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Non esiste separazione

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di Francesco Borrasso

20141120_153314Non riesco ad uscire da questo disordine. Un laccio mi tiene stretto al ricordo.
Da allora, le mie giornate sono inerzia, secondi che seguono secondi, il mio compito è riempire, senza consapevolezza.
C’era il dolore bambino che ha cercato con un’imposizione di mettermi una benda sugli occhi, era il dolore che si fermava in un angolo della stanza e mi osservava, con i suoi argomenti provava a convincermi che la cosa accaduta non la potevo accettare, non la potevo elaborare. Era un bambino capriccioso, con il grembiule blu, il colletto bianco, le scarpe da ginnastica, la gomma da masticare, i palloncini colorati che faceva esplodere con il fiato; non riesco a ricordare la sequenza esatta, se è arrivato prima il lutto e poi il panico, o viceversa.
La certezza è che ci sono entrambi, e mi tengono al caldo.
Il dolore bambino era formato da tutti i ricordi bianchi, tutte le scene, gli odori, tutti i sapori, i vizi, tutti i sorrisi, le giornate di sole, e la pioggia che non serviva; ho provato con una mano ad accarezzargli i capelli, è scappato via, rifugiato sempre con le spalle contro il muro, sempre immobile nel suo angolo, a puntare il dito contro un’accettazione che non riteneva giusta; mi ha svegliato di notte, nel mezzo del sonno, mi ha impedito di mangiare, sporcandomi il cibo; ha sabotato il mio lavoro, ha provato a soffocarmi, mi premeva le mani contro il petto, stringeva forte sulla gola, non respiravo; ha tentato di manomettere il mio equilibrio, faceva rotolare la terra sotto i miei piedi, mi obbligava a stare seduto.
Sono andato da una maestra che conosceva bene questi bambini dolore; questa maestra mi ha obbligato a non ascoltarlo, c’erano della gocce che facevo cadere sulla superficie argentata di un cucchiaino da caffè, a volte era quindici, a volte venti; erano delle gocce trasparenti, dolci, con un retrogusto amarognolo; bene, queste gocce mi aiutavano ad essere irrispettoso nei confronti del bambino, creavano una barriera; riuscivo a dormire di notte, riuscivo a mangiare senza conati di vomito; la maestra mi ha detto poi di ascoltare le pretese del bambino e vedere cosa c’era sotto il sintomo dei suoi capricci, delle lacrime, delle urla. Siamo stati seduti nella mia camera per giornate intere, lui con la faccia paonazza a forza di gridare, io con il sudore sulla pelle per tutta la resistenza; l’avevo convinto a venire al centro della stanza, a lasciare libero il suo angolo di protezione; adesso eravamo entrambi con le spalle scoperte, giocavamo per la prima volta ad armi pari. Mi sono reso conto che quel bambino dolore cercava di vomitarmi addosso la sua sofferenza, la sua disperazione; aveva gli stessi bisogni emotivi che avevo io, solo che non conoscendoli, li respingeva come sostanza estranea. Mi ha parlato di suo padre, morto in una una notte straniera, sotto i colpi di un male alla testa, di un sangue impazzito, di una vena spezzata.
L’ho riconosciuto; quel bambino era il passato, il ricordo di me; con il tempo è rimasto solo il dolore, il bambino è diventato una compagnia, un’accettazione.
Il dolore uomo è stato più feroce ma meno teatrale; più rapido, più servizievole. Ci siamo riconosciuti subito; nella certezza di avere dei limiti, nell’approvare le nostre debolezze, nell’affrontare una perdita facendoci aiutare dal corpo. Abbiamo imparato insieme che la mente ed il fisico sono un unico pezzo; che le emozioni cadono a valanga sugli organi, affogano i muscoli, e che il gioco di equilibrio tra corpo e mente è quello più difficoltoso da trovare.
Addomesticare il corpo è stato come vivere dentro una casa sconosciuta, ogni giorno, dietro ogni porta, si nascondeva in una stanza mai vista, un odore sconosciuto, una luce irreale.
Io e il mio dolore uomo abbiamo cercato patti di alleanza, schierati dalla stessa parte, per la stessa crociata; divisi da un punto di vista differente, da un limite che non ci teneva in accordo.
Oggi, ancora, il corpo sente  paure che la mente sa riconoscere ma non gestire.  A giorni il mio corpo è una macchina che funziona male, un difetto, un errore di trasmissione tra pensiero e azione.
Le gocce sono meno presenza, sporadicità, paracaduti aperti in momenti terrore.
Non ricordo se sono arrivati prima gli attacchi di panico o la morte di mio padre; non mi va di starci troppo a pensare; so che il ricordo è una macchina magica, è un luogo dove tutte le cose continuano ad accadere; ancora, ancora, io e mio padre siamo sempre sulla stessa spiaggia a battagliare con le onde, io e mia madre sempre allo stesso tavolo a soffrire la perdita, io e il mio primo bacio riaccadiamo tutte le volte che accendo il ricordo.
Dal ricordo non esiste una separazione, vive a prescindere da me, vive fuori da me.

 

*foto Mariasole Ariot

Ne vale la pena?

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Park Hotel Lugano 1904
Park Hotel Lugano 1904

di Gianni Biondillo

Spesso, troppo spesso, quando viene presentato un nuovo progetto su una rivista di settore non ci viene fatto vedere cosa c’era prima. Cosa fatta capo ha: ciò che c’era prima, in situ, non c’è più. Amen. Se è stato “sacrificato” è perché era, implicitamente, “sacrificabile”. Anzi, peggio, è come se prima non ci fosse stato nulla. Un vuoto che aspettava solo d’essere colmato dall’umano genio creativo. L’osservatore accetta la cosa come avesse fatto un patto implicito col progettista. Non chiedere, non dubitare. C’era bisogno del nuovo, criticalo per quello che è, ma non fare troppe domande su ciò che lo precedeva. Era tabula rasa o poco più. Sappiamo tutti che non è così, soprattutto in una realtà fortemente antropizzata quale quella delle città europee. Il mito del nuovo per il nuovo, mito che ci viene con la rivoluzione industriale e che ha avuto il suo massimo splendore nella società delle macchine, della velocità, delle “magnifiche sorti e progressive” incarnata nel Novecento, oggi, forse, andrebbe rivisto, rimodulato. Il territorio non è mai tabula rasa, non è mai un foglio bianco. Ogni progetto andrebbe valutato quasi redigendo una partita doppia: conoscere intimamente cosa stiamo perdendo, per poter valutare meglio cosa stiamo guadagnando. Altrimenti la gara è truccata.

Oggi. Foto Enrico Minasso
Oggi. Foto Enrico Minasso

Lo so, parlare di conservazione architettonica puzza sempre di tradizionalismo, di cultura reazionaria, passatista, antimoderna. Ma il “moderno”, di suo, è pure lui ormai cosa del passato. Siamo persino ben oltre la società postmoderna, forse alcuni punti fissi, alcuni tabù progressisti andrebbero se non abbandonati quanto meno rivisitati. Non sto dicendo che tutto ciò che ci viene dal passato è di suo, per statuto, “bello”. Ogni discorso che lancia l’allarme sulle brutture dell’architettura contemporanea scivola sempre in una china pericolosa e impraticabile. Ogni edificio è stato nuovo al suo nascere. Ogni novità è diventata storia comune, condivisa, negli anni. Però è vero che in certi casi le dimensioni contano. La quantità può fare la qualità, o la perdita di qualità, di un contesto. Il Novecento è stato un secolo invasivo, ha mutato in modo radicale, univoco, il paesaggio, l’ha, in molti aspetti, omologato.

Teatro Apollo e Kursaal Lugano 1987
Teatro Apollo e Kursaal Lugano 1987

Conservare quello che resta del passato – perché ormai spesso sono solo residui – è anche un modo per contrapporre forme alternative al pensiero unico dominante. Ci permette di dare la corretta dimensione del contemporaneo, confrontandolo con l’idea di urbano che ci viene dalla storia. Se ormai oltre il 90% di ciò che è costruito è irrimediabilmente moderno, perché continuare ad accanirsi con quel poco che resta di precedente a noi? Che paura ci fa? Non sto semplicemente parlando di conservare gli insigni monumenti identitari di un popolo. Sarebbe un luogo comune. La qualità di un monumento sta nella coerenza, nella stratigrafia, nel palinsesto dell’incasato, nella costruzione umile, nel dispositivo prospettico, nella soluzione formale del contesto. Il monumento in sé smette d’esistere se la cultura materiale della civiltà che lo ha ideato viene spazzata via.

Oggi. Foto Enrico Minasso
Oggi. Foto Enrico Minasso

Il progettista del XXI secolo deve rendersi conto che la gloria, che l’ansia edificatoria modernista dei suoi padri è cosa del passato. Oggi a lui tocca lavorare negli interstizi. Il suo deve essere uno sguardo olistico, capace di inserire il nuovo là dove occorre e saper rimettere in gioco l’antico là dove è possibile. Rendendolo, perciò, ancora contemporaneo, pronto a una vita futura.

Osservo queste fotografie che confrontano la Lugano contemporanea con quella di non molti decenni fa e mi chiedo: ne è sempre valsa la pena? Ogni scelta è stata dettata dalla necessità comune o solo dall’interesse privato? È questa l’idea di sé che la società ticinese vuole lasciare alle generazioni future? L’architettura che va a sostituire edifici carichi di un gusto magari inattuale ma di certo portatore di un’idea del decoro in fondo condivisibile (perché simbolicamente partecipato), questa nuova architettura non è che sia in sé brutta. O bella. È un’architettura che non osa. Tecnicamente ineccepibile – non è certo l’edificato caotico e trash di molta urbanistica spontanea mediterranea – racconta una visione della città sostanzialmente anonima, tecnocratica. Non è neppure uno stile internazionale. È un “global style”. Banche, uffici o civili abitazioni che potrebbero stare ovunque nel mondo, incapaci di farsi stimolare dal contesto, o di stimolarlo. Una architettura che assolto il compito di coprire la massima cubatura, ottenere la massima rendita di posizione, si disinteressa del bene comune della città. Fa il suo dovere senza passione. Sembra una minestra, magari cucinata con cura, con i soliti ingredienti freschi, ma senza alcuna nota peculiare, creativa, senza cipolla, o sale eliminando odori o sapori rilevanti che possano, non sia mai!, infastidire il consumatore. C’è da chiedersi allora: ne vale davvero la pena?

 

(testo redatto per Il nostro paese, n° 320, aprile-ottobre 2014, riferito alla mostraLa grande Bruttezza“, Casa Miler, Capolago, CH)

La stufa a parabola + una nota su Ponge

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radiateur lilor eclate  di Francis Ponge

traduzione collettiva*

Questo intero quartiere della città quasi deserto dove m’inoltravo non era che uno degli angoli monumentali della sua altissima muraglia minuziosamente lavorata, rosea al sole che tramonta.

Alla mia sinistra si apriva una via di case basse, secca e sordida ma inondata da una luce ammaliante, semi spenta. All’angolo, con l’albero un poco di traverso, si ergeva una sorta di giostra minuscola, non molto più alta di un piccolo pero, dove giravano diversi bambini uno dei quali indossava un maglioncino d’un puro color limone.

La regina della neve (seconda parte)

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nella versione quasi fedele di Viviana Scarinci

(la prima parte si può leggere qui.)

