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Solo musica italiana ovvero opinioni di un disadattato

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di Giorgio Mascitelli

 

Nell’incantevole località marittima nella quale ho soggiornato recentemente campeggiavano manifesti annunzianti perentoriamente una grigliata danzante prevista sia per il sabato sia per la domenica nella piazza del paese esclusivamente a base di musica e carni italiane. Devo confessare che mi ha trattenuto dal parteciparvi tutta una serie di ragioni, la più importante delle quali è il fatto che il sabato e la domenica in questione erano quelli immediatamente precedenti al mio arrivo, tuttavia il titolo del manifesto, recante la scritta a lettere cubitali ‘italian music’ in inglese, mi ha colpito. Scartata subito l’ipotesi che il manifesto si rivolgesse ai turisti stranieri, pure presenti, perché il testo anche nelle sue parti informative era scritto esclusivamente nella nostra lingua, sono restato alquanto sorpreso di una scelta simile. Certo la differenza tra italiano e inglese in questa espressione è veramente minimale, due a e un’inversione dell’ordine delle parole, e dunque comprensibile anche all’italofono più digiuno della lingua di Shakespeare, ma era per me sorprendente che si fosse sentito il bisogno dell’inglese per un’iniziativa che faceva leva sull’orgoglio nazionale, sia pure nelle forme relativamente innocue di tipo musicale e alimentare.

In realtà questa mia sorpresa non aveva ragione d’essere ed era tutt’al più un sintomo del mio perenne disadattamento: infatti gli organizzatori non avevano altra scelta che usare l’inglese. Solo un titolo in inglese poteva testimoniare che la manifestazione sarebbe stato un evento a tutto tondo del mondo contemporaneo e non un’attardata esibizione provinciale di cose ormai superate dal pericoloso sapore di papaveri e papere o di Marianne che vanno nelle campagne; solo così il turista desideroso di assaporare carni nostrane e tetragono alle musiche barbare avrebbe partecipato con la necessaria convinzione alla festa e con la confortevole sicurezza che fosse qualcosa di ben organizzato e serio. Insomma nell’era della globalizzazione qualsiasi contenuto per essere recepito favorevolmente deve rispettare determinati standard globali. Ciò naturalmente non toglie che esista quella contraddizione che ha fatto nascere in me il sentimento di sorpresa, anzi direi che questa contraddizione non riguarda solo gli organizzatori di feste di paese, ma anche tutti i settori della produzione culturale e artistica. Naturalmente quando si parla di campi della cultura più articolati simbolicamente questa contraddizione prende forme più complesse e certo non riconducibili con evidenza immediata a quella palese opposizione tra messaggio italiano e medium inglese o meglio globale del manifesto.

Proprio la globalizzazione, nonostante gli ultimi quindici anni di guerre violenze crisi ne abbiano minato l’immagine ottimistica tipica degli anni novanta, resta la principale leva simbolica della cultura contemporanea. La globalizzazione in quanto agente simbolico pone a ogni artista, a ogni scrittore e a ogni operatore culturale del nostro tempo una domanda subdola che suona così: “cosa hai fatto per essere globale?”. La domanda è subdola perché sembra suggerire che siano possibili varie gradazioni di risposte ( “ho fatto abbastanza”, “ho fatto qualcosa”, “non ho fatto molto, però in quella circostanza..” e così via), mentre effettivamente quella domanda contempla solo due risposte: tutto o nulla.

In verità nessuno può dare seriamente la risposta nulla perché i tempi non sono maturi, il pubblico non capirebbe e lo sventato che la desse si troverebbe nello spazio di un mattino retrocesso a poeta ufficiale della bocciofila dietro casa. Coloro che non hanno fatto nulla possono solo rispondere alla maniera dei somari a scuola che hanno trascorso il pomeriggio al parco anziché a fare i compiti “non sono stato bene, mi giustifico prof” oppure “non sapevo che ci fossero compiti per oggi”. L’ordine simbolico della globalizzazione è severo con i suoi fannulloni, ma anche chi ha fatto tutto porta la sua croce: innanzi tutto perché quel tutto non è mai abbastanza e in secondo luogo perché ci si accorge dopo un po’ che per aver fatto tutto per essere globali si finisce col non fare altre cose.

Non si tratta di dire chi ha ragione o chi è migliore, anche perché alla domanda che pone la globalizzazione non sempre si riesce a rispondere in maniera consapevole essendo una domanda subdola. Certo l’ordine simbolico della globalizzazione premia con la sua meritocrazia chi più si impegna nella sua diffusione, ma credo che questo non si possa definire in alcun modo qualcosa di nuovo sotto il sole, piuttosto è più interessante sottolineare la fondamentale unicità degli standard a cui tutti sono sottoposti.

Si può ipotizzare che l’ordine simbolico della globalizzazione nella problematica soggettiva dello scrittore o dell’artista agisca come una prevalenza simbolica di uno spazio che si vuole uniforme su un tempo sentito come irregolare e non lineare che procede per sbalzi. Il premio a sua volta simbolico di questa lotta contro quella che per comodità potremmo chiamare il peso della storicità è un sentimento di piena appartenenza al proprio tempo, una sorta di perfetta contemporaneità. Il problema è che questo sentimento di pienezza è a sua volta un inganno perché impedisce di cogliere certi tipi di sfumature che sono irrinunciabili nell’elaborazione di un senso simbolico dell’esperienza, che credo resti lo scopo dell’attività letteraria e artistica.

Ad esempio, per prendere in considerazione un’opera giustamente rinomata nel quadro della cultura internazionale, nel romanzo Le correzioni di Jonathan Franzen assistiamo a un autentico capolavoro di finezza nell’analisi dei sentimenti dei personaggi e della rappresentazione dei loro rapporti. Improvvisamente questa finezza in occasione dell’episodio di un viaggio del protagonista in Lituania cede il posto a una rozzezza caricaturale nella rappresentazione del paese quasi da pittoresco giornalistico. Ecco nello scarto tra il cesello della vicenda personale e la mannaia di una rappresentazione della Lituania ignara della sua storia si trova il prezzo pagato all’ordine simbolico della globalizzazione. Non si tratta certo di un errore letterario di un autore così scaltrito né di stigmatizzarlo moralisticamente, cosa sciocca e inutile, ma di rilevare che ciò che è estraneo all’ordine simbolico della globalizzazione può sussistere solo nella forma del pittoresco, ridicolo in questo caso, cioè in una forma letterariamente riduttiva o addirittura non letteraria.

Il problema che sollevo qui non è di tipo politico prescrittivo: occorrerebbe cioè una letteratura impegnata storicamente e politicamente al posto di una intimistica ( al contrario a me piace la letteratura intimistica e decadente, mentre penso che sia nella vita che si debba avere, per quel poco che i tempi concedono, un impegno storicamente consapevole); al contrario è un problema squisitamente estetico nel senso etimologico della parola. L’ordine simbolico della globalizzazione contempla solo alcuni elementi della realtà e nel contempo si autorappresenta come la totalità del contemporaneo o meglio, come ho già scritto, del qui e ora. Si tratta di una rappresentazione ideologica nel senso marxiano della parola ossia di un discorso volutamente incompleto, di un’autorappresentazione che lascia fuori molti tratti fondanti. E si sa quanto l’ideologia nuoccia alla produzione artistica e letteraria.

Ciò che tra l’altro resta fuori dall’ordine simbolico è proprio la percezione della storicità dell’esperienza umana e colui che l’avverte, non necessariamente in maniera progressiva o ottimistica, ma anche in chiave negativa o pessimistica, finisce proprio per non fare nulla per essere globale, naturalmente nel senso che a questa parola viene dato dall’ordine simbolico della globalizzazione così come essa è effettivamente oggi e non come potrebbe o dovrebbe essere. E’ un’esperienza frustrante quella del fannullone della globalizzazione perchè appunto gli viene negato perfino lo spazio simbolico del contestatore o del dissidente: egli è solo uno che si attarda su cose passate, come la storia, invece di godere dei vantaggi e delle possibilità pressoché infinite offerti dalle nuove tecnologie materiali e mentali.. E’ una condizione frustrante, ma dalla frustrazione talvolta nascono i fiori.

les nouveaux réalistes: Valerio Evangelisti

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Il Grande Fratello
di

Valerio Evangelisti

La luce andò via proprio mentre i sei concorrenti superstiti de Il Grande Fratello stavano festeggiando il compleanno di uno di loro, Niccolò. Prima la casa fu invasa dal buio, poi le note di My Way di Sinatra si strozzarono negli altoparlanti dell’impianto hi-fi.
Martina, abbastanza ubriaca, domandò dopo un poco: «Insomma, torna o no questa luce?»
Paolo interpellò il loro interlocutore invisibile di tutti i giorni: «Grande Fratello, cos’è successo? E’ saltato il mixer?»
Silenzio. Fu Paolo, il più anziano del gruppo, a replicare: «Dev’esserci stato un corto circuito. Niente paura, la luce tornerà da un momento all’altro.»
«Io ho visto da qualche parte una lampada tascabile» disse Samir, l’egiziano inserito nella trasmissione per darle una coloritura multietnica. «Ora la cerco.»

Alla luce della torcia elettrica, sembravano smunti, con le guance incavate e borse vistose sotto gli occhi. Cristina, detta Cris, scoppiò in una risatina. «Sembriamo quelli dell’Isola del Famosi. Morti di fame. Invece noi mangiamo persino troppo.»
Niccolò, accanto a lei sul divano, le si fece vicino. «Le telecamere devono essere spente. Nessuno ci vede.» La sua voce, dal forte accento romanesco, era greve e faceva presagire la frase successiva. «Adesso posso toccarti le tette.»
«Non ci provare!» strillò la ragazza.
«Ma l’ho già fatto, e non hai protestato.»
«Sì, però le telecamere funzionavano.»
Nella frase di Cris era, a ben vedere, sintetizzata la filosofia del programma, e la psicologia elementare di chi vi partecipava.

La luce tornò, e costrinse tutti quanti a battere le palpebre. Era una luce diversa da quella consueta. La sua intensità illuminava ogni angolo quasi a giorno. Chissà quanti watt andavano sprecati.
Luigi, l’intellettuale del gruppo, batté le palpebre come gli altri. Fu il primo ad alzarsi. «Grande Fratello?» chiamò, esitante. Attese un attimo e rafforzò il timbro. «Grande Fratello? Cos’è capitato?»
Silenzio.
Si levò dalla poltrona anche Wang Ping, la cinese, la cretina per definizione, amatissima dal pubblico. «Grande Fratello?» trillò, con la sua vocina assurda.
Non vi fu risposta.

Di indole pratica, Paolo riprese ad affettare la torta, come faceva prima dell’interruzione di corrente. Mentre eseguiva bofonchiò: «Chi ci vede da casa crede che qui tutto sia perfetto. Non sa nemmeno che ogni tanto salta la corrente, e che gli altoparlanti possono rimanere muti, come adesso.»
Martina fu la prima ad afferrare una fetta del dolce. Mentre masticava, un rivolo di crema le scivolò lungo la scollatura e vi scomparve. Non vi fece caso. Per abitudine ormai consolidata si girò verso la telecamera più vicina. Il led non lampeggiava. Dunque era spenta. Fu una piccola delusione.
Inghiottito il boccone, disse: «Da casa, in questo momento, non ci vede nessuno. Nemmeno il Grande Fratello può vederci. Almeno credo.»
Fedele alla sua parte, Niccolò prese a strillare: «Evviva, ragazze! Finalmente si scopa!»
Cris si scostò. «Stai calmo. Fatti una sega» gli disse, acida.
Contava sulla sospensione della diretta. In circostanze normali, la sua frase sarebbe stata coperta da un bip prolungato.
«Perché non me la fai tu?» chiese Niccolò, che quasi sbavava.
«Guarda che non ci stanno filmando.»
«Ah, già.» Niccolò si ricompose sul divano.

