dal foglio appeso sulla fronte cadono parole : ma l’antitesi del vuoto è un’invenzione, un pieno di voce che non dice nulla se non questo sgoccialare di lettere, una ad una come nevischio, quando la consistenza non è tale da dirsi neve, quando la velocità non è tale per poter dire : pioggia.
Ha disegnato un muro per costruire una casa, per aggiungere prospettiva alla stanza che contiene. L’inserviente è entrata tre volte, ha invitato a cancellare, poi ha riso : tutto – dice – si cancellerà quando ve ne andrete.
Hai disegnato una casa : e non aveva muri.
***
Annamaria piange da centodieci giorni. Continua a pregare, straccia le verità che le sono state costruite attorno, ne aggiunge di nuove a pennarelli spessi. Ha individuato tre colori da cui è impossibile sfuggire : i primari che non hanno il camice possono mescolarsi tra loro, copulare fino a creare un terzo. Annamaria non li mescola, lascia le tinte separate come vorrebbe non fosse il mondo.
***
Eppure oggi è di nuovo ieri. La donna arbusto ha deciso di pulire i tempi. Scarta uno a uno i giornali del passato, li sostituisce con un niente : meglio il niente di un tradimento, meglio la superficie liscia, meglio estrarre la polvere e restituire un senso.
Ancora, le strisce umide a terra ricordano un tempo in cui i primi animali ad evolversi non erano ancora gli ultimi : pesci, rettili, anfibi, uccelli e molluschi. Annamaria è l’ultimo fossile rimasto in vita.
“Cara, non diventare come mia figlia. E’ il rumore che non ci capisce. Mia figlia urla e m’incatena, ha corrotto gli stolti, costruito una scena lunga e una carriera per farmi fuori. Ma io ho un buco nel petto : guardami : escono figli : guardami : nascono doglie : guardami : non esce niente. ”
Il carrello è arrivato, Annamaria piange da centodieci notti. Le infilzano uno stecco bianco in gola, restituiscono le pinzette, il colore alle labbra, le ciglia di un sud profondo, restituiscono le coroncine, gli unguenti, le madonnine dei catechismi, restituiscono i Vangeli, la lima per le vertebre, la schiena, il corpetto, due seni, la chiamano La Santa, le aprono il cappotto, le infilano le risa nella tasca, due figlie, un maschio preparato, mancano i soldi, non se ne farà niente. Sparisce come spariscono tutti:
Gli invertebrati da adulti somigliano alle piante.
Il crocifisso è stato cancellato, mi solleva la vista di due toni : posso guardare il bianco, il rovescio di una traccia, la nostra testa grida e non emette suono.
Dicono si sia persa. Ha preso un treno senza documenti, l’hanno rispedita a casa senza nome.
“Quando tornerò sarà già tardi. I bambini saranno cresciuti e la mia casa non è più grande per contenerli : mi sono rimpicciolita, hai visto? Potrò ancora parlare dopo tutto questo? Possono ascoltarmi i bambini caduti nelle buche? Può un bambino – ti chiedo – può un bambino smettere di cadere? Possono le buche smettere di avere la forma dei bambini? Sàlvati : sfonda la porta, lascia che la scia si secchi, dimenticati del troppo tardi, recupera la ore immobili, apri i giornali del giorno dopo, non guardare le date, cancella i titoli : riscrivili. E’ ora che vada. Mi hanno truccata per bene: dicono che l’arcata sopraccigliare scriva già del sorriso prima di vederlo : mi vedi? Lo vedi come sorrido? La vedi tutta questa partenza nel corpo? Ho forse bisogno di una bocca per parlare? Quante bocche ci hanno costruito, piccola, quanto partire? Smetti le bocche, smetti le teste, pensami quando io avrò smesso di pensarti.”
Madre, quando ce ne andiamo portiamo sulla schiena il ricordo di un guscio : è la nostra memoria, il nostro arto amputato che ancora continua a bruciare.
Un poesia totalmente indecifrabile è una poesia sbagliata. Non è né bella né brutta. Semplicemente è sbagliata. Dove l’ermetismo del dettato e l’invalicabilità delle presupposizioni private siano totali si è in presenza di un testo che nega se stesso. Perciò poesie di tal fatta sono rarissime.