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Christian Birmingham

Principi, principesse e ragazze virili

Per farla breve Gerda, grazie all’aiuto del corvo e della sua fidanzata viene condotta a una verifica per lei emotivamente distruttiva: il ragazzo che ha sposato, come le ha riferito il corvo, la più intelligente delle principesse disponibili sul mercato delle fiabe, è Kay? A differenza di quel che si dice in giro, non è che ci sia tutta questa disponibilità di vere principesse e Gerda questo lo sapeva bene. Possibile che proprio Kay avesse trovato quel favoloso connubio di intelligenza e nobiltà in una donna, e che ciò lo avesse reso principe?

La scena che conduce Gerda a questa verifica è di una bellezza pari solo a quella raccontata nel mito di Eros e Psiche: condotta furtivamente nei pressi della stanza più segreta del castello che custodisce il talamo dei neosposi, Gerda deve attraversare uno  strano e popolato corridoio, prima di entrare nella camera da letto. Sono i sogni degli sposi a popolare quel corridoio limitrofo al sonno: cavalli purosangue, cacce, dame, cavalieri da cui Gerda fu circondata in un attimo. Oddio, pensò, i sogni di Kay potrebbero essere questi … Ma quando Gerda alzò la lampada, esattamente come fece Psiche per finalmente vedere  se il suo uomo fosse un mostro o l’amore, lei sapeva già in cuor suo che quelli non potevano essere i sogni di Kay. E infatti principe e principessa erano solamente principe e principessa: due giovani gentili e generosi che quando seppero, invece di cacciare a pedate quella strana ragazza  che si era introdotta nottetempo nei loro sogni, la rivestirono di tutto punto e le regalarono una carrozza per andare dove volesse, e ai suoi due fratelli di volo, corvo e cornacchia, ritennero giusto restituire pari libertà.

cinéDIMANCHE #08 FOROUGH FARROKHZAD “La casa è nera” [1963]

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Forough Farrokhzad [5 Gennaio 1935 — 13 Febbraio 1967] può essere considerata la più rilevante voce poetica femminile persiana del secolo scorso. Morì molto giovane in un incidente stradale. Nell’autunno del 1962 si recò a Tabriz per girare un documentario sulla vita all’interno del lebbrosario diBehkadeh Raji. Durante i dodici giorni delle riprese Hosein Mansouririuscì a entrare in completa sintonia con il luogo e con le persone: si affezionò molto aHossein Mansouri, un bimbo figlio di due lebbrosi, e lo adottò e lo porto con se a Teheran. Aveva 27 anni e non aveva mai girato un film. Ancora oggi commuove e sorprende la sua abilissima contrapposizione di immagini attraverso il montaggio di piccole sequenze, l’uso di luce, ombra, inquadrature, ritmo, suono e poesie recitate dall’autrice. Gli intensi lirici 20 minuti di La casa è nera precorsero e ispirarono la successiva New Wave del cinema iraniano, che ha prodotto alcuni dei più acclamati registi del XX secolo, come Abbas Kiarostami, Mohsen Makhmalbaf, Majid Majidi e Bahram Beyzaie.
 


[ sottotitoli tradotti dall’inglese da Orsola Puecher]

 
Nadia Agustoni
 

Immagini e parole
 
“Non vedrò la primavera. Queste parole sono tutto ciò che rimane” e il muro. Un uomo lì davanti cammina, forse sa la pausa tra le parole, ma tra i giorni non c’è pausa. Il tempo lì è sempre uguale e nessun elenco lo cambia. Dove c’è solo l’elenco dei giorni l’uomo invoca Dio perché tutto è troppo vuoto. Mancano gli uomini il cui volto è intero e le loro voci che dovrebbero dire qualcosa senza preghiera e senza canto. Invece la sola risposta è nel proprio canto, in una festa che viene per dimenticarsi, dove si ride come dietro a una maschera. Il volto che non puoi riconoscere è il tuo, ma non sei più tu: solo l’inferno conosce l’infermo, ma se sei ancora un po’ uomo cosa conosci? Per alcuni di noi viene solo la polvere, ma non so se parla.
 
Dal mio silenzio urlo tutto il giorno”; Il volto della bambina e la sua bambola e le voci dei bambini che giocano: non c’è vento là ancora, la polvere non arriva fino alla bocca anche se istintivamente i bambini possono sapere che la malattia è la terra dei sepolti o il mezzo per apprendere un’altra lingua. Allora il gioco e la festa sono rivolta? E guardare quei volti è rivolta al male della malattia? Cos’è quella prigione dove qualcuno pare resistere?
 
Il maestro che insegna in un’aula spoglia resiste al mancare del mondo. I suoi occhi interrogano ognuno e sono vivi. La vita è di chi guarda e vede. La paura non è tutto. La paura è la grande malattia dove smettiamo di conoscere gli altri. Gli altri sono un confine, Forugh Farrokhzad lo attraversa. In una poesia scriveva: “mai stata separata dalla terra/ né mai amica delle galassie…”. Il mondo dovrebbe essere la nostra casa: “Sulle pareti della mia casa che è la mia vita…”. Immagini e parole: la casa è nera. Si resiste alla follia con i nomi. Pronunciando le cose belle col bambino che può credere in quelle cose: la luna il sole i fiori il gioco.
 
* I versi di Forugh Farrokhzad sono tratti dalla poesia Sulla terra; in E’ solo la voce che resta ; antologia a cura di Faezeh Mardani 2009

 
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bambina
maestrp
bambino


 
 
 
 
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classe
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Orsola Puecher
 

La piccola bellezza
 
Nei primi fotogrammi neri di La casa è nera una voce maschile fuori campo ci avverte che: Su questo schermo apparirà un’immagine della bruttezza, ed ecco una donna di spalle avvolta in stoffe damascate, bellissime, che osserva la sua immagine in uno specchio con un fiore inciso, di fianco una piccola teiera. Una doppia delicata distanza di sicurezza obbiettivo/specchio quella che Forough ci propone, senza mai guardare direttamente questa “bruttezza“. Solo qualche battito di ciglia sono il linguaggio dell’occhio sano, che contempla quello semichiuso dalla pelle rugosa del viso devastato.
In una classe di scuola una lunga carrellata mostra i diversi gradi della malattia. Ogni volto è unico. I bambini ringraziano il Creatore per ciò che non hanno o hanno perso: Oh Dio ti ringrazio per avermi creato, Ti ringrazio per avermi creato una madre premurosa, un padre gentile. Ti ringrazio per la creazione dell’acqua, degli alberi e delle piante da frutto. Ti ringrazio per avermi dato le mani con cui sono capace di lavorare. Ti ringrazio per avermi dato gli occhi per vedere le meraviglie di questo mondo. Ti ringrazio per avermi dato le orecchie per godere di dolci canzoni. Ti ringrazio per avermi dato i piedi per andare dovunque voglia. Fuori campo la voce di Forough: Chi e’ che ti loda nell’inferno, o Signore? Chi nell’inferno?
La bellezza che sopravvive all’ingiuria della lebbra, anche solo per qualche tratto, e che si conserva negli sguardi, nei sorrisi, nella quotidianità dei gesti piccoli come fare la maglia ai ferri, filare la lana, pettinarsi, fumare una sigaretta fra le dita deformi, convive armoniosamente con la bruttezza. Non vi è la contrapposizione fra bellezza e bruttezza di quel mediocre sopravvalutato film che pretendeva di identificare La grande bellezza nel paragone fra una muta città monumentale, sontuosa, pubblicitaria e leccata, vuota di corpi, con la volgarità e la mostruosità etica dei suoi abitanti. Non esiste nemmeno una lotta e una vendetta dei mostri sui belli e sani come in Freaks di Tod Browning.
E neppure può esistere una grande bellezza assoluta, ma c’è una tensione segreta fra bruttezza e bellezza, che lottano sui visi e sui corpi e i grani di residua armonia, che riescono a brillare nei volti deturpati, splendono ancora di più nella loro piccola traccia, nella disarmonia per il ricordo dell’armonia perduta, nella dolcezza vittoriosa di occhi e sorrisi, nella gioia del movimento nel gioco, nel diritto alla felicità della musica e della danza nella festa. Flauti e tamburi e liuti a dieci corde vincono, là, sulla mostruosità dell’escluso per antonomasia, il lebbroso che doveva avanzare incappucciato, suonando una campanella per allontanare da sé chiunque, anche se nell’ultima scena, alla richiesta del maestro di comporre una frase con la parola casa, mentre la porta pesante del lebbrosario si rinchiude sulla processione dei malati, un vecchio/bambino scriverà, senza speranza, con il gesso sulla lavagna “La casa è nera“.

 

prima  quarta
terza  seconda

Forough Farrokhzad

 
Saluterò di nuovo il sole
 
Saluterò di nuovo il sole,
e il torrente che mi scorreva in petto,
e saluterò le nuvole dei miei lunghi pensieri
e la crescita dolorosa dei pioppi in giardino
che con me hanno percorso le secche stagioni.
 
Saluterò gli stormi di corvi
che a sera mi portavano in offerta
l’odore dei campi notturni.
Saluterò mia madre, che viveva in uno specchio
e aveva il volto della mia vecchiaia.
E saluterò la terra, il suo desiderio ardente
di ripetermi e riempire di semi verdi
il suo ventre infiammato,
si, la saluterò
la saluterò di nuovo.
 
Arrivo, arrivo, arrivo,
con i miei capelli, l’odore che è sotto la terra,
e i miei occhi, l’esperienza densa del buio.
Con gli arbusti che ho strappato ai boschi dietro il muro.
 
Arrivo, arrivo, arrivo,
e la soglia trabocca d’amore
ed io ad attendere quelli che amano
e la ragazza che è ancora lì,
nella soglia traboccante d’amore, io
la saluterò di nuovo.
 
[da: Un’altra nascita – in italiano nell’antologia La strage dei fiori, a cura di Domenico Ingenito, 2008 OXP editore]
 
 
Conquista del giardino
 
Il corvo che volò
al di sopra della nostra testa
e scese nel torbido pensiero di una nube vagabonda
e la cui voce come una lancia
percorse la vastità dell’orizzonte
porterà in città nostre notizie
 
Tutti sanno
tutti sanno
che io e te da quella fessura fredda e cupa
vedemmo il giardino
e da quel ramo alto e giocoso
cogliemmo la mela
 
Tutti temono
tutti temono ma io e te
giunti all’acqua, allo specchio, alla luce
non tememmo
 
Non si tratta
dell’effimero legame di due nomi
e di due corpi
nelle vecchie pagine di un registro
si tratta della mia chioma felice
e gli arsi papaveri dei tuoi baci
dei piccoli furti ingenui dei nostri corpi
nel luccichio della nostra nudità
come le squame dei pesci nell’acqua
si tratta di vita argentea del canto
di una piccola fontana all’alba
 
In quella fluida selva verde
noi, una notte, chiedemmo alle lepri
e in quel mare tempestoso e incurante
alle conchiglie colem di perle
e in quel nome strano e dominante
agli aquilotti
cosa dover fare
 
Tutti sanno
tutti sanno che noi
siamo giunti al sonno freddo e quieto di Simorgh
e abbiamo trovato la verità
nel timido sguardo del fiore ignoto
in una piccola aiuola,
e l’eternità in un istante interminabile
quando si guardano incantati due soli
 
Non si trattasi pavido mormorio nell’oscurità
si tratta del giorno e di finestre aperte
d’aria fresca
di un focolare dove ardono le cose futili
di terra fecondata da un’altra semina
di nascita, pienezza, orgoglio
si tratta delle nostre mani innamorate
che hanno gettato un ponte
di profumo e luce e brezza nella notte
Vieni sui prati,
su distesi prati
e chiamami oltre gli aliti dei fiori serici
come il cervo chiama la compagna
 
Le tende sono pregne di un rancore celato
e le candide colombe
dall’alto della torre bianca
guardano la terra
 
 
Dono
 
Io parlo dall’estremità della notte
 
Dall’estremità della tenebra
dall’estremità della notte
io parlo
 
Se verrai a casa mia, oh mio caro
portami una luce
e una piccola finestra
per guardare
la stradina affollata e felice
 
[Da Un’altra nascita in italiano nell’antologia E’ solo la voce che resta a cura di Faezeh Mardani, 2009 Aliberti editore]


 
cinéDIMANCHE

 
cd Nella pausa delle domeniche, in pomeriggi verso il buio sempre più vicino, fra equinozi e solstizi, mentre avanza Autunno e verrà Inverno, poi “Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera“, riscoprire film rari, amati e importanti. Scelti di volta in volta da alcuni di noi, con criteri sempre diversi, trasversali e atemporali.
 