Improvvisamente, il Grande Fratello riprese a parlare. La sua voce risuonò nelle stanze di compensato della Casa. Era insolitamente dura.
«Avete meritato una punizione. Luigi sarà il primo. Si rechi immediatamente nel Confessionale. Prima indossi una camicia bianca che troverà sul suo letto.»
Vi fu un generale sbigottimento. Chiaramente il più stupito fu Luigi. Deglutì e, per abitudine, si portò sotto una telecamera spenta. «Ma cosa ho fatto?» chiese con un filo di voce.
«Non sono consentite domande» rispose il Grande Fratello, quasi rabbioso. «Va’ e indossa la camicia bianca. Ti aspetto nel Confessionale.»
«Io non ho fatto nulla.»
«Non amo ripetermi. L’ordine lo hai capito.»
Cris raggiunse il giovane sotto l’oculare cieco. «Luigi non ha violato il regolamento, e noi nemmeno»» quasi gridò. «Perché punirci tutti?»
Non vi fu risposta.
Cris attese un poco, poi toccò il braccio del compagno. «E’ meglio se vai. Chissà cos’hanno in mente, ‘sti stronzi.”
Luigi si allontanò, riluttante.

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Nel dormitorio maschile, sul suo letto, Luigi trovò un camicione bianco che gli arrivava ai piedi. Lo strinse in mano con una certa esitazione, ma poi finì per indossarlo. Solo allora si accorse che, sul dorso, era stampato un triangolo rosso. Sotto figurava un numero: 26. Era già abbastanza stupito per interrogarsi su quella stranezza. Così abbigliato, camminò con esitazione fino alla stanza che ospitava il Confessionale.
La voce del Grande Fratello risuonò melliflua. «Siediti. Siediti sulla poltroncina. E’ bello guardarti. Sei molto pallido, sai?»
Luigi cercò con gli occhi una telecamera, però non ne vide. «Che scherzo è questo? Io non ho fatto…»
«Siediti, ho detto!»
Gli altoparlanti avevano vibrato, sotto quell’urlo. A Luigi non restò che obbedire.

Paolo sbadigliò e guardò l’orologio. «E’ là da oltre tre ore. Mi sembra insolito.»
Cris, la più ricca del gruppo, controllò sul suo Rolex. «E’ vero. Scommetto che ha bestemmiato.»
«Cosa vuoi dire?» rispose Martina. Depose la fetta di dolce che stava mangiucchiando. «Non l’ho mai sentito bestemmiare. Nemmeno una volta.»
«L’avrà fatto da solo. Magari in diretta.»
Intervenne Niccolò, semisdraiato su un sofà. La Casa era piena di sofà. «No, non è il tipo. Era l’unico che non scoreggiava mai a letto. Nemmeno quando, a Natale, ci hanno imbottiti di cotechino e lenticchie.»
«E con ciò?» chiese Paolo, intento a dividere quanto restava dello champagne tra le coppe. «Forse non bestemmiava in pubblico, però lo faceva in privato. Una telecamera lo ha sorpreso. Non immaginate i guai, in un caso del genere.»
Samir si avviò verso il confessionale. «Sentite, io vado a vedere.»
«Vieni, vieni pure!» ridacchiò il Grande Fratello.
Samir ebbe un’esitazione, ma poi imboccò il corridoio.
«Fermo! Indossa prima la camicia bianca! E’ sul tuo letto. Riponi gli abiti e indossala!»

Le ore passavano. Non c’era altro da fare che continuare a bere. Martina era sbronza. Anche Cris vacillava. Niccolò si era addormentato. Paolo si versava altro spumante, con mano malferma. Solo Wang Ping, astemia, rimaneva lucida, per quanto glielo consentiva la sua palese idiozia.
«Grande Fratello» squittì «dove hai messo Luigi e Samir? Non li avrai mica espulsi, vero?»
Gli altoparlanti restarono muti.
«Ma piantala, Ping» disse Paolo, dopo un singulto. «Perché dovrebbe averli espulsi? Non hanno fatto niente.»
«Nemmeno noi, ma ha detto che vuole punirci tutti.»
«E cosa vuoi che sia? Ci toglierà la cioccolata, ci obbligherà a imparare qualche canzoncina…»
«Ma perché vuole punirci tutti?»
«Perché siete tutti colpevoli!» Gli altoparlanti oscillarono, tanto la voce del Grande Fratello era iraconda. Niccolò si svegliò di colpo, Paolo lasciò cadere la bottiglia. Gli altri sussultarono.
«Colpevoli dall’inizio. Pensate a ciò che eravate, prima di venire qui. Pensateci e ve ne renderete conto.»

Niccolò fece una risatina che suonò artificiosa. «Ha una voce da avvinazzato. Non siamo gli unici a bere. Beve anche lui.»
Wang Ping scoppiò a piangere. «Vuole farci del male! E’ terribile! Terribile!»
A peggiorare la situazione, la luce ondeggiò e si spense di nuovo. Nel buio, si udì la voce incerta di Marina, che cercava di consolare Wang Ping. «Ma cosa vuoi che ci faccia? Guarda che è un funzionario della televisione. Conta meno di un cazzo.»
«A proposito di cazzo…» esordì Niccolò, tornato alla lucidità.
«Tieniti lontano da me!» strillò Cris.
Paolo si interpose. «Bando alle stronzate. Luigi e Samir sono da ore nel Confessionale, a pochi metri da qui. Andiamo a cercarli.»
«Ma non c’è la luce…» obiettò Marina.
Si udì una sghignazzata, poi il Grande Fratello urlò: «Volete luce? Peggio per voi. E luce sia!»
Le lampadine si riaccesero, però di una luminosità rossastra, che creava ombre lunghissime.

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Nel breve corridoio che conduceva al Confessionale, Paolo bofonchiò: «Lo scemo ci dice di pensare al nostro passato. Sarà che ho bevuto troppo, ma non ricordo nulla di particolare.»
«Non siamo in condizione per ricordare» asserì Martina, con un filo di bava che le colava dalle labbra. «Ho bisogno di dormire.»
«Tutti ne abbiamo bisogno» osservò Niccolò. «Dirmi, adesso, di frugare nei ricordi, è come chiedere a un cieco di descrivere com’è fatto un pinguino.»
Si fermarono di fronte all’uscio del Confessionale. Paolo ne tentò la maniglia.
«E’ chiuso a chiave dall’interno» disse, dopo qualche tentativo.
«Prova di nuovo.»
«Sto provando. E’ inutile.»
«Si sentono voci, là dentro?» domandò Cris. «Rumori?»
«No, non si sente nulla. Secondo me non c’è nessuno… Chissà dove sono finiti.»
«Dove meritavano!» rispose il Grande Fratello. L’intonazione fece capire che stava sogghignando.

Wang Ping ebbe una nuova crisi di pianto. Si gettò addirittura in ginocchio. «Perdonaci, Grande Fratello!» singhiozzò. In realtà pronunciava “flatello”. «Non so cosa abbiamo fatto, ma perdonaci!»
«Ammesso che non abbiate fatto nulla, siete colpevoli dall’origine.»
«Perché? Perché?»
«Non occorre che ve lo dica io.» La voce che rimbombava nelle stanze della Casa era chiaramente quella di qualcuno in preda all’alcool, o a sostanze ancor più inebrianti. «Per voi esiste una sola speranza. Pentirvi. Confessarvi. Abbandonarvi inermi all’eventuale pena. Altrimenti sarete cancellati
«Ma pentirci di cosa? Confessare che?» domandò Wang Ping a mani giunte, le guance rigate di lacrime.
Cris si piegò su di lei e le afferrò una spalla. La costrinse a sollevarsi. «Basta, non dare retta a quello stronzo. Non è dignitoso. Vabbe’, hanno deciso, per motivi loro, di cacciarci fuori tutti. Giudicheranno i telespettatori. Adesso ho sonno e voglio dormire, altrimenti me ne andrei subito.» Ansimò leggermente, mentre sosteneva l’amica. «Che vada affanculo il Grande Fratello. Qual tizio dipende da noi, e dall’Auditel, più di quanto noi dipendiamo da lui.»
«Giusto!» esclamò Niccolò, che si appoggiava a una parete di compensato per tenersi ritto. «Domattina ce ne andiamo in massa, e stanotte dormiamo nella stessa stanza, maschi e femmine. Se ci cacciano, l’ultima notte possiamo fare quello che vogliamo.»
Cris replicò, sardonica: «E’ inutile che mi guardi così, Niccolò. Per te non c’è speranza.» Non ansimava più. Wang Ping pesava quanto una piuma, e non era difficile tenerla in piedi.
«Non c’è speranza per nessuno di voi!» ridacchiò il Grande Fratello. Era drogato, non c’erano dubbi. La sua voce cambiava di timbro all’interno della stessa frase. Si udì persino, amplificato all’eccesso, un suono gorgogliante. Forse aveva vomitato. Chissà quali intrugli aveva bevuto.

Furono risvegliati da un ordine pronunciato come fosse un ululato, perché la sua coda ridanciana si protrasse a lungo, variando di tono. «Martina nel Confessionale! Nessuna camicia bianca, però! La voglio nuda, ah ah ah ah!»
Martina si districò dal groviglio dei compagni con cui aveva diviso il letto e scattò in piedi. Era perfettamente lucida. Marciò verso un altoparlante sormontato da una telecamera e mostrò il medio della mano destra.
«Vaffanculo, Grande Fratello. Non mi spoglio nemmeno se mi paghi.» Come gli altri aveva dormito vestita. «E poi, che richieste sono? Fammi parlare con un dirigente. Qualcuno più importante di te.»
«Più importante di me?» La voce incorporea suonò incredula, prima che l’ilarità montante la rendesse chioccia. «Davvero non vuoi spogliarti per me? Mostrarmi le tue bellezze
«No, non voglio!» gridò Martina.
«Oh, che peccato. Non eri così, durante i provini. Mi tocca eliminarti. Vai al Confessionale, bambola sexy. Anche vestita, non posso più salvarti. Però ricorda di metterti gli occhiali da sole
Martina ebbe uno scatto d’ira. Saltò, nel tentativo di afferrare la telecamera. Non vi riuscì: era troppo in alto. Senza ragione apparente si mise a piangere.
Il timbro del Grande Fratello diventò carezzevole. «Non prenderla così, piccolina. Vai al Confessionale. L’espulsione, in fondo, non è un dramma
«Ma la porta è chiusa!» obiettò Martina, tra i singhiozzi.
«La troverai aperta. Del resto è sempre aperta a chi dà segni di pentimento. Vai Martina. Tornerai ciò che eri prima di venire qui. Ricordi?»
«Non ricordo nulla!»
«Ottima risposta. Forse ti salverò. O forse no, chissà. Ho un cervellino talmente bizzarro!»
Martina si avviò lungo il corridoio, a capo chino. Il Grande Fratello prese a cantare un motivetto buffo e allegro, che parlava di una “casetta piccolina in Canadà”. Solo all’ultimo gridò: «Martina, non dimenticare gli occhiali scuri! E’ per il tuo bene

