Due rose rosso bordeaux, una più grande, l’altra più piccola. Una piuma nera e una retina a forma di foglia che scende a velare un occhio, due api legate a un fil di ferro che odorano i fiori. Il cappellino era perfetto. L’avevo creato nella mia mente, disegnato, modificato. Avevo cercato i materiali più adatti, girato per negozi, esplorato mercatini per ottenere le tinte giuste e i tessuti migliori, per rendere la sensazione desiderata. Con pazienza avevo messo insieme i pezzi e avevo dato forma all’idea. Ero pronta per l’attesa festa, avrei indossato sul mio capo quella preziosa architettura che attendeva nella sua scatola tonda.
Arrivai alla festa con la scatola appesa al braccio emozionato. La aprii ed era vuota. Girando gli occhi intorno a me in cerca di una spiegazione della sua scomparsa, all’improvviso, tra le teste che già erano arrivate, si aprì un varco e subito lo riconobbi.
A pochi mesi di distanza nel 2014, sono usciti due libri di Audre Lorde, poeta americana di origine caraibica, impegnata fin dagli anni 50 su vari fronti di attivismo politico. In Italia era possibile leggerla solo in vecchie pubblicazioni underground degli anni 80 del movimento lesbico femminista, tradotta da Rosanna Fiocchetto e poche altre. Sui numeri dell’allora Bollettino del CLI (Collegamento lesbiche italiane) o delle sue edizioni si può rintracciare la genesi dell’accidentato percorso degli scritti di Lorde nel nostro paese. Oggi ci vengono offerti Sorella outsider e Zami – Così riscrivo il mio nome, di cui si consiglia la lettura a chiunque si occupi di razzismo, femminismo e omofobia, se non altro perché entrambi i libri chiariscono come ogni discriminazione rafforzi l’altra. Audre Lorde, lontana da fughe di comodo e da facili certezze, ha scandagliato a fondo le dinamiche che quasi sempre impediscono di vedere la totalità dell’oppressione e le sue diramazioni e quindi di conoscerne il peso.
Nata a New York nel 1934 da genitori immigrati da Grenada, trascorrerà in questa città quasi tutta la sua vita, a lungo, oltre che con i due figli, insieme a Frances Clayton incontrata nel 1968 e sua compagna per due decenni, a cui scriverà nel 1970: “Siamo parte dell’avanguardia rivoluzionaria”. (Zami, 295) Gli ultimi anni la vedranno invece nell’isola di St. Croix dove si rifugiò con il suo ultimo amore Gloria I. Joseph.
Zami (una parola che a Carriacou, piccola isola caraibica, indica le donne che “lavorano insieme come amiche e amanti”, 9) è un diario, un racconto, un monologo che tocca un arco di tempo che va dalla sua infanzia, negli anni della lunga depressione, alla fine degli anni 50. Liana Borghi scrive nella sua introduzione che Lorde ne declina “lo statuto di verità” definendo la sua narrazione una “auto-bio-mito-grafia” (Zami, 9). Tuttavia, l’espediente narrativo non cela niente della durezza di quanto Audre Lorde racconta e Zami ci ricorda come, nelle pieghe del razzismo e del sessismo, si celi una sofferenza quasi impossibile da dire interamente.
Razzismo e sessismo pervadono in modo totale la vita di chi li subisce, devastando psiche e affetti famigliari, su cui si sarebbe tentati di non dire niente e così fanno in tante/i, per concentrarsi solo sull’aspetto della discriminazione pubblica. Se i diritti umani sono qualcosa e dovrebbero esserlo ancora, è nel campo degli affetti che vanno rivendicati, perché il dolore di essere definiti in modo spregiativo e definiti comunque sempre da altri, rende l’esistere non solo difficile ma traumatico. Zami indaga, nei più piccoli dettagli, quel trauma e i modi in cui colpisce la vita intima di ognuno, indurendo le persone, confondendole e spogliandole della capacità di tenerezza, di confronto e quasi sempre anche di conforto. La dimensione pubblica di un’oppressione prende corpo con il disprezzo verbale e gestuale, con il rendere difficile trovare lavoro e casa, con impedimenti e divieti scritti e non scritti e da lì raggiunge la personalità, che ne è profondamente segnata e ferita. Quasi per tutti la difesa consiste nel negare questa umiliazione, o nel minimizzarla, così è per i genitori dell’autrice che non possono permettersi quest’ammissione e lo stesso per le compagne gay della giovinezza, che non sanno ricomporre la mappa del loro dolore nemmeno quando esplode con la malattia mentale, la povertà, la droga e il suicidio. Di conseguenza tutto concorre a nascondere la vera realtà della violenza ai subordinati, la sua portata e i suoi effetti a medio e a lungo termine. Uno dei suoi aspetti più atroci è la possibilità, per chi detiene i privilegi, di definire gli altri/le altre e di non vedere quali interessi particolari cela il proprio agire e parlare da una posizione di vantaggio.
Essere sopravvissute, ci ricorda Lorde, nell’America razzista, misogina e omofobica (ma vale per ogni luogo ostile), quando “non era previsto noi sopravvivessimo”, se pure rende forti, non lascia però indenni né i corpi né le menti di chi subisce questo oltraggio. Le ragazze che incontriamo in Zami sono persone molto lontane da quelle descritte da Mary McCarthy nel suo noto romanzo, Il gruppo, ma notiamo come la misoginia uccida in un caso come nell’altro.
Audre Lorde pondera e analizza le molte componenti del sé e i modi in cui si declinano, così che il suo non acconsentire ad essere definita “a senso unico” la rende un’outsider; posizione sempre difficile, ma quasi insostenibile negli anni 50 e 60, tempi in cui l’appartenere a un gruppo identitario era garanzia di protezione e sopravvivenza. Dalla sua analisi delle dinamiche di gruppo vediamo come il meccanismo dell’inclusione/esclusione in base alle somiglianze e all’aderenza a certe maniere, idee e abbigliamento, funzioni in maniera oppressiva e limitante e non renda immuni dall’odio di sé.
Le pagine del viaggio in Messico dell’autrice compiuto nel 1954, si focalizzano sulla doppia realtà dei rifugiati nord americani, espatriati per sfuggire alla caccia alle streghe cominciata con la crociata anticomunista di Joseph McCarthy. Un anno prima i coniugi Rosenberg erano stati giustiziati sulla sedia elettrica come spie sovietiche e molti intellettuali e dissidenti avevano lasciato gli Stati Uniti per paura di incorrere in sanzioni e carcere per attività anti-americane; ovvero essere membri del partito comunista o simpatizzanti di idee progressiste. Tra loro molti furono gli scrittori e gli sceneggiatori di Hollywood e i giornalisti noti o meno che avevano scritto verità scomode. Eudora Garrett apparteneva al secondo gruppo, ma era in Messico da molto prima e dopo l’incontro con Lorde e durante la breve relazione che seguì, la aiutò a giungere a una migliore accettazione di sé e le aprì le porte di un sapere non accademico sulle culture indigene. Audre Lorde trarrà molto dall’esperienza messicana, sia per come vedrà da allora in poi gli altri americani, sia per un primo raffronto su come, persino tra i progressisti, l’omofobia interiorizzata, impediva ogni discorso e ogni presa di coscienza politica riguardo la sessualità. Toccherà con mano i pregiudizi del partito al ritorno negli USA.
Sorella outsider raccoglie gli scritti politici di Audre Lorde e si apre con un lungo estratto da “I diari del cancro”, lucido resoconto dell’esperienza della malattia che la colpì al seno, del conseguente intervento e della medicalizzazione con le sue imposizioni. La vecchia e nuova misoginia traspare dalla narrazione di Lorde per come si appropria dei corpi offesi in maniera subdola, quasi dolce all’apparenza nel porsi come aiuto, salvezza, autostima rinnovata, ma in verità sempre fagocitante nei modi, nel sentire e far sentire nulla la vera esperienza di chi è malato ed ha altro da dire:
Avevo ormai visto la morte in faccia, che lo riconoscessi o no, e ora avevo bisogno di sviluppare la forza datami dalla sopravvivenza. La protesi offre un vuoto conforto: “Nessuno noterà la differenza”. Ma è proprio questa differenza che io, voglio affermare, perché l’ho vissuta, e sono sopravvissuta, desidero condividere questa forza con altre donne. Se dobbiamo trasformare il silenzio che circola il cancro al seno in linguaggio e azione contro questo flagello, allora il primo passo è far diventare visibili le une alle altre le donne che hanno subito la mastectomia. Perché silenzio e invisibilità vanno a braccetto con l’impotenza. Nell’accettare il mascheramento della protesi, noi donne con un seno solo proclamiamo di essere creature insufficienti, che dipendono da una finzione. (Sorella outsider, 71-2)
Audre Lorde dopo l’intervento rifiuta di nascondere il suo corpo “solo per mettere a suo agio un mondo che soffre di fobia verso le donne” (Sorella outsider, 72); una opposizione che fa pensare e pesare su ognuna la fobia e mania che copre o scopre, in una strano e solo apparentemente contrapposto gioco di potere, i corpi femminili, senza mai dare loro valore in sé e per sé.
Gli incontri con altre intellettuali importanti nell’ambito del pensiero femminista sono ben documentati nel libro e va segnalata l’intervista-conversazione con l’amica Adrienne Rich in cui tra l’altro Lorde parla del suo rapporto con la scrittura e in particolare con la poesia:
Quando qualcuno mi diceva: “Come ti senti?” oppure “Cosa pensi?” o mi faceva un’altra domanda diretta, io recitavo una poesia, e da qualche parte in quella poesia c’era il senso, l’informazione vitale. Magari un verso, o un’immagine. La poesia era la mia risposta. (Sorella outsider, 156)
Lorde ripercorre il rapporto con le parole e con il linguaggio, specialmente quello usato dalla madre da cui prende le distanze. Nello stesso tempo riconosce l’importanza della comunicazione non verbale per decifrare ciò che le persone dicono davvero.
I vari saggi introducono al pensiero di Lorde sui temi più brucianti degli ultimi decenni: razza e sesso, differenza e diversità, ma anche classe, età, malattia, morte, pratiche S&M, sessismo dei compagni, razzismo delle compagne, lotte per l’indipendenza di altri paesi.
Angela Davis in quegli stessi anni combatteva le stesse battaglie; se tardò nel coming out, che avvenne ufficialmente nel 1997, si era però scontrata con il maschilismo del movimento antirazzista. In Autobiografia di una rivoluzionaria, tra gli stralci di una lettera a George Jackson, leggiamo:
È sintomatico che Le Roi Jones e Ron Karenga e tutta la schiera dei vigliacchi nazionalisti culturali chiedano la totale sottomissione della femmina Nera come ‘riparazione ai torti secolari che ha fatto al Maschio Nero’. Come tu dicevi, George, ci sono alcuni ovvi criteri per stabilire in che misura coloro che si definiscono nostri compagni di lotta alimentano in realtà la controrivoluzione. Un criterio è il loro atteggiamento verso i bianchi. Un altro, il loro atteggiamento verso le donne. (400)
La lotta contro il sessismo all’interno della compagine antirazzista vide Audre Lorde non cedere posizioni, ma fu altrettanto incisiva nel non fare confusione nell’indicare chi traeva beneficio da un’oppressione specifica, qualunque essa fosse:
Ogni volta che sorge il bisogno di una finzione di comunicazione, quelli che traggono beneficio dalla nostra oppressione fanno appello a noi perché condividiamo con loro la nostra conoscenza. In altre parole all’oppresso viene affidata la responsabilità di insegnare all’oppressore i suoi errori. È mia responsabilità educare gli insegnanti che a scuola tralasciano la cultura dei mie figli. Ci si aspetta che noi Neri e quelli del terzo Mondo educhiamo i bianchi circa la nostra umanità. Che le donne educhino gli uomini. Che le lesbiche e i gay educhino il mondo eterosessuale. Gli oppressori mantengono le loro posizioni ed eludono la responsabilità delle proprie azioni. C’è un costante prosciugamento di energia che potrebbe meglio essere usata nel ridefinire noi stessi e costruire il futuro. (Sorella Outsider, 191-2)
La parte finale del libro torna al tema della malattia, del cancro. Una ulteriore immersione dovuta al ripresentarsi del tumore, in forma più grave avendola colpita al fegato, ed è una limpida e straziante testimonianza del costo umano di una resistenza che ha coinvolto ogni aspetto della vita dell’autrice.
Gli oppressi hanno un lungo cammino davanti, ancora più lungo da che le religioni tornano a dettare legge con la loro mescolanza di brutalità e ontologia. Nessun rifugio ci è dato dalla storia, usata come strumento di dominio da chi detiene sapere e potere, e non c’è al momento una narrazione che possa coinvolgerci profondamente, restituendo pensiero e fiducia. Questo non deve intorpidire, né portarci a una mera difesa identitaria. Dagli anni degli scritti di Lorde ciò che è mutato è proprio il senso di appartenenza. Più libere/i e più soli/e oggi; per cui ogni lettura è anche misurare il nostro altrove. E ogni lettura non è mai, non può essere volta al solo uso militante. È la vita, nel discorso di Lorde, quello che conta; e mentre chiediamo più giustizia non rinunciamo alla certezza che se auto-definirsi crea autostima, è dall’essere indefiniti che comincia la libertà.
Non ho mai visto la tomba di mio padre.
Non che la sentenza dei suoi occhi sia mai stata cancellata.
Né le impronte delle sue mani grosse
Sulle maniglie delle nostre porte, a sera,
Un mezzo giro ogni notte e lui veniva
Fosco degli affari del mondo
Massiccio e silenzioso come il desiderio di tutto un giorno, pronto
A ridefinire ciascuna delle nostre forme –
Questo, adesso, le maniglie delle porte
Aspettano, e non ci riconoscono quando passiamo.