I due mondi di Maaza Mengiste

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di Igiaba Scego

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foto di Juergen Bauer

Maaza Mengiste ricorda ancora la prima parola inglese di cui ha imparato a fare lo spelling: T-H-E. Erano gli anni Settanta, era una bambinetta tutta riccia che insieme ai suoi genitori si trovava in Kenya, in fuga dalla terribile dittatura di Mengistu Haile Mariam, quel Derg di cui gli etiopi si ricordano ancora con terrore. Maaza era tutta eccitata e ripeteva al padre quell’articolo appena imparato, quelle lettere appena acquisite. «Il mondo – dice con grande dolcezza la scrittrice – si aprì per me proprio quel giorno. Come se d’improvviso si fosse espanso». È il mondo delle parole, della letteratura, delle storie. La aiuterà a resistere quando, ancora minorenne, sarà mandata negli Stati Uniti a costruirsi un futuro.

Oggi Maaza Mengiste è considerata una delle promesse della nuova letteratura statunitense. Il suo Lo sguardo del Leone (edito in Italia da Neri Pozza) nel 2007 è stata definita un «New Literary Idol» dal New York Magazine. Lavora alla New York University come insegnante di scrittura creativa, prima di andare all’università scrive un paio d’ore. Quando non lavora si concede “un po’ di più”. È da sempre appassionata di storia, non è un caso che una delle sue letture preferite sia l’Illiade di Omero, letta svariate volte nella traduzione inglese di Robert Fagles. «Una storia di guerra, ma anche molto di più. Una storia di amicizia e fedeltà, di arroganza e umiltà. Una storia d’amore e sul significato profondo del mantenersi integri». È quello che inconsciamente ripete nella sua scrittura: il dottore Hailu protagonista di Lo sguardo del leone è di fatto un personaggio integro e umile precipitato nella paradossale violenza di una dittatura che predicava il bene del popolo, ma di fatto lo stava ammazzando con ferocia.

Mengiste è sempre stata attratta dai vuoti e dai silenzi della storia. Ed è questo che l’ha portata ad occuparsi del colonialismo italiano. Grazie ad una borsa di studio Fulbright ha passato un anno in Italia tra archivi, documenti e contraddizioni. Ha visto un’Italia accogliente: «molti mi hanno aperto le porte di casa con amore». Ma anche chiusa: «Le cose che non mi piacciono dell’Italia, sono le stesse che detesto dell’America: il razzismo e gli atteggiamenti razzisti di parte della popolazione. Oggi con l’influenza dei migranti e il numero sempre più alto di figli di migranti nati o cresciuti in Italia il paese deve ridefinire se stesso». In questa ridefinizione la scrittrice mette al centro la riappropriazione del colonialismo, in Italia poco studiato e conosciuto. «Da piccola ho ascoltato molti racconti sull’invasione italiana e sulla successiva vittoria etiope contro i fascisti. Conoscevo storie di eroismo etiope, quelle che si raccontavano in famiglia. Ma diventando adulta mi sono fatta molte domande. Ho fatto ricerche, letto moltissimo e lentamente ho cominciato a realizzare che la storia di quella guerra era molto più complessa di quello che pensavo. Ci sono tante storie di quella campagna militare che non sono state raccontate. Gli eroi di cui avevo sentito parlare erano uomini etiopi, ma ho cominciato a chiedermi cosa poteva essere quella guerra dal punto di vista di una donna. E poi mi interessava anche il punto di vista di un soldato italiano. Il mio libro sul colonialismo è nato dalle domande che mi sono fatta e da tutti i silenzi contenuti in quella storia». Non c’è ancora una data di uscita americana del romanzo. «Sta per arrivare presto», dice. Non si preoccupa delle reazioni in Etiopia e in Italia di questa sua nuova opera: «Non scrivo per creare polemiche. Scrivo solo per raccontare».

Poesie da La voce delle cose

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di Carla de Falco

la secca

tra carcasse arancio di granchi
le cui chele sono inutili per sorte
cammino a passo fermo e piedi nudi
lungo una cerniera limacciosa.
una lunga, umida ferita
tra due franti, lacerati lembi azzurri:
uno torna vinto alla sua terra
l’altro vola libero alla vita.

* * *


L’odore dell’uva

io ricordo l’odore dell’uva
che apriva il cuore all’estate
raccontando del giorno più chiaro
della luce fino dentro ai filari.
gravidi chicchi ricurvi
e foglie larghe a ventaglio
nell’ombra a proteggere i cirri.
e nel grappolo coi chicchi stretti
agganciati fin dentro al cuore
al loro raspo contorto
io vedevo l’umana famiglia
attaccata con grande fatica
a un cosmo assolato e durissimo.

* * *

la luce morta delle stelle

ci fermammo sdraiati sulla sabbia
sopra un letto di cenere e coralli
a guardare come sotto un incantesimo
quegli occhi che fissavano la terra.
la prepotenza della loro luce
piazzata come un faro su di noi
ci spinse, giovani entusiasti,
a scommettere di non addormentarci
e viaggiammo da svegli quella notte
sognando di tornare fino al mittente
passando per un varco dentro il vuoto
tra pianeti, satelliti e comete.

per foreste di costellazioni
arrotolate come capelli argento
nello chignon delle antiche donne
arrivammo in un mondo lontanissimo
che vive parallelo eppur presente
e nel quale noi siamo già passati.

come riflessi ingannevoli di astri
già da secoli spentisi per sempre.

* * *


brandelli di nebbia

nell’orrore di un piccolo frammento
di esistenza che cede alla tortura
nella terra che si apre in crepa dura
e la vita rapisce con un soffio
mi ferisce una forma di sgomento
un dolore mai nuovo, tenebroso
ed invoco pietà per ogni cosa.

vivo in una notte senza arrivo
e prego di contrarre un’amnesia
lenta, assoluta e, per dio, definitiva
che laceri per sempre in nebbia fitta
la vista lenta e atroce della vita
che soccombe al vuoto dell’inferno.

* * *

oltre la linea d’orizzonte

emerse da un lento mare morto
grandi avare mani di orco
hanno spezzato come pane fresco
le ali acerbe dei nidiacei in volo.
né di qua né di là sorge più alba
per l’ondivago, confuso e sgangherato
stormo sospinto da un miraggio:
innocente la preda vive ancora
oltre la linea d’orizzonte.

Contro l’occhio. La scrittura del dolore vero

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di Giacomo Verri

In un piccolo volume del 2006, La Letteratura dell’inesperienza, Antonio Scurati rifletteva su quanto la società di plastica in cui viviamo abbia sostituito l’esperienza diretta del mondo (com’è, per antonomasia, quella vissuta da chi ha fatto la guerra) con una sorta di cognizione del dolore indiretta, asettica, disinfettata e interrotta da assidui diaframmi che sono prima di tutto gli schermi attraverso i quali giunge a noi la realtà, a pillole, frammentata, amplificata e voltata in evento per far fronte all’insufficienza del nostro presente: in sostanza, cioè, esperiamo quotidianamente l’inesperienza; la quale non solo crea una letteratura incapace di poggiare i piedi per terra, ma genera un cortocircuito che impedisce di gettare ponti verso il passato e verso il futuro. L’uomo finisce così per mancare, nel campo delle cose narrabili, di quel copioso materiale che ebbero per la testa i nostri nonni. Ed è ovviamente un problema letterario, sì, ma prima di tutto psicologico e morale; è un buco nella coscienza, colmato talora, e tragicamente, dal piombare furioso dell’evento eccezionale: un terremoto, un’alluvione, un disastro della natura. E quando accade, gli scrittori aggrediscono il caso anomalo e terribile, lo accerchiano e se ne lasciano invadere come la terra riarsa accoglie il fortunale.

Il bosco che ci contiene (per il paese di Torri)

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di Francesca Matteoni

imagesTorri è un borgo della Sambuca Pistoiese a 912 metri di altezza sul livello del mare, dove termina una strada asfaltata che dal torrente, dalla Limentra Orientale, sale tra gli antichi castagneti. Quando arrivi lassù da bambino pensi che dopo non c’è davvero nulla, solo le valli che si aprono dagli scogli assolati, uscendo dagli alberi quando vai per more e lamponi d’estate. Certo non è così e di sentieri e vie non asfaltate ve ne sono altre, ma è per quella deviazione della Riola che da Pistoia, da Prato o da Firenze e perfino da Porretta e dal bolognese, entri in questo paesino dei fiori e della pietra, da quando ti ricordi. È un viaggio incantato in ogni mese dell’anno e di notte è un viaggio tra animali che fuggono all’avvicinarsi dei fari. Perché quando abbuia, è noto, i paesi dormono e i boschi si svegliano. E tu, nel passarci in mezzo, senti sempre qualcosa che non sai nominare, ma che è molto importante, immutato dalla prima infanzia.

Da “Canti di un luogo abbandonato”

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di Azzurra D’Agostino

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Chi era qui, chi zappava e mungeva
chi insomma c’era non l’avrebbe voluto
il crollo del fienile e neanche, inutile dire,
questo scrostarsi di pareti, la gramigna
tra le fessure del selciato e tutto sommato il mondo
l’intero mondo spopolato. Il mondo quello lì, che c’era
e pensava alla primavera come a una promessa,
la terra del campo spessa come una preghiera.

Cosa accade ad un paesaggio quando muore

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di Mariasole Ariot

L’assenza di rilievi montuosi e le nebbie
velano a volte gli occhi

F. Pusterla

Parole di terra

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Rahbi_013-PAROLE, COPERTINA med copiadi Pierre Rabhi

(dall’introduzione dell’autore a “Parole di Terra”, per gentile concessione dell’editore Pentagora)

Il personaggio di Tyemorò è nato dalla mia immaginazione e rappresenta tutto ciò che provo, in termini di amore, compassione e ammirazione, per i contadini autentici. Sono loro, al nord come al sud, quelli che impastano la terra che li ha impastati, e che spesso ne hanno incarnato la forza e il silenzio. Ora e ovunque, ne esprimono la sofferenza e l’abbandono. Questo racconto, anche se con tonalità africana, vorrebbe essere universale. Ecco perché né l’etnia Batifon né il suo territorio possono essere individuati su una carta geografica.