«No, basta! Io non sono più disposta a sopportare!»
Cris non aveva reagito all’espulsione di Martina perché troppo assonnata, ma adesso si drizzò in piedi, gli occhi verdi luccicanti di collera.
«Hai ragione» disse Niccolò. Represse uno sbadiglio.
In quel momento Paolo tornò dal bagno. Si passava sul viso un asciugamani, che gettò in terra con rabbia. «Dobbiamo andarcene. La produzione ci ha messo nelle mani di un ubriacone che si crede Dio in persona. Non è tollerabile.»
«Ma così perdiamo tutti i soldi!» trillò Wang Ping, con espressione infelice.
«Sì, ma agli occhi dei telespettatori acquistiamo in dignità.» Paolo gonfiò il petto. «Forse tu, Ping, prima di venire qui facevi qualche lavoro servile. Sei abituata a ricevere ordini.»
«Non facevo niente!»
«Però eri portata a obbedire agli ordini. Io no. Io ero…» Paolo lasciò la frase in sospeso. Per un attimo la sua sicurezza si incrinò, ma si riprese subito. «Ciò che eravamo non conta. E’ questione di indole. Io ci tengo alla dignità, e non voglio essere trattato da schiavo.»
«Bravo!» Cris batté le mani. «Tutti d’accordo? Si lascia la Casa e si affossa il programma?»
Dopo una breve esitazione, Niccolò disse: «D’accordo.» Non sembrava molto convinto.
«D’accordo» pigolò Wang Ping. La frase esatta fu “d’accoldo”, ma la sostanza era quella.

societeduspectaclePer arrivare all’uscita della casa occorreva passare davanti al Confessionale. Nel frattempo la luce, da rossa, era tornata bianca. Ci doveva essere stato un aumento di watt, perché il calore era da piena estate. I giovani ora sudavano.
Niccolò disse, additando il Confessionale: «E’ una porta di compensato, facile da sfondare.»
«Perché mai dovremmo sfondarla?» chiese Paolo, sbalordito.
«Be’, è chiusa.»
«E allora?»
«Martina, Luigi e Samir potrebbero essere ancora lì dentro!»
Paolo scoppiò a ridere. «Ma piantala, scemo! Non farci perdere tempo. Andiamo all’uscita vera.»
«Io non mi muovo. Voglio capire perché hanno chiuso la porta.»
«Bravo, rimani qui. Sei sempre stato un idiota, ora lo confermi.»
«Ho il diritto di sapere cos’è capitato ai nostri amici!»
Paolo guardò l’altro con una specie di compassione. «Amici? Da quando in qua? Fino a ieri erano per te dei concorrenti. Tutta la tua amicizia è nata da quando li hanno espulsi.»
Niccolò si rivolse alle ragazze: «Cris! Ping! Restate con me? Sfondiamo la porta e vediamo cosa c’è di là.» Pensando al suo ruolo e alle telecamere aggiunse: «Poi magari si fa qualcosa sulla poltrona…»
Uscita infelice. Le ragazze non gli risposero nemmeno. Si avviarono con Paolo lungo il corridoio.

La porta principale della Casa era serrata come quella del Confessionale. Non era però più solida. Paolo saggiò la maniglia e disse, ad alta voce: «Grande Fratello, è inutile cercare di tenerci chiusi. Io e le ragazze ce ne andiamo, lasciamo il reality. E’ ridicolo tentare di trattenerci!»
Non vi fu risposta.
Dopo una breve attesa, Cris alzò le spalle. «Quello starà dormendo, sbronzo com’è. Dai, passiamo. Non vedo l’ora di tornare all’aria aperta.»
«C’è un chiavistello.»
«Non eri tu il superuomo del gruppo?» domandò Cris con ironia. «Forza, usa i muscoli. Molla un calcione alla porta.»
Paolo eseguì. L’uscio crollò. Furono investiti da una luminosità intensissima, e da un calore che superava i quaranta gradi. Facce stupite li accolsero. Si udiva, in sottofondo, il suono di onde che si frangevano sugli scogli.

Niccolò, a furia di calci, riuscì a demolire l’uscio del Confessionale e a entrare. Una luce che feriva le cornee lo obbligò a battere le palpebre. Sulle prime non riuscì a decifrare lo spettacolo che aveva di fronte. Quando ne fu capace, non poté trattenere un grido, più d’angoscia che di terrore. Forse, un angolo della sua mente aveva già previsto qualcosa di simile.
La poltrona centrale era vuota. Lungo le pareti, però, erano appoggiati con la schiena una trentina fra uomini e donne. Tra loro c’erano Luigi, Matina e Samir. I trenta giacevano inanimati, gli occhi chiusi, senza alcuna espressione sul volto. Indossavano camici bianchi. Non erano morti: una traccia di respirazione si percepiva dall’alzarsi e abbassarsi della cassa toracica.
«Ma questi sono…» mormorò Niccolò.
«…i concorrenti delle passate edizioni» completò ilare il Grande Fratello. «Bravo, Niccolò, hai indovinato!»
«Come mai sono qui? Sei tu che li hai portati?»
«Sono qui da anni. Adesso puoi vederli perché te lo permetto.»
Niccolò, malgrado la paura che provava, si sforzò di ridere. «Vuoi prendermi in giro, pezzo di stronzo? Saranno controfigure. Quelli veri li si vede di continuo in tv.» Diede uno schiaffetto a una ragazza dai capelli rossi. «Ehi, svegliati!»
«Così la fai soffrire di più. Soffre già abbastanza.»
Niccolò si volse alla telecamera più vicina. «Cosa vuol dire che soffre?»
«Sogna, e non sono bei sogni.»
«Non capisco…»
«Lo capirai tra breve. Buon sonno, Niccolò!»
La luce si spense di nuovo.

Paolo, Wang Ping e Cris erano ammutoliti dallo stupore. Stavano uscendo da una capanna, e calpestavano una sabbia bianchissima. Attorno si scorgevano palmizi, fitti fino alle rive di un oceano ribollente di onde impetuose, ma di cristallina trasparenza.
Avevano di fronte due uomini e due donne: i maschi in mutande, le femmine in bikini. Sembravano sbalorditi quanto loro.
Paolo fu il primo a parlare. Guardò uno degli uomini e disse: «Ma tu sei… Il cantante famoso!»
Quello rispose: «Proprio io.» Aveva una corporatura tozza, molti peli sul petto e sopracciglia foltissime. «Ora spiegami perché uscite dalla capanna dei cameramen.»
«Capanna dei cameramen?» Paolo era smarrito. «Noi veniamo dalla Casa.»
«E la chiami casa, quella bicocca?… Fa nulla, siamo tutti contenti di vedere persone che ci porteranno in salvo. E’ quasi un mese che le lance della produzione non arrivano più.»
Una nota fotomodella, ridotta a un corpo con poca carne addosso, indicò le palme. «Le noci di cocco sono finite. Non ci danno le nostre razioni di riso. Anche i pesci stanno alla larga. Viviamo di radici, e dei paguri che ancora riusciamo a trovare.»
Cris ebbe un’illuminazione terrificante. «Mio Dio! Non sarete… L’Isola dei Famosi?»
Un’attricetta un tempo celebre le disse: «Sì, bella. Aspettavamo chi ci tirasse fuori da questo inferno. Per fortuna siete qua.»
I tre fuggiaschi non risposero. Non sapevano cosa dire. Wang Ping, facile alle lacrime, scoppiò a piangere per l’ennesima volta. Chi le asciugò gli occhi fu un’anziana ex presentatrice, sbucata da un intrico di mangrovie. L’uomo che tempo addietro era stato Il Corsaro Nero, in una fiction rimasta leggendaria, resse Ping per le spalle, a impedirle di cadere.

Intanto Niccolò, addormentato, sognava. Rivide in sogno il suo passato: nulla. Poi scorse le facce dei telespettatori, fino a quel momento presenti nella sua mente, che si appannavano. Non esistevano: esisteva solo la Casa fluttuante nell’oscurità, e altre stelle lontane.
«Bene, è ora di staccare la spina» mormorò il Grande Fratello.
Vi fu un lampo, nei sogni di Niccolò, poi i segnali confusi e gracchianti di un canale spento. Linee irregolari sovrapposte, faticose a vedersi e insopportabili a udirsi.
Le avrebbe viste e udite per sempre. O almeno fino al suo prossimo ruolo.

Strategie per arredare il vuoto

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di Giacomo Verri

marinoLa vita procede nonostante la crepa aperta sul limitare dell’estate: il tredicenne Edo, protagonista di Strategie per arredare il vuoto, esordio di Paolo Marino (già finalista al Premio Calvino e ora in libreria per Mondadori, pp. 227, euro 17) ha perduto i genitori e, com’è naturale in questi casi, la famiglia apre grandi ali per contenere il dolore e per offrire al ragazzo una nuova casa, quella di zia Selma e di zio Dante. Ma Edo con tenace pacatezza rifiuta, “preferirei di no” glossa, e fa spazio al silenzio che aggira spiegazioni e formule. Non è un atto della volontà presente a se stessa, come fu di Cosimo che per fuggire il piatto di lumache rampò sull’elce senza più discendervi; del Barone esprime l’insofferenza, non più viva ma catatonica, priva di spinte a uscirne; Edo, barricandosi, lascia fuori le parole eccessive e inutili dei parenti, l’esperienza del mondo, degli amici, la vita.

Se fosse un eroe, non dico romantico, ma decadente, la clausura domestica lo condurrebbe a praticare un ostinato approfondimento di ciò che si è e di ciò che non si riesce a essere. Ma Edo non fa nulla, rimedia i pasti e parla poche parole, ché le uniche buone sembra recitarsele solo in testa; facendosi scivolare sull’impermeabile piumaggio della propria ipnotica atarassia gli inviti e le preghiere degli zii, accoglie tra le mura – senza volerla, senza rifiutarla – la compagnia delle gemelline Rovati, Greta e Lavinia, di Enea che s’accula prima della soglia e narra al padroncino di casa di avventure con la bicicletta, di un surreale rappresentante d’aspirapolveri ossessionato dai microbi, del terzetto di bulli (Seba, Carli e Draeger) che riddano in salotto, fumando e urlando. I colloqui decadono a rumore di sottofondo sebbene da Edo non facciano altro che parlare, tutti: “attaccavano con un discorso, ne appiccicavano un secondo, ne sovrapponevano un terzo, v’innestavano un quarto, ritornavano al primo”.

Finché pian piano la casa si svuota delle persone, Edo sgombera i mobili della stanza che fu dei genitori, ricopre tutto con la pellicola trasparente e si automummifica con la garza. Desidera cancellarsi e cassare la propria esistenza, così, senza enfasi; non c’è dolore, non una lacrima, nessun cenno alla disgrazia che ha inghiottito papà e mamma. Ne esce la figura di un mondo inutile dal quale assentarsi facendo di se stessi un carapace, e eludendo la costruzione di un destino reificato e coatto: “trovavo insopportabile che fosse stato stilato un catalogo di cose utili da mettermi a disposizione. Ci voleva della malafede, la volontà subdola di darmi un posto e qualcosa da fare”.

les nouveaux réalistes: Andrea Ponso

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di

Andrea Ponso

 

Non è niente, ma attento a questo sfinimento. Non è niente, gente, gelate pure seduti sulle vostre sedie, sugli scalini di gesso, scrollate poi via tutto. E non so che ore sono, dove andiamo da queste parti, se qualcosa rimane che si possa dire racconto, vi prego, fatene fiori.