Ogni settimana una donna differente
Regolare come il cicchetto che beveva ogni sera
Rasa il prato che la sua fissità ha coltivato
Chiamandolo erba. Ogni settimana
Una donna differente ha la faccia di mia madre
E lui, che il tempo tiene
Immutato
Deve ben stupirsi, lui che non conobbe e amò che una.
Mio padre è morto in silenzio, amando il creato
E le risposte definite.
Visse immobili sentenze sulle cose familiari
E morì, sapendo un quindici gennaio di quell’anno me.
È perché non voglio andare in polvere che
Non ho mai visto la tomba di mio padre.
[Era la forma del giorno e l’età antonina e il severo
tempo moderno che fu del medioevo che è già.]
Post-elegia
L’informazione non vale granché: non ne vale la pena:
la frenesia dello scambio anche ci informa di sé.
L’informazione si fa verità di futurizione,
quello che guadagnerà già te lo trafficano
informazioni infinite, molteplici, vere altrettanto,
informazioni di ciò che di sicuro sarà.
Tutti si fanno maestri così, per coloro che sanno:
quello che sanno, però, certo nessuno lo sa.
Con il continuo ripetersi e sottolinearsi l’asserto
che d’informarti hai bisogno, ecco il bisogno t’è qui,
più del diritto a informarti, il più truce e atroce bisogno,
dogma di sua nullità che ti santificano.
Che se vorrai mercatare nel traffico d’informazioni
s’ha da trattarle per sé, s’ha da appropriarsene chi
le rappresenta, le crea, le spolvera, te le ripone,
te le riscrive, ne fa compra e mercato e le fa
interagire nel luogo e nel tempo in cui ti ritrovi
dentro la selva dei tuoi mostri, o spartisce con te
quel che rimane del nulla. E però nessuno ti spiega
quello che informa di sé, che informazioni e perché
poi te ne informi e che cosa ci sia e che cosa non sia
e di che cosa ti informi e se ti informi di te,
o se si informi di sé o di sé ti informi per forme
di serendipicità o se la semplicità
nel suo mistero non sia che imprimere forma su forma
con artifizio di nulla -e ti manipolano
ti manodoperano, ti manovrano senza mani.
E non è chiaro perciò quante ne circolino
informazioni inviate intorno al medesimo obbietto,
già d’ogni obbietto a sé iniquo, orbo di obbiettività,
e se la forma che avrai ricevuta s’orbiti a un punto-
e te lo chiedono già e se ne interrogano
se sarà tale o talaltra o altro o magari lo stesso:
dove diretto però, certo nessuno lo sa.
Post-in-scena
Nel mondo postmoderno la maggior parte
dei ruoli si rovescia senza passato
-futuro forse (quel che è poco tradotto,
lo si tralasci -se ne imprimano targhe
di lapide e di ferro -tombe di veri).
Ma il tuo futuro è ovunque tu ti rivolga,
fuorché domani. Gli orologi starati
misurano la storia zoppa nel tempo.
E l’oratore postmoderno non parla
d’oggetto -solo di parole -le sue-
non riferisce -riferisce a sé stesso:
di solo a solo -per sé stesso. Si plasma
di sé negli altri che nel broncio ripete
bambino. E sono postmoderno un po’ anch’io
Così ti inizio al gioco del postmoderno
Così mi inizi postmoderno per scherzo.
Non puoi non farci caso. Giochi talvolta
ad acchiappare cieco mosche su mosche
che si nascondono e non lasciano pegno.
E vince chi la dice tana per primo:
ma non ci sono tane -dunque le tane
le scavi tu da solo, ma per te stesso
ti fissi regole al tuo gioco -confini-,
l’immagine del mondo che immaginavi
per quello che ti cerchia quello che intorno
ti ha circondato da nemico -e ci perdi
ci perdo e tutti siamo e abbiamo la matta.
In questa forma nel post-mondo si avanza
nel gioco e verso il gioco -guardalo il mondo
per gioco e per post-gioco: certo è cambiato
non è lo stesso è uguale sempre immutato.
Si può parlare di ignoranza, d’inganno,
di presa di fondelli -di rassegnarsi
al segno senza senso significato
dell’insignificante. Guardi il post-mondo
tracciato sulla rete (senza) sistema.
Di questa rete i nodi -ricevitori
mittenti dell’informe -vengono spesso
al pettine non certo come capelli
di corpi ma per nodi dell’arbitrario
dell’arbitrato -l’arbitro t’ha fischiato
un fallo inesistente -sesso-non-senso
e senza sesso – ciò che informa l’informe
di informazione. Ti prenota il programma
per il teatro -ti post-nota epigramma
o elenchi di segreti sempre svelati
da Pulcinella sulla scena del tempo.
ti mette dentro le segrete non-cose.
Il dramma che a soggetto reciti sempre
si chiude per sé stesso come il suo dramma
nei nodi senza pettine e scapigliati
e si ripara e si rinorma nel caso
per come è necessario. Pone domanda
il nodo cerca un pettine e si fa storia
nel pettine creato ma per sé stesso
Si contravviene contraddice e disdice
e si pospone fatto postdemoderno.
Think imaginary
Quello che poi si traduce e si porta in linea di note,
quello che circola qui quello che può, che si sa
far circolare, è sapere -di che non si sa -ma è sapere,
l’intraducibilità che non si sa si lasciò.
Non ci si appella per esso in esso e per quel che tradotto
sempre che si tradurrà -sempre che t’occorrerà,
ecco che allora è realtà. Siamo in gabbia in copie di copie
e tu lo vedi, anche io t’ho ricopiato fin qui.
Ti garantisco perciò che il più del sapere che sai
sia traducibile sia banca di dati per sé
riproducibili. Tutti i riproduttori di scienze
abbiano poi le scansioni e le specifiche e i bit
per ritradurre le schede in linee sempre lineari,
codici di identità che si riallineano.
E non si offenda per questo il carattere del sapere-
brutto carattere ci ha, questo sapere di sé,
questo sapere perché -tuttavia così maltrattato
e maltagliato, così immaginato a metà.
E non accade così che trascritto il mondo divenga
immaginario per sua nera singolarità?
Proprio così l’alimento di fresco ora andrà surgelato
e tramutato di tono ordine e di qualità.
E se nessuno ha mangiato del fresco, ecco muore il confronto
e non c’è più verità, né leggerezza, né più
forma, se non il consumo di cibi oramai congelati.
Ordini un senso corretto e te lo servono al bar
con il caffè più ristretto del tuo preconcetto mutato
in consumata realtà e lo rimasticano
per ulteriore materia le bottinatrici operaie:
tutto ha perduto il suo senso orfano d’utilità.
Tutto si muta in oggetto di scontro -in soggetto di sconto
tutto si vende al discount. Quel che si sa, chi lo sa?
Chi sa di che? Chi saprà di sapere o di non sapere.
E della sua disgrafia l’analfabeta non è
certo -così ti nasceva il post-mondo, ovunque nascesse
per accidente da sé -non dopo il mondo, però.
Post-domus argentea
E grazie a dio si può fissare l’attimo
preciso in cui le architetture muoiono
moderne e in breve si post-architettano-
lo scrive il saggio nel linguaggio alchemico
dell’accademia. Architetture muoiono
in Marktwainland nell’anno del protempore
nel tempo senza tempi. Come muoiono
le architetture, come si trasformano
le morti in un linguaggio, che si slinguano
le morti, queste morti un poco tribadi,
un po’ sensuali, un poco pornosofiche,
linguaggio d’architetto scritto in linea,
da prima forse ancora con immagini
E tutto ciò che non si può trascrivere,
rimane tralasciato -s’ha ricorrere
a ciò che si è trascritto). Nuovo genere
davvero! Accadde prima con i rotoli
al tempo in cui li si è mutati in codice.
E se la fine si architetta restano
ragioni che a ragione si autoescludono,
consistono al trasmettersi, nell’essere
sostituite dal recording, restano
i calembours che in giochi le sistemano.
Monsieur Jourdan restò senz’altro attonito
scoprendo che per lustri fu prosastico
e non sapeva prosa. Un colpo simile
l’ha avuto l’architetto -forse il massimo
dell’universo no -senz’altro il minimo
del condominio che ci crolla facile
E certo architettare si considera
un buon tessuto in prosa (un po’ di simboli,
parole, frasi, un ordine sintattico
di segni, semi e sèmi, che ti segnano
metà linguaggi e per metà ti slinguano
puttane d’alto bordo filosofiche)
d’architettare si perdé la tecnica
l’archetipo l’archetto e l’archeozoico
e le archi-tette. Che non hai materia
o madre o dura madre -e si discorrono
discorsi universali. E ti strutturano
così valutazione d’una formula
universale che ti costruiscono.
Che mescono gli stili con le origini
Che della costruzione non è tipico
carattere non segna. In altri termini:
si tratta in vero di un processo simile
a quello in cui per verità si surroga
il farsi film. E questo ti valutano
secondo prestazioni di pornocrati
secondo il livellarsi della tecnica
orale e post-orale attori e cogito
e coito per sé stessi, utilizzabili
secondo volto e fama in più pellicole,
ti mescono e propinano la tecnica
secondo il performare delle macchine
da trucco e strucco. Nuovi film non filmano
né fermano realtà. Bisogna scegliere
i volti noti gli oligarchi eleggere
la qualità dei tecnici. Spettacolo
perfetto… e che magliette se ne vendono!
Tra le diverse realtà le singole
esprimono linguaggi d’ogni genere
però la forma resta la medesima:
è sempre si può dare che coesistano.
La società totalità (linguistica)
unita in ogni nodo t’immosaicano
per il linguaggio che d’insieme è tessera.
Post-logo
Si definisce d’etichette il post-mondo
con istruzioni che si cambiano sempre.
E l’etichetta che si incolla alla fine
segnò l’inizio. Verità sotto chiave
ed in sua vece l’ulteriore commento.
Se per errore si sospetta che bari,
in ogni caso non si gioca più gioco.
Le storie e le esperienze dimenticate
si mutano etichette. Per etichetta
si inscatola il sapere – quel che sapevo
non lo sapevo. Non esiste la cosa:
esiste solo il marchio per etichetta.
E l’etichetta non richiama sé stessa.
Rinvio si somma su rinvio. Ti derida
il sogno della tua realtà differisca
rimandi differanze. Circa l’essenza
non si domanda l’obbiettivo, davvero
postdemoderno. Verità quel che spesso
già all’alba imprime propagande e cartelli,
che poi nessuno vede. Gioco che giochi?
Ti giochi il tempo. Non c’è vincita. Il gioco
è di per sé sconfitta -tempo allo scacco.
Post-istoria/pre-isteria
Narra, la storia, dei nostri dintorni e di ciò che possiamo
scorgere, quel che possiamo vedere. E però nel post-mondo
post-demoderno e lyotardo non si è mai perduta una storia
non puoi far sì che la storia non debba anche tu con lo sguardo
scorrerla a volo di riga. E riguarda ciò che è accaduto,
come è potuto accadere -perché (di cui puoi tu pensare
che ci potesse accadere), è lo spazio per il sapere.
E se è possibile tutto (o niente), anche perde la storia
sfondo e realtà. D’ogni dove affluisce fine del mondo
e paspaspas de papa. Se qualunque azione ci importi
ecco che nulla ci importa, così come azione non fosse.
Ecco che allora il post-mondo è per sé la fine del mondo.
Forse la fine di un mondo era passo in quel meccanismo,
lo schematismo latente per quel che si regola a solo
e non spaventa nessuno. Al più per un po’ ti s’inceppa.
Ciò che procede, non può venire. Alla fine del mondo,
altri non può ricordare, non può stabilire il momento.
Dopo la fine del mondo è rimasto il nulla. Il Messia
giunto fra noi, ma nessuno poté riconoscerlo, ognuno,
può, se lo vuole, aspettarlo -un eterno ebreo musulmano
cristico -sua buddhità che ingrassò budino alla crema
Altro che gioco non fu. Quale gioco? Forse di lingua?
Forse di pornosofia? Non è gioco no, se davvero
anche la fine del mondo non sai se sia stata o non sia;
ma non ha senso neppure il parlarne. Dove e a chi mai
l’inosservata salvezza appartenne? E quale quel mondo
che ci pervenne alla fine? E che cosa infine è rimasto?
Chi lo staccò dalla spina? Una fine ancora s’aspetta.
Lungo un tratto costiero di selvaggia e intatta bellezza, la Costa di Teulada, si trova la spiaggia di Tuerredda, assai frequentata e nota, presente sulle principali guide turistiche. A poche centinaia di metri dalla spiaggia si incontrano i primi furriadroxus (dal verbo furriài, ritirarsi, abitare), le tipiche case locali, appartenenti all’agglomerato di Malfatano. Le persone che ancora oggi vivono nei furriadroxus sono tutti uomini, scapoli e con un’età media di più di sessant’anni. Vivono una quotidianità scandita dall’attività legata all’allevamento e all’agricoltura di sussistenza, fatta di collaborazione reciproca, ma anche di solitudine e marginalità. Il film racconta il microcosmo di questi abitanti, mettendo a fuoco alcuni momenti della loro cultura e del loro stile di vita, proprio durante il mese di agosto, quando la prossimità e il contrasto con la massa dei turisti che affollano la spiaggia di Tueredda sono particolarmente accentuati.
Nella pausa delle domeniche, in pomeriggi verso il buio sempre più vicino, fra equinozi e solstizi, mentre avanza Autunno e verrà Inverno, poi “Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera“, riscoprire film rari, amati e importanti. Scelti di volta in volta da alcuni di noi, con criteri sempre diversi, trasversali e atemporali.