 

Dopo alcuni decenni nei quali la scienza e la tecnica hanno fatto credere di essere onnipotenti, il disincanto s’insinua e prende vigore. Tutta la frenesia chiassosa di questo secolo, tutte quelle orge in omaggio alla materia minerale a scapito di ciò che vive di sensibilità, d’intuito e di nervi, sembra concludersi con un immenso equivoco. Il mondo angosciato si frantuma. La barbarie è lì, in agguato nei cuori, così come la morte, sorniona e implacabile, è in agguato negli arsenali atomici. Ed è proprio questo uno dei grandi prodigi di cui l’umanità potrà gloriarsi: aver fatto il dono più grande e mostruoso alle forze della distruzione.

Forse la forma di questo racconto potrà sorprendere, ma il lettore non si faccia ingannare. Qui, sotto l’apparenza di una favola, si cerca di mettere in allerta ogni coscienza sulle violenze subdole commesse contro questa terra e, per la legge irrevocabile che ci lega a essa, contro noi stessi.

Questa iniziazione è tanto concreta quanto lo è la terra nutrice e, tuttavia, non può essere compresa fuori dalla dimensione spirituale che ne è la radice. Il nostro secolo di razionalità materialista, di pesantezza minerale, di sostanze tossiche sparpagliate ovunque, di scienza quasi del tutto asservita al profitto, ha colpito il mondo sensibile che costituisce l’involucro vivente e vitale del nostro pianeta. Sembra che il metro del sacro sia l’unico in grado di misurare l’ampiezza della nostra responsabilità. E con sacro, intendo quel sentimento umile nel quale la gratitudine, la conoscenza, la meraviglia, il rispetto e il mistero si alleano per ispirare le nostre azioni, illuminarle e fare di noi degli esseri ben presenti al mondo, ma liberi dalle vanità e dall’arroganza che rivelano non tanto la nostra forza quanto le nostre angosce e fragilità.

Parole di terra vorrebbe perciò essere un piccolo contributo alla fondamentale causa della sopravvivenza alimentare degli esseri umani, dovunque sia minacciata. Queste parole vorrebbero anche essere un pretesto per tornare a meditare sulla fertilità della terra e sul patto nuovo e vitale che dobbiamo stabilire con lei.

Si tratta di una realtà oggettiva, concreta e vivente, legata a un’esperienza reale dove i problemi riguardano ciascun essere umano, perché si tratta della terra nutrice, della terra madre, alla quale dobbiamo la nostra vita e la nostra sopravvivenza.

Pierre Rabhi, la terra, l’agroecologia, i Colibrì

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images di Massimo Angelini
(sempre per gentilissima disponibilità di Pentagora, pubblichiamo la biografia di Rabhi, che chiude il volume “Parole di terra”)

Agricoltore, scrittore e pensatore, Pierre Rabhi nasce nel 1938 nel Sud dell’Algeria. Dopo la morte della madre, è affidato a una coppia francese; in seguito alla Guerra d’Algeria, lascia gli studi e, a vent’anni, si trasferisce a Parigi, dove lavora come operaio specializzato. Qui inizia a mettere in discussione i valori e i ritmi competitivi della modernità. Trasferitosi con la moglie Michelle – con la quale avrà cinque figli – in Ardèche, si dedica all’agricoltura, diventando uno tra i pionieri del metodo biologico. Si batte per una società più rispettosa dell’uomo e della terra e sostiene lo sviluppo di pratiche agricole che siano alla portata di tutti, soprattutto dei più poveri, e che, nello stesso tempo, assicurino il mantenimento della fertilità naturale. Negli anni Settanta inizia a prendere una sempre più netta posizione contro la logica produttivistica applicata all’agricoltura, le cui conseguenze devastanti si mostrano oggi in tutta la loro ampiezza, e, nella sua fattoria, affina i metodi e le tecniche che negli anni successivi insegnerà e divulgherà sotto il nome di ‘agroecologia’.

Nel 1978 è formatore presso il Centre d’étude et de formation rurales appliquées (Cefra).

Dal 1981 inizia a diffondere la sua esperienza e mette a punto diversi percorsi di formazione in Francia e nei paesi aridi dell’Africa.

Su invito del Burkina Faso, organizza il primo programma di agroecologia offrendo un’alternativa ai contadini alle prese con la siccità e il dissesto ecologico ed economico provocato dall’uso sempre più massiccio dei fertilizzanti industriali e dei pesticidi. Nel 1984 a Gorom Gorom fonda il primo centro africano di formazione agroecologica, con lo scopo di ridare alle popolazioni locali l’autonomia alimentare erosa dalla cosiddetta ‘Rivoluzione verde’ e in seguito al disastroso impatto con l’agricoltura industriale.

In questi anni, per rispondere alla desertificazione umana, economica e morale, lancia il movimento Oasis en tous lieux, fondato sulla riappropriazione di pratiche di vita semplici, sulla riacquisizione di competenze per l’autosussistenza e per la ricostruzione di legami sociali fondati sulla condivisione dei beni comuni. Il movimento entra a fare parte della rete europea degli ecovillaggi e oggi unisce un rilevante di numero di associazioni e piccole comunità votate a uno stile di vita semplice ed ecologicamente sostenibile.

L’applicazione dei metodi dell’agroecologia ha interessato nel tempo anche alcune comunità religiose, come, già dal 1992, il monastero di clausura di Solan nel dipartimento del Gard, suscitando un modello di convivenza religiosa attento anche ai valori dalla sostenibilità ambientale e della biodiversità, in seguito ripreso nei monasteri ortodossi della Romania.

Nel 1994, Pierre fonda l’associazione Terre & humanisme per coniugare ecologia e solidarietà e rinforzare i legami tra gli uomini e tra questi e la terra nutrice, la madre terra, anche attraverso la diffusione dell’agroecologia, intesa come alternativa globale che unisce la pratica agricola all’etica. ‘Davanti ai crudeli bilanci di una terra isterilita, l’agroecologia propone soluzioni naturali per rigenerarla nel rispetto della vita, uomini inclusi, integrando tutti gli aspetti sociali, sanitari, economici e ambientali’. Dal centro propulsore nella cascina di Beaulieu, nell’Ardèche, le attività dell’associazione nel corso degli anni diramano su scala internazionale, anche attraverso programmi sviluppati in Burkina Faso, Camerun, Mali, Niger, Senegal, Tunisia, volti a migliorare l’autonomia delle popolazioni, a salvaguardare i patrimoni alimentari locali, a lottare la sterilità e la desertificazione delle terre. Nel tempo, dall’associazione gemmeranno organizzazioni locali impegnate nella diffusione dell’agroecologia, tra le quali Terre & humanisme Maroc (2005), dalla quale a Marrakech nascerà il Carrefour International de pratiques agroécologiques, e Terre & humanisme Roumanie (2009) nella Moldavia romena.

Dal pensiero e dalle posizioni etiche di Rabhi, alla fine degli anni Novanta nasce la Ferme des enfants, dove il metodo di Maria Montessori è applicato alle scuole materna, primaria e secondaria, e orientato su quattro indirizzi pedagogici: l’educazione alla vita e alla conoscenza di sé; l’educazione alla pace e alla convivialità; l’educazione all’ecologia e agli stili di vita semplici e improntati al rispetto dell’ambiente; l’educazione sociale all’incontro e alla interculturalità. A partire dal 2004, in una tradizionale cascina di La Blachère (Hameau des buis), la scuola dà vita a un laboratorio dov’è possibile sperimentare un modo alternativo di coabitazione, consumo, alimentazione e spostamento.

Dal 1988, è riconosciuto quale esperto internazionale per la sicurezza alimentare e la lotta alla desertificazione, definita come tutto ciò che minaccia l’integrità e la vitalità della biosfera, e le sue conseguenze per gli esseri umani: in questa veste, è protagonista di programmi attuati su scala mondiale e sotto l’egida delle Nazioni Unite.

In particolare, nel 1997-98, su invito dell’Onu partecipa all’elaborazione della Convention de lutte contre la désertification (Ccd) ed è chiamato a formulare proposte concrete per la sua applicazione.

Incoraggiato dagli amici, nel 2002 Pierre si lancia in una campagna elettorale ‘non convenzionale’ con la proposta di rimettere l’Uomo e la natura al centro. La sua campagna suscita in poco tempo una mobilitazione eccezionale, raccogliendo il sostegno di molti parlamentari e costituendo più di 80 comitati regionali di sostegno: i colibrì.

Da questo impegno, nel 2003 nasce il movimento Appel pour une insurections des consciences (Mapic), presente in numerosi distretti francesi, per una trasformazione profonda della società, a partire dai cambiamenti individuali e con il sostegno dell’azione collettiva.

Fa parte del comitato editoriale del mensile ‘Décroissance’ ed è vice-presidente dell’associazione Kokopelli, impegnata a favore della biodiversità.

Dal Mouvement pour la terre et l’humanisme, nel 2007 nasce il movimento Colibris per incoraggiare la nascita e l’attuazione di nuovi modelli di società fondati sull’autonomia, l’ecologia e l’umanesimo nel segno della decrescita e di una ‘sobrietà felice’. Il movimento trae il nome da una leggenda amerindiana.

Un giorno ci fu un immenso incendio nella foresta. Tutti gli animali, terrorizzati, ossevavavo impotenti il disastro. Solo il piccolo colibrì si diede da fare andando a raccogliere qualche goccia d’acqua col suo becco per gettarla sulle fiamme.

Dopo un po’, l’armadillo, infastidito da tanta agitazione, gli disse: ‘Colibrì, ma sei matto?! Non è con quelle gocced’acqua che spegnerai il fuoco!’

E il colibrì gli rispose: ‘Lo so, ma faccio la mia parte’.

 

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Tra le sue opere: Du Sahara aux Cévennes: itinéraire d’un homme au service de la Terre-Mère, 1985, 2002; Le Gardien du feu : message de sagesse des peuples traditionnels, 1986, 2003; L’Offrande au crépuscule, 1989,2001; Paroles de terre, 1996 (Parole di terra, Pentàgora, 2014); Conscience et environnement, 2006; La Part du colibri : l’espèce humaine face à son devenir, 2006 (La parte del colibrì, Lindau 2013); Manifeste pour la terre et l’Humanisme, 2008 (Manifesto per la terra e per l’uomo, Add, 2011); Vers la sobriété heureuse, 2010 (La sobrietà felice, Add, 2013).

La terra, il paesaggio, la letteratura

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di Angelo Ferracuti

imagesGirando parecchio l’Italia, negli ultimi periodi mi sono reso ancora di più conto di come il paesaggio marchigiano, fermano, mi appartenga interiormente in modo molto forte per intima consonanza. Come questo condizioni il mio umore, un’idea estetica in generale, persino lo stile, la scrittura che adopero, l’organizzazione dello spazio, e come non riesco a staccarmene, nonostante poi la vita di provincia sia in realtà abbastanza claustrofobica e fisiologicamente noiosa.

Sono nato in una famiglia contadina, e di quel mondo ho ancora molta nostalgia. Quindi sono un assiduo frequentatore dei “luoghi persi” di cui parla il poeta Umberto Piersanti, amo molto la terra, la natura, gli alberi, e vado spesso in cerca di silenzio in un mondo frastornante, dove i rumori di sottofondo sono una parte del dominio, del caos, della confusione, e confondono le idee. Nelle nostre campagne ritrovo l’armonia, l’ordine e il disordine naturale, la quiete.