 

 

 

 

Introitus

Oh, quale potenza – e che strano pensiero: arrossisco, tosse, scorbuto, semantica da sputo. Mi darai indietro tutto: i miei libri, gli assegni, anche se in bianco, e l’imbuto da dove mi hai bevuto, prosciugato tutto il sangue – brutta ghirlanda inacidita, eppure così, dolcissima, mia morte e pittima. Che non ci volevo andare, lo spazio di una sigaretta, non ci volevo proprio andare fino alla bottega, a ritirare le poche cose che mi servono per mangiare e digerire, per stare in piedi fino a sera e poi addormentarmi, dimenticarmi delle mani, e delle fistole in testa, dei tesseramenti e abbonamenti scaduti all’infinito. Eppure, così, mai parlato d’altro: degenerazione e argento, genitali e risorgere – una stessa pasta finissima: ti ci abitui, l’assuefazione è contagiosa, gioiosa, e grida e ingravida di deserto il tuo esercito scalcagnato e ora pure insabbiato, tenuto a bada da quattro fresconi che ti premuri di accudire, nutrire, lavare, spolverare e mettere in bella mostra nello spazio vuoto e lucente della mente.

Ed ora dai, su, tesoro: inventa qualcosa; rassegnati alla rosa e a questo deserto, negli stinchi ci sbatte spesso e volentieri … non vuole lui, non lo vogliamo noi, ma è così: sposalo – che non c’è divorzio, o giudizio, che ciò che l’uomo ha unito … tentenna, si alza da solo e carica la pistola: non so perché – e non è Dio, e non è Cristo, eppure è una festa. La foglia è stata corrosa dalla malattia, l’unghia è sporca di terra fresca, ancora fresca per poco, e la vigna … la vigna è veggenza, è invasione, è contagio: genera grigiore di cenere, ma genera.

Appostato in fondo al giardino, mangio da un cartoccio qualcosa che non ha odore, che non ha nessun sapore: dicono conoscenza, e riconoscenza quella che dovresti avere; dovresti inginocchiarti a pregare, a ringraziare. E lo faccio, mi straccio le vesti, e nessuno mi vede – ed è perfetto questo angolo buio in piena luce. Se sei così luminoso e pallido, ti credono malato, e invece sei graziato: ti attraversano, imperversano schiavi dei tuoi simulacri: li recriminano ad ogni passo, vogliono indietro il loro orgoglio … ma non ne ho più abbastanza, tutto è raccolto in questa stanza, lo posso mettere a disposizione della produzione, lo posso pesare come eroina, con un bilancino d’oro o d’argento.

Intanto il vento sparpaglia anche questo, il vento invade, divarica, prosciuga.

E siamo sempre allo stesso deserto. L’inserto settimanale è stato staccato, e verrà conservato a lungo in qualche cassetto della cucina, tra le posate arrugginite, i cucchiai, i coltelli per l’arrosto. Ho dato, e mi sono tolto di mezzo; ora azzimato passeggio, senza alcun pensiero o gonfiore del cervello – cammino, guardo, osservo, respiro, passeggio – genero per loro, il mio nome non avrà ragione, la mia discendenza in questa stanza rimanda il suo dovere, altrove.

E da parte nostra strilla, arsenico, come imbuto imbevuto tutto di te, di noi, di lei: l’arsenale in fiamme, guardate, guarite guardandolo l’arsenale in fiamme, fatene la vostra fame, e non vi sarà dato cibo, o broda o mercanzia. Eppure da imbuto a ponte, il passo è sommerso, il ponte travolto, rannuvolato subito in alto, tra le Ande del mondo, altissimo, santo, cristosegnato e travolto.

E rinvenendo ritrovo la vita, la rivedo venirmi addosso con la forza di un sasso scagliato in se stesso, fermo nel suo polso di gesso, slogato per sempre – come quando rinvieni da un morso, da un profondo e non percepito salasso, e ti alzi, e tutto ti gira, e le vertigini ti scassano il cranio, te lo smussano, ma da dentro e giù giù fino allo stomaco, anch’esso, chiaramente, luminosamente rovesciato: ed eccoti tutto, lì, vomitato sul selciato. Guardalo, rammemoralo, adoralo se puoi, verme insulso, uomo in barca in brache di tela, uomo da museo, imbalsamato: vi trovi il sangue, e un siero nero, escrementi, imprecazioni, gelo vilipeso e raggrumato; ma grida se vuoi, ma guardalo: rinvieni in esso, rinvieni in esso l’oscuro rapporto, quando come tutti ti hanno a sangue, a sangue e a prezzo del sangue, salvato e penetrato – strato su strato, nessuno spessore ermeneutico, nessun inutile intrallazzo, politica, potere, porzioni sigillate: niente.

Tutto viene da nord, da est, da ponente s’impone, prono s’impone e pompa nel tuo sangue, ti sradica, ad ogni spinta tenta di staccarti, scacciarti via da te, da quello che penso, e pensi, dai sensi e dai non sensi, dal sale e dal pane amato, dal ventre vidimato e ingravidato che, potenzialmente, e solo potenzialmente sei, sei stato e sarai.

E dove abito è sempre debito – ma un bruciore, vi dico, un’alba barbara, una bordata e un cratere. Proprio lì, dove mi faccio la barba, tengo farmaci e vita in ordine: tutta una bruttura, un limbo, un brano di carne mangiata d’altri. Si, un bruciore. E va bene, lo accetto, lo centro in pieno – potessi fare altro, tramandarlo come per procura, passando da notai a fiscalisti, lascerei ad altri questa frescura, questo sottobosco, sottopelle senza cura – lo renderei al creatore, alla brutale bellezza della sua natura, alla filosofia e alla ragione, ai suoi aggeggi geniali, agli ingranaggi, ai geli suoi.

Ma non v’è ragione o motivo: v’è solo questo debito imbavagliato e buio, che non sappiamo, che non amiamo mai, mai, mio dio mai; potessimo solo farlo buono facendoci buoni, e bui, e belli – vestendo l’ombra sua, e l’obbrobrio come orpelli, come camminamenti dentro lo spessore sfiatante dei venti … ma niente. Sono solo momentanei, monumentali accorgimenti: travature, travet, cicisbei, bullismi, monismi riduttivi, incivili, invalidanti, anti vita, anti schianti, anti tutti quanti – per niente, aureole di gas caino, cianotiche le nostre guance nel suo bacio, accecante. E sono tante le legioni, pochissimi i profili, innumerabili gli affanni, i fregi, i nomi, i dimmi che mi o non mi ami: cianfrusaglie, croste, accresciute crisalidi.

Ed io che senza assetto, che non ho madre, che ho sempre sete e silenzio tra le costole, e le costole sprofondano nel buio del bar ogni sera, e al pomeriggio, dopo le sei sempre – caffè sigaretta come siero per l’ansia e la ritrosia; e mentre guardo levriere le cameriere alzarsi sulle punte, tossire, sorridere, dare il resto, ecco m’investe il loro sapore, la loro sapienza da antiche speziali mi spezza il tempo di adesso, mi precipita fuori, nel già e non ancora, la loro ingenua geniale inconsapevole gentilezza, anche se venata d’odio, e fatica, e smaniosa indifferenza … quanta capienza in quelle stanze, quante scale, saliscendi, pianerottoli e rotta di collo giù ci dividono, mie inesistenti figlie, e madri, e sorelle, voi così sublimi, e morte, e belle, mai nate mai nemmeno annusate – eppure è così: ogni mattina vi alzate calde dai letti, vi lavate, profumate, vi preparate alla fatica in faccia ai clienti, alle loro grandinate, ai loro odori avariati o dolcissimi, o pesti, o straziati, voi lo fate, fasciate della vostra magrezza, della vostra superba scaltrezza – avete gli attrezzi, quello che serve, per trasformarvi all’occorrenza in belve vive di tenerezza e spezzare la mia e d’altri cavezza, liberandoci nel deserto, lasciandoci alla sete, alla gioia minuta immensa, all’esodo della xenitéia, da schiavitù, da insulsa alterigia, da scontrosa pretesa d’essere assennati, buoni avventori, velenosi solo per timidezza, scaltri anche noi per niente, scalcagnati dal niente, rincorsi, azzuffati, pestati, massacrati, criticati, criticanti, dementi, lucenti: attenti – lussati e addormentati.

E c’è una fame, una fine, un fuoco, una fatica infinita.

E fu così che da questo deserto scavarono vite, intasarono oasi e silenzi, stremando ogni attenzione, costruendo davanzali, ponti e delusioni – scavando fino al fondo, fornendo idee, concetti, ragioni; generando vertigini e mali immaginari, portando sabbia scura nelle bocche, chiamando tutto questo perfezioni – dimenticando la verginale, esigente escoriazione iniziale.

E sbucarono ceffi da dietro i banchi di chiese senza altari, assaltando i fedeli; uscirono da ogni cassetto, affilati come coltelli, incidendo ogni cruccio, ogni cicatrice: svendendo vittime e dolore – dai tiranti, in alto, sollevavano ogni stagione, ogni gola sbrecciata di muro, ogni erba, ogni odore; drenarono reni, intestini, spine dorsali … come squali, il sangue freddo, pulsante, nell’azzurro, salato.

Mi ritirai nel nome, muovendomi poco, accorato, negli scambi, tra verbi e consecutio temporali: fili spinati pensati come cieli, costellazioni, ospedali. Mi ferivo e fiorivo, e dal ferro una fede finalmente sfiorava la fonte, limpida a tratti, a tratti sporca di terra e sangue, e canali.

 

Consummatum est

E pose la sterile nella sua casa, quale madre gloriosa di figli: e così affina insieme affezione e indifferenza, distacco e presa, clamore e mormorare sommesso – è lo stesso ed è diverso, sed transire,e in questa pasqua passa, Quamdiu in imagine pertransimus, e non si ferma mai, non vacua imago, sed veritas, mai.

 

 

La forma saggio e il footage, un metodo di produzione

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di Rinaldo Censi

Nel 1983 Harun Farocki recita come attore in Klassenverhältnisse (Rapporti di classe), di Danièle Huillet e Jean-Marie Straub. Realizza un film a partire dalla sua lavorazione, Arbeiten zu, “Klassenverhältnisse” von Danièle Huillet und Jean-Marie Straub (1983). E’ un film importante che mette a nudo un processo di lavoro, di creazione: le prove, le ripetizioni, le riprese, il film. A quel tempo, i rapporti fra i tre sono già di stima reciproca, qualcosa che somiglia ad una vera e propria amicizia (nel 1987 Farocki realizzerà per la televisione tedesca un altro film sulla coppia, Filmtip: Der Tod des Empedokles).

Per comprendere questo rapporto speciale bisogna ripartire da una rivista tedesca, Filmkritik, fondata nel 1957. All’epoca vi lavorano figure di spicco come Enno Patalas (animatore e agitatore del Filmmuseum di Monaco tra il 1973 e il 1994), e poi Frieda Grafe, Ulrich Gregor, Wilhelm Roth. E’ una rivista di cruciale importanza per Harun Farocki e per altri giovani cinefili: Hartmut Bitomsky, Wolf-Eckart Bühler, Manfred Blank, Hanns Zischler. E poi Rudolph Thome, il giovane Wim Wenders. Ognuno di loro lascerà tracce scritte sulla rivista, a partire dalla fine degli anni ’60 fino al 1984, quando Filmkritik chiude i battenti.

Si respira aria nuova. I nuovi collaboratori scrivono, e quando non scrivono realizzano film: si occupano di autori amati, di cui descrivono minuziosamente il metodo di lavoro, la peculiarità di alcune sequenze, come se proprio lì si nascondesse il segreto della loro arte, proprio lì dove nessuno sembrava coglierlo. C’è l’amore per John Ford. E poi Renoir, Bresson e Jean Gremillon. E gli Straub.