Mi accingevo a intervenire, richiesto da questo giornale, su un tema di attualità per Caserta: la “scomparsa” annunciata dell’ultima sala cinematografica cittadina, il Cinema San Marco, al Corso Trieste. E nell’esaminare la “letteratura” già cospicua sull’argomento, fatta di articoli di varie testate, di dichiarazioni programmatiche o proclami politico-culturali pubblici e privati, mi son imbattuto in pagine di cronaca casertana che spesso scorro senza memorizzare, con un infastidito senso di sazietà. E son caduto anch’io da cavallo, come Paolo. Ho avuto anch’io, come lui, l’illuminazione.
Nell’arco di pochi giorni, quelli che hanno preceduto e seguito il grande “Twister”, la programmazione-tornado del film messa in scena nel buio di un Corso Trieste divenuto platea cittadina, in quei pochi giorni si sono concentrati nella nostra città e nella nostra provincia tutti gli episodi di una cronaca che tenta di opporsi, rimandando più volte la propria immagine o innalzando il tono della voce o facendo cubitali i suoi caratteri, all’assuefazione che pare produrre in noi la ripetizione ossessiva e dilagante dei suoi fatti. Si sono concentrati eventi “eccezionali” ed episodi forse “consueti” di cronaca nera e di costume, politica o culturale: è esplosa, ancor più violenta ed indiscriminata, l’aggressività della camorra, la faida tra i clan, la prevaricazione e la sopraffazione nei confronti dei deboli, degli esposti, dei taglieggiati, degli indifesi; si è ancor più reso visibile il degrado ambientale, per la “percorrenza” estiva di strade e paesi e spiagge e monumenti e piazze, di discariche o di cimiteri d’auto, di depuratori ed inceneritori inefficienti o di attività industriali e umane inquinanti, di cave enormi e biancheggianti come cancri, visibilità accentuata dal controcanto che le faceva lo svolgimento dell’ennesimo convegno su San Leucio e le sue possibili destinazioni d’uso; si è in varie forme manifestato il baratro che c’è tra benessere e povertà, fra partecipazione ed emarginazione, fra sanità e malattia, fra urla sgangherate d’una gioia ostentata e doloroso silenzio; si sono sommati e quasi “toccati”, nella quotidiana esperienza, gli immobilismi d’una coscienza e di una pratica politica diffusa tra gli amministratori pubblici, che si esercita soltanto nella celebrazione del “particulare” partitico e talvolta personale; si è denunciata malasanità, malascuola, malafamiglia, mala…; si è ripetuto il rito “spettacolare” dell’organizzazione dello svago estivo che ogni anno surroga la desertificazione culturale di paesi e città…
E procederei anche oltre nell’elencazione se, durante questa “ricognizione” della cronaca, non m’avesse preso l’improvvisa sensazione d’aver trovato una formula perché, finalmente, la nostra “provincia addormentata” potesse apparirci diversa: non più in cronico ritardo nell’esercizio della vita amministrativa rispetto alle esigenze del cittadino; non più isolata nella interna comunicazione culturale e nella sua proiezione verso l’esterno, perché incapace di riconoscere i suoi stessi soggetti e, con essi, gli interlocutori esterni; non più priva di strumenti di dialogo, non solamente culturale, ma anche sociale e politico e, aggiungerei, pensando agli extra-comunitari presenti sul territorio e alle loro provenienze europee, orientali ed africane, persino religioso; non più soltanto disponibile a ricevere e accettare supinamente qualunque sollecitazione di moda, di morale, di consumo, di mercato provenga dai media; non più incapace di salvaguardare la sua identità nella propria e altrui memoria, e così via.
Mi pareva d’aver trovato la chiave risolutiva dei nostri problemi in un facile, rapido cambio di prospettiva, in un semplice spostamento del punto di osservazione, come inventare l’acqua calda: perché attenuare le nostre contraddizioni, nascondere i nostri compromessi, ritenere inconfessabili i nostri delitti, se solamente un cambio di lenti avrebbe potuto modificare la realtà? La “concentrazione” degli eventi di cronaca mi “rivelava” la loro capacità di farsi segni rappresentativi di identità, disfunzioni, contraddizioni, malesseri della nostra Italia contemporanea. Invece di ripropormi la città di Caserta e la sua provincia ben ultime nella scala dei parametri significativi della qualità della vita, me l’hanno scoperta, insospettata, in prima fila, tra i territori più “aggiornati” della nostra “modernità” negativa: malaffare, corruzione, razzismo, consumismo, violenza, asocialità, incultura, inciviltà, opportunismo e così via. O forse un rigurgito di antico?
Non importa, per ora. Basta che quanto è accaduto di recente faccia, di Caserta, un vero e proprio territorio di frontiera dove antico e moderno dialettizzano nel peggio. E mi è nata un’idea, e ha preso corpo una proposta: perché non usare la nostra città, il suo territorio, l’intera provincia, come un “laboratorio” di ricerca e di riflessione per il nostro paese? Caserta come il territorio nazionale campione dei malesseri, delle carenze, delle patologie d’Italia, il grande malato da curare? Perché non dichiarare esplicitamente la sua disponibilità a farsi territorio eccezionale di una analisi non meno eccezionale? Un voto comunale, un auspicio regionale, una legge straordinaria nazionale potrebbero istituzionalizzare questo “status” e farne un volano di progresso. Una adeguata campagna promozionale metterebbe Caserta sotto lo sguardo di tutti. Attireremmo sulla città un interesse nazionale e internazionale di studiosi e sociologi, politologi ed economisti, uomini d’industria e di mercato, artisti e scrittori. Le ricadute economiche, politiche, culturali ed artistiche sarebbero enormi.
Certo, un titolo del genere potrebbe essere ambìto anche da altri, conteso, invidiato, ma non ci mancano risorse e fantasia per conservare il primato. E soprattutto, ne vale il fine. Sotto i riflettori dell’attenzione mondiale, la provincia cambierebbe: assisteremmo a una sua trasformazione genetica. Quale camorra potrebbe più sopravvivere, pedinata dall’occhio del regista cinematografico; quale scarto sociale potrebbe ancora esistere sotto l’intervento delle multinazionali pianificatrici, con lo slogan: tutti eguali nel consumo!; quale gioventù si perderebbe, pressata da assidue manifestazioni canore pro-disperati o anti-disperazione; quale degrado ambientale sfuggirebbe al controllo del “lifting” turistico-alberghiero rinnovato e remunerativo d’un’“isola” così rappresentativa dell’intero paese? Caserta laboratorio d’Italia, dunque. Uno slogan per tutti i cinema, per tutti i teatri, per tutti i malavitosi, per tutti i politici, per tutti gli intellettuali: i presenti, gli assenti, i passati e i futuri. Caserta laboratorio d’Italia: un progetto politico e culturale che ci trasformerebbe, tutti, non più in spettatori dei film altrui, ma in protagonisti d’uno spettacolo offerto al mondo.
Peccato che ci sia ancora la Reggia a sopravvivere, piazzata lì, alta ed ingombrante, monumento allo splendore d’un tempo. Se pensiamo a Casertavecchia, ch’è divenuta già deposito di noccioline e lupini, birre e taralli al pepe, possiamo sperare che il Palazzo vanvitelliano non rimanga l’unica residua offesa a questa straordinaria “identità negativa” da affermare. Come potremmo altrimenti vendere il nostro “corpo morto”, il nostro cadavere, con quel residuo artistico sullo stomaco? Ma si possono sempre accelerare i tempi, prendendo spunto dalla recente vicenda del cinema San Marco. Immaginate quale bell’evento, grandioso e collettivo, potrebbe essere quello, da trasmettere in mondovisione, di raccoglierci sul pubblico viale Carlo III, semmai con l’aiuto coordinato di tutti i costruttori casertani che hanno messo a disposizione centinaia di poltroncine, a deprecare la scomparsa del monumento, che una multinazionale consociata, forse giapponese, ha messo all’incanto, pezzo per pezzo, come “souvenir” borbonico. Qualcuno, poi, raccogliendo i mattoni a prezzi d’amatore, lo potrebbe ricostruire altrove; Bill Gates ne potrebbe realizzare uno splendido CD-ROM come per il leonardesco Codice Hammer e a noi rimarrebbe, finalmente, tra gli “spassatempi” di Casertavecchia o i film della Flora, la memoria di un evento per cui era valso la pena di vivere.
(pubblicato in versione ridotta dal quotidiano «Il Mattino», edizione di Caserta, giovedì 17 luglio 1997, p. 22, con il titolo di Greco: fare Caserta laboratorio d’Italia. L’opinione)
Nota
Ho saputo da suo figlio Fausto che finalmente esiste un sito dedicato a Franco Carmelo Greco. Allievo di Salvatore Battaglia, storico del teatro, intellettuale oltre che studioso di riferimento nella disciplina per l’Università Federico II di Napoli, Franco Carmelo Greco è stato un vero maestro e un esempio da seguire. Questo suo testo, di grandissima attualità, è del 1997 e fa parte dell’archivio di contributi messi in rete. (effeffe)
Sartoria Utopia,la capanna editrice di libri cuciti a mano, ideata e curata da Francesca Genti e Manuela Dago, torna con tre volumi traboccanti d’amore in tutte le sue declinazioni: la ristampa di Poesie d’amore per ragazze kamikaze di Francesca Genti, da tempo introvabile; la riedizione aggiornata e con copertina personalizzata (ogni libro è un pezzo unico) del primo libro del catalogo, il Manuale per la Devozione del Fertile Gaudio di Paolo Gentiluomo; e infine le Poesie d’amore splatter di Marco Simonelli, che raccoglie testi noti come il Sesto Sebastian, un cult ormai fuori stampa, e inediti. Stasera alle 21 presso la Libreria Trebisonda di Torino, il reading inaugurale per i tre libri con gli autori. Tutte le informazioni QUI. Non perdetevelo!
CANE UNGHERESE
di notte mi sveglio
di soprassalto per un incubo.
vedo la mia anima in giro per la stanza:
faceva una passeggiata
e non ha fatto in tempo a rientrare dentro di me.
è un piccolo cane ungherese
dal manto color baio.
mi corre incontro:
apro le ossa
la faccio entrare.
nella notte
la mia anima a cuccia
dentro l’armadio del corpo.
sogno:
un albero davanti al ristorante cinese
con fiori rosa e strisce d’alluminio
tu che ordini un piatto piccante
vento che sposta polvere, pieno di fascino.
sogno:
una canzone
che forma una scala
che mi porta lontano.
e tanto polline
e un arcobaleno appiccicato al muro.
STAI PARLANDO CON UNA
che oggi ha modellato cento funghi con il DAS.
che ha passato un pomeriggio intero a scrivere una poesia con la pastina al farro
su una tela dipinta di azzurro chiaro.
che una volta era così felice di avere passato indenne un capodanno
che si è messa a ballare per la stanza
è scivolata e si è rotta un piede
e la sua felicità – anche al pronto soccorso – non è scemata minimamente.
che tiene una lavagna sotto il letto
dove scrive tutte le bugie che dice
a chi le dice e la data
e ogni mattina si ripassa lo schema generale
che cerca di salvare i cuccioli di scarafaggio.
che mantiene sempre il patto narrativo
e così non può guardare i film dell’orrore
e neanche andare al luna park nel castello della paura.
che si è colorata un paio di paperine con lo spray argento
poi le ha indossate ed è uscita
e la sera a casa aveva i piedi completamente luccicanti
due stelle brillanti nella Via Lattea
e la notte non ha dormito
per paura di morire intossicata dalla vernice.
che (molto tempo fa) ha ucciso alcuni pulcini stringendoli troppo forte
e ha fatto saltare la dentiera a sua nonna materna
con un bacio con rincorsa.
che se le racconti qualcosa di vagamente ripugnante
o se sente un odore troppo forte
è capace di vomitare all’istante.
che – grappa&vinci grappa&vinci grappa&vinci –
da sempre le piace ubriacarsi
e farsi invitare a cena
da chiunque
a ogni latitudine
in qualsiasi tipo di ristorante.
che la cosa di cui ha più bisogno
è l’abbraccio
la comprensione
il sì del mondo.
quindi, per favore:
sciacquati la bocca prima di parlare.
e fammi volare. se ci riesci.
Francesca Genti, Poesie d’amore per ragazze kamikaze (Sartoria Utopia, 2015)
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le 95 tesi di via Martinlutero
filosofia gota
-precotto è l’unica stazione della metropolitana con l’odore di cioccolata
-il passo ha quella leggerezza di respiro che si avverte camminando nei boschi
-parrebbe inadeguato nel mezzo di edifici, anche se l’orecchio tenta di percepire un cinguettio
-sei e dieci, da giocare ambo secco sulla ruota di milano
-quindi si entra andando a sinistra, superando la portineria, poi sempre a pianterreno sulla destra…
-e non è solo una porta che si apre, un varco di luce in testa, una spia luminosa nel cuore, una gocciolante attesa che ora s’asciuga
-dire ciao
-scendendo alcuni scalini
-bacio come trasmissione di parole lingua a lingua
-percorrendo tre stanze in fila con la luce proveniente da destra e una gatta lunga lunga stesa
-in bagno osservi cosa succede dall’alto di un nido
-non mi basta la mia solita ingordigia del guardare
-non c’è passo senza parole scritte
-e l’acido muriatico è pronto ad avvertire di sè tramite insegna gialla
-questa tesi dice che sei debole di stomaco
-principi d’avvelenamento odorando
-ma tu mica sei pop, e nemmeno ironica, ecco…
-bacio come morso
-morsicarti mi piace
-questa è la ventesima tesi che dice solo di se stessa
-novantacinque è numero storico e dovuto
-e se sarò troppo lungo potrai sempre appendermi al muro
-facciamo che qualche tesi la semplifico
-facciamo che un bacio può compensare
-un bacio di gioco
-un gioco di baci
-(queste tesi brevi non sai quanto le amo!)