Quando vado in un’altra regione, la prima cosa che mi viene da fare è un paragone di paesaggi, e anche di abitudini, di riti quotidiani, quali sono le diversità tra il luogo di residenza, e quello dove sono arrivato. Spesso mi accorgo che il mio occhio si è in qualche modo allenato su queste colline marchigiane, sui paesi arroccati, nei piccoli luoghi, che basta spostarsi di pochissimi chilometri e si scorge oppure si arriva direttamente al mare. Almeno dalle mie parti. Certo nel nord delle Marche non è sempre così, se penso a Falconara, con quel Moloch orribile della raffineria dell’Eni, una città di mare dove il mare non si vede mai. Ma il paesaggio della Sardegna, per esempio, è più impegnativo da un punto di vista strettamente naturalistico, più selvatico e roccioso, a volte soffoca, la stessa cosa vale per quello abruzzese, tanto per fare degli esempi tangibili, mentre in Calabria in pochi chilometri si passa dall’alta montagna al mare, in modo molto netto, quasi violento, e le speculazioni edilizie, gli sfregi della ‘ndrangheta, hanno irreparabilmente violentato cittadine e costa, molti luoghi da quelle parti sono inguardabili.

Il nostro paesaggio è assolutamente conservato meglio, anche se sulla costa non c’è più un tratto di spiaggia libera, tutti i piccoli chalet degli anni ’60 dalle tinte pastello si sono quadruplicati di dimensioni, diventando spesso ristoranti, campi di calcio, luoghi del brutto, del cattivo gusto e del consumismo di massa in salsa spettacolar-televisiva, dove gli zombie saltellano nell’acqua. La costa marchigiana che si vede dal treno è spesso così, e non è un bello spettacolo.

Anche da noi ormai vince l’idea che il paesaggio non deve essere tutelato ma sfruttato come le persone, il consumo di suolo della nostra Regione è tra i più alti d’Italia, si cementifica molto. Sono tutt’altro che uno specialista di queste cose, ma nel 1998, in occasione del bicentenario leopardiano, proprio per onorare questo illustre antenato, scrissi un racconto che uscì in un libro (gli altri scrittori erano Gilberto Severini, Claudio Piersanti, Eraldo Affinati e Laura Pariani) al quale tengo molto e la dice lunga su come la penso. La letteratura può dire tutto ciò che in genere non si può dire, e resta una forma, una rappresentazione del mondo spesso avversa che si materializza rispetto a quella del potere. La letteratura mostra cose che possono esistere, che possono accadere, e anche i loro paradossi. E’ un altro modo di vedere il mondo, spesso di chi è stato sconfitto ma non ha perso la speranza di cambiare. In realtà nella società dell’eterno presente, dove l’esperienza di molte vite si gioca sull’attimo, così come suggerito dalle culture neoliberiste che con impeto necrofilo, una idea di distruzione, cavalcano il mito del consumo, credo che l’attenzione per il paesaggio, per lo sviluppo compatibile delle città, dei paesi, e dentro questo il recupero di una socialità, interessi davvero una minoranza di persone e venga percepito come qualcosa di anacronistico. La maggioranza vede ormai tutto come qualcosa da consumare, dal sesso a una gita in barca, annullando tutto quel sentimento del tempo che ci hanno insegnato gli antichi. Quindi, siccome lo spettacolo deve continuare, è questo che vuole il potere, tutto deve essere consumato, da una funzione religiosa a un film pieno di rapporti anali con protagonisti uomini e animali, la suora che canta il rock e il festival di musica sacra, la religione di questo tempo è non fermare “lo sviluppo”, “la crescita”. Ma nella foga avevo dimenticato il mio racconto, che si intitola “Un barbaro”, al quale sono molto legato, e l’antologia, “La città raccontata”, curata da Daniele Garbuglia. Ebbene a Recanati, nel natio borgo selvaggio, questo vecchio impazzisce, prende in mano lo schioppo, si barrica in casa e dal balcone comincia a sparare contro i manovali che stanno costruendo un palazzo di fronte alla sua casa colonica e stanno cancellando “la vista” dell’ermo colle. Arrivano i carabinieri, e il figlio, che vive in un comune vicino, avvertito da questi ultimi, e, nonostante da fuori tutti cerchino di convincerlo alla resa, il vecchio leopardiano continua a combattere finché non resta ucciso nel conflitto a fuoco con i militari. Ovviamente non è un invito ad imbracciare le armi, come dicevano una volta i cattivi maestri, ma a non smettere di lottare e di pensare con quelle pacifiche del pensiero, di cui anche la letteratura è parte.

I colori della terra

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imagesdi Vincenzo Pardini

Aristide, d’estate, aveva preso a tornare nella sua terra. Calzati i vecchi scarponi che teneva nella casa nativa, si inerpicava lungo la mulattiera di infanzia e adolescenza. Era cambiata. Cespugli e alberelli si stavano impossessando dell’impiantito di sassi e di pietre, le selve dei castagni s’erano infittite, alcuni di quelli antichi erano crollati come guerrieri sconfitti. Anche la terra che traspariva tra i sassi del percorso era diversa; da rossiccia e compatta, era divenuta scura, e non ospitava più l’andirivieni delle grosse formiche nere.

Bambino, Aristide aveva sempre osservato la terra, specie quando suo padre la rivoltava con la vanga, e le zolle erano d’un marrone umido, analogo a quello del cioccolato, e sapeva di radici. D’estate, verso sera, osservava i grilli nell’erba. Gli pareva emanassero odore di pulviscolo bruciato dal sole. La stesso che sollevavano le vacche al rientro dai pascoli; i muli, invece, parevano calpestarlo, tanto comprimevano il terreno con gli zoccoli. Scomparse le atmosfere di infanzia e adolescenza, la terra aveva assunto un’altra fisionomia. Una sera, all’inizio del tramonto, si spinse fino all’orlo dei precipizi, sotto i quali si estendeva la pianura. Erano anni che non vi era andato e ne rimase stupefatto e smarrito. La pianura non aveva più i colori della terra, ma quelli grigi, uniformi e artificiali dei capannoni dell’industria, dai quali fuoriuscivano volute di fumo bianco e compatto che, lento e inesorabile, si sollevava verso la montagna. Arrabbiato e deluso, Aristide si sentì vecchio, molto vecchio. La terra era ormai prigioniera e ammalata; malattia che si stava trasferendo a all’intero Creato.

Evola – Fermate il virus

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julio(Ricevo e volentieri pubblico questo testo – espressione del comune sentire di un gruppo di lavoro di studiosi di differenti discipline storiche – che è stato redatto con il contributo di Roberto Alciati, Leonardo Ambasciano, Luca Arcari, Sergio Botta, Francesco Cassata, Cristiana Facchini, Enrico Manera, Emiliano Rubens Urciuoli. G.B.)

Ma qui vale attirare l’attenzione anche sull’opera distruttrice che l’ebraismo, così come secondo le disposizioni dei “Protocolli”, ha effettuata nel campo propriamente culturale, protetto dai tabù della Scienza, dell’Arte, del Pensiero. E’ ebreo Freud, la cui teoria s’intende a ridurre la vita interiore ad istinti e forze inconscie, o a convenzioni e repressioni; lo è Einstein, col quale è venuto di moda il “relativismo”; […] lo è lo Stirner, il padre dell’anarchismo integrale e lo sono Debussy […], Schönberg e Mahler, principali esponenti di una musica della decadenza. Ebreo è Tzara, creatore del dadaismo, limite estremo della disgregazione della cosidetta arte d’avanguardia, e così sono ebrei Reinach e molti esponenti della cosidetta scuola sociologica, cui è propria una degradante interpretazione delle antiche religioni.

Julius Evola, Introduzione a I “Protocolli” dei “Savi Anziani” di Sion, (terza edizione, 26°- 35° migliaio), La Vita Italiana, Roma 1938 (datata settembre 1937), pp. XXV-XXVI

Stanno accadendo alcune cose in un contesto molto specifico della cultura italiana, apparentemente marginale e poco rilevante, che sono però sintomatiche e forse paradigmatiche di alcuni processi culturali in corso nella nostra società.

In una lettera redatta in inglese e inviata alle mailing list della European Association for the Study of Religion (EASR), sigla che include il gotha della storia delle religioni europea, un professore italiano, vicepresidente di quella stessa associazione e membro del consiglio direttivo dell’organizzazione federata italiana (SISR), pubblicizza un convegno dedicato all’«eredità» culturale di un noto esoterista, fascista e propagandista antisemita italiano del secolo scorso: Julius Evola (1898-1974). Nel testo della mail si accredita Evola come studioso di calibro, autore di pubblicazioni notevoli nel campo della storia delle religioni, e si invita alla rivalutazione del suo lavoro senza animosità né pregiudizi, per assegnargli finalmente il posto che merita nella storia della storiografia. L’intento dichiarato è quello di riabilitare accademicamente e scientificamente le opere dedicate alle religioni e al religioso di un pensatore fascista.

Per comprendere il tipo di operazione che si è svolta a Roma il 29 novembre scorso, è utile fornire qualche informazione sul contesto in cui si è celebrato il convegno. Patrocinato da un folto gruppo di logge massoniche, l’incontro è organizzato da un centro studi sulle «scienze ermetiche» che nella sua «mission», improntata alla tolleranza universale e a un umanesimo spiritualizzante, menziona per ben due volte l’intento di affratellare le diverse «razze umane». La presentazione del convegno è affidata a un  cerimoniere dai titoli altisonanti che si diffonde sul valore culturale del pensiero evoliano «a prescindere dai suoi presunti [sic] orientamenti politici, più o meno condivisibili [sic]». L’opacità di questa breve e retorica contestualizzazione della figura di Evola nella storia italiana risulta evidente al lettore esperto. Last but not least, il convegno è organizzato in collaborazione con la Fondazione Julius Evola, un ente notoriamente lontano dall’interrogazione critica del pensiero dell’eroe cui è dedicata.

Intendiamoci: in un regime democratico e liberale un’operazione del genere è legittima, nella misura in cui, entro i limiti di legge, chiunque può studiare ciò che vuole e organizzare simposi anche stravaganti. In questo caso, un problema serio di opportunità si pone, però, se tra i relatori figurano diversi docenti di discipline differenti che insegnano nelle università italiane. Non per nulla l’iniziativa, pubblicizzata nell’ambito degli studi religionistici, ha scatenato un putiferio presso la comunità scientifica internazionale informata dell’evento. L’autore di un importante volume sullo studio della religione in ambito accademico sotto il fascismo interbellico ha immediatamente risposto censurando una riabilitazione mascherata da interesse storico-storiografico, additandone la continuità con alcuni passati tentativi “alchemici” di filtraggio dello studioso serio dall’ideologo fascista e antisemita e richiamando al carattere esausto (oltre che molesto) di questo genere di iniziative.

Altre mail sono seguite, più o meno ostili all’iniziativa: alcune, tra cui un paio provenienti da studiosi di fama e calibro mondiali, gridano apertamente allo scandalo, altre cercano di gettare acqua sul fuoco, altre ancora mostrano di condividere l’atteggiamento metodologico difensivo per cui si tratta di saper distinguere il valore (scientifico e culturale) dell’opera dall’eventuale disvalore dell’uomo. Il parallelo apologetico, prevedibile quanto ormai logoro, con le vicissitudine politiche di Martin Heidegger e Carl Schmitt è stato puntualmente utilizzato dall’estensore della lettera iniziale.