Christian Petzold ricorda come già dalla scrittura si potesse intuire il lato modernista, quasi joyciano, di Harun Farocki. Non è dunque un caso che la forma “saggio” circoli dalla carta alla celluloide. E’ proprio questa la forma su cui si misurano vari collaboratori, compreso Holger Meins, altro nome che ruota a sua volta intorno alla rivista. E se c’è qualcosa che Farocki ha compreso da quei “maestri”, non è forse uno stile, ma piuttosto una logistica, un metodo di lavoro e di produzione. La presenza di Jean-Marie Straub – all’epoca esule in Germania – e Danièle Huillet deve aver in qualche modo funzionato da detonatore dialettico. Lo scambio di idee deve aver reciprocamente dato buoni frutti. Lo si comprende se avviciniamo Inextinguishable Fire, che Harun Farocki realizza nel 1969, a Einleitung zu Arnold Schoenbergs Begleitmusik zu einer Lichtspielscene (1972): la politica, la forma “saggio”, il processo di lavoro, la Storia, il footage di repertorio, il montaggio, la dialettica delle immagini.

Ogni film di Harun Farocki sembra poggiare su queste coordinate. Rivedendo oggi Zwischen Zwei Kriegen (1978) o Ein Bild (1983) o il suo Arbeiter verlassen die Fabrik (1995) viene spontaneo notare come questa forma “saggio” metta in luce tutto l’acume di Farocki , la sua intelligenza, la sensibilità, lo sguardo ultrasensibile su alcuni gesti all’apparenza anodini. I suoi film, le sue installazioni, restano insuperate lezioni di cinema.

(Il 30 luglio è se n’è andato improvvisamente Harun Farocki. Questo pezzo è apparso sul Manifesto, il 1 Agosto 2014, insieme a quelli di Nicole Brenez, Elfi Reiter e Cristina Piccino)

Cìcikov

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lunadi Romano A. Fiocchi

Quando il modulo lunare appoggiò le sue zampe metalliche in prossimità del Mare dei Sogni, il piccolo astronauta ebbe un tuffo al cuore.

Si chiamava Ivan Petrovič Cìcikov, discendente di quel Pàvel Ivànovič Cìcikov che collezionava anime morte in un romanzo d’altri tempi. Ecco perché tutti lo chiamavano semplicemente così, Cìcikov. Ma al contrario del suo trisavolo, niente anime morte: questo Cìcikov collezionava sogni. Fin dai primi anni di scuola aveva sognato di diventare astronauta per vedere la faccia nascosta della luna e si era così incaponito in quel desiderio infantile da dimenticarsi di crescere. Era rimasto un Cìcikov della statura di un bambino o poco più. Proporzionato ma piccolo. Nel frattempo aveva realizzato altri sogni: aveva portato avanti gli studi con ottimi risultati, si era laureato in ingegneria alla Lomonosov di Mosca e nonostante l’altezza, si fa per dire, era riuscito a conseguire il brevetto di volo con il celebre colonnello Dolgov. Ma da queste inaspettate soddisfazioni a finire sulla luna c’era un bel passo. Senza averci mai sperato, la sua corporatura da bambino si rivelò un autentico vantaggio quando l’Agenzia spaziale sovietica decise di agganciare un modulo lunare segreto a una navicella Soyuz. L’abitacolo ridottissimo scatenò la caccia agli ingegneri di dimensioni lillipuziane. Cìcikov si fece avanti. Fu subito accettato.

E allora eccolo lì, il piccolo Cìcikov, che senza rispettare il programma della missione, disobbedendo al comandante rimasto a bordo della Soyuz, interrompendo i contatti con la base di Baikonur e con la stazione orbitante, dirottava il suo modulo lunare oltre la linea di demarcazione di una splendida luna piena per finire dall’altra parte, nell’oscurità della sua faccia nascosta. Lì il buio dell’universo scendeva sino al suolo e si mangiava ogni cosa. Niente più crateri, solchi, striature a raggiera, monti e catene montuose. Cìcikov slacciò le cinture che lo legavano al sedile, agganciò zaino e manicotti per la passeggiata all’esterno, infilò il casco, aprì il portello del modulo lunare e uscì.

La tuta da cosmonauta, costruita su misura, lo isolava da ogni percezione ma sapeva che intorno a lui il silenzio era più profondo del rumore del suo respiro. Non c’era vento, sulla luna. E non ci sarebbero state né pioggia, né neve, né giornate nuvolose, né giornate afose. Il tempo non cambiava mai. C’erano soltanto la luce del giorno e il buio di una notte gelida che durava due settimane con una temperatura che scendeva sino ai centocinquanta gradi sotto lo zero. Cìcikov accese la luce sopra il casco. Compì alcuni passi incerti. La polvere si sollevava attorno ai piedi, si sentiva leggero e al tempo stesso trattenuto sul suolo lunare da una mano misteriosa, che era poi il peso stesso della tuta.

Salì l’altura che delimitava il Mare dei Sogni, accese il faretto di profondità e guardò dentro l’abisso. Fu una visione straordinaria. In fondo a un canalone c’erano ammucchiati migliaia e migliaia di oggetti provenienti dalla Terra. Erano di ogni tipo e forma, alcuni primordiali come vecchi utensili ricavati da ossa di mostri preistorici, altri modernissimi come testate nucleari dismesse. E poi mobili distrutti dai bombardamenti, chincaglierie, quintali di libri, di giornali, bottiglie di vino, armi arrugginite, attrezzi agricoli, vestiti nuovi e usati, spartiti musicali, pacchi di lettere, giocattoli, parrucche, manichini, montagne di scarpe da donna e da uomo, borse e sacchetti a non finire. Finito il canalone se ne apriva un altro, anche questo traboccante di manufatti umani lasciati lì da millenni. Era evidente che tutti i mari della faccia nascosta fossero pieni di queste cose. Gli sembrò allora di sentire la voce della luna che diceva: «Vedi, piccolo astronauta, la mia forza gravitazionale non serve solo per il movimento delle maree e per le pance delle gestanti: attira tutto ciò che l’uomo abbandona e dimentica, e lo raccoglie qui, nei mari della mia faccia nascosta. Un giorno, tutto ciò che avrà costruito l’uomo nel corso dei millenni finirà quassù».

Cìcikov si intristì. Il freddo saliva di intensità e cominciava a penetrare la tuta. Si incamminò con i suoi movimenti rallentati verso la linea di demarcazione. Una volta uscito dalla zona d’ombra, la protezione del casco dovette far fronte a una sferzata di luce e di calore. Fu allora che la vide.

Era una sfera colorata sospesa nell’oscurità dello spazio, senza frontiere né confini se non quelli dei mari e degli oceani. I bianchi erano abbacinanti, i blu intensi, i verdi e i rossi più vivaci del piumaggio di una paradisea. Non vedeva la vita – uomini, animali, piante – ma la vita traboccava da quella sfera colorata con una forza che investiva tutto l’universo. Disse allora una sequenza di frasi senza senso, del tipo: “Pensavo che fosse una cosa seria. Neppure la morte lo è. Neppure Russia America Giappone Cina. Anche le guerre, da quassù, sembrano nulla”.

Cìcikov capì che il sogno che aveva sempre inseguito era in realtà il mondo dove aveva sempre vissuto. Ma se fosse tornato a vivere laggiù, nel mondo meraviglioso che si chiama Terra, una specie di presbiopia cronica gli avrebbe impedito di riconoscerlo. E allora Ivan Petrovič Cìcikov decise. Rimase lì per l’eternità. Sarebbe stato uno dei tanti astronauti dispersi nello spazio e di cui più nessuno sapeva il nome.

E voi sulla Terra, finché la Terra continuerà ruotare intorno al sole, quando sollevate lo sguardo verso la luna ricordatevi del piccolo astronauta russo che con occhi infiniti vi osserva da lassù.

 

Manuale di sopravvivenza per incontri familiari su Skype

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di Leonardo Goi

skype

Accadrà di sera. L’avrai posticipato una mezza dozzina di volte e con buona probabilità ti troverai a doverlo fare mezz’ora prima di uscire a esorcizzare i risultati degli esami con i tuoi compagni di corso al bar dell’Università. Fatti una doccia. Vestiti di bianco per dar meno risalto al tuo colorito bile. Nascondi il piatto di pasta riscaldato per cinque volte di fila che hai lasciato da tre giorni a putrefarsi sotto la finestra. Ficcalo sotto al letto.

les nouveaux réalistes: Luigi Spina

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Voi siete qui!

di

Gigi Spina

Neottolemo è al mio fianco. Lo sento ansimare, col suo caratteristico puzzo di cipolla e sudore. Lo spingo per farlo scostare, mi sta pestando il piede. L’oscurità è fitta, il silenzio è rispettato a fatica, qualcuno penserà che il cigolio delle ruote potrebbe consentire anche un temerario bisbiglio. Allora provo a fare un appello col passaparola, cerco di ricordare come sono disposti in fila fino al portellone d’uscita – quelli dietro di me capiranno da soli quando muoversi. Sussurro all’orecchio (anche quello puzza) di Neottolemo: “avverti Acamante e lui Toante e lui Tessandro e lui Stenelo e lui Menelao e lui Macaone e lui Epeo che manca poco; quando le ruote si fermeranno, Epeo aprirà il portellone e ci caleremo uno alla volta. Sarà facilissimo, gli dèi sono con noi”.

imagesPochi minuti e il cavallo si ferma, un cigolio inerziale e poi il silenzio assoluto. D’improvviso un gran fracasso – sarà il portellone – una luce accecante, tonfi regolari, calpestio di piedi, brusio indistinto, ancora quella luce, sempre più accecante: ora è il mio turno. Afferro la corda, mi calo agilmente, atterraggio perfetto, sguaino la spada… dove sono i compagni? Dove siamo tutti noi? Sposto la mano a proteggere gli occhi dalla luce e lascio cadere la spada, lo so che è azzardato, ma mi sembra di avere dinanzi una parete immensa, un ostacolo imprevisto. Venere che gioca l’ultima carta? Ma no, la parete è umana, un muro alto quanto il cavallo, con al centro un gran cerchio tutto rosso… una scritta si allunga sulla destra del cerchio: VOI SIETE QUI! Ma qui dove? ATTENZIONE, urlo… il muro si sta spostando, si apre in due metà, lasciando da una parte VOI SIE e dall’altra TE QUI! Dannati Troiani! e mi slancio nella breccia. Ecco le mura dell’alta Troia, ecco i nemici, ecco le donne piangenti, i bambini pronti al sacrificio: questo mi aspetto, questo vedo con gli occhi della mente. Ma quando mai! Una spiaggia, lunga e ampia quanto basta per contenere uomini disarmati affaccendati a smontare pannelli, simulacri di torri e bastioni, gigantografie oscillanti col vento, un andirivieni di strani carri e mostruosi alberi semoventi con braccia enormi. Avessi già incontrato Polifemo, mi rassicurerei: siamo nella terra dei Ciclopi, i mostri con l’occhio accecante, faro penetrante a guisa di fuoco. Ma no, altro che Polifemo e Sirene, certo vedo mare e isole ma assolutamente innocue, vedo solo uomini laboriosi e per nulla simili ai Troiani – se è per questo, neanche a noi Danai e Achei. Uomini con strane bacchettine in bocca che emettono fumo, mani ricoperte di mani supplementari con vello di pecora, bastoni con forme strane e asce che demoliscono i pannelli di legno. Dove sono i compagni? mi chiedo in preda a un terrore crescente. Né avanti né dietro di me. Provo a fermare un uomo laborioso, un carpentiere, appoggiandogli la spada sulla gola. Sembra non fare caso a me, mi rivolge una parola ingarbugliata e barbara “ph-n-k-l-“. Si allontana ripetendo strane formule. Lì, in fondo alla spiaggia, un uomo seduto su un triclinio un po’ strano, rigido, legnoso. Di spalle sembra uno dei nostri, ma forse potrebbe essere uno di loro. Mi avvicino cauto con la spada ancora sguainata. Ma è Priamo, certo, lo riconosco dalle spalle cadenti di vecchio re. Anche lui ha una bacchettina che emette fumo. Si alza e si volta. Mi riconosce, sembra. Certo Elena gli avrà parlato di me, chissà quante volte. Mi ferma con un gesto imperioso, ma allo stesso tempo amichevole. Riesco a capirlo, miracolo! “Amico mio, finalmente! ce ne avete messo di tempo. Quasi quasi dovevamo ricorrere a un’altra troupe. Ma alla fine ce l’abbiamo fatta, la discesa è riuscita benissimo, ripresa perfetta, con tre camere. Tu ti sei un po’ impappinato, ma poi ti sei ripreso, comunque l’aggiusteremo col montaggio. Grande, Ulisse, come sempre!”. E mi lascia lì, con la mia spada sguainata, lo sguardo perso, senza compagni, e soprattutto senza Troia. Mi volto indietro, per recuperare almeno il cavallo. Magari! Smontato, da quei dannati alberi semoventi, pezzo per pezzo. Rimane solo la sedia di Priamo, dannato regista di tutta l’operazione, magari inventore di Sinone, Laocoonte, i serpenti, forse dello stesso cavallo? Allora anche i compagni, IO STESSO? VOI SIETE QUI, leggo in un angolo della piazza, nel pezzo di parete sopravvissuta allo smontaggio minuzioso. QUI, va bene, ma VOI CHI?