-sorrido per averne ancora di bacio uno per il gaudio che sei e rechi
-e ancora uno
-uno e non più altro
-odorare allo spasimo colla bocca
-silenzio tattile morbido
-passaggio di memorie
-incollare francobolli?
-(sai, le ultime tesi mi parevano prendere una piega un po’ troppo… come dire)
-dunque baci. E che altro?
-le orecchie del computer parlano, perbacco!
-la musica che cala l’ernia
-tuoi cataloghi, tuoi dischi, tue cassette e tue casette, tue antitesi formosette
-un buon arrosto, una buona torta, ancora due fette
-la gatta pigola cibo e poi s’inscatola
-e altro?
-bene, se ci trovi anche dei fiori in questa storia sono tuoi
-sguardi passati in alcune foto
-una calligrafia che ancora barcolla incerta sui suoi propri versi, ma ricca di densi paesaggi vuoti
-altrimenti rimuginare i versi fino a rimetterli lì su pagina al proprio posto
-domandare il segno zodiacale del confessore
-allontanare da sé gli abiti in piena campagna
-darsi forti colpi sul corpo, corpo che non attutisce la propria mano, la propria carne
-la dentata, un lago di sangue…
-rompere l’assedio di chi non lascia scampo al sorriso
-capire il nucleo profondo dell’altrui senso dell’umorismo
-si tratta di linee tracciate nella testa dalla lingua
-io continuo a farne tesi, a proposito siamo alla numero cinquantaquattro
-me ne gioco un altro paio con le antenne che non ricevono, le piante che van potate…
-sono i vicini di un altrove e di un poi che si manifestano per via telematica
-potrei ricamarci sopra tesi sulla contemporaneità, ma non ci casco e svicolo a mancina
-viro al privato, ma ci vuole un picco d’ascolto
-se cade un amore cade un quadro cade una lampada tutto in eccellente sincrono?
-meglio essere nudi
-un bacio in memoria della contemplazione del rosmarino
-e poi pacchetto sicurezza, la gardenia che non arriva alla terza settimana, il gradozero dello zerogradare…
-l’eventuale pubblico mormora
-va detto dunque che qui c’è l’uomo che non viene mai
-è lui! attenta! il falso magro! il finto russo!
-il profilo mostra una ineliminabile deformazione sul naso pur dritto, un indizio…
-e le grandi orecchie e i grandi piedi ce li metto sempre io
-primum impastare, deinde rimuginare, mumble mumble
-e un desiderio di accogliere, ospitare, farsi valva…
-l’indizio è l’assenza di peli
-prendo un respiro
-già perché adesso c’è una tesi importante
-una tesi che si lega a un anno di nascita
-la prossima tesi è la numero settantacinque
-la tesi dice come sai essere instancabilmente bella, di bellezza che s’inanella e poi s’accoccola a ciambella
-solo mangiarti
-mangiarti solo
-se ti respiro troppo rischio
-allora pausa
-se il corpo fosse un flipper
-l’occhio si osserva marrone nei pressi della pupilla e sfuma in un meraviglioso sottobosco
-l’occhio più tardi si dice grigio per un suo stare emotivo che segue la luce
-l’occhio legge tutto, tutti gli inciampi del pensiero, li registra
-decifrarli è altra storia…
-arrotolarti tutti i pensieri in un canto, srotolarli a tempo debito
-l’umorismo tuo sì, lo spero giocondo, di azzannarlo tutto tondo fino in fondo al mondo
-per intanto intuirti, indurti a lasciarti intuire
-ed ecco il momento della manzìa!
-da tempo immemore la lettura delle viscere segna la linea del comportarsi venturo
-ma tu devi concentrarti, santapolenta!
-altrimenti la sotto copertina o la copertina di sotto rimane ineludibile taglio poco conosciuto e poco richiesto (l’oracolo è oscuro, forse troppo cotto)
-concentrati (vedi tu dove mettere l’accento)
-tu sei un taglio per intenditori (ma è un complimento a me, quindi!?…)
-la parte moderatamente intelligente e la parte significativamente babbea vanno a braccetto nell’illustrare le magnifiche sorti progressive del nostro dire
-suvvia! mi devi indicare la via per non andarmene via di qui
Paolo Gentiluomo, Manuale per la Devozione del Fertile Gaudio (Sartoria Utopia, 2015)
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L’azienda sanitaria se ne frega
non controlla la nostra epidemia,
l’infermità pulsante che ci lega
invalidi in medesima corsia:
un herpes che ci arrossa dall’interno,
un virus che patogeno ci guasta.
Lo spasmo partirà sotto lo sterno
schiacciandoci la vena cava e vasta.
Tossicomani in crisi d’astinenza
cronicamente fusi qual siamesi
esigiamo reciproca assistenza.
Dall’incidente non uscimmo illesi.
Urgente si richiede trasfusione.
Un cuore nuovo, dopo amputazione.
***
PAN – VILLANELLA KILLER
Suonarti, toccarti, percuoterti gli arti
e metterti addosso le mani, potessi
distorcerti il corpo di urti, tagliarti
a fette sottili togliendo gli scarti.
M’impongo. M’astengo. Rinuncio agli eccessi.
Suonarti, toccarti, percuoterti gli arti
e farti strumento, spezzarti in più parti.
Io voglio condurti in mezzo ai cipressi,
distorcerti il corpo di urti, tagliarti,
baciarti con lame taglienti, squartarti.
Necessito sesso. Se solo potessi
suonarti, toccarti, percuoterti gli arti…
Potessi spogliarti, sventrarti, bruciarti.
Prometti di starci? Forarti gli ingressi:
distorcerti il corpo di urti, tagliarti
le ossa, soffiarci per sempre, portarti
con me per non perderti mai. Potessi
suonarti, toccarti, percuoterti gli arti,
distorcerti il corpo di urti, tagliarti.
Marco Simonelli, Poesie d’amore splatter (Sartoria Utopia 2015)
(oggi si apre la mostra dei disegni di Nora De Cicco e Angelo Micheli THANK YOU MILANO allo Showroom Salvatori. Proseguirà fino al 27 marzo. Qui di seguito il mio testo introduttivo. G.B.)
di Gianni Biondillo
La realtà esiste solo se viene raccontata. Siamo animali sociali, se non condividiamo il mondo con chi ci sta affianco ci sentiamo esclusi, alienati. Raccontare la realtà non significa necessariamente descriverla attraverso le parole, si può narrare con una fotografia, con un disegno, con una melodia, con un oggetto. Giovanni Michelucci diceva che creare una forma è il modo che l’uomo ha di comunicare tacendo. Questo fanno gli architetti: comunicano attraverso le forme. Sempre.
Angelo Micheli, cremonese, e Nora De Cicco, napoletana, hanno deciso di rendere un omaggio a Milano, di raccontarla. E, da architetti, lo hanno fatto attraverso delle forme.
Pochi amano questa città come chi ci è arrivato da adulto. Si sceglie d’essere milanesi, è come se averla raggiunta, averla conquistata, significhi averla compresa per davvero, messa a fuoco alla distanza, più ancora di chi c’è nato, che la dà troppo spesso per evidente, scontata, prevedibile.
Se un architetto racconta una città inevitabilmente disegna delle mappe. Che non sono necessariamente quelle scientifiche del geografo. Non ostante il côté tecnico, nel petto di ogni architetto pulsa un animo d’artista. Se mappe devono essere che siano mappe sentimentali.
Ciò che raccontano i lavori di De Cicco e Micheli è la relazione sentimentale, affettiva che hanno con questa città, niente quindi che possa essere misurato con un approccio quantitativo.
La città disegnata da Nora De Cicco non ha le proporzioni, la scala, la logica di una mappa così come la intendiamo generalmente. Il tratto ricorda quello Saul Steinberg – architetto anch’esso -, infantile solo all’apparenza. Le sue mappe sono, piuttosto, il racconto di derive continue, fra effettivi camminamenti e digressioni della memoria, nei luoghi necessari che costituiscono il suo senso di cittadinanza, di appartenenza a questa città.
Derive, dicevo. Mappe che assomigliano a quelle dei situazionisti francesi. Dove non bisogna orientarsi ma perdersi – attività fra le più complicate in una metropoli, come ci ricorda Benjamin. Perdersi, cioè, nel riflesso di se stessi. Questo in fondo, vuol dirci il timbro dell’Ordine che Nora De Cicco stampa al contrario su ogni tavola. I disegni che state guardando sono di un architetto, è vero, ma non sono progetti in senso stretto, sono il riflesso del mio io, del mio cuore caldo, intimo.
Così riconosciamo i suoi luoghi affettivi, i suoi architetti feticcio – Gio Ponti, Giovanni Muzio, Vico Magistretti – o, nella profusione di oggetti trovati “per caso” in giro per la città, i suoi designer e artisti di riferimento, quelli che l’hanno formata come professionista e come persona – Bruno Munari, Achille Castiglioni, Fausto Melotti, Michele De Lucchi. E poi c’è lei, autoironica Venere di Botticelli, ritratta dall’amico Alberto Stampanoni emergente dalle acque della fontana di Piazza Gae Aulenti, o in cammino per la città, con un abitino che è già architettura (e fashion design). Piante, prospetti, sezioni, prospettive, assonometrie. Architetture moderne, contemporanee, storiche. Il Centro storico, compulsivamente reiterato, e le periferie, spesso più abbozzate, come terre ancora da scoprire. Milano. Vista come realtà organica, immaginata alla stregua della chioma della monumentale quercia rossa di piazza XXV Maggio. Viva e pulsante.
Ma se quelle di Nora De Cicco sono, con tutte le peculiarità del caso, evidentemente mappe, come si può dire lo stesso del lavoro di Angelo Micheli?
Eppure, in modo forse più criptico, sono mappe anch’esse. Basterebbe guardare i taccuini di Micheli per capire il senso di questa affermazione. Questi ritratti sono la metafora di un viaggio, quello che ogni mattina Micheli fa in treno dalla provincia di Cremona a Milano.
Troppo spesso crediamo che il paesaggio sia composto solo di cose, di orografia, di edifici, dimenticandoci così che il colore, il senso di un luogo è fatto, su tutto, dal paesaggio umano. Da chi quei luoghi li vive, li attraversa. Micheli, antropologo sentimentale, ogni mattina appunta il carattere di un viaggiatore, suo simile, suo compagno di ventura. È una sorta di performance quella che intraprende, con regole ben precise: il tempo limite del trasbordo – è per questo che spesso i ritratti restano incompiuti – e la decisione di ritrarre solo i viaggiatori che stanno leggendo, assorti. Trovare cioè in ogni viaggio fisico il viaggio mentale che ogni lettura ci dà. E perciò trovarne l’omologia, la somiglianza.
Mai come in questo caso vale il concetto che assomigliamo a ciò che leggiamo, ne siamo l’evidente riflesso. Micheli appunta sul taccuino sia il volto che la lettura. Poi, giunto a destinazione, riproduce in tavole più grandi il viso abbozzato e lo completa, come un mosaicista pop, con i ritagli dei libri o delle riviste che il suo ignaro compagno di viaggio stava leggendo. La sovrapposizione diventa il modo di esplicitare sui tratti del volto il viaggio interiore che lo sconosciuto stava facendo. Sconosciuto eppure compagno di viaggio, perduto ogni mattina giunto a destinazione e ritrovato, molto spesso, la mattina appresso. Abitanti tutti della stessa metropoli.
Quella così tanto amata da Nora De Cicco e da Angelo Micheli. E da tutti noi.
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NORA DE CICCO ANGELO MICHELI THANK YOU MILANO 12 visi + 12 mappe in mostra Opening 13 Febbraio 2015 ore 18,30
14 Febbraio · 27 Marzo 2015
lunedì-venerdì 10:00-13:00 · 14:00-19:00
Una vera specialità, nei film: la scelta, sublime, dei tempi.
Smettere di parlare, spiegare, giustificarsi, indagare, approfondire, sviscerare tematiche e situazioni, estrapolare sentimenti e paure, speranze e delusioni, preconizzare e verbalizzare e dissimulare e arrivare persino alle mani, troppi lividi bui, le borse sotto gli occhi, lo spigolo dell’armadio, e poi chiedersi scusa, ancora mi dispiace, e piangere e gridare e mordersi le orecchie e fare l’amore e perdonarsi e straziarsi, più forte ancora, ancora più in alto il braccio, ogni volta è peggio, ogni giorno è più lontana, la fine del film, i titoli di coda che ancora mancano, l’assistente alla regia è un soggetto clinicamente depresso, di stazza bipolare, riscontrati evidenti disturbi della personalità.
testi di Mariagiorgia Ulbar
fotografie di Gaetano Bellone
C’era una volta
Una stanza per stare seduti
in cui io mi sdraiavo.
Da un ingresso di vetro
persone entravano e uscivano.
Io rivedo con occhi velati
e pupille che guardano dentro
primavere snervanti, erbe già marcescenti
così tenere acerbe grafie
che desidero ancora toccare.