Lo scambio epistolare elettronico si fa a questo punto articolato e complesso, ma la questione che ci sentiamo di sollevare concerne la situazione storico-culturale in cui questo episodio si inscrive e di cui è al tempo stesso sintomo e paradigma. Durante il lungo ventennio berlusconiano, nell’accademia italiana si sono aperte le porte della redenzione al pensiero pseudoscientifico, pseudostoriografico e antimodernista: un processo sottilmente revanscista che ha accompagnato le ben più crasse riabilitazioni promosse o tollerate dai governi di centro-destra. In pratica, ciò che prima non poteva essere messo per iscritto perché svergognatamente ideologico, è stato possibile dirlo e farlo passare come rispettabile risultato di una volenterosa pratica storiografica. Nella storia delle religioni italiana si è assistito così all’ingresso prepotente di ogni sorta di infiltrazione metafisica, filoesoterica e perennialista: una paradossale reazione contro quell’unica accademia europea che aveva da sempre coerentemente sviluppato ed espresso i corretti anticorpi storicisti contro le prospettive ermeneutico-fenomenologiche destrorse, irradiantisi dalla figura controversa di uno studioso pur importante e significativo come il romeno Mircea Eliade.

Ma torniamo all’oggetto dello scandalo. Chi è Julius Evola?

Nato a Roma nel 1898, ha una educazione filosofica ed estetica tipica per il periodo e un’attività giovanile di pittura dadaista. Ufficiale nella Grande guerra, è turbato dai cambiamenti dovuti all’impatto della società di massa su quello che restava dell’ancien régime europeo. Nel dopoguerra arriva l’“illuminazione” con la scoperta di uno spiritualismo di marca indoeuropea che si associa alla speculazione filosofica del più spinto irrazionalismo tedesco. In Teoria e fenomenologia dell’individuo assoluto, 1927-1930 compaiono gli elementi caratteristici del suo pensiero: una sintesi di metafisica ottocentesca, esoterismo e spiritualismo. Frequenta circoli mistico-magici, collabora con riviste del settore («Ultra», «Ignis», «Atanor»). Interessato al fascismo italiano e alla romanità, ne critica la vicinanza con il cattolicesimo (1928, Imperialismo pagano), per poi fondare la rivista «La Torre», votata a un fascismo eroico e aristocratico. Apprezzato in Germania, Evola non farà breccia nella profana, essoterica e provinciale mentalità fascista, per poi venire riscoperto dal neofascismo esoterico post-bellico.

Per tutti gli anni trenta si dedica a ricerche sul mondo dei simboli, sullo spiritualismo, sull’alchimia e pubblica su riviste del fascismo intransigente e antisemita («La Vita Italiana» e «Il Regime Fascista») articoli legati a una visione del mondo antiborghese e cavalleresca. Nel 1934 pubblica Rivolta contro il mondo moderno, nel 1937 Il mito del sangue, nel 1941 Sintesi di dottrina della razza. Nel 1938 in Romania incontra, ammirato, Corneliu Codreanu, leader della Guardia di ferro, il movimento paramilitare fascista cristiano  integralista, violentemente antisemita, dedicato all’arcangelo Michele.

Dopo la scoppio della guerra chiede di partire volontario a combattere contro l’Unione sovietica, ma non viene arruolato. Nel 1943, in Germania, sarebbe tra i pochi italiani che ricevono Mussolini liberato dal Gran Sasso. Collaboratore del Sichereitsdienst (SD), il servizio di sicurezza delle SS, aderisce alla RSI su posizioni aristocratiche e reazionarie. Vive le ultime fasi della guerra come lo scontro dei custodi della “Tradizione” e dello “Spirito” occidentale contro le forze materialiste e corrotte delle odiate democrazie europee e dei partigiani attivi nei movimenti di liberazione.

In seguito a un bombardamento su Vienna rimane paralizzato agli arti inferiori. Tornato a Roma trova lo spirito legionario per sostenere ideologicamente i movimenti della destra italiana con il testo Orientamenti (1950), pubblicato sulla rivista Imperium. Nei documenti giudiziari è indicato come il “padre spirituale” del gruppo che sotto il nome di Far (Fasci di azione rivoluzionaria-Legione nera) nei primi anni cinquanta mette a segno attentati dinamitardi nella capitale: tra i personaggi coinvolti figurano noti rappresentanti dell’Msi. Il 1953 è l’anno del fondamentale Gli uomini e le rovine, in cui trovano posto i consolidati concetti di tradizione, gerarchia e diseguaglianza. Di fronte a una modernità che erode le fondamenta e distrugge l’ordine sociale, il credo politico esposto consiste nella restaurazione di un ordine tradizionale e gerarchico per mano del soldato politico in piedi tra le rovine del mondo occidentale. Dopo Cavalcare la tigre (1961), nel 1963 pubblica Il Fascismo visto dalla Destra, in cui attribuisce al fascismo il merito di aver rivitalizzato antichi simboli e di aver teorizzato un nuovo tipo di uomo. A partire dal 1968 verrà venerato da giovani discepoli, che riconoscono in lui un “Maestro” (e che ne sono ancora oggi i divulgatori). Nel 1974, dopo ulteriori difficoltà cardiache, muore a Roma.

Dopo la morte, Evola è rimasto punto di riferimento costante per tutte le realtà della destra radicale. Nel 1998 il suo centenario è stato riccamente celebrato dall’intera destra italiana: libri, mostre, convegni, centinaia di pagine web sono a lui dedicati. È un autore di culto anche per l’euroasiatismo ed è di interesse per alcuni ambienti di fondamentalismo islamico.

Tutto questo è, in estrema sintesi, l’Evola uomo, pensatore e mito politico che un certo bipolarismo metodologico, ricorrente nelle scienze umane, vorrebbe separare dallo studioso di religione/i con il cordone sanitario della bibliografia promossa, citata, edita e riedita in genere dagli stessi impresari del suo successo. Ma chi è l’Evola storico delle religioni?

Nella sua opera si trovano soggetti e principi espressi dal perennialismo esoterico di René Guénon (cicli storici, crisi della modernità, simbolismo) che appaiono estremizzati e politicizzati in direzione di un differenza qualitativa tra mondo moderno e mondo tradizionale. Quest’ultimo è caratterizzato dalla dimensione spirituale: come tale non è affrontabile con i concetti validi nel consueto spazio-tempo e dunque non può essere adeguatamente studiato con il metodo storico. Laddove autorevoli storici delle idee sostengono che il pensiero evoliano non abbia prodotto nulla di significativo in termini di conoscenza e guadagno scientifici, chi ne raccoglie l’eredità invece esalta il valore delle varie monografie su argomenti come ermetismo, tantra, buddhismo, taoismo, alchimia, Sacro Graal.

Ora, Evola certamente conosceva la vasta produzione letteraria in materia tra ‘800 e ‘900. Nella sua opera si trovano continui riferimenti ai miti di una età aurea, di una “Tradizione” primordiale, di Iperborea, di Atlantide e in particolare di una civiltà nordica portatrice di una superiore spiritualità “maschile” e “solare”, contrapposta a tratti  “femminili” e “lunari” di rango inferiore. La spiritualità nordica è per lui espressione della razza “aria”, aristocratica e guerriera, «dello spirito», un argomento che si affianca all’esaltazione di un modello sapienziale “eroico”: da qui il valore sacrale degli archetipi e dell’azione, la centralità degli aspetti magici del reale e il fascino per i presunti poteri paranormali esperibili dai più “elevati” spiritualmente.

Tali dati relativi a un sapere ermetico ed erudito non avevano pertinenza storico-storiografica rispetto ai criteri standard dei termini: si tratta piuttosto di veri e propri “materiali mitologici”, su cui la storia della storiografia ha effettivamente e legittimamente molto da dire e da indagare, per mettere in luce i pregiudizi ideologici e gli interessi pratici degli autori che se ne occupavano, come su Evola è stato fatto da studi storici solidi e documentati, non suscettibili di fascinazione per l’oggetto della loro ricerca. Il punto che intendiamo sottolineare è che proprio nei lavori dell’Evola “storico delle religioni” si produce – a detta dei suoi stessi apologeti – una “rottura di livello” sul piano ermeneutico, che non può essere accettata senza problemi da chi non ne condivida i presupposti metafisici. Evola deve essere cioè considerato a partire da un “neo-paganesimo” teorizzato, creduto e, per così dire, “praticato”. I suoi lavori tradiscono infatti una chiara intenzione pragmatica, cioè una funzione indistinguibile dalla riflessione politica e dal razzismo nel segno della rivoluzione conservatrice. Sono appunto quegli studi che, violando i principi elementari dell’epistemologia scientifica dell’antropologia e della storia, ne hanno fatto un punto di riferimento per il neofascismo e le destre radicali; e da questo punto di vista è noto come la teoria evoliana dell’azione abbia influenzato i protagonisti dell’eversione “nera” nella storia politica italiana.

Come tutto questo, se anche fosse possibile prescindere dal nazismo e dall’antisemitismo di Evola, sia compatibile con uno studio scientifico della religione, è davvero per noi un mistero. Non lo è invece il fatto che la storia delle religioni italiana attraversa da anni una profonda crisi, teorica e metodologica: zavorrata da simili ipoteche – responsabili di un tentativo di indottrinamento all’apprezzamento del paranormale, del sovrannaturale e persino delle ideologie di destra estremista – la ricerca accademica in chiave localistica e antiscientifica ha raggiunto livelli di retroguardia allarmanti.

Se torniamo al nostro scambio di lettere iniziale e lo prendiamo come segnale di un incendio, vediamo ora chiaramente che qui è in corso un tentativo di ammantare di rispettabilità scientifica uno dei principali esponenti del fascismo e dell’antisemitismo del secondo dopoguerra da parte di docenti delle università di stato, alcuni dei quali sono anche rappresentanti di importanti associazioni di settore e tradiscono rapporti di promiscuità intellettuale con controverse figure dell’estrema destra nostrana. Questi intellettuali, che come tutti gli accademici sono anche responsabili dell’avanzamento delle carriere e dell’accreditamento di giovani ricercatori, insegnano, fanno didattica, propagano idee: formano cervelli e persone. In quanto studiosi, crediamo che l’università sia costituita in primo luogo dalle comunità di ricerca che vi lavorano e dagli studenti che la popolano, pagano le rette e meritano di accedere a un sapere critico, intellettualmente onesto, fondato scientificamente ed epistemologicamente, ancorato ai valori costituzionali e antifascisti della Repubblica italiana.

A fronte di tutto questo, riteniamo che l’episodio che viene qui raccontato sia molto grave e tale da sollecitare il mondo accademico italiano, in primis i docenti afferenti al settore disciplinare direttamente coinvolto, a prendere posizione con sollecitudine e forza, perché l’istituzione universitaria non risulti più compromessa con iniziative para-scientifiche di analoga ­ambiguità.

L’arrampicata

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Alex Majoli, L'Ospedale Psichiatrico
Alex Majoli, L’Ospedale Psichiatrico

di: Federico Pevere

E’ una tragedia, zingara, da lacrime, da dividerci il mondo. Due attori da periferia. Entrambi sono all’ultima possibilità. Il Primo storto come una malattia, un ultimo stadio, una voce che ripete le rimangono una decina di giorni al massimo. Di marmo come la sua terra, i Balcani o il fegato d’Europa, immondezzaio ostinato: all’occorrenza cimitero, all’occorrenza occorrenza. 

Parabol(ich)e dell’ultimo giorno – Per Emilio Villa

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di Enzo Campi

(Una cop-indserata di Tu se sai dire dillo  2014 è stata dedicata ad Emilio Villa, qui l’intervento di Enzo Campi che ne è stato curatore.B.C.)