les nouveaux réalistes: Maria Luisa Putti

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Blaise Cendrars (1887-1961)
Blaise Cendrars (1887-1961)

 

Ritorno a casa

di

Maria Luisa Putti

 

Il portico sembra lunghissimo per il passo incerto del soldato ferito; il susseguirsi degli archi che, ancora adolescente, si divertiva a contare nelle passeggiate e nei giochi di ragazzo si confonde ora nella memoria con la fila dei commilitoni.

L’uniforme grigioverde lo fa più uomo, ma il sottotenente Alberto Serra, studente dell’Istituto di fisica e matematica, nato a Bologna il 22 settembre del 1897, terzo di tre fratelli sparsi sul fronte tra il Veneto e il Friuli, non ha ancora compiuto i ventuno anni. L’ospedale da campo, quel frammento di pietra che si era staccato da un masso colpito da una granata e che era schizzato a ferirgli il ginocchio come un proiettile, la sua corsa ostinata sotto il fuoco nemico, l’odore dolciastro e ripugnante dei cadaveri in putrefazione, il gioco della dama, gli scacchi, le sigarette fumate nelle trincee per passare il tempo, le scaramanzie e le superstizioni suggerite dal pericolo; l’acqua bevuta nell’elmetto, con i moscerini e i fili di paglia da scostare con le dita. E poi i pidocchi, presi il primo giorno, appena arrivato, nel Genio Zappatori: «Serra, ce li hai i pidocchi?», gli chiese il suo comandante. «Oh, no, signore», rispose il ragazzo inorridito. Allora il maggiore ne trovò un pizzico sotto la sua camicia e glieli diede: «Prendili, qui li abbiamo tutti».

Ricordi affastellati, sovrapposti ai pensieri di ragazzo, ai giochi accantonati, il tiro a segno, il fioretto; i libri di scuola abbandonati sui banchi per andare a fare la guerra. Alberto cammina, ancora, fino al portone di casa, a Verona. La luce del pomeriggio si riflette rossa sulla pietra dei palazzi: batte al portone. Nessuno gli apre. Batte ancora: capisce che nessuno lo aspetta.

 

«Cara mamà, vi scrivo per comunicarvi che verrò a casa per qualche giorno di licenza. Mi dà grande gioia il pensiero di riabbracciarvi.

Il vostro devoto figliolo,

Alberto».

 

Venti giorni: sono passati venti giorni, e la sua lettera non è arrivata.

Alberto è esausto. Per tutto il viaggio non ha fatto che sognare il momento in cui avrebbe varcato la soglia di casa sua, in cui avrebbe sentito il crepitio della fiamma nel camino, l’odore della roba da mangiare preparata dalle mani di sua madre, da quando non avevano più la cuoca. Non ha fatto che sognare di addormentarsi nel suo letto, profumato, soffice, pulito, dopo tante notti passate all’aperto, a dormire seduto, poggiato contro un muro. E poi il viso di sua madre, il suo abbraccio affettuoso, lo sguardo fiero di suo padre e il chiacchierare disteso dopo cena, a ricordare, a raccontare, a leggere libri.

Alberto si astrae con la mente per pochi secondi appena, densi di immagini e di desideri, di ambizioni semplici, ma attese con bramosia e con pazienza insieme, per molti mesi, al fronte.

 

Una finestra si apre al primo piano: si affaccia la cameriera: «Signorino Alberto!».

È sorpresa, quasi non crede ai suoi occhi. Si precipita di sotto per andargli incontro e aprirgli il portone: «La signora è fuori per la funzione, la messa della domenica». Perché, certo, è domenica, e sono le sei del pomeriggio.

Alberto entra nel cortile, sale le scale, raggiunge il salone con il camino acceso. Il suo passo è quello adulto di un soldato stanco, sul pavimento di legno della biblioteca, stanze in cui pare ancora di udire le voci allegre dei ragazzini che tiravano di scherma nei corridoi, divertendosi a trafiggere le pupille della nonna paterna nel quadro che la ritraeva già vecchia: Alberto contro Giovanni, il secondo dei tre fratelli, e poi Giovanni contro Ercole, il più grande, che tutti chiamavano Lino, che era campione di lotta greco-romana, e ad Alberto, più piccolo di lui di dieci anni, sembrava un gigante invincibile. E invece la Grande Guerra lo avrebbe vinto di lì a poco, tenente del Lucca Cavalleria, irrimediabilmente ammalato a causa delle sevizie subite nelle carceri austriache.

Alberto si siede sul divano foderato di velluto blu. La sua mente corre all’alba di venti giorni prima, quando aveva scritto a sua madre per farle sapere del suo arrivo, nella penombra, in uno stanzone pieno di feriti, usando come scrittoio il davanzale di una finestra.

Un giovane soldato ferito gli si avvicinò in silenzio e dopo, sottovoce: «Mi aiutate a scrivere una lettera a casa?». Allungò timidamente una mano per porgergli un foglietto ricavato dividendo in otto parti la pagina di un quaderno e pochi centimetri di lapis.

«Come ti chiami?»

«Paolino, signore».

Alberto non gli chiese più nulla e rimase ad aspettare le parole del ragazzo: «Cara Maria, sono in ospedale, ma sto bene…».

 

Gli occhi di Alberto quasi si chiudono nel ricordo e nel sonno, la testa adagiata all’indietro, i capelli biondi tagliati cortissimi che risplendono sul cobalto della tappezzeria, la gamba allungata ad allentare le bende che gli fasciano il ginocchio sotto l’uniforme. I tratti del suo viso si distendono e le labbra sembrano accennare un sorriso, nel dormiveglia.

A distoglierlo la voce fresca della mamma, un colpo di tosse di suo padre nella stanza d’ingresso.

Alberto si alza dal divano, si accomoda i pantaloni sul ginocchio fasciato, curando che nessuno lo noti; come un soldato sull’attenti si sistema l’uniforme, quasi si stesse preparando alla solennità di un incontro con un generale, o a sfilare in una grande parata, ma non per mostrarsi orgoglioso e fiero, solo da semplice soldato, figlio devoto della sua giovanissima, adorata Italia.

Raggiunge la soglia del salone quando lo sguardo di sua madre si apre in un sorriso pieno e felice, di meraviglia e di gioia.

«Non ti aspettavamo, caro. Vieni qui, lasciati abbracciare».

«Credo di avere ancora i pidocchi, mamà», risponde Alberto con ironia leggera. Ma sua madre gli si avvicina e lo abbraccia ugualmente.

Suo padre, con il sigaro stretto fra le dita, lo guarda, un po’ distante, quasi riconoscesse in quei piccoli gesti tra suo figlio e la madre l’Alberto bambino.

 

Sedersi in poltrona davanti al camino, dopo cena, a chiacchierare, è un rituale che sa di casa, che restituisce intatta l’atmosfera familiare, come se di mezzo non ci fosse la guerra, come se anche Lino e Giovanni fossero con loro e non al fronte, liberi e non prigionieri, a leggere, a scrivere, non a combattere, non a tenere la posizione, non a ubbidire agli ordini dei guardiani in una prigione austriaca.

E in questo stralcio di vita ritagliato all’ombra della guerra, Alberto si apparta con sua madre in biblioteca: «Vi devo parlare, mamà».

«Che cosa vuoi dirmi, figliolo?».

«Voglio chiedervi il permesso di sposarmi».

Questa frase suona insolita alle orecchie della mamma, che fatica a frenare un sorriso: «Chi vorresti sposare?».

«Una ragazza bellissima. È vedova di guerra e ha due bambini stupendi!».

Nella voce di Alberto c’è ancora l’entusiasmo dell’adolescenza, l’incanto trasognato di un ragazzo che nemmeno la trincea ha saputo tradurre in buio cinismo.

La mamma non gli risponde; abbassa lo sguardo, ma in lei si uniscono sentimenti di tenerezza e di preoccupazione: «Non sono cose da decidere così in fretta, mio caro». Prende tempo, cerca un modo per dire a suo figlio che non avrà mai il permesso di sposarsi adesso, non ora, con la guerra ancora aperta, gli studi da completare. E poi in lei il dubbio che questa donna, già grande, possa voler approfittare dell’ingenuità del suo ragazzo. Non gli dice nulla, ma Alberto sa che dovrà lui stesso capire, dai gesti, da piccole cose, se quel matrimonio rispecchia la volontà di sua madre, che ora, alzatasi dalla sedia, gli dà un bacio sulla fronte, come faceva quand’era bambino, gli accarezza il viso, e se ne va nella sua stanza.

«Buonanotte, mamà».

 

Di notte, sotto le coperte, Alberto è agitato; non riesce a dormire. Non è il pensiero della giovane vedova a tenerlo sveglio, e neppure l’ansia di sapere se sua madre gli darà il permesso di sposarla. La ferita al ginocchio, così faticosamente dissimulata per risparmiarsi di dover raccontare troppe cose alla madre apprensiva e al padre, che avrebbe voluto conoscere ogni dettaglio di quella impresa, gli fa ancora male, e la mente di Alberto è tutta riempita proprio dalle immagini di quella volta, quando, con la pistola in pugno, costringeva i suoi soldati a remare, mentre il fuoco nemico sfiorava le loro teste, i loro corpi spaventati. Era sottotenente nel Genio Telegrafisti, allora, Alberto, e stabilire la comunicazione tra una sponda e l’altra del Piave era necessario, indispensabile perché si potessero ricevere e trasmettere gli ordini. Sa che non avrebbe mai sparato a nessuno di loro, eppure non riesce a dimenticare il terrore negli occhi dei suoi ragazzi, tenuti sotto tiro in quel barchino, che risaliva il fiume contro corrente. E poi quel nuotare disperato portando in spalla il telefono da campo, e il ritorno, per stabilire il contatto tra le due rive, mentre sentiva vicinissimo il fischio dei proiettili austriaci, esplosi dalle mitragliatrici, e, ancora, la sensazione acuta della ferita, di quella scheggia partita da un masso colpito da una granata sul greto del fiume.