Vuotarsi; ci si espone a tutta la pressione dell’universo che ci circonda S. Weil
Stamani hanno spostato le poltroncine arancioni : la chiusura dev’essere libera, la porta in entrata e non in uscita, una donna vigila come un arbusto sulla soglia. Allunga uno ad uno gli arti, parla dei suoi cani sfogliando i giornali del 1998. Il tempo è fermo, nessuno se ne cura, le bave delle lumache si affacciano prima dei loro volti : escono di sera, quando l’ambiente è più umido, si cibano di cavolarie, disfano il raccolto seminato, scombinano l’ordine del campo.
Annamaria ha pianto tutta la notte. Si contorceva nel sonno, si alzava a tratti, pregava che l’inesistenza finisse, che il vuoto in cui l’aveva rinchiusa la figlia maggiore avesse uno spazio cavo all’interno : ma il vuoto non è mai cavo, si prende gioco della materia, non dell’umano, non del disumano. Il pianto è una scia lunga di parole, l’accavallarsi di ricordo e di futuro
“Quando sarò qui non mi sarà permesso di bere. Quando sono uscita non potevo seminare : i bambini giocano con la nonna e non hanno una madre. L’hai vista mia madre? Sarà per sempre una figlia. Mi ha inchiodata al muro con le dita – spesse come chiodi infilzati nella carne, ha urlato : prendetela, è questo il momento giusto.”
Ha disegnato un crocifisso al muro per fare una chiesa. Dal foglio appeso sulla fronte cadono parole : ma l’antitesi del vuoto è un’invenzione, un pieno di voce che non dice nulla se non questo sgoccialare di lettere, una ad una come nevischio, quando la consistenza non è tale da dirsi neve, quando la velocità non è tale per poter dire : pioggia.
Ha disegnato un muro per costruire una casa, per aggiungere prospettiva alla stanza che contiene. L’inserviente è entrata tre volte, ha invitato a cancellare, poi ha riso : tutto – dice – si cancellerà quando ve ne andrete.
Hai disegnato una casa : e non aveva muri.
***
Annamaria piange da centodieci giorni. Continua a pregare, straccia le verità che le sono state costruite attorno, ne aggiunge di nuove a pennarelli spessi. Ha individuato tre colori da cui è impossibile sfuggire : i primari che non hanno il camice possono mescolarsi tra loro, copulare fino a creare un terzo. Annamaria non li mescola, lascia le tinte separate come vorrebbe non fosse il mondo.
***
Eppure oggi è di nuovo ieri. La donna arbusto ha deciso di pulire i tempi. Scarta uno a uno i giornali del passato, li sostituisce con un niente : meglio il niente di un tradimento, meglio la superficie liscia, meglio estrarre la polvere e restituire un senso.
Ancora, le strisce umide a terra ricordano un tempo in cui i primi animali ad evolversi non erano ancora gli ultimi : pesci, rettili, anfibi, uccelli e molluschi. Annamaria è l’ultimo fossile rimasto in vita.
“Cara, non diventare come mia figlia. E’ il rumore che non ci capisce. Mia figlia urla e m’incatena, ha corrotto gli stolti, costruito una scena lunga e una carriera per farmi fuori. Ma io ho un buco nel petto : guardami : escono figli : guardami : nascono doglie : guardami : non esce niente. ”
Il carrello è arrivato, Annamaria piange da centodieci notti. Le infilzano uno stecco bianco in gola, restituiscono le pinzette, il colore alle labbra, le ciglia di un sud profondo, restituiscono le coroncine, gli unguenti, le madonnine dei catechismi, restituiscono i Vangeli, la lima per le vertebre, la schiena, il corpetto, due seni, la chiamano La Santa, le aprono il cappotto, le infilano le risa nella tasca, due figlie, un maschio preparato, mancano i soldi, non se ne farà niente. Sparisce come spariscono tutti:
Gli invertebrati da adulti somigliano alle piante.
Il crocifisso è stato cancellato, mi solleva la vista di due toni : posso guardare il bianco, il rovescio di una traccia, la nostra testa grida e non emette suono.
Dicono si sia persa. Ha preso un treno senza documenti, l’hanno rispedita a casa senza nome.
“Quando tornerò sarà già tardi. I bambini saranno cresciuti e la mia casa non è più grande per contenerli : mi sono rimpicciolita, hai visto? Potrò ancora parlare dopo tutto questo? Possono ascoltarmi i bambini caduti nelle buche? Può un bambino – ti chiedo – può un bambino smettere di cadere? Possono le buche smettere di avere la forma dei bambini? Sàlvati : sfonda la porta, lascia che la scia si secchi, dimenticati del troppo tardi, recupera la ore immobili, apri i giornali del giorno dopo, non guardare le date, cancella i titoli : riscrivili. E’ ora che vada. Mi hanno truccata per bene: dicono che l’arcata sopraccigliare scriva già del sorriso prima di vederlo : mi vedi? Lo vedi come sorrido? La vedi tutta questa partenza nel corpo? Ho forse bisogno di una bocca per parlare? Quante bocche ci hanno costruito, piccola, quanto partire? Smetti le bocche, smetti le teste, pensami quando io avrò smesso di pensarti.”
Madre, quando ce ne andiamo portiamo sulla schiena il ricordo di un guscio : è la nostra memoria, il nostro arto amputato che ancora continua a bruciare.
Un poesia totalmente indecifrabile è una poesia sbagliata. Non è né bella né brutta. Semplicemente è sbagliata. Dove l’ermetismo del dettato e l’invalicabilità delle presupposizioni private siano totali si è in presenza di un testo che nega se stesso. Perciò poesie di tal fatta sono rarissime.
Tra l’oscurità e la trasparenza, tra Campana e Cardarelli, tra i ventagli di Mallarmé e il campanellino di Diego Valeri la distanza è enorme ma il cammino sarà comunque percorribile e ogni testo di ardua decifrabilità offrirà sempre al lettore sagace la possibilità di uno o più appigli decifrativi.
Solo che in poesia non si tratta di “decifrare” un senso univoco e codificato dall’autore ma di poter leggere o, ancor meglio, ascoltare quell’eccedenza di significazione che, per definizione, caratterizza il testo poetico ed travalica ogni volontà individuale lasciando trionfare il testo e la sua “inconscia” autonomia anagrammatica. Giuste le parole di Claudia Ruggeri che in un suo accenno metapoetico ma sofferto scrive che il suo demone creativo “scaccia / per la capienza d’ogni nome”[1]…
Molto ammirata ma pochissimo spiegata o capita, la poesia della Ruggeri (1967-1996) appartiene ad un moderno trobar clus e risulta pertanto di difficile lettura. Per queste ragioni fu accusata e, al tempo stesso, amata al di là dell’intelligenza vivida del suo dire. Un dire spesso imperativo e pochissimo ambiguo ma, ahimè, mal compreso se non del tutto incompreso. Il mito imbelle, questo, di un certo orfismo… “Mi piace perché non lo capisco”, aberrazione modernista d’un celebre paradosso tertullianeo peraltro riferito alla credenza nel Dio cristiano.
Propongo quindi ai lettori di “Nazione indiana”, che ha già ospitato alcuni testi di questa straordinaria poetessa salentina, un esercizio di lettura sopra la seconda poesia che compone la raccolta Inferno minore[2] che Claudia Ruggeri aveva preparato ma che sarà data alle stampe solo dopo la sua tragica e volontaria morte.
“Tu ti dai pena per quella pianta di ricino (…) che in una notte è cresciuta e in una notte è perita: ed io non dovrei aver pietà di Ninive quella grande città…” (Giona 4, 10)
ormai la carta si fa tutta parlare,
ora che è senza meta e pare un caso
la sacca così premuta e fra i colori
così per forza dèsta, bianca; bianca
da respirare profondo in tanta fissazione 5
di contorni ò spensierato ò grande
inaugurato, amo la festa che porti lontano
amo la tua continua consegna mondana amo
l’idem perduto, la tua destinazione
umana; amo le tue cadute 10
ben che siano finte, passeggere
e fino che tu saprai dentro i castelli, i giardini
fiorire, altro splendore sai, altra memoria,
altro si splende si strega si ride, si tira
la tenda e libero si mescola alle carte; ma 15
i giardini si nascondono con precisione
dove cerchi la larva del tuo femminino e l’arresto
l’appartenenza inevitabile
all’Immagine all’inevitabile distensione
delle terre trascorse delle altre ancora 20
da nominare chiamarle una poli l’altra tutte
le terre perfette alla mente afferrata
di nomi che smodano scadono che portano
alla memoria o la stravagano.
(crescono ricini presso ninive
ecco, vedi, come sviene)
La prima sezione di Inferno minore, intitolata Il matto (prosette), contiene sei testi tutti dedicati alla carta dei tarocchi che rappresenta la follia. Va precisato che qui i tarocchi sono intesi come pratica cartomantica e non come gioco di carte. In una lettera ad Arrigo Colombo del 15 ottobre 1988, Claudia Ruggeri ha scritto che la “scrittura” “può iniziarsi” solo dopo che “l’inferno delle interrogazioni si è consumato” e solo dopo che il Matto è rimasto solo sul tappeto.[4]
Pertanto il Matto è figura allegorica alla quale il poeta si appella identificandosi solo parzialmente. Si tratta di un discorso che chi scrive rivolge alla figura allegorica ma anche a se stesso e al proprio “inevitabile” destino. I disturbi psichici profondi e socialmente invalidanti di cui la poetessa soffrì sino ad approdare agli sponsali lugubri della melanconia psicotica non sono ovviamente alieni dalla scelta di dialogare con questa e non con altra carta. Va però precisato che la raccolta poetica, dedicata a Franco Fortini, segna un consapevole e radicale cambiamento nella poesia della Ruggeri.
Apertura di significazione allegorica (“si fa tutta parlare”) e logorrea del Matto coincidono sin dall’inizio intrecciando nel testo il piano poetico con quello metapoetico. Ma guardiamo per un attimo la carta…
Nelle carte dei tarocchi il Matto è un girovago senza meta che tiene sulle spalle un fagottino strizzato con quelle povere cose che rappresentano allegoricamente l’insieme delle sue esperienze. Vaga incessantemente e senza destinazione in uno spazio vuoto, esterno alla realtà, in una specie di Limbo. Tra i colori del suo vestito, il bianco della sacca risalta… La Ruggeri ricorre qui, e non a caso, al sintagma “per forza dèsta” (Inf., IV, 3) con cui Dante indica il brusco risveglio dal suo torpore, prima di entrare nel cerchio del Limbo, dove incontrerà il castello dei grandi poeti. Il bianco è però un non-colore insostenibile, abbagliante e innocente ma perturbante.[5] Lo segnala la profondità di respiro (ritmo poetico) che induce il contrasto e la determinazione (“fissazione”) dei contorni (vv. 5-6). Parrebbe dunque un caso (vv. 2-3) la sacca poetica così compressa del poeta… Ma così non è. Non v’è caso, ma al contrario fissazione, acribia, determinazione e pensiero!
Detto questo – prima di analizzare il discorso rivolto al Matto che comincia al v. 6 con due vocativi e con la serie anaforica del sintagma verbale “amo” (vv. 7, 8, 10) – occorre dire che Claudia Ruggeri fu una viaggiatrice compulsiva con mete pretestuose o ossessive (Napoli) sino allo sfinimento nevrotico e alla rivolta contro se stessa e contro tale coazione. Questa nevrosi di fuga nutrì però larga parte della sua poesia precedente alla svolta costituita da Inferno minore. La nutrì ma anche la uccise e perciò andava uccisa. Come capiremo meglio in seguito.
“ò spensierato ò grande / inaugurato” (vv. 6-7) si riferisce al Matto invocato con un strano “ò” che vale “oh”. Nei tarocchi questa carta rappresenta, però, l’Arcano 0 e non ha valore numerico dato che è lo zero a porre tutti gli altri numeri che da esso derivano e ad esso tendono. Il Matto, che può sostituire ogni carta nel suo valore, rappresenta dunque allegoricamente sia l’unità del tutto (ogni numero motiplicato zero dà zero), sia l’energia primordiale e senza limiti di un nuovo inizio. È per queste ragioni che nel vocativo del testo va anche letto lo zero che identifica il Matto. Giusti altri versi di Claudia Ruggeri in cui possiamo leggere: “ero la ‘nulla’ / degli alfabeti in cifre, il segno / che non scatta”.[6] Ovviamente “inaugurato” è aulicismo di foscoliana memoria che significa “ripugnante”.
I versi che seguono (7-15) sono quasi trasparenti: del Matto chi scrive ama l’allegria portata lontano (cioè esagerata), il suo darsi (appartenere) agli uomini, il suo io perduto e la sua “destinazione umana”. La follia non è forse il destino dell’uomo? “L’idem perduto” in una prima redazione recitata del testo era banalmente “l’Eden perduto”.[7] Azzeccata pertanto la variante. È infatti evidente che, essendo kantianamente[8] l’io sempre uguale a se stesso (centro unificatore di tutte le rappresentazioni), possa anche essere validamente definito come l’idem. Del Matto si amano anche le sue cadute purché (“ben che”) siano finte e transitorie e finché lui saprà “fiorire” dentro ai castelli e ai giardini (quelli dei principi che amano i fool e quelli, danteschi, della poesia), allora potrà conoscere un diverso splendore, altri ricordi e altro riso. Potrà anche mescolarsi alle carte degli uomini e, “libero” (!), entrare nuovamente in gioco.