Emilio Villa è nato nel 1914 ed è venuto a mancare nel 2003. Approfittando del decennale della scomparsa (2013) e del centenario della nascita (2014) ho inteso rilanciare la complessa e articolata figura artistica di Villa con un progetto ad ampio respiro. Per quanto fosse considerato, dagli addetti ai lavori, come una figura determinante e anche come una sorta di precursore di alcune modalità di veicolazione della cosa letteraria e artistica, Villa ancora oggi risulta sconosciuto ai più.

Porsi all’ascolto di Villa è stata la nostra prima preoccupazione. Bisognava trasmettere questa necessità. Ed è anche per questo che il nostro progetto si è caratterizzato fin dall’inizio, nella sua fase di preparazione, come un gesto per così dire tripartito. In primis la realizzazione del libro, l’oggetto/soggetto da disseminare, poi una serie consistente di eventi per veicolare dal vivo pensieri, parole, opere, per permettere cioè di creare una linea d’ascolto, e infine la creazione di un sito, per documentare non solo la nostra attività, ma anche per riproporre opere di Villa già pubblicate su altri siti e quindi per creare nuove situazioni di interazione e diffusione. Ecco, semplificando e riducendo, questo è stato il nostro gesto. Riunire sotto l’egida di una progettualità una serie di autori più o meno legati a Villa e realizzare un’antologia di contributi critici e creativi da affiancare a una selezione di testi di Villa. Certo, sarebbe stato più semplice creare una situazione per soli addetti ai lavori. Si coinvolgono alcuni autori, si fa il libro e la cosa si chiude lì. Ma ricordare Villa a chi lo ricordava già e cioè agli estimatori non avrebbe avuto senso, o meglio non avrebbe aggiunto nulla. La sfida era quella di portare Villa tra le gente, di cercare cioè di farlo conoscere al di fuori dell’ambiente degli addetti ai lavori, di creare quelle linee d’ascolto di cui si parlava prima. Ragionando in tal senso bisognava trovare e individuare figure che, al di là della collaborazione alla realizzazione del libro, potessero rendersi partecipi fattivamente e praticamente del progetto. Vorrei ricordare, tra gli altri, Martina Campi, Mario Sboarina, Francesca Del Moro che, pur non facendo parte della scuderia di autori, hanno collaborato fattivamente alla realizzazione di quasi tutti gli eventi, Jacopo Ninni che ha collaborato alla realizzazione di diversi eventi, Ivan Fassio e Fabrizio Bonci che ci hanno ospitato per ben due volte a Torino nell’ambito delle manifestazioni di Oblom Poesia, Julian Zhara e Gerardo De Stefano per l’evento organizzato a Venezia, Laura Liberale e Giovanna Frene per l’evento organizzato a Padova, Flavio Ermini che ha voluto riservarci uno spazio nell’ambito delle manifestazioni del Premio Montano a Verona, Anna Maria Curci per l’evento organizzato a Roma, Carmine De Falco e Bruno Galluccio per l’evento organizzato a Napoli, Rolando Gualerzi per l’evento organizzato a Reggio Emilia. Poi, come talvolta accade, si possono sviluppare anche linee d’ascolto e d’intercomunicazione interne. È il caso di Dome Bulfaro e Biagio Cepollaro che si sono resi complici della disseminazione del progetto. Bulfaro realizzando un video, partecipando a diversi eventi e organizzandone uno a Monza, Cepollaro ospitando il progetto per ben due volte all’interno delle due ultime edizioni di “Tu se sai dire dillo” a Milano.  Nel corso di un anno abbiamo realizzato 19 eventi. Non sono pochi, anzi credo che si tratti della massima diffusione che Villa abbia mai avuto.

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E veniamo propriamente all’ascolto.

Partiamo da un imperativo, non un imperativo categorico, perché in Villa nulla è categorico; è anzi l’esatto e perfetto contrario: in Villa tutto è aperto, tutto rinvia ad altro e all’altro a quell’alterità che, come diceva giustamente Zanzotto,  è caratteristica peculiare sia dell’uomo-Villa che dell’artista-VIlla; dicevo partiamo con un imperativo, quasi un’esortazione: “che l’ascolto si apra”.

E correggiamo il tiro dicendo molto semplicemente: “All’ascolto!”. Adesso smembriamo quest’ultima affermazione nella sua dualità di fondo. Da un lato: farsi ascolto di sé; e questo naturalmente non può bastare, quindi dall’altro lato avremo la possibilità di innestare nell’auditore la voglia e per così dire l’urgenza di porsi all’ascolto.

La soluzione più semplice sarebbe quella di abolire la linearità del dettato sonoro. Ma in Villa non si dà semplicità. Il dettato è complesso, sovrastrutturato. La trasmissione di dati sensibili avviene attraverso diverse lingue. E per di più queste lingue non vengono usate, come dire, nella loro dignità sintattica e grammaticale, ma vengono abusate, manipolate, trattate, sezionate e reinventate. Ne converrete, risulta pressoché inevitabile tentare una sorta di ulteriore manipolazione, un’estensione, tentare un gesto – allo stesso modo sovrastrutturato – che possa rendere giustizia al dettato originario e creare una linea d’ascolto.

Ho detto linea, perché nella letteratura villiana si è spesso in presenza di un campo di forze, non solo linguistico e contenutistico, ma anche propriamente grafico. Le linee sono spesso vettoriali. Si dipanano da un trou, da un buco, da un apsu (termine spesso usato ed abusato da Villa e con il quale i Sumeri indicavano l’abisso), da un abisso centrale mettendo al lavoro la loro carica voltaica, ma – beninteso – non per raggiungere un punto ma per esplorare quel punto, per far sì che quel punto possa divenire un nuovo trou da cui ripartire in quel gioco al massacro in cui non si dà una fine, ma solo ed unicamente l’impossibilità di finire.

Anche là dove Villa elabora i suoi scritti operando quasi esclusivamente da un punto di vista linguistico, la disposizione delle lettere, dei fonemi, delle parole sulla pagina, nella giustapposizione di pieni e vuoti, di spaziature e spaziamenti, crea comunque delle linee di forza.  Una scrittura spazializzata quindi. E se la scrittura è spazializzata, il suono o meglio la sonorità che fuoriesce da questa scrittura potrebbe essere definita in un doppio movimento, anche simultaneo,  di ripiegamento e di dispiegamento. L’abbiamo già accennato, ma articoliamo meglio il discorso. C’è il ripiegamento all’interno del trou , in questa sorta di fucina, anche alchemica se vogliamo (l’ovo villiano è anche metafora dell’atanor, del forno alchemico dove avveniva il solve e coagula), dove cuocere a fuoco lento tutte le lingue per decostruirle e ricostruirle. Dall’altro lato abbiamo invece il dispiegamento dei toni oracolari e vaticinanti delle sibille. Ma non sono due movimenti opposti, non sono l’uno il contrario dell’altro, anzi sono complementari. Potrebbero essere considerati come due tasselli o, se preferite, due colonne portanti della stessa struttura. Ma c’è anche una parte centrale che possiamo definire in vari modi: il supporto, oserei dire “soggettile”, ove imprimere, incidere i segni della propria alterità; la terra, che sarà anche madre e nutrice, ricettacolo e porta-impronte, ma che viene spesso oltraggiata, raffigurata o, se preferite, defigurata nella melma: la melma del naviglio dei tempi giovanili ma anche la melma del tevere a cui affidare la dissoluzione e la dissipazione dei suoi sassi scrittori; il labirinto, questo mitico e fatidico labirinto che induce un movimento circolare e circolante, dove risiedono in un certo senso la volontà di potenza, l’eterno ritorno o, per dirla con Carmelo Bene, il ritorno dell’eterno, quell’eternità che in Villa, beninteso, coincide sempre con l’origine, e quindi anche con il caos, con la disarticolazione verbale. E dunque tra i trous, i labirinti e le sibille si muovono queste linee ove Villa mette al lavoro le sue decostruzioni, le sue destabilizzazioni linguistiche, ove coltiva l’alterità, il sacrificio, il segno, ove ripropone pedissequamente da un lato la sua affezione morbosa per le origini e dall’altro lato le sue lamentazioni letaniche, ove invita gli altri a porsi in ascolto. Ecco: questo porsi all’ascolto è determinante in coloro i quali tentano un approccio a Villa.

Se poi volessimo aggiungere che il cosiddetto trou-generatif per Tagliaferri è per l’appunto la bocca, ovvero la cavità-madre di tutte le parole, ebbene: il nostro gioco sonoro e risonante sarebbe già giustificato. Ma, beninteso, non abbiamo bisogno di giustificazioni. Villa va interpretato, sia dal punto di vista linguistico che da quello propriamente verbale, sonoro. E le interpretazioni, così come le traduzioni, sono sempre un po’ dei tradimenti. Bisogna tradire Villa così come lui tradiva le lingue e i miti da cui attingeva a piene mani la linfa vitale. Questo è tutto, questo è il tutto che ci manca e in cui ci manchiamo. Questo è tutto, ma come sempre accade, c’è  e ci sarà sempre  dell’altro con cui misurarsi e fare i conti. Ci sarà sempre dell’altro da tradire e a cui rinviare – nel nostro eterno moto circolare e circolante – la serie sempre inesausta e sempre ricorrente degli ulteriori tradimenti. Ma tradire vuol dire anche “dire-tra”, cercare di entrare in questo mondo smisurato e coglierne l’intestinità. Un’altra utopia da mettere al lavoro e in cui mancarsi. Posto che nessuno possa tradurre e spiegare interamente Villa, non ci resta che l’interpretazione soggettiva. (Enzo Campi)

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Parabol(ich)e dell’ultimo giorno – Per Emilio Villa

a cura di Enzo Campi

2013, DotCom.Press – Le Voci della Luna edizioni (Milano-Sasso Marconi)

Il volume comprende una selezione di testi di Emilio Villa

Contributi critici e creativi di

Daniele Bellomi, Dome Bulfaro, Giovanni Campi, Biagio Cepollaro, Tiziana Cera Rosco, Andrea Cortellessa, Enrico De Lea, Gerardo De Stefano, Marco Ercolani, Flavio Ermini, Ivan Fassio, Rita R. Florit, Giovanna Frene, Gian Paolo Guerini, Gian Ruggero Manzoni, Francesco Marotta, Giorgio Moio, Silvia Molesini, Renata Morresi, Giulia Niccolai, Jacopo Ninni, Michele Ortore, Fabio Pedone, Daniele Poletti, Davide Racca, Daniele Ventre, Lello Voce, Giuseppe Zuccarino, Enzo Campi

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Il sito

http://parabolichedellultimogiorno.wordpress.com/

 

… come su una vetrata vacillante e momentanea.

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1° è l’animale, questo, che non c’è.


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Gabriel Fauré [ 1845 – 1924 ] Pavane Op. 50

À Combray, tous les jours dès la fin de l’après-midi,longtemps avant le moment où il faudrait me mettre au lit et rester, sans dormir, loin de ma mère et de ma grand-mère, ma chambre à coucher redevenait le point fixe et douloureux de mes préoccupations.

A Combray, tutti i giorni, sin dalla fine del pomeriggio, molto tempo prima del momento in cui avrei dovuto andare a coricarmi e restare, senza riuscire a dormire, lontano dalla mamma e dalla nonna, la mia camera da letto ridiventava il punto fisso e doloroso delle mie preoccupazioni.