Tra l’oscurità e la trasparenza, tra Campana e Cardarelli, tra i ventagli di Mallarmé e il campanellino di Diego Valeri la distanza è enorme ma il cammino sarà comunque percorribile e ogni testo di ardua decifrabilità offrirà sempre al lettore sagace la possibilità di uno o più appigli decifrativi.
Solo che in poesia non si tratta di “decifrare” un senso univoco e codificato dall’autore ma di poter leggere o, ancor meglio, ascoltare quell’eccedenza di significazione che, per definizione, caratterizza il testo poetico ed travalica ogni volontà individuale lasciando trionfare il testo e la sua “inconscia” autonomia anagrammatica. Giuste le parole di Claudia Ruggeri che in un suo accenno metapoetico ma sofferto scrive che il suo demone creativo “scaccia / per la capienza d’ogni nome”[1]…
Molto ammirata ma pochissimo spiegata o capita, la poesia della Ruggeri (1967-1996) appartiene ad un moderno trobar clus e risulta pertanto di difficile lettura. Per queste ragioni fu accusata e, al tempo stesso, amata al di là dell’intelligenza vivida del suo dire. Un dire spesso imperativo e pochissimo ambiguo ma, ahimè, mal compreso se non del tutto incompreso. Il mito imbelle, questo, di un certo orfismo… “Mi piace perché non lo capisco”, aberrazione modernista d’un celebre paradosso tertullianeo peraltro riferito alla credenza nel Dio cristiano.
Propongo quindi ai lettori di “Nazione indiana”, che ha già ospitato alcuni testi di questa straordinaria poetessa salentina, un esercizio di lettura sopra la seconda poesia che compone la raccolta Inferno minore[2] che Claudia Ruggeri aveva preparato ma che sarà data alle stampe solo dopo la sua tragica e volontaria morte.
“Tu ti dai pena per quella pianta di ricino (…) che in una notte è cresciuta e in una notte è perita: ed io non dovrei aver pietà di Ninive quella grande città…” (Giona 4, 10)
ormai la carta si fa tutta parlare,
ora che è senza meta e pare un caso
la sacca così premuta e fra i colori
così per forza dèsta, bianca; bianca
da respirare profondo in tanta fissazione 5
di contorni ò spensierato ò grande
inaugurato, amo la festa che porti lontano
amo la tua continua consegna mondana amo
l’idem perduto, la tua destinazione
umana; amo le tue cadute 10
ben che siano finte, passeggere
e fino che tu saprai dentro i castelli, i giardini
fiorire, altro splendore sai, altra memoria,
altro si splende si strega si ride, si tira
la tenda e libero si mescola alle carte; ma 15
i giardini si nascondono con precisione
dove cerchi la larva del tuo femminino e l’arresto
l’appartenenza inevitabile
all’Immagine all’inevitabile distensione
delle terre trascorse delle altre ancora 20
da nominare chiamarle una poli l’altra tutte
le terre perfette alla mente afferrata
di nomi che smodano scadono che portano
alla memoria o la stravagano.
(crescono ricini presso ninive
ecco, vedi, come sviene)
La prima sezione di Inferno minore, intitolata Il matto (prosette), contiene sei testi tutti dedicati alla carta dei tarocchi che rappresenta la follia. Va precisato che qui i tarocchi sono intesi come pratica cartomantica e non come gioco di carte. In una lettera ad Arrigo Colombo del 15 ottobre 1988, Claudia Ruggeri ha scritto che la “scrittura” “può iniziarsi” solo dopo che “l’inferno delle interrogazioni si è consumato” e solo dopo che il Matto è rimasto solo sul tappeto.[4]
Pertanto il Matto è figura allegorica alla quale il poeta si appella identificandosi solo parzialmente. Si tratta di un discorso che chi scrive rivolge alla figura allegorica ma anche a se stesso e al proprio “inevitabile” destino. I disturbi psichici profondi e socialmente invalidanti di cui la poetessa soffrì sino ad approdare agli sponsali lugubri della melanconia psicotica non sono ovviamente alieni dalla scelta di dialogare con questa e non con altra carta. Va però precisato che la raccolta poetica, dedicata a Franco Fortini, segna un consapevole e radicale cambiamento nella poesia della Ruggeri.