Ma… ma – e siamo al v. 15 – i “giardini” scompaiono quando il Matto va in cerca della “larva del suo femminino” e cioè, fuor di metafora, della Morte. L’altro grande Arcano dei tarocchi…
I giardini e la poesia si sottraggono quando il Matto va in cerca dell’arresto definitivo del suo vagare appartenendo così sempre di più all’immagine (“inevitabile”) della morte. I giardini si nascondono anche quando il Matto cerca di appartenere al passato di terre già percorse o di terre ancora da richiamare alla memoria in una perniciosa ossessione mentale. Parentesi: Claudia Ruggeri nacque a Napoli nel 1967 da madre napoletana e padre leccese. All’età di un anno fu portata a Lecce dove visse sino alla morte. Napoli, però, divenne progressivamente per lei il fulcro ossessivo di un elaborato “romanzo famigliare”. A Napoli tornò spessissimo costruendosi anche falsi ricordi infantili e la città campana si trasformò nel palcoscenico eidetico di moltissime poesie. Napoli divenne insomma il catalizzatore di un insieme di “nomi che smodano scadono che portano / alla memoria o la stravagano” (vv. 23-24). La poetessa divenne così la sposa barocca di Napoli e la sua poesia una fastosa celebrazione liturgica.[9] Sino a quando, stanca di questa sudditanza, decise di uccidere quella simbiotica parte di sé. Nella citata lettera ad Arrigo Colombo, aveva infatti scritto: “lontano da Sanfelice delle scale [il Palazzo Sanfelice di Napoli] devo fingermi cose che crescono e muoiono lontano da Napoli, l’unica maniera possibile per bloccarla perché mi muoia per raccontarla, l’unico possibile suicidio si celebra nella distanza; le darò un ricino, apici e animali che spuntino l’ombra in una sola ora… così Dio apprese a Giona la distruzione”.[10] Ancora nella poesia napoli l’ebbi strana ed il porto / e le sbronze testuali,[11] che riprende interi versi del testo che stiamo analizzando, possiamo leggere: “parlò così la sposa la distanza / che per ultimo lutto le diedi i modi esatti del poeta”.[12] Cioè proprio la nostra poesia.
Nel v. 21 (“…chiamarle una poli l’altra tutte”), quel “poli” potrebbe sembrare un refuso per “poi”. Ed in effetti in una prima redazione recitata della poesia il verso diceva “poi”. Non si tratta però di un refuso ma di una variante in cui, per disseminazione del significante, viene intenzionalmente occultata la città di Napoli: una poli = napoli.
Sempre nella prima redazione gli ultimi versi della poesia dicevano: ” – CRESCONO ORIGINI PRESSO / NINIVE – Ecco / vedi / come sviene!”.[13] Così se Ninive è Napoli e il ricino cresciuto nelle sue vicinanze è la stessa Ruggeri identificata in una sua prima e originaria maniera poetica, ciò che si legge nell’attuale distico finale in parentesi è la necessaria morte (“sviene”) di quel ricino. Il lettore deve “vederla” proprio leggendo la poesia che ha sottocchi. Una morte necessaria a che viva un’altra poesia. Una conclusione ellittica questa che, però, non fa dimenticare quanto il testo dice prima in chiave confessional e cioè che quando Matto si avvicina troppo alla morte, si estranea dai giardini della poesia e infine da tutto… Scilicet!
NOTE
[1] Claudia Ruggeri, il Matto I (del buco in figura) Beatrice, in Ead., Inferno minore, a cura di Mario Desiati, peQuod, Ancona 2006, p. 85, vv. 4-5.
[4] Vedila nel sito ufficiale di Claudia Ruggeri: http://www.claudiaruggeri.it/testi/claudia%20ad%20arrigo%20colombo.pdf
[5] L’epigrafe preposta ad Inferno minore dice: ” ‘Sebbene in diversi stati d’animo l’uomo si compiaccia di simboleggiare col bianco tante cose delicate o grandiose, nessuno può negare che nel suo profondo ideale significato la bianchezza evochi nell’anima come uno strano fantasma…’ (Hermann Melville, Moby Dick)”.
Alessandro Mendini ha definito Davide Vargas un “letterato architetto”.
Il libro Opere e Omissioni è un viaggio attraverso trenta anni di lavoro fatto di progetti disegni libri e scritture. Una sorta di confronto faccia a faccia con la propria autobiografia personale. Cadono i “commenti” critici, i riconoscimenti, la bibliografia, e resta soltanto la narrazione delle immagini. E delle parole che trovano origine nelle sensazioni e nella memoria personali. Resta anche un luogo. Il “qui” dei racconti pubblicati nel 2009, che tanta parte ha nelle ragioni del lavoro presentato. Come in una sorta di grafo si rintraccia in ogni opera. Restano anche le omissioni. Fatte di errori e di aspirazioni inespresse. Ogni cosa onestamente mostrata. Disegnata. Raccontata.
In trenta anni ho progettato edifici e ne ho realizzati (non molti e sempre con fatica). Alcuni li ho visti abitati ed amati. Altri hanno subito sorte diversa. Ho letto molto e scritto racconti. Ho disegnato e colorato. Ho colorato con il caffè come faceva Montale (me lo ha detto di recente Silvio Perrella e mi è sembrata una bella cosa). Ho letto poesie. Ho la certezza di fare sempre la stessa cosa.
Che cosa?
A lungo ho creduto di poter contribuire alla salvezza dell’uomo. Un pezzetto beninteso. E dentro una cordata dove stiano insieme linguaggi ed esperienze diverse e concorrenti. Il viaggio che ho raccontato in “Racconti di architettura” tocca le tappe di un’architettura “eroica” che portava nella propria vocazione l’idea di cambiare il mondo.Ma è un’illusione. Ce ne siamo accorti tutti. Ma nessuno rinuncia alla tensione che quell’illusione alimentava. Si tratta di un altro punto di vista.
Credo che invece ognuno scriva solo la propria personale autobiografia. Fatta di frammenti che trovano una ricomposizione. Una sorta di mappa. E una ricerca di qualità.
I miei edifici sono tutti incastonati nei dintorni della mia terra. Il “qui” che mi ha mostrato la bellezza (quella difficile da scovare) e il dolore del degrado. Ne portano impressi i segni della durezza: il cemento nudo a vista, il metallo, una sottile imperfezione e altro. In “Racconti di qui” ho cercato questa bellezza nelle pieghe, negli anfratti. Nel dorso delle cose. Così anche la geografia alla fine non esiste più. Ognuno costruisce la propria. Come una geografia letteraria. La contea di Yoknapatawpha di Faulkner o la New York di Teju Cole. Luoghi assolutamente inesistenti e quindi totalmente reali. O luoghi trasfigurati. È lo stesso.
I miei edifici parlano di me. I miei racconti parlano di me. Così i disegni. È una materia con cui fare i conti.
Il libro è una narrazione suddivisa per temi. I temi superano la cronologia.
E come in ogni narrazione occorre fare delle scelte. Una pensilina può essere più importante di un edificio più grande. Un disegno più di una costruzione.
C’è da raccontare un’idea.
Nota
Davide Vargas, Opere e Omissioni, Lettera ventidue, 2014
[Ho chiesto a Davide questa sorta di autopresentazione legata in qualche modo al suo libro di cui parlo qui.
Di seguito una scheda bibliografica di Davide Vargas.B.C.]
Progetti:
Il Municipio di San Prisco pubblicato e premiato al primo Festival dell’architettura di Parma del 2004;
Casa privata ad Aversa pubblicata e segnalata al premio Inarch2006; nel 2010 è stata inserita tra le opere selezionate per il volume “italiArchitettura” a cura di Luigi Prestinenza Puglisi per l’UTET
La Casa per Studenti di Aversa segnalata per la Medaglia d’Oro all’architettura italiana 2009, pubblicata su Domus e selezionata per Sustainab.Italy al London Festival of Architecture del 2008.
Ha partecipato agli “Annali dell’Architettura e delle Città” del 2007 con un’idea progettuale sulle aree dimesse di Bagnoli.
Ha pubblicato il libro di interviste “Conversazioni sotto una tettoia”, Clean Napoli 2004.
Suoi lavori sono segnalati su “Domus”, “Domusweb”, “Spazio e Società”, “l’Arca”, “Interni”, “Controspazio” e “d’Architettura”.
Il Municipio di san Prisco completo del secondo stralcio ultimato nel 2009 è stato selezionato per il Padiglione Italia alla Biennale Architettura di Venezia 2010. Inoltre è stato vincitore al Premio Inarch Campania 2010 e segnalato per la Medaglia d’oro all’architettura italiana.
Dal 2010 al 2011 ha scritto per Domus di Mendini.
Nel 2011 è stato selezionato per il 24th world congress of architecture UIA 2011 Tokyo.
Nel 2012 è stato selezionato per il Padiglione Italia alla Biennale Architettura di Venezia 2012 con il progetto di un’azienda vinicola a Liberi (CE).
Scritture:
Suoi racconti sono su Nazione Indiana, Comunità Provvisorie e Sud.
Nel 2009 ha pubblicato “Racconti di qui” tulliopironti editore. Il libro è stato presentato a Napoli Milano Roma Bolzano Bergamo…è stato recensito sul Venerdi di Repubblica, l’Indice dei libri, Domus, l’Arca, Nazione Indiana….è stato inserito nella classifica del Premio Pordenone legge. Mendini gli ha dedicato un editoriale su Domus e Stefano Gallerani lo ha inserito nei libri del primo decennio del 2000 su Il caffè illustrato.
Nel maggio 2012 esce “Racconti di architettura” tulliopironti editore. Stefano Galerani ne parla su Alias/Manifesto. Gianni Biondillo su domusweb. Segnalato nella rubrica LIBRI sul Venerdi di repubblica
Con ilfilodipartenope ha pubblicato “Alberi” libro d’arte in 250 copie numerate.
Ho pensato a una cosa inconsueta, e cioè al sesso tra marito e moglie. Non quello festoso e appassionato dei primi tempi, no, quello successivo, quello assuefatto e abitudinario, monotono e stanco, che viene dopo i figli. Insomma ho pensato al sesso che nonostante tutto marito e moglie continuano a fare, perché di accoppiarsi con partner occasionali son buoni tutti. Si dice che il matrimonio è un’istituzione antiquata che deve occuparsi della parte sana della vita: figli, casa, affetto. Per le perversioni, per la parte oscura di sé- per chi ce l’ha- bisogna andare a cercarsi qualcosa là fuori, nella giungla. Eppure è affascinante la sessualità che perdura dopo la procreazione, in due corpi che hanno raggiunto lo scopo imposto da Madre Natura, questa loro ostinazione alla copula e al piacere gratuito, questo essere dei Peter Pan del seme e delle ovaie, questo voler ignorare che si è già fatto quel che si doveva fare, il compito è realizzato e il mandato scaduto. Il sesso tra marito e moglie è depotenziato, è come un riassunto del sesso dei primi tempi, se allora erano 1000 baci adesso sono 100, e su questa scala si possono benissimo ricalcolare tutte le altre comunissime e triviali attività da letto. Come cambia un pompino dopo il matrimonio!
Il tempo è quasi sempre dimezzato, come la passione, ma è soprattutto la percezione che marito e moglie ne hanno- chiaramente da angolazioni diverse- a essere alterata. Il sesso tra marito e moglie è fatto sbadatamente, quasi sovrappensiero, annullato dalla consuetudine, dalla familiarità. E’ questo che tutto sommato lo rende straziante, e perciò irresistibile, perfino afrodisiaco. La crudeltà delle pratiche BDSM non sarà mai all’altezza di una scopata tra due esseri che si conoscono troppo bene, che si vogliono troppo bene (dopo essere stati innamorati che- vista la carica di distruttività insita nel sentimento dell’amore- è quasi il contrario). Il sesso tra marito e moglie non è affatto giocoso, perché la leggerezza viene portata in dote dall’incoscienza, mentre i coniugi vengono sempre incalzati dal senso di responsabilità, non fosse altro che nei confronti del loro stesso rapporto (si tratta di perpetrare e proteggere il rapporto). Alla stregua di due edonisti avviliti, non fanno altro che ripetersi: “Sarebbe sciocco mandare all’aria tutto proprio adesso, dopo tutte queste cose fatte insieme, tutti questi anni passati insieme”.
La progettualità è il fardello di cui si fanno carico i coniugi mentre scopano, pesanti zaini invisibili che li fiaccano mentre tentano di aggrovigliarsi tra di loro. D’altronde come si potrebbero accettare ruoli o maschere avendo a che fare con una persona di cui conosciamo limiti e miserie e perfino qualità (quanto possono inibire le qualità!), i cui misteri sono stati svelati a uno a uno col passare lento dei giorni? Il sesso tra marito e moglie è osceno, poiché è come se si consumasse tra amici. Marito e moglie dell’altro hanno visto le mutande sporche, hanno udito i peti, hanno assaggiato il sudore, hanno annusato l’alito cattivo, hanno toccato le vesciche. I cinque sensi sono annichiliti dalla memoria che marito e moglie conservano l’uno dell’altra, eppure marito e moglie continuano a cercarsi, bramosi di stringersi, contenti solo di sentire circolare da vicino il sangue caldo del coniuge. C’è spazio solo per la disperazione quando marito e moglie fanno sesso, perché entrambi provano una brulla commiserazione nei confronti dell’altro (e di se stessi). Il loro afrodisiaco è la pena, la loro sensualità larvale. Non è un sesso addomesticato, questo no, piuttosto un sesso compromesso, impossibile da compiersi, senza reale passione ma proprio per questo più autentico del sesso appassionato. L’amore tra marito e moglie è un sesso al di fuori della finzione dei feromoni, tanto più barbarico quanto più è molle e scocciato, tirato per i capelli, malridotto, asciugato.