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On avait bien inventé, pour me distraire les soirs où on me trouvait l’air trop malheureux, de me donner une lanterne magique dont, en attendant l’heure du dîner, on coiffer ma lampe; et, à l’instar des premiers architectes et maîtres verriers de l’âge gothique, elle substituait à l’opacité des murs d’impalpables irisations, de surnaturelles apparitions multicolores, où des légendes étaient dépeintes comme dans un vitrail vacillant et momentané. Mais ma tristesse n’en était qu’accrue, parce que rien que le changement d’éclairage détruisait l’habitude que j’avais de ma chambre et grâce à quoi, sauf le supplice du coucher, elle m’était devenue supportable. Maintenant je ne la reconnaissais plus et j’y étais inquiet, comme dans une chambre d’hôtel ou de « chalet », où je fusse arrivé pour la première fois en descendant de chemin de fer.
 

Si erano anche inventate, per distrarmi le sere in cui mi trovavano con un’aria troppo malinconica, di regalarmi una lanterna magica, con cui, aspettando l’ora di cena, camuffavano la mia lampada; e, alla maniera dei primi architetti e maestri vetrai dell’età gotica, essa sostituiva all’opacità dei muri impalpabili iridescenze, soprannaturali apparizioni multicolori, dove le leggende erano dipinte come su una vetrata vacillante e momentanea. Ma la mia tristezza non ne era che accresciuta, perché niente come il cambiamento d’illuminazione distruggeva l’abitudine che avevo alla mia camera e grazie alla quale, salvo il supplizio del coricarsi, essa mi era divenuta sopportabile. Ora non la riconoscevo più e vi ero inquieto, come in una camera d’albergo o di uno “chalet”, dove fossi arrivato per la prima volta scendendo dal treno.

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Au pas saccadé de son cheval, Golo, plein d’un affreux dessein, sortait de la petite forêt triangulaire qui veloutait d’un vert sombre la pente d’une colline, et s’avançait en tressautant vers le château de la pauvre Geneviève de Brabant. Ce château était coupé selon une ligne courbe qui n’était autre que la limite d’un des ovales de verre ménagés dans le châssis qu’on glissait entre les coulisses de la lanterne. Ce n’était qu’un pan de château et il avait devant lui une lande où rêvait Geneviève qui portait une ceinture bleue.

Al passo sobbalzante del suo cavallo, Golo, pervaso da un efferato disegno, usciva dalla piccola foresta triangolare che vellutava d’un verde cupo il pendio d’una collina e avanzava trotterellando verso il castello della povera Genoveffa di Brabante. Quel castello era stato tagliato secondo una linea curva che non era altro che il bordo di uno degli ovali di vetro inserito nel telaio che scorreva fra le guide della lanterna. Non era che un lembo del castello e aveva d’innanzi una landa, dov’era Genoveffa sognante con indosso una cintura azzurra.
 


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Le château et la lande étaient jaunes et je n’avais pas attendu de les voir pour connaître leur couleur car, avant les verres du châssis, la sonorité mordorée du nom de Brabant me l’avait montrée avec évidence. Golo s’arrêtait un instant pour écouter avec tristesse le boniment lu à haute voix par ma grand-tante et qu’il avait l’air de comprendre parfaitement, conformant son attitude avec une docilité qui n’excluait pas une certaine majesté, aux indications du texte; puis il s’éloignait du même pas saccadé.

Il castello e la landa erano gialli e io non avevo dovuto aspettare di vederli per conoscerne il colore, poiché, prima dei vetri del telaio, la sonorità marrone-dorata del nome Brabante me l’aveva mostrato con evidenza. Golo si fermava un istante per ascoltare con tristezza la didascalia letta ad alta voce dalla mia prozia, con l’aria di comprendere perfettamente, conformando il proprio atteggiamento con una docilità che non escludeva una certa maestà, secondo le indicazioni del testo; poi, s’allontanava con il solito passo sobbalzante.


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Et rien ne pouvait arrêter sa lente chevauchée. Si on bougeait la lanterne, je distinguais le cheval de Golo qui continuait à s’avancer sur les rideaux de la fenêtre, se bombant de leurs plis, descendant dans leurs fentes. Le corps de Golo lui-même, d’une essence aussi surnaturelle que celui de sa monture, s’arrangeait de tout obstacle matériel, de tout objet gênant qu’il rencontrait en le prenant comme ossature et en se le rendant intérieur, fût-ce le bouton de la porte sur lequel s’adaptait aussitôt et surnageait invinciblement sa robe rouge ou sa figure pâle toujours aussi noble et aussi mélancolique, mais qui ne laissait paraître aucun trouble de cette transvertébration.

E niente poteva arrestare la sua lenta cavalcata. Se si muoveva la lanterna, scorgevo il cavallo di Golo che continuava ad avanzare sulle tende della finestra, bombato delle loro pieghe, scendendo nelle loro fessure. Lo stesso corpo di Golo, di un’essenza soprannaturale come quello della sua cavalcatura, si adattava a tutti gli ostacoli materiali, a ogni oggetto ingombrante che incontrava, prendendolo come ossatura e introiettandolo, fosse stato anche il pomolo della porta sul quale subito s’adattava e fluttuava invincibile il suo abito rosso o il suo volto pallido sempre egualmente nobile e malinconico, ma che non lasciava trasparire alcun turbamento per quella transvertebrazione.


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Certes je leur trouvais du charme à ces brillantes projections qui semblaient émaner d’un passé mérovingien et promenaient autour de moi des reflets d’histoire si anciens. Mais je ne peux dire quel malaise me causait pourtant cette intrusion du mystère et de la beauté dans une chambre que j’avais fini par remplir de mon moi au point de ne pas faire plus attention à elle qu’à lui-même. L’influence anesthésiante de l’habitude ayant cessé, je me mettais à penser, à sentir, choses si tristes. Ce bouton de la porte de ma chambre, qui différait pour moi de tous les autres boutons de porte du monde en ceci qu’il semblait ouvrir tout seul, sans que j’eusse besoin de le tourner, tant le maniement m’en était devenu inconscient, le voilà qui servait maintenant de corps astral à Golo. Et dès qu’on sonnait le dîner, j’avais hâte de courir à la salle à manger où la grosse lampe de la suspension, ignorante de Golo et de Barbe-Bleue, et qui connaissait mes parents et le boeuf à la casserole, donnait sa lumière de tous les soirs ; et de tomber dans les bras de maman que les malheurs de Geneviève de Brabant me rendaient plus chère, tandis que les crimes de Golo me faisaient examiner ma propre conscience avec plus de scrupules.

Marcel Proust Du côté de chez Swann 1919
[pp. 12-13] Gallimard, Paris [1946-47]

Certo le trovavo affascinanti quelle brillanti proiezioni che sembravano emanare da un passato merovingio e mi facevano vagare intorno riflessi di storia così antica. Ma non posso dire qual malessere tuttavia mi causasse quell’intrusione del mistero e della bellezza in una camera che avevo finito col riempire del mio io a tal punto da non prestare più attenzione ad essa che a lui stesso. Cessata l’azione anestetizzante dell’abitudine, mi mettevo a pensare, a sentire, cose tanto tristi. Quel pomolo dell’uscio della mia camera, che differiva per me da ogni altro pomolo del mondo per il fatto che pareva aprirsi da solo, senza che dovessi girarlo, tanto l’uso me ne era divenuto inconsapevole, ecco che ora serviva da corpo astrale a Golo. E, appena suonavano per la cena, ero ansioso di correre in sala da pranzo, dove la grossa lampada sospesa, ignara di Golo e di Barbablù, che conosceva i miei parenti e lo stufato nella pentola, spandeva la sua luce di tutte le sere; e di cadere nelle braccia della mamma, che le disgrazie di Genoveffa di Brabante mi rendevano più cara, mentre i crimini di Golo mi facevano esaminare la mia propria coscienza con maggiori scrupoli.

[ traduzione di Orsola Puecher ]


1proust  2proust
3proust  4proust

 


César Franck Sonata in LA Maggiore per Violino e Pianoforte [1886]

Ma il primo, il famoso episodio della madeleine mescolata nel té, giustificherebbe l’asserzione che l’intero libro sia un monumento alla memoria involontaria e all’epica della sua azione. E’ l’intero mondo di Proust che esce da una tazza di tè e non soltanto Combray e la sua infanzia.

Samuel Beckett “Proust” 1931 [pag. 45]
trad. di Carlo Gallone, SugarCo, maggio 1978


cerchio Mondo rotondo di Combray e dell’infanzia nell’occhio rotondo dorato della tazza di tè della zia, da dove escono intrecciati il tempo e lo spazio, vivi nella sensazione ritrovata. Vista rotonda dell’occhio monocolo della lanterna magica che oscilla e ruota e opera una diffrazione di tempo e spazio, in una visione panoramica circolare e vertiginosa.
 

 
Posizione centrale dell’occhio circondato dalle immagini turbinanti della lanterna magica riflesse sulle pareti della camera. Immobile nel suo letto il bambino, affascinato, si trova nel cuore dello spazio dipinto dalla luce, che gira attorno a lui: uno spazio che lo annega nelle immagini della sua sostanza colorata, nelle forme animate, nella loro voce, nelle sensazioni che suscitano.
 


Sotto l’impulso del movimento rotatorio le forme quadrangolari dei muri della camera da letto si trasformano in una vetrata continua e circolare. Gli angoli si cancellano per lasciare che la vertigine invada e trasformi tutto lo spazio. L’occhio e il corpo occupano la stessa posizione centrale, fulcro dell’inquietudine dove stanno in cerchio il filo delle ore, l’ordine degli anni e dei mondi.

Tutta la Recherche è un’estensione infinita della lanterna magica e del suo balletto inesauribile di mondi rotondi concentrici, di cui Proust è alternativamente il centro e la circonferenza.
Tutta la scrittura è forse una lanterna magica, una proiezione circolare di forme fugaci, irreali, continuamente mutevoli e sfuggenti


 
 
 
 
 
 
 
***

 
NOTE [ talvolta molto ridondanti ]

 

La regina della neve (prima parte)

5

nella versione quasi fedele di Viviana Scarinci

 

Molto spesso nelle favole di Andersen, come nelle favole di molti altri narratori,  c’è qualcosa di importantissimo da recuperare. Qualcosa che forse neanche c’era stato segnalato all’inizio della storia ma che sappiamo comunque perduto e che può anche non essere evidente. Lo intuiamo, ma  non è  chiaro in che modo sia la causa di tutto. Ne Il brutto anatroccolo ad esempio ciò che il pulcino ha perso prima dell’inizio della storia è la specie cui appartiene, e noi, come lui non lo sappiamo fino alla fine, grazie alla magistrale tessitura in cui Andersen, come se fossimo quel pulcino, ci impiglia facendoci patire lo stesso smarrimento del protagonista, il quale non trova la sua identità, e insieme a quella, il suo bene,  in nessuna circostanza che il destino gli propone. Ne La regina della neve è un bambino a perdersi e non sono un papà o una mamma che lo stanno cercando ma una bambina come lui che è l’unico essere umano ad avere qualche speranza di poterlo recuperare. Nel caso de Il brutto anatroccolo anche il destino per un lungo periodo sembra ignorare l’identità del pulcino. Non sembra curarsi di lui, come se lo stesso destino potesse agire efficacemente solo su quelle vite che abbiano avuto modo di rinvenire al di là delle numerose falsificazioni, il loro vero atto di nascita. Nella storia che stiamo per raccontare sembra che il destino sia la personificazione di quella stessa città che James Hillman ci descrive come incurante di noi finché qualcuno o qualcosa si faccia carico di recuperare il  bambino che abbiamo smarrito.