Apertura di significazione allegorica (“si fa tutta parlare”) e logorrea del Matto coincidono sin dall’inizio intrecciando nel testo il piano poetico con quello metapoetico. Ma guardiamo per un attimo la carta…
Nelle carte dei tarocchi il Matto è un girovago senza meta che tiene sulle spalle un fagottino strizzato con quelle povere cose che rappresentano allegoricamente l’insieme delle sue esperienze. Vaga incessantemente e senza destinazione in uno spazio vuoto, esterno alla realtà, in una specie di Limbo. Tra i colori del suo vestito, il bianco della sacca risalta… La Ruggeri ricorre qui, e non a caso, al sintagma “per forza dèsta” (Inf., IV, 3) con cui Dante indica il brusco risveglio dal suo torpore, prima di entrare nel cerchio del Limbo, dove incontrerà il castello dei grandi poeti. Il bianco è però un non-colore insostenibile, abbagliante e innocente ma perturbante.[5] Lo segnala la profondità di respiro (ritmo poetico) che induce il contrasto e la determinazione (“fissazione”) dei contorni (vv. 5-6). Parrebbe dunque un caso (vv. 2-3) la sacca poetica così compressa del poeta… Ma così non è. Non v’è caso, ma al contrario fissazione, acribia, determinazione e pensiero!
Detto questo – prima di analizzare il discorso rivolto al Matto che comincia al v. 6 con due vocativi e con la serie anaforica del sintagma verbale “amo” (vv. 7, 8, 10) – occorre dire che Claudia Ruggeri fu una viaggiatrice compulsiva con mete pretestuose o ossessive (Napoli) sino allo sfinimento nevrotico e alla rivolta contro se stessa e contro tale coazione. Questa nevrosi di fuga nutrì però larga parte della sua poesia precedente alla svolta costituita da Inferno minore. La nutrì ma anche la uccise e perciò andava uccisa. Come capiremo meglio in seguito.
“ò spensierato ò grande / inaugurato” (vv. 6-7) si riferisce al Matto invocato con un strano “ò” che vale “oh”. Nei tarocchi questa carta rappresenta, però, l’Arcano 0 e non ha valore numerico dato che è lo zero a porre tutti gli altri numeri che da esso derivano e ad esso tendono. Il Matto, che può sostituire ogni carta nel suo valore, rappresenta dunque allegoricamente sia l’unità del tutto (ogni numero motiplicato zero dà zero), sia l’energia primordiale e senza limiti di un nuovo inizio. È per queste ragioni che nel vocativo del testo va anche letto lo zero che identifica il Matto. Giusti altri versi di Claudia Ruggeri in cui possiamo leggere: “ero la ‘nulla’ / degli alfabeti in cifre, il segno / che non scatta”.[6] Ovviamente “inaugurato” è aulicismo di foscoliana memoria che significa “ripugnante”.
I versi che seguono (7-15) sono quasi trasparenti: del Matto chi scrive ama l’allegria portata lontano (cioè esagerata), il suo darsi (appartenere) agli uomini, il suo io perduto e la sua “destinazione umana”. La follia non è forse il destino dell’uomo? “L’idem perduto” in una prima redazione recitata del testo era banalmente “l’Eden perduto”.[7] Azzeccata pertanto la variante. È infatti evidente che, essendo kantianamente[8] l’io sempre uguale a se stesso (centro unificatore di tutte le rappresentazioni), possa anche essere validamente definito come l’idem. Del Matto si amano anche le sue cadute purché (“ben che”) siano finte e transitorie e finché lui saprà “fiorire” dentro ai castelli e ai giardini (quelli dei principi che amano i fool e quelli, danteschi, della poesia), allora potrà conoscere un diverso splendore, altri ricordi e altro riso. Potrà anche mescolarsi alle carte degli uomini e, “libero” (!), entrare nuovamente in gioco.