E’ un sesso incastrato tra le bollette da pagare e i figli da portare a scuola, il bollo della macchina scaduto e la spesa al supermercato, un talk show televisivo e una camomilla per digerire. Accade negli interstizi della vita, cioè in luoghi simbolicamente trasgressivi, sui pianerottoli della mente. In realtà marito e moglie finiscono sempre nello stesso letto- il medesimo dove dormono russando, dove hanno trascorso infermi lunghe settimane a sfebbrare, dove anche i loro figli hanno dormito, pisciato, cacato e vomitato-, di cui conoscono ormai ogni avvallamento o escrescenza, gobba o affossamento (al pari di quelle dei loro corpi). Il sesso tra marito e moglie può non essere preannunciato da niente, le circostanze sono trascurabili. Il più delle volte non andranno a letto prima- a causa– di una cena galante, ma solo dopo un banale piatto di pasta (per tacere sui brodini col dado Star o i menù da McDonald’s), e il loro amplesso non sarà il proseguo di una conversazione sciolta e brillante- carica di tensione erotica-, bensì la protesi di brevi frasi di servizio spizzicate nel silenzio. Trascurabili saranno anche gli abiti: tute da casa, pantofole logore, maglioni lisi, abiti sformati, ecco gli strumenti di seduzione delle coppie navigate- i guardaroba magari stipati con capi di abbigliamento messi per altri, o non messi più. Il sesso tra marito e moglie nasce dalla perseveranza diabolica di due corpi disgraziati ed è, in fin dei conti e proprio in ragione di questo cantare dall’interno di una prigione (non dimenticatevi mai di Emily Dickinson!), la cosa più poetica che un uomo o una donna possano combinare.
[Riproponiamo oggi uno speciale apparso su alfabeta2 a un mese dagli eccidi di Parigi. Abbiamo raccolto alcune voci e privilegiato alcuni aspetti, convinti non solo che non sia facile dare una lettura univoca di quegli eventi, ma che non sia neppure necessario. In Francia, intanto, analisi e discussioni continuano, e non solo su legislazioni antiterrorismo e sul potenziale nemico interno, ma anche sulla segregazione sociale e razziale che mina la “République” ben più in profondità degli occasionali massacri realizzati da un piccola minoranza di adepti dell’idiozia e del fascismo di marca religiosa. Articoli di Badiou, Inglese, Donaggio, Buffoni, Rakha, Gallo Lassere. a. i.]
Tratto da Robert Lax, Poems (1962 – 1997), a cura di John Beer, Wave Books, 2013, p. 102 – 122. Grazie a Renata Morresi per un paio di migliorie e a Orsola Puecher per l’impaginazione.
Intervista di Yves Bourde (Le Monde) a John Cassavetes pubblicata in Hommage à Cassavetes a cura di Orly Films
traduzione di Francesco Forlani
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A Woman Under the Influence. Una donna “sotto influenza”…di che influenza si tratta?
Di unaforza …L’influenzadel suoentourage, della società, del marito, della sua famiglia, della maternità.Unadonna laceratatra diversipoteri, tradiversi ruoli.
DopoHusbands, Mariti, MinnieeMoskowitz, l’amante, ecco la donna. Quale donna?
Ho scrittoquesta sceneggiaturaper mia moglie, GenaRowlands, splendida attriceperò non si tratta di un’autobiografia. Questolavoro nasce forsedalla disperazione, dall’interrogarsi sul sensodellanostravita? Ho messo da partel’allegria, l’umorismo, il ridicolo, emi sono immerso in qualcosa di serio, inquesto desiderio didire, dire qualcosa perGena, per la mia stessafamiglia. Gli uomininon sono abbastanza sensibili, riconosconole difficoltàdelle donne, non leconoscono. La scritturadel soggettoè natain solitudine, anche qualcosa di più della solitudine: inuno stato d’innamoramento. Man mano che procedevo nell’elaborazione e poi durante le riprese, ho preso coscienza di problemiche mi erano sconosciuti, per non dire estranei. Infine, quando ho visto ilfilm terminato, sono rimasto scioccatodalla realtà.
Film-psicodramma, Psicoterapia ?
No.È la vitache èuno psicodramma. Il filmtratta diciò che ci è peculiare, le ossessionigenerali tra uomini e donne. C’è un problemalegato all’amore. Una donna comeMabel, il personaggioprotagonista, si è forse detta primadel suo matrimonio: “Io nonvoglio sposarequest’uomo,” eppurelo ha fatto. Questa coppiaè diversa dalle altrein quanto ècosì coinvoltada non potere divorziare. La domanda allora è: “L’amore èpossibile, in particolari circostanze, puòresistere quandola famigliasi divide? »
Si dividerà?
Non lo credo. Il legame è la conoscenza ditale legame. È fuori di discussione. L’uomodeve primaescluderela sua famigliaper cominciare aspezzarequesta influenzae lasciarealla moglieil tempodi esprimersi, di esseredegna, di esseresé stessa. Alladomanda“Mi ami? ” luinon può rispondere, si rifiuta dimettere un’etichetta aun sentimentoche va ben oltrel’interrogativo. Tuttorimane aperto. Il nodononènella passionedella sessualità, l’uomo e la donna se ne accomodano. È che lui amaciò che la rendediversa, l’animaoriginale, ma crededi esserel’unico acapirla.Ecco allora chenon riescea superareil propriodisagionellesituazioni in cui si ritrovanodi fronte amoltepersone. PeterFalkpensava del marito,del suo personaggio, che l’amore fosse un ostacoloalla sua comprensione di lei.
Come ha direttoi suoiinterpreti?
In primo luogo, perme non si tratta diattori, ma di persone, esseri viventi. I registi sono piccolidittatorie la stampadà loro troppa importanza, a me compreso. Èl’intensitàdelle emozioniche conta. I ruolisono interpretati dapersone che amo, mia moglie, sua madre, miamadre, altriCassavetes, amici, ed èimpossibile controllarele emozioni dicoloro che amate, però più li conoscete, più si può far passare quello che sentono. Io non lidirigoin ogni dettaglioenon si correggono mentre recitano. Non cercano didare alpubblicoun‘immagine simpatica di sé stessi. La cosararaè chesi rivelanocome persone. Questo fa partedella mia mentalità. Dobbiamoallenarenoi stessi a rimaneresensibili, sono leemozioni a farci vivere. Amoquesto film perchénon vi è alcunpunto divista.Non ce ne possono essere. Lastoria e i personaggisono moltoreali per me. Se purla visionedi questefrattureè compiacente, questa cosa esiste: alla prima occasione, ci allontaniamo di corsadall’amore.
Quanta partelascia all’improvvisazionedurante le riprese?
Praticamente nessuna. Il filmsi compone di diversiscritti sparsi emessi insiemeetuttii dialoghisono stati rispettatialla lettera. In compenso, la libertà che hanno gli interpreti di esprimersifisicamenteripugna a tanti. Pensanoche il loro comportamentovada troppolontano. Mi ricordo di unnuovoassistente operatoresul set di ripresa, talmente sorpresodalla violenzadi una scenachegli è caduta di mano la telecamera. In effetti, quando si lavorasu un terreno cosìfragilee pericoloso, l’intensità, l’atmosfera cosìtesapossono impressionare. In realtàla cosa importante èlapaura che hanno le persone di esprimersievoglio che nessunosi sentain colpa per avere qualcosa dacomunicare. È la libertà di esprimere la propriaprofondità ad essere rivoluzionaria.
Un amico, un sedicente amico, mi ha propinato delle strane bustine color fucsia che mi dovrebbero far dormire come un angioletto, visto che i metodi naturali hanno fallito al pari di quelli sociali. Ma per me qui c’è puzza di bruciato, non mi convince la sua affabilità, la sua gentilezza un po’ melensa. Qui c’è puzza di Big Pharma. Essi si insinuano nei meandri dei loro oppositori e dei loro detrattori proponendo tramite falsi amici dei prodotti che creano dipendenza. Essi vanno davanti alle scuole a distribuire certe deliziose caramelline ai bimbi contenenti un principio attivo che crea dipendenza. Essi prendono certe medicine prodotte per certe malattie e, senza averne le prove, dicono che servono anche per curare altre malattie per creare dipendenza. Lui mi ha garantito che le bustine erano dei generici. Ma io non mi fido e certo non diventerò uno zombi di Big Pharma.
Le bustine a ogni modo giacciono sul ripiano dell’armadietto in bagno, anche se non le prenderò mai.
Poi bisogna stare attenti ai falsi amici, dal momento che qui siamo tutti amici e fratelli che si danno del tu, che non è nient’altro che l’abbreviazione di tutum, il rumore della zanzata che ti arriva nei denti, non appena voltato l’angolo. Basta un attimo e i cosiddetti amici ti fanno fare la fine di Compare Salsiccia. Mi risulta che ci siano dei ministri degli esteri di vari paesi che chiamavano per nome i primi ministri di altri paesi, che pochi mesi dopo sarebbero stati bombardati per ordine di quegli stessi ministri degli esteri. Almeno una volta, quando c’erano ancora i conoscenti, uno stava sul chivalà. Adesso con tutte queste interfacce amichevoli, con questo continuo darsi un cinque, con questi bacini e bacetti, con gli emoticon d’amicizia e affetto, con pacche e scappellotti siamo in pericolo. Occorreva che il galateo degli hippy e dei fricchettoni vincesse affinché continuasse a comandare il soldo. E Big Pharma.
Qualcuno potrebbe anche dire che sono un sognatore o meglio un illuso ( perché per sognare dovrei dormire), ma preferisco un mondo in cui perfino i fidanzati si danno del lei, almeno fino alla prima volta in cui copulano assieme, e ci sia la sanità gratuita per tutti, che un mondo in cui tutti fanno gli amiconi e Big Pharma riempie i giornali di annunci che tra pochi anni saremo immortali o comunque giovani fino a cento anni. Qualcuno potrà dire che sono un illuso, ma così dandosi del lei nel mondo ci sarebbe molta più armonia.
Forse sono davvero un illuso e dovrei semplicemente andare in bagno, aprire l’armadietto e prendere una di quelle bustine. Questo sarebbe una forma di sano pragmatismo: basta con i pensieri, le ansie, le angosce, finalmente dormire. Se, però, un pragmatismo riesce a esprimere tutta la sua sanità solo attraverso l’assunzione di medicinali che probabilmente hanno qualche effetto collaterale a seguito di un uso abituale e danno dipendenza c’è nelle cose oggettivamente come un’amara ironia, che ai tempi di mia nonna non si coglieva e che non dipende da nessuno stato d’animo soggettivo. Alla fine, la percezione di questa ironia è l’unico baluardo che mi trattiene dal mandar giù una bustina.
Contravvenendo a una prassi consolidata, questa notte ho posto una sveglia, anche se non carica, sul comodino e dunque vedo che sono già le due. Immagino allora la mia calotta cranica che balugina nell’oscurità ( m’immagino sempre più cose del necessario). Magari aveva ragione la nonna di un tempo, non la mia, non una in particolare, ma la nonna per antonomasia, che la causa dell’insonnia nasce dal fatto di non sapere che fare durante il giorno. Gli onesti lavoratori dormono profondamente, essa pensava, un sonno senza interruzioni perché se lo sono guadagnato con il sudore della fronte. Ora a me non sembra di battere la fiacca, anche perché ho paura che non mi rinnovino il contratto, eppure non prendo sonno. Non sono un lazzarone, non sono un perdigiorno che va a zonzo, non sono uno zuzzerellone, non sono un turista della vita, però anch’io in un certo senso non so che fare durante il giorno perché quest’idea che si lavori duramente per ottenere il diritto al sonno grazie al quale ci si rifocilla per poter sostenere un’altra giornata di lavoro non mi sembra una strada percorribile. O meglio ci vedo l’ironia della cosa. A me l’ironia m’ha rovinato: invece di rigirarmi nel letto, e sono già le tre, a quest’ora se non c’era l’ironia, ero a Londra e avevo già musicato tutto l’orario musicale, come quel tale.
Adesso magari viene fuori che, se ho l’insonnia, è colpa mia e che se fossi veramente zelante e desideroso di venirne fuori prenderei le bustine senza perdermi in tanti ragionamenti contorti. Infine mi si chiede soltanto di barattare un po’ d’ironia per la felicità o almeno la serenità; cioè in realtà nessuno mi chiede o mi ha mai chiesto nulla, ma le cose si mettono sempre in modo tale che nella realtà avverti una sorta di pressione come se tutti le chiedessero ( e le idee dominanti continuano a essere quelle delle classi dominanti). Ciononostante nella notte della mia insonnia, e vedo le cinque sul quadrante e sento qualche uccellino cantare ( è strano che succeda a Milano eppure succede), nella notte della mia insonnia in cui mi conosco nuovamente come insonne mi sembra di essere più vicino a qualcosa che grosso modo all’incirca più o meno si potrebbe chiamare la verità.
Forse anche il vitello e il maiale di un allevamento bio sono più agitati, ma più veri di quelli degli allevamenti industriali. Non lo so. So soltanto, in questa notte della mia insonnia, che finché il fisico regge è giusto che vada avanti così. All’alba non vincerò o crollerò, andrò avanti così senza bustine. Come fanno gli uomini, come hanno sempre fatto, compiendo milioni di cose e raccontandosene ancor di più finché il fisico regge.
Free Syrian Army fighters run for cover as a tank shell explodes on a wall during heavy fighting in the Ain Tarma neighbourhood of Damascus Foto: Goran Tomasevic
Diciamo giornalisti free lance, o giornalisti embedded, e ci interroghiamo magari sulla nuovissima specie dei citizen journalists, e proviamo a farci un’idea di come si sia evoluta nel caos delle guerre asimmetriche la figura del reporter. Mi riferisco soprattutto al fronte arabo, in quella enorme mezza luna tra terra e mare che parte dal Mali e arriva all’Afghanistan, con le note propaggini caucasiche. Guerre su guerre, da molti decenni ormai, guerre civili interne a ciascun paese, oppure più spesso guerre esogene, scatenate dalle grandi potenze occidentali contro nemici dichiarati unilateralmente tali, contro minacce o pericoli talora inventati di distruzione totale, contro fantasmi sfuggenti di nuovi soggetti, che sono di certo reali ma paiono entità. Guerre di qualcuno contro qualcun altro, e alleanze di volenterosi, coperte all’ultimo dall’ombrello dell’ONU o della NATO, in accordo o con la tacita connivenza della comunità internazionale.