Solo immagini di guerra riempiono la mente di Alberto nella notte, una notte che gli pare fredda come quella in cui urlando e singhiozzando per l’orrore era riuscito a tirarsi fuori da una fossa piena di cadaveri, soldati austriaci uccisi dai gas asfissianti destinati al nemico italiano, e che il vento invece gli aveva rigirato contro. Irruppe allora in lui, che pure era partito volontario, un senso profondo di ribellione per quelle morti inutili. E ancora orrore e disperazione per i suoi compagni uccisi in un combattimento, pieni di sangue e ammucchiati gli uni sugli altri, indistinguibili, come un cumulo di sacchi accatastati in un deposito.

 

 

 

Al mattino Alberto non si rende conto di essere a casa.

Resta seduto sul letto per alcuni minuti; respira profondamente, si rimette in piedi, quasi a volersi ricomporre, a recuperare la lucidità dell’adulto, del soldato responsabile e ubbidiente. I pensieri della notte sono ricacciati nelle retrovie delle battaglie concluse, delle trincee abbandonate.

Sulla poltroncina Luigi XVI ai piedi del letto, una vestaglia di cachemire bordò che la mamma gli aveva regalato per Natale alcuni anni prima. Immagina l’espressione dolce e affettuosa del suo viso, nell’incarnato di neve, mentre posa la vestaglia sulla sedia guardando Alberto dormire.

Scende in camera da pranzo, per la colazione. Cerca sua madre per casa, cerca la sua risposta per capire se potrà sposare la sua bellissima vedova.

Poi, sul carrello accanto alla tavola apparecchiata, rivede, dopo tanti anni, il panierino che la mamma gli preparava quand’era bambino. Lo apre e dentro c’è la torta di mele che Alberto amava portare a scuola, un paio di frittelle con lo zucchero a velo e un biglietto:

 

«Ti voglio bene, piccolo mio.

Un bacio,

mamà»

 

https://www.youtube.com/watch?v=mfDZI6eKv2I

lo scholapost : il lato B delle cose

2

scolapasta

di

Francesco Forlani

Lo scorso Aprile il mondo della scuola è stato scosso da una triste vicenda relativa al romanzo Sei come sei, di Melania Mazzucco, adottato in due quinte ginnasio del Liceo Giulio Cesare di Roma. Dall’articolo pubblicato sulla Stampa raccogliamo in un passaggio la pietra dello scandalo: «Quel libro rivela un chiaro contenuto pornografico – accusa il presidente di Giuristi per la vita, Gianfranco Amato -. E tra l’altro è tutto fortemente ideologico, perché oltre alla relazione tra i due gay c’è anche la vicenda della fecondazione assistita grazie a un utero in affitto. Questa non è la normalità e la scuola non può assolutamente sostituirsi alle famiglie nell’educazione dei ragazzi».
Ho raccolto la pietra da terra e rigirandomela tra le mani ho tentato di dare delle risposte alle domande che man mano mi si paravano davanti. Innanzitutto perché questa vicenda mi aveva interessato al punto da scriverne oggi a mesi di distanza dall’accaduto ma soprattutto in quale ruolo, quello di professore in un liceo o di autore di libri? Ho pensato immediatamente, entrambi, e andando avanti con il ragionamento mi sono reso conto che le due problematiche, quella del potere insegnare senza censura ogni cosa possa servire alla crescita di uno studente, e l’altra, di poter scrivere di tutto a condizione che ogni cosa trovi un posto preciso nella narrazione, in realtà fossero le due facce sporche della stessa medaglia. La questione che poteva valere per l’uno quanto per l’altro rimaneva la seguente: la scuola e la letteratura devono confortare un’idea del migliore dei mondi possibili o piuttosto contribuire a formare la migliore visione del mondo possibile?

Politically correct

“Se ti cambiano il nome è per dimenticare che

qualcosa non funziona nella cosa stessa”

Umberto Eco, Pistola dell’ostrega

articolo pubblcato sull’Espresso dell’1 luglio 2004

La parola Politically correct, in questi dieci anni, si è via via trasformata in un’altra, buonista essi dicono, ma credo che il termine pensiero unico possa farci capire meglio e con più grande efficacia il sistema di pensiero che non vuole pensieri in cui un po’ alla volta si sono volute incasellare visioni del mondo ma soprattutto i mondi, le vite, in principio inclassificabili o quanto meno riconducibili ad un solo orizzonte di senso. Di corretto, in Italia, probabilmente esiste solo il caffé, non sempre facendo ricorso agli stessi correttivi, mentre la politica, totalmente assoggettata al tema della legalità, ai suoi correttivi, sembra avere dimissionato dal ruolo di sua più autentica interprete; se il politically correct appiattisce dunque ogni battaglia politica sulla questione della correttezza delle parole, quasi a prescindere da quella delle cose, il pensiero unico, da parte sua, neutralizza, o vorrebbe disinnescare, ogni possibile complessità delle idee snaturandone alcuni principi di base come ad esempio le dinamiche di dialogo e di conflitto. Ecco che in tale schizofrenia o divaricazione tra linguaggio e realtà, il pensiero autentico si determina come una ferita che sanguina, un pensiero che vuole pensieri ovvero quello che in economia il pensiero unico e, in società, il politically correct non vogliono assolutamente.

da Les beaux draps (1941) trad. Giovanni Raboni e Daniele Gorret, in Mea Culpa. La bella rogna, Milano, Ugo Guanda, Milano 1982, 201 p. [coll. Biblioteca della Fenice, 44]
da Les beaux draps (1941) di 
di Louis-Ferdinand Céline trad. Giovanni Raboni e Daniele Gorret, in Mea Culpa. La bella rogna, Milano, Ugo Guanda, Milano 1982, 201 p. [coll. Biblioteca della Fenice, 44]


A proposito del pensiero unico vale  allora la pena ripercorrere la sua genealogia. e più particolarmente il testo fondativo di Ignacio Ramonet pubblicato nel gennaio del 1995 in un editoriale di Le Monde Diplomatique, soprattutto attraverso due passaggi. Il primo, in apertura, spesso citato che dice:

“Che cos’è il pensiero unico? E’ la trasposizione in termini ideologici, che si pretendono universali, degli interessi di un insieme di forze economiche, e specificamente di quelle del capitale internazionale.”

e quello finale:

“La ripetizione incessante di questo catechismo attraverso tutti i media e da parte di quasi tutti gli uomini politici di destra e di sinistra gli conferisce una tale forza di intimidazione da soffocare qualsiasi tentativo di riflessione libera, e rende assai difficile la resistenza contro questo nuovo oscurantismo.
Si è quasi portati a pensare che i 17,4 milioni di disoccupati europei, il disastro urbano, la precarizzazione generale, la corruzione, la tensione nelle periferie delle città, il saccheggio ecologico, il ritorno dei razzismi, degli integralismi e degli estremismi religiosi, la marea degli esclusi non siano altro che miraggi, colpevoli allucinazioni in grave discordanza con questo migliore dei mondi, edificato dal pensiero unico per le nostre coscienze anestetizzate.”

Sono passati vent’anni e la situazione  economica sembra a conti fatti ancora più deteriorata rispetto a quanto annunciato dall’editorialista. Su quella sociale e culturale varrebbe allora la pena riflettere tornando al punto da cui siamo partiti.

La Repubblica di Salòt e i banchi di scuola

Del Radical Kitsch ho scritto a più riprese quest’anno contemplando e analizzando una serie di opere letterarie, artistiche e cinematografiche, manifestazioni allineate e coperte dal sistema “cultura” partorito durante un’orgia neoliberal  dall’accoppiamento selvaggio e da larghe intese  della peggiore sinistra che l’Italia abbia avuto dal dopoguerra ad oggi  con la più moderna destra, animata nelle faccende culturali, per lo più, da gente dell’ex sinistra.

Una macchina quasi perfetta se non fosse che basandosi tale politica culturale su alleanze e cordate a brevissimo termine può capitare che la stessa si inceppi, che la propaganda culturale incespichi sul maledetto sassolino lasciato inavvertitamente in giro, su un “perturbante” difficilmente digeribile per quanto slow food, e nonostante la scritta chilometro zero ben segnata sulla confezione. Ecco allora che non Nabokov o Sade, Henry Miller o Boccaccio abbiano scosso il granitico edificio morale del Gran Consiglio dei Genitori Italiani, ma Melania Mazzucco, la quale, poveretta, ha dovuto addirittura invocare ” la libertà di opinione” o qualcosa di simile.

Non entro nel merito della qualità del libro perché non è il tema di questo articolo anche se una riflessione sull’utilità della letteratura italiana contemporanea nelle scuole andrebbe fatta; la questione è che il radical kitsch deve la sua forza alla natura profondamente consensuale del proprio discorso e questo può avvenire soltanto quando le grandi tribune, essenzialmente media e scuola, ritengono il messaggio, ogni tipo di messaggio, innocuo. Di tale readersdigestizzazione delle idee, Pierre Bourdieu ne aveva ben descritto la mattanza,  in un magnifico articolo, La parole du cheminot,  uscito subito dopo gli attentati del 1995 a Parigi. Un conduttore di Metro, interpellato da un giornalista sugli attentati islamisti e sui suoi autori, fatti in cui era rimasto direttamente coinvolto, aveva semplicemente  risposto : « des gens comme nous ».

Questa semplice parola  racchiudeva, per esempio, un’ esortazione a combattere risolutamente tutti coloro che, nel loro desiderio di scorciatoie e semplificazioni, mutilano una realtà storica ambigua, per ridurla alle dicotomie rassicuranti del pensiero manicheo che la televisione, incline a confondere un dialogo razionale con un incontro di catch, ha istituito come modello”

Berlinguer nelle scuole? Va benissimo, a patto che non sia comunista. Testi di canzoni di De André e Vasco Rossi invece di Pascoli e Carducci, ben vengano a condizione che dell’uno si prenda tutto tranne l’anarchico e dell’altro ogni parola ma senza un grammo di hashish. La repubblica di Salòt del resto ha fondato tutta la propria retorica di finta libertà su questo tipo di censura strategica: Louis-Ferdinand Céline sì ma non quello di Bagatelles pour un massacre, compartimentazione stagna questa che una recente e coraggiosa critica in Francia, su tutte  quelle di Philippe Muray e Julia Kristeva, ha sconfessato dimostrando, testi alla mano, continuità e non separazione tra romanzi e pamphlet.