Ma… ma – e siamo al v. 15 – i “giardini” scompaiono quando il Matto va in cerca della “larva del suo femminino” e cioè, fuor di metafora, della Morte. L’altro grande Arcano dei tarocchi…
I giardini e la poesia si sottraggono quando il Matto va in cerca dell’arresto definitivo del suo vagare appartenendo così sempre di più all’immagine (“inevitabile”) della morte. I giardini si nascondono anche quando il Matto cerca di appartenere al passato di terre già percorse o di terre ancora da richiamare alla memoria in una perniciosa ossessione mentale. Parentesi: Claudia Ruggeri nacque a Napoli nel 1967 da madre napoletana e padre leccese. All’età di un anno fu portata a Lecce dove visse sino alla morte. Napoli, però, divenne progressivamente per lei il fulcro ossessivo di un elaborato “romanzo famigliare”. A Napoli tornò spessissimo costruendosi anche falsi ricordi infantili e la città campana si trasformò nel palcoscenico eidetico di moltissime poesie. Napoli divenne insomma il catalizzatore di un insieme di “nomi che smodano scadono che portano / alla memoria o la stravagano” (vv. 23-24). La poetessa divenne così la sposa barocca di Napoli e la sua poesia una fastosa celebrazione liturgica.[9] Sino a quando, stanca di questa sudditanza, decise di uccidere quella simbiotica parte di sé. Nella citata lettera ad Arrigo Colombo, aveva infatti scritto: “lontano da Sanfelice delle scale [il Palazzo Sanfelice di Napoli] devo fingermi cose che crescono e muoiono lontano da Napoli, l’unica maniera possibile per bloccarla perché mi muoia per raccontarla, l’unico possibile suicidio si celebra nella distanza; le darò un ricino, apici e animali che spuntino l’ombra in una sola ora… così Dio apprese a Giona la distruzione”.[10] Ancora nella poesia napoli l’ebbi strana ed il porto / e le sbronze testuali,[11] che riprende interi versi del testo che stiamo analizzando, possiamo leggere: “parlò così la sposa la distanza / che per ultimo lutto le diedi i modi esatti del poeta”.[12] Cioè proprio la nostra poesia.
Nel v. 21 (“…chiamarle una poli l’altra tutte”), quel “poli” potrebbe sembrare un refuso per “poi”. Ed in effetti in una prima redazione recitata della poesia il verso diceva “poi”. Non si tratta però di un refuso ma di una variante in cui, per disseminazione del significante, viene intenzionalmente occultata la città di Napoli: una poli = napoli.
Sempre nella prima redazione gli ultimi versi della poesia dicevano: ” – CRESCONO ORIGINI PRESSO / NINIVE – Ecco / vedi / come sviene!”.[13] Così se Ninive è Napoli e il ricino cresciuto nelle sue vicinanze è la stessa Ruggeri identificata in una sua prima e originaria maniera poetica, ciò che si legge nell’attuale distico finale in parentesi è la necessaria morte (“sviene”) di quel ricino. Il lettore deve “vederla” proprio leggendo la poesia che ha sottocchi. Una morte necessaria a che viva un’altra poesia. Una conclusione ellittica questa che, però, non fa dimenticare quanto il testo dice prima in chiave confessional e cioè che quando Matto si avvicina troppo alla morte, si estranea dai giardini della poesia e infine da tutto… Scilicet!
NOTE
[1] Claudia Ruggeri, il Matto I (del buco in figura) Beatrice, in Ead., Inferno minore, a cura di Mario Desiati, peQuod, Ancona 2006, p. 85, vv. 4-5.
[4] Vedila nel sito ufficiale di Claudia Ruggeri: http://www.claudiaruggeri.it/testi/claudia%20ad%20arrigo%20colombo.pdf
[5] L’epigrafe preposta ad Inferno minore dice: ” ‘Sebbene in diversi stati d’animo l’uomo si compiaccia di simboleggiare col bianco tante cose delicate o grandiose, nessuno può negare che nel suo profondo ideale significato la bianchezza evochi nell’anima come uno strano fantasma…’ (Hermann Melville, Moby Dick)”.
Alessandro Mendini ha definito Davide Vargas un “letterato architetto”.