Ciò che è cambiato rispetto all’epoca eroica di Remarque e di Hemingway, per fare solo due nomi, non sta tanto nella sovrapposizione e nella confusione del conflitto fra eserciti e fra combattenti irregolari, che finisce per polverizzare l’idea stessa di una linea del fronte, dove il giornalista dovrebbe stare per presidiarla e misurarla, quanto nella perdita di credibilità dei tradizionali schemi di interpretazione e di gestione dei conflitti, fondati sui più collaudati modelli di strategia militare e di geo-politica. Il caso della Siria oggi è il caso in cui più clamorosamente si evidenzia una vera e propria impotenza delle organizzazioni e degli osservatori internazionali, sia sul piano dell’analisi delle situazioni sul campo, sia e tanto più nella costruzione di percorsi di pacificazione e di equilibri possibili per il futuro.
Come in un avvitamento continuo di fattori imprevisti, nei tre anni trascorsi dalle prime rivolte di piazza contro il regime dittatoriale di Assad si sono innescate reazioni a catena di movimenti e di eventi, che hanno fatto emergere sempre nuovi attori, confusi nel perseguimento di obiettivi spesso non chiari, e tra di loro in aperto conflitto: dalla Coalizione Nazionale, che è il rassemblement dei gruppi politici siriani operanti all’estero, all’Esercito Libero dei ribelli della “primavera”, occupanti alcune regioni centrali del paese e impegnati nella interminabile battaglia di Aleppo, agli islamisti di al-Qaeda radicati nelle moschee e contigui ai ribelli nelle stesse strade e quartieri, ma con ben altri piani politico-militari, alle potenze regionali (Turchia, Iran, Arabia Saudita) e ai paesi limitrofi (Iraq, Libano, Israele, Palestina), gli uni e le altre intrecciati fra loro in un’inestricabile ragnatela di interessi e di alleanze: e si pensi a Hezbollah o ad Hamas, soggetti politico-militari di importanza non primaria, e tuttavia decisivi nell’interdire e nel bloccare vie d’uscita dallo stallo di una situazione incancrenita, destinata forse a un’irreversibile implosione.
Ma a un livello persino più profondo la non fungibilità dei vecchi schemi è dichiarata dalla diffusa strumentalizzazione delle appartenenze religiose, nel contesto di un Islam che appare ormai deflagrato, scosso da vecchie e nuove eresie e fanatismi di origine oscura, per non dire sospetta. Assad appartiene al campo sciita ma nella sua variante alawita, è legato alla tradizione del Bahatismo laico (la stessa che fu di Nasser e di Mubarak in Egitto), e non molto ha a che fare sul piano culturale e ideologico con gli sciiti iraniani, che pure sono suoi alleati. I suoi primi oppositori interni sono sunniti laicizzati di nuova generazione, ma ad essi si sono aggiunti e sovrapposti gli jihadisti, che non alla Sunna si rifanno ma al Wahhabismo fondamentalista, foraggiato dai petrodollari della penisola arabica, dove sono insediati i governi più filo-americani del pianeta. La Turchia dal canto suo – membro della NATO e aspirante UE – è uno stato laico a maggioranza sunnita, che nel corso del conflitto siriano svolge un doppio gioco politico, ufficialmente sostenendo la Coalizione nazionale e i ribelli dell’Esercito libero, ma di fatto non contrastando i transiti di mezzi e truppe irregolari che alimentano il cosiddetto Califfato e che dal territorio del Califfato sciamano intorno, fino alle destinazioni europee. E non si può trascurare, attorno a queste realtà più compatte, il reticolo delle religioni pre-islamiche che sono praticate ad esempio dagli Yazidi e dagli Zoroastriani, schiacciati insieme ad ebrei e cristiani e sottoposti ad azioni di sterminio, in una deriva di emarginazioni che non ha tregua, e che punta in primo luogo al contenimento dell’indipendentismo curdo.
Al di là delle semplificazioni brutali della realpolitik, che passano sopra la realtà delle vite umane senza alcuna vergogna, come muoversi e come orientarsi in questo ginepraio di sangue e di distruzione? Francesca Borri è testimone diretta e coinvolta di questa lunga storia sbagliata, avendo vissuto e lavorato per quasi un anno nei luoghi e tra i pericoli di quella realtà. La sua attività di reporter non è nata però da uno slancio idealistico, e neppure dal gusto della scommessa con se stessa, in un progetto auto-centrato di addestramento e di crescita professionale. La sua esperienza sul campo cominciò infatti nel teatro balcanico, nel 2007, durante la guerra del Kossovo, sotto l’egida delle organizzazioni internazionali preposte alle operazioni di peace keeping: e fu allora un’esperienza nutrita e motivata da una fresca e solida formazione accademica, in ambito di diritto internazionale e di tutela dei diritti umani. E poi proseguì in Medio Oriente, dall’osservatorio di Ramallah guardando alla frontiera delle innumerevoli tregue fallite nella guerra israelo-palestinese, con la tenacia di voler riconoscere e censire, di qua e di là, i soggetti possibili e dispersi di una trama civile culturale umana, capace di risarcire ferite e di interpretare lo spirito di una intermediazione reale. Il mestiere di giornalista e di testimone Francesca lo ha imparato cioè a partire dalla fiduciosa adesione a una linea teorica e persino dottrinaria, e nella convinzione di poter contribuire a un grande piano di conoscenza e di regolazione dei rapporti di convivenza, di relazioni, di integrazione tra popoli diversi e storicamente nemici, attraverso l’analisi e la gestione delle situazioni e il riconoscimento attento e scrupoloso dei soggetti in campo.
Mideast Syria Cost of War Foto: Manu Brabo
Il suo La guerra dentro, uscito per Bompiani non molti mesi fa, e ora in corso di traduzione per le edizioni americana e norvegese, dichiara e denuncia il dolore di una delusione, che lei stessa vive come crollo di ogni riferimento ideale, giuridico, politico, logico, di fronte allo spettacolo avvolgente, non distanziabile, di quanto accade dove nulla più accade ormai, o così sembra. Aleppo, che è il suo luogo di osservazione, è un paesaggio di rovine e di sopravvivenze umiliate, di fame e di malattia, dove si aggirano gruppi di combattenti con kalashnikov e con bombe rudimentali, spesso bambini, bande di cecchini di ogni specie, mentre dalla distanza piovono missili, raffiche, piogge di fuoco, a cui si sopravvive, se si sopravvive, per caso. E’ lo spettacolo del nulla, una distruzione di cose, edifici case strade, vissuti familiari e personali, senza possibili conforti né risarcimenti, poiché lì non c’è ONU non c’é Europa non c’è Croce Rossa e neppure ci sono ONG, se non quelle finte, emanazioni del potere governativo. Ci sono morti e profughi a centinaia di migliaia forse milioni, di cui si è sospesa anche la contabilità, e c’è lo scardinamento di ogni parvenza di civiltà. Chi abbia visto di recente le foto di Kobane strappata dai combattenti curdi alle forze dell’ISIS può più facilmente farsi un’idea di questo vuoto di realtà umana che sussegue agli spari, e richiamare magari alla memoria collettiva la irreale desolazione dei paesaggi carsici, dove la grande guerra europea raccontata da Emilio Lussu inaugurò la pratica dei massacri lucidamente programmati per contendere pochi metri di territorio al nemico, in un’ottusa coazione di morte.
Ma proprio qui, di fronte a questo spazio di civiltà suicidata, l’autrice del libro, un libro che è reportage ed è diario, ma è anche e soprattutto scrittura, oltrepassa il piano giuridico-politico e persino quello degli interrogativi etici, che pure pulsa al fondo di ogni pagina. E centra con crudezza il problema della verità: la costruzione delle notizie e la elaborazione delle verità, che sono il dovere del testimone e che tuttavia sfuggono, si sbriciolano in frammenti, si avviliscono in dubbi senza fine, in situazioni dove mancano i riferimenti certi del diritto internazionale o di una politica intesa come visione e narrazione plausibile di fatti e di scenari. Perché ad Aleppo non ci sono più neppure le grandi Agenzie di stampa, che pure continuano a produrre lanci e commenti da lontano, e non ci sono giornalisti all’altezza, non molti almeno, e dal terminale di Aleppo il sistema mediatico planetario esige una varietà appetibile di scoop, che sono poi stereotipi, fissati in fotografie e video, e stringhe di titoli in caratteri cubitali: dal “medico bambino” al “bambino soldato”, alla donna italiana jiahdista (col “fidanzato talebano”?), e così via.
Nessuno più si stupisce di questo funzionamento della cosiddetta informazione, da quando almeno Baudrillard analizzò e denunciò le tecniche di de-realizzazione della realtà sperimentate durante la prima guerra del Golfo, col supporto di tecnologie di ripresa sofisticate, messe a servizio di una rappresentazione contraffatta a fini spettacolari. Francesca Borri documenta anche con nomi e cognomi, con episodi e con date, lo scialo delle notizie fabbricate secondo questo metodo di produzione e riproduzione della realtà. E attesta ogni volta il proprio sconcerto, la propria delusione, ma allo stesso tempo si interroga sul proprio mestiere, sul senso del proprio stare lì. E si trova a un certo punto a raccontare la guerra non come “guerra degli altri”, ma come una guerra che lei stessa vive dentro di sé, nello specchio infranto dei propri pensieri e delle proprie emozioni, mescolando e tenendo in equilibrio istinto di sopravvivenza, lucide analisi dei fatti e interrogativi senza risposta, che diventano appelli al lettore, ai suoi corrispondenti dispersi nei più diversi angoli di mondo, lontani e ravvicinati in una sorta di doloroso abbraccio.
In quanto libro pensato e costruito, La guerra dentro è un tentativo di narrazione, è documento, è diario, ma è allo stesso tempo letteratura. Perché Borri sa bene come la ricerca di verità, per non soggiacere del tutto ai modi di riproduzione delle verità di comodo, debba rischiare una qualche forma di racconto, montando voci e spezzoni di scritti altrui, descrivendo immagini e fotografie, e riprese video fatte con la fotocamera, e non sottraendosi a una certa esposizione della propria figura, del proprio attraversare la scena in corsa, in fuga, ma anche in ascolto, in attesa, e poi partire, andare via per un po’, fino ad Amsterdam, fino a casa in Italia. Prendere fiato, recuperare distanza, per tornare, ed è quel che lei fa. Questo sforzo di narrazione, sia pure frantumata, sia pure a flash, vuol essere da parte sua una protesta contro i tanti che – riprendendo e banalizzando nel chiacchiericcio quotidiano delle redazioni quello che fu il leit motiv del grande romanzo europeo d’avanguardia e di post-avanguardia – sostengono l’inutilità del racconto, anzi l’evaporazione, l’inesistenza di temi narrabili: “Ma che ci fai ancora lì? non c’è niente da raccontare”. Ma il dolore, come la fame, come lo sterminio, come la distruzione, esigono di non essere invano, pretendono voce e parola. Da lì, da quella linea sottile che separa e congiunge la radicalità dell’esperienza umana e il castello infinito delle parole e degli schemi mentali, cognitivi, ideologici, torna a suonare la campana, per quei tanti o anche pochi che – come lei scrive – abbiano la forza di non aver paura.
Alessandra Sarchi, “L’amore normale”
Giulio Einaudi editore, Torino 2014
Alessandra Sarchi, “L’amore normale” Giulio Einaudi editore, Torino 2014
di: Francesca Fiorletta
[articolo apparso su: “Nuova Corvina” (N.26), Rivista di Italianistica dell’Istituto Italiano di Cultura per l’Ungheria – Budapest, diretta da Gina Giannotti]
È Wolfgang Goethe, nell’ormai classico dei classici, “Le affinità elettive”, (“Die Wahlverwandtschaften”, splendido romanzo del 1809) ad usare con precisione estrema l’espressione “le cose terrene”, per identificare i piccoli passi quotidiani compiuti dagli uomini e dalle donne di tutti i tempi, nel dare seguito, attimo per attimo, alle loro passioni sentimentali.
Passioni che, per quanto possano poi rivelarsi al loro epilogo come effimeri fuochi fatui, oppure invece al contrario come progettualità di coppia specificatamente ragionate, cito ancora l’autore, “c’inducono a immaginazioni tali che non hanno nessuna rispondenza nella realtà”.
Stile che ammassa e punge, e che aggancia all’uno l’altro argomento come un treno in corsa, o come i fogli del ciclostile. Frasi che da un particolare quasi lì gettato, con studiata noncuranza, compongono una scena, generano un microcosmo. Quello sconnesso dell’appartamento romano di Via Ripetta 155, “in quel tratto di strada che perfino molti autisti provetti ritenevano appartenesse già a via della Scrofa”, tra pavimenti a losanghe nere e rosse (ove dormiva chiunque arrivasse, purché in possesso di un sacco a pelo) e uno scaldabagno sghembo, in cui Clara Sereni ha vissuto per dieci anni, tra il 1968 e il 1977. Non un decennio qualunque, ma il doppio lustro dell’“orda d’oro” che cambiò il volto delle generazioni, segnando lo iato più caldo che la Storia abbia conosciuto dopo i conflitti mondiali.