Il libro Opere e Omissioni è un viaggio attraverso trenta anni di lavoro fatto di progetti disegni libri e scritture. Una sorta di confronto faccia a faccia con la propria autobiografia personale. Cadono i “commenti” critici, i riconoscimenti, la bibliografia, e resta soltanto la narrazione delle immagini. E delle parole che trovano origine nelle sensazioni e nella memoria personali. Resta anche un luogo. Il “qui” dei racconti pubblicati nel 2009, che tanta parte ha nelle ragioni del lavoro presentato. Come in una sorta di grafo si rintraccia in ogni opera. Restano anche le omissioni. Fatte di errori e di aspirazioni inespresse. Ogni cosa onestamente mostrata. Disegnata. Raccontata.
In trenta anni ho progettato edifici e ne ho realizzati (non molti e sempre con fatica). Alcuni li ho visti abitati ed amati. Altri hanno subito sorte diversa. Ho letto molto e scritto racconti. Ho disegnato e colorato. Ho colorato con il caffè come faceva Montale (me lo ha detto di recente Silvio Perrella e mi è sembrata una bella cosa). Ho letto poesie. Ho la certezza di fare sempre la stessa cosa.
Che cosa?
A lungo ho creduto di poter contribuire alla salvezza dell’uomo. Un pezzetto beninteso. E dentro una cordata dove stiano insieme linguaggi ed esperienze diverse e concorrenti. Il viaggio che ho raccontato in “Racconti di architettura” tocca le tappe di un’architettura “eroica” che portava nella propria vocazione l’idea di cambiare il mondo.Ma è un’illusione. Ce ne siamo accorti tutti. Ma nessuno rinuncia alla tensione che quell’illusione alimentava. Si tratta di un altro punto di vista.
Credo che invece ognuno scriva solo la propria personale autobiografia. Fatta di frammenti che trovano una ricomposizione. Una sorta di mappa. E una ricerca di qualità.
I miei edifici sono tutti incastonati nei dintorni della mia terra. Il “qui” che mi ha mostrato la bellezza (quella difficile da scovare) e il dolore del degrado. Ne portano impressi i segni della durezza: il cemento nudo a vista, il metallo, una sottile imperfezione e altro. In “Racconti di qui” ho cercato questa bellezza nelle pieghe, negli anfratti. Nel dorso delle cose. Così anche la geografia alla fine non esiste più. Ognuno costruisce la propria. Come una geografia letteraria. La contea di Yoknapatawpha di Faulkner o la New York di Teju Cole. Luoghi assolutamente inesistenti e quindi totalmente reali. O luoghi trasfigurati. È lo stesso.
I miei edifici parlano di me. I miei racconti parlano di me. Così i disegni. È una materia con cui fare i conti.
Il libro è una narrazione suddivisa per temi. I temi superano la cronologia.
E come in ogni narrazione occorre fare delle scelte. Una pensilina può essere più importante di un edificio più grande. Un disegno più di una costruzione.
C’è da raccontare un’idea.
Nota
Davide Vargas, Opere e Omissioni, Lettera ventidue, 2014
[Ho chiesto a Davide questa sorta di autopresentazione legata in qualche modo al suo libro di cui parlo qui.
Di seguito una scheda bibliografica di Davide Vargas.B.C.]
Progetti:
Il Municipio di San Prisco pubblicato e premiato al primo Festival dell’architettura di Parma del 2004;
Casa privata ad Aversa pubblicata e segnalata al premio Inarch2006; nel 2010 è stata inserita tra le opere selezionate per il volume “italiArchitettura” a cura di Luigi Prestinenza Puglisi per l’UTET
La Casa per Studenti di Aversa segnalata per la Medaglia d’Oro all’architettura italiana 2009, pubblicata su Domus e selezionata per Sustainab.Italy al London Festival of Architecture del 2008.
Ha partecipato agli “Annali dell’Architettura e delle Città” del 2007 con un’idea progettuale sulle aree dimesse di Bagnoli.
Ha pubblicato il libro di interviste “Conversazioni sotto una tettoia”, Clean Napoli 2004.
Suoi lavori sono segnalati su “Domus”, “Domusweb”, “Spazio e Società”, “l’Arca”, “Interni”, “Controspazio” e “d’Architettura”.
Il Municipio di san Prisco completo del secondo stralcio ultimato nel 2009 è stato selezionato per il Padiglione Italia alla Biennale Architettura di Venezia 2010. Inoltre è stato vincitore al Premio Inarch Campania 2010 e segnalato per la Medaglia d’oro all’architettura italiana.
Dal 2010 al 2011 ha scritto per Domus di Mendini.
Nel 2011 è stato selezionato per il 24th world congress of architecture UIA 2011 Tokyo.
Nel 2012 è stato selezionato per il Padiglione Italia alla Biennale Architettura di Venezia 2012 con il progetto di un’azienda vinicola a Liberi (CE).
Scritture:
Suoi racconti sono su Nazione Indiana, Comunità Provvisorie e Sud.
Nel 2009 ha pubblicato “Racconti di qui” tulliopironti editore. Il libro è stato presentato a Napoli Milano Roma Bolzano Bergamo…è stato recensito sul Venerdi di Repubblica, l’Indice dei libri, Domus, l’Arca, Nazione Indiana….è stato inserito nella classifica del Premio Pordenone legge. Mendini gli ha dedicato un editoriale su Domus e Stefano Gallerani lo ha inserito nei libri del primo decennio del 2000 su Il caffè illustrato.
Nel maggio 2012 esce “Racconti di architettura” tulliopironti editore. Stefano Galerani ne parla su Alias/Manifesto. Gianni Biondillo su domusweb. Segnalato nella rubrica LIBRI sul Venerdi di repubblica
Con ilfilodipartenope ha pubblicato “Alberi” libro d’arte in 250 copie numerate.
Ho pensato a una cosa inconsueta, e cioè al sesso tra marito e moglie. Non quello festoso e appassionato dei primi tempi, no, quello successivo, quello assuefatto e abitudinario, monotono e stanco, che viene dopo i figli. Insomma ho pensato al sesso che nonostante tutto marito e moglie continuano a fare, perché di accoppiarsi con partner occasionali son buoni tutti. Si dice che il matrimonio è un’istituzione antiquata che deve occuparsi della parte sana della vita: figli, casa, affetto. Per le perversioni, per la parte oscura di sé- per chi ce l’ha- bisogna andare a cercarsi qualcosa là fuori, nella giungla. Eppure è affascinante la sessualità che perdura dopo la procreazione, in due corpi che hanno raggiunto lo scopo imposto da Madre Natura, questa loro ostinazione alla copula e al piacere gratuito, questo essere dei Peter Pan del seme e delle ovaie, questo voler ignorare che si è già fatto quel che si doveva fare, il compito è realizzato e il mandato scaduto. Il sesso tra marito e moglie è depotenziato, è come un riassunto del sesso dei primi tempi, se allora erano 1000 baci adesso sono 100, e su questa scala si possono benissimo ricalcolare tutte le altre comunissime e triviali attività da letto. Come cambia un pompino dopo il matrimonio!
Il tempo è quasi sempre dimezzato, come la passione, ma è soprattutto la percezione che marito e moglie ne hanno- chiaramente da angolazioni diverse- a essere alterata. Il sesso tra marito e moglie è fatto sbadatamente, quasi sovrappensiero, annullato dalla consuetudine, dalla familiarità. E’ questo che tutto sommato lo rende straziante, e perciò irresistibile, perfino afrodisiaco. La crudeltà delle pratiche BDSM non sarà mai all’altezza di una scopata tra due esseri che si conoscono troppo bene, che si vogliono troppo bene (dopo essere stati innamorati che- vista la carica di distruttività insita nel sentimento dell’amore- è quasi il contrario). Il sesso tra marito e moglie non è affatto giocoso, perché la leggerezza viene portata in dote dall’incoscienza, mentre i coniugi vengono sempre incalzati dal senso di responsabilità, non fosse altro che nei confronti del loro stesso rapporto (si tratta di perpetrare e proteggere il rapporto). Alla stregua di due edonisti avviliti, non fanno altro che ripetersi: “Sarebbe sciocco mandare all’aria tutto proprio adesso, dopo tutte queste cose fatte insieme, tutti questi anni passati insieme”.
La progettualità è il fardello di cui si fanno carico i coniugi mentre scopano, pesanti zaini invisibili che li fiaccano mentre tentano di aggrovigliarsi tra di loro. D’altronde come si potrebbero accettare ruoli o maschere avendo a che fare con una persona di cui conosciamo limiti e miserie e perfino qualità (quanto possono inibire le qualità!), i cui misteri sono stati svelati a uno a uno col passare lento dei giorni? Il sesso tra marito e moglie è osceno, poiché è come se si consumasse tra amici. Marito e moglie dell’altro hanno visto le mutande sporche, hanno udito i peti, hanno assaggiato il sudore, hanno annusato l’alito cattivo, hanno toccato le vesciche. I cinque sensi sono annichiliti dalla memoria che marito e moglie conservano l’uno dell’altra, eppure marito e moglie continuano a cercarsi, bramosi di stringersi, contenti solo di sentire circolare da vicino il sangue caldo del coniuge. C’è spazio solo per la disperazione quando marito e moglie fanno sesso, perché entrambi provano una brulla commiserazione nei confronti dell’altro (e di se stessi). Il loro afrodisiaco è la pena, la loro sensualità larvale. Non è un sesso addomesticato, questo no, piuttosto un sesso compromesso, impossibile da compiersi, senza reale passione ma proprio per questo più autentico del sesso appassionato. L’amore tra marito e moglie è un sesso al di fuori della finzione dei feromoni, tanto più barbarico quanto più è molle e scocciato, tirato per i capelli, malridotto, asciugato.
E’ un sesso incastrato tra le bollette da pagare e i figli da portare a scuola, il bollo della macchina scaduto e la spesa al supermercato, un talk show televisivo e una camomilla per digerire. Accade negli interstizi della vita, cioè in luoghi simbolicamente trasgressivi, sui pianerottoli della mente. In realtà marito e moglie finiscono sempre nello stesso letto- il medesimo dove dormono russando, dove hanno trascorso infermi lunghe settimane a sfebbrare, dove anche i loro figli hanno dormito, pisciato, cacato e vomitato-, di cui conoscono ormai ogni avvallamento o escrescenza, gobba o affossamento (al pari di quelle dei loro corpi). Il sesso tra marito e moglie può non essere preannunciato da niente, le circostanze sono trascurabili. Il più delle volte non andranno a letto prima- a causa– di una cena galante, ma solo dopo un banale piatto di pasta (per tacere sui brodini col dado Star o i menù da McDonald’s), e il loro amplesso non sarà il proseguo di una conversazione sciolta e brillante- carica di tensione erotica-, bensì la protesi di brevi frasi di servizio spizzicate nel silenzio. Trascurabili saranno anche gli abiti: tute da casa, pantofole logore, maglioni lisi, abiti sformati, ecco gli strumenti di seduzione delle coppie navigate- i guardaroba magari stipati con capi di abbigliamento messi per altri, o non messi più. Il sesso tra marito e moglie nasce dalla perseveranza diabolica di due corpi disgraziati ed è, in fin dei conti e proprio in ragione di questo cantare dall’interno di una prigione (non dimenticatevi mai di Emily Dickinson!), la cosa più poetica che un uomo o una donna possano combinare.
[Riproponiamo oggi uno speciale apparso su alfabeta2 a un mese dagli eccidi di Parigi. Abbiamo raccolto alcune voci e privilegiato alcuni aspetti, convinti non solo che non sia facile dare una lettura univoca di quegli eventi, ma che non sia neppure necessario. In Francia, intanto, analisi e discussioni continuano, e non solo su legislazioni antiterrorismo e sul potenziale nemico interno, ma anche sulla segregazione sociale e razziale che mina la “République” ben più in profondità degli occasionali massacri realizzati da un piccola minoranza di adepti dell’idiozia e del fascismo di marca religiosa. Articoli di Badiou, Inglese, Donaggio, Buffoni, Rakha, Gallo Lassere. a. i.]
Tratto da Robert Lax, Poems (1962 – 1997), a cura di John Beer, Wave Books, 2013, p. 102 – 122. Grazie a Renata Morresi per un paio di migliorie e a Orsola Puecher per l’impaginazione.