Quello che però la Mazzucco non ha voluto capire è che  in Italia sfruttare un essere umano non è tabù, creare diseguaglianza non è tabù, fare soldi a palate figuriamoci, mangiare male, studiare male, vivere male, rubare, men che meno; l’unico tabù rimasto, soprattutto nella scuola italiana, è la sessualità e dunque, pur amata armata di buoni propositi, indenne non avrebbe mai potuto attraversare il fuoco di fila delle pubbliche virtù italiane. E già, perché come per tutti i tabù che si rispettino, l’importante non è farlo o non farlo ma soprattutto che il fatto ( ‘o fatto) non si sappia. Da questo punto di vista non esiste nessuna differenza tra etero e omo, a rose is a rose,  un cazzo un cazzo, anche se lo chiami uccello, pisello, pesce, titìn, mazza, pene, minchia,sesso maschile, coso …

Per chiunque insegni in un liceo credo sia abbastanza frequente l’esperienza di imbarazzate reazioni in classe alla parola sessualità, di professori, studenti e poco importa se la si stia usando per spiegare loro una funzione biologica o le topiche, pardon, freudiane. Quando spiego ai miei ragazzi il ruolo dell’inconscio nella psicoanalisi e il suo funzionamento nei comuni fatti di vita quotidiana, al primo sorriso un po’ allusivo, da barzelletta sporca per intenderci, interrompo la lezione e chiedo loro di alzarsi,  prendere le sedie su cui passano una gran parte della loro scolarizzazione e gli chiedo di dirmi a voce alta cosa c’è scritto sullo schienale – quando ancora la parola resiste alla miriade di segni e disegni poco allegorici, non sempre allegri, sicuramente vivaci.” Ecco,” aggiungo, “siete seduti sul vostro inconscio”. Come se dalle segrete dei bagni quell’invincibile esercito di cazzi, cazzilli, fiche, fichette, durante l’ora di ricreazione si fosse evaso a cercare riparo lontano dallo sguardo censorio dei professori.  Il professore non vede, o fa finta di non vedere; gli studenti idem; i genitori degli studenti idem con patate, pardon. Così penso che la battaglia contro il politically correct, che assolve essenzialmente il ruolo di arbitro nelle questioni morali,  possa servire a smascherare  quella grande invenzione dell’economia globale, chiamata pensiero unico; visti i chiari di luna del momento, sicuri che nessuno pagherà perché sia data una botta di bianco alle sedie, tanto vale tenercele così come sono e sei, e sventolarle ai quattro venti, per una botta di vita.

da Les beaux draps (1941) trad. Giovanni Raboni e Daniele Gorret, in Mea Culpa. La bella rogna, Milano, Ugo Guanda, Milano 1982, 201 p. [coll. Biblioteca della Fenice, 44]
da Les beaux draps (1941) di
di Louis-Ferdinand Céline trad. Giovanni Raboni e Daniele Gorret, in Mea Culpa. La bella rogna, Milano, Ugo Guanda, Milano 1982, 201 p. [coll. Biblioteca della Fenice, 44]

 

 

L’importanza di essere piccoli 2014 – IV edizione

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locandina l'importanza di essere piccoli

 io amo più forse,

le colline e le fresche brezze e le verdescuro

pinete, che i giganti passi dell’uomo 

a. rosselli

L’IMPORTANZA DI ESSERE PICCOLI – IV edizione
poesia e musica nei borghi dell’Appennino tosco-emiliano

dal 5 al 9 agosto 2014

POETI E MUSICISTI  SI INCONTRANO NELLE VALLI E NEI BORGHI DELL’APPENNINO TOSCO EMILIANO
con
FABIO PUSTERLA, MARIO BENEDETTI, RICCARDO SINIGALLIA, PEPPE VOLTARELLI, DAVIDE TOFFOLO e molti altri

Unità brand new

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di Chiara Valerio
unita-logo

Sono una persona piuttosto frivola. Me ne accorgo, per esempio, quando valuto la possibilità che l’Unità, il giornale dove scrivo dal 2008, il primo col quale ho intrapreso una – questa – lunga e allegra collaborazione, possa chiudere. Sono una persona frivola perché non penso, prima di tutto, all’eredità storica, politica e umana che andrebbe perduta, se non dispersa, alla chiusura de l’Unità, non penso, prima di tutto, ai giornalisti e ai collaboratori che dovranno essere ricollocati – loro e le loro famiglie, – non penso neppure alla sede di via Ostiense, dove pare che uno assembli un giornale guardando una Roma che è immagine di un futuro passato. No, quando visualizzo la possibile chiusura de l’Unità, mi ritrovo – in jeans e camicia, una mise ormai renziana – davanti a un’edicola, una qualsiasi, e mentre guardo i giornali, mi rendo conto che la testata dell’Unità non c’è più. Che quel marchio, quell’icona pop, non appartiene più all’orizzonte degli scaffali. Se la questione fosse smettere o non smettere di produrre la Coca-cola, rinunciare definitivamente non a certi modelli ma a tutta la linea di jeans Levis, se la V di Valentino diventasse W per un passaggio di proprietà, io sono certa che le prime trattative, economiche, industriali, estetiche sarebbero per il marchio. Per quella virgola rossa, tra una “l” minuscola e una “U” maiuscola, per il font, per il nero dei caratteri e il rosso del fondo.
A chi appartiene il marchio de l’Unità? Ai giornalisti, al direttore, ai collaboratori, all’editore, ad Antonio Gramsci, di chi è, chi può venderlo? Sono così frivola, sono tanto cresciuta negli anni ottanta, che penso che la sola vendita, o l’affitto, del marchio l’Unità possa regalare al giornale una nuova vita.
Mi rendo conto, oltre che della frivolezza, pure dell’egoismo della proposta, visto che scrivo su questo giornale, ma tant’è…
Il punto è che quando ho cominciato a scrivere su l’Unità, immediatamente, ho avuto spazi e fiducia e possibilità di proporre e inventare. Il punto è che scrivere su l’Unità è stato, e continua a essere, un esercizio per ricordarsi, un giorno alla volta, una riga dopo l’altra, che fare cultura significa discutere, significa trasformare tutte le polemiche in dialettica, significa uscire fuori da un sistema nel quale i “no” non sono accettati e i “sì” si pagano (come bene ha osservato Giorgio Vasta in una discussione sul futuro prossimo del mercato editoriale). Se è vero che la parola Unità non è nata per essere riprodotta sulle magliette, o sulle bottiglie di bibite gasate, o sul retro di un pantalone, è vero altrettanto che il mercato – come per la Coca-cola, o i Levi’s, o la V di Valentino – sarebbe in grado di attribuire un valore al simbolo, un valore economico certo, e di trasformare questo valore economico in una possibilità di futuro e di dialettica per la testata.
Se per tornare a parlare di significato o valore simbolico, di immaginario addirittura, se per restituire alle parole la loro natura di formula magica, non c’è rimasto che appellarci al mercato, alla pubblicità e al brand, allora assumiamoci almeno dichiariamolo a viso aperto.
Sorridenti diciamo a noi e ai lettori che il PD è meno fantasioso del mercato, che un passato intatto (magari) è preferibile a un futuro, forse molto diverso, ma possibile.
La scorsa settimana un uomo, un signore molto distinto, che si chiama Silvio e che lavora come giardiniere mi ha detto che ci sono due modi per ricordare le persone e le cose passate. Il primo è ordinare messe in suffragio, il secondo è far lavorare i vivi, lui preferiva far lavorare i vivi. Ecco, io penso che mettere all’asta il marchio – il disegno, il logo, la testata – de l’Unità, come se fosse un manoscritto di Leopardi o di Manganelli, sia una maniera per ringraziare un pezzo di storia politica e culturale italiana. Io, per come stanno andando le discussioni, sono per il merchandising.

les nouveaux réalistes: Barbara Uccelli

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La ragazza del treno

di

Barbara Uccelli

 

Due punte bianche su sfondo nero. Oggi le sue scarpe sono riconoscibili. E piove: inadatte, estive. Dalle scarpe che una persona indossa se ne capisce l’umore. Lei oggi voleva il sole e non ha creduto al luccichio sulla strada, all’acqua residua nelle fessure dell’asfalto. Nemmeno agli ombrelli aperti. La banchina del resto oscura il cielo e una volta lì sotto si può anche far finta di.

Siamo stretti su questo lungo marciapiede, sembra che arriviamo sempre tutti insieme da est, da ovest, e prendiamo posto come gli uccelli sul filo, pronti per la migrazione. Immobili, fissi, sguardo avanti. Ogni tanto un’occhiata fugace a destra per vedere il compagno di viaggio. Capire se potremo fidarci oppure dovremo stargli alla larga.

Così tutti i giorni si forma questo stormo migratore, ordinato e in attesa su una linea immaginaria che scorre parallela ai binari.

Ehi, ciao come stai? Oggi ti senti ribelle, vuoi sfidare le intemperie e credere a tutti i costi che l’estate sia arrivata. Ti ammiro, coraggiosa, io non potrei pensare di restare con i piedi zuppi per un giorno intero. Lo so che anche se piove fa caldo, ma il senso di umido alle estremità mi tormenterebbe da sotto la scrivania e finirei per non combinare nulla in ufficio. E poi chissà. Forse volgerà al bello, forse le nuvole si apriranno e il sole di giugno ci riporterà alla giusta stagione e allora tu avrai avuto ragione. E camminerai per strada fiera della tua scelta iniziale. E io sarò felice, per te, per me..

Avrei voluto dirle tutte queste parole, in quest’ordine o anche in uno inverso. E avrei voluto usarne molte, per una questione matematica, per il tempo necessario a pronunciarle, con le rispettive pause. Non immaginavo anche una risposta, ma sarebbe stata a sentire, in silenzio, immobile. Guardandomi negli occhi e finalmente ne avrei scoperto il colore, la sfumatura vera, che immagino nera piuma di corvo.

Ma lei è arrivata al solito un po’ in ritardo, un po’ in sordina, e non ha fatto passi verso il bordo, come se non aspettasse davvero il treno, ma fosse lì a osservare noi pronti a partire. Come se fosse venuta solo per salutare qualcuno e poi tornarsene a casa.

È così il lunedì, il martedì, il mercoledì, il giovedì no. Il venerdì sì. Tranne quando è malata o quando lo sono io, la vedo quattro mattine a settimana e non le parlo mai.

Sai noi ci conosciamo da parecchio, siamo compagni di viaggio. Che detta così sembra tanta roba e forse in un certo senso lo è. Volevo invitarti a prendere un caffè, anche se non so dove scendi, anche se non so dove il tuo viaggio finisce, se prima o dopo il mio. Ma potremmo fermarci insieme, in una stazione intermedia e ordinare un caffè in un bar che ha il dehor perché sento che ti piace stare fuori, anche se fa freddo. E così mentre vado al lavoro occupo con gli occhi i tavoli adatti, di tutti i caffè che incontro e ci sediamo su sedie di vimini e sul rigido ferro battuto ingentilito da cuscini a righe. Non so se ne vuoi uno macchiato o lungo, se lo riempirai di zucchero o ciondolerai con il cucchiaino senza mescolare alcunché, così a ogni caffè immagino qualcosa che potrebbe stare bene tra le tue mani.

Ancora una volta passo del tempo a mettere in fila parole per lei. E lo faccio in questo viaggio che percorriamo insieme anche se non la vedo nè salire nè scendere, ma penso che fuori il paesaggio scorre per entrambi alla stessa velocità e con gli stessi colori. Mi piace condividere il tempo e lo spazio, sento che parlare con lei anche solo nella mia mente sia un moto a luogo e mi porta comunque lontano.

Stamattina ero in ritardo, così dal parcheggio alla banchina ti ho preso per mano e abbiamo corso. In mezzo alla folla, come sciatori provetti o come fantasmi, scansavamo le sagome di gente regolare che teneva un ritmo monotono e prevedibile. La tua mano era liscia e fresca e avevo paura di perderla per strada, così l’ho stretta più forte e guidavo sicuro come a vedere i buchi che potevamo occupare tra una persona e l’altra senza andare a sbattere e passare entrambi, come fossimo uno solo. Stamattina mi hai parlato: sembriamo due adolescenti, hai detto e poi hai riso, leggera come una sedicenne che scappa al mare mentre tutti riposano in un pomeriggio agostano. Stamattina ti ho presa per mano e ti ho portata fino al binario, fino alla carrozza, e ho aspettato che mi guardassi salire e che mi salutassi con parole mute dietro un vetro sporco di pioggia seccata. Le tue labbra si muovevano lente, a scandire le sillabe. Ne ho capito ogni lettera, perché il tempo   ha rallentato e il treno è andato indietro e io mi sono perso. Una manciata di secondi sospesi, come se le parole per staccarsi dalla tua bocca e raggiungere i miei occhi, attraversassero uno spazio atemporale. E mentre io solo partivo, ho capito che tu eri la ragazza del treno, quella che arriva al binario e si assicura che non resti più nessuno a terra. Lei sola aspetta immobile che il treno si allontani. Lei sola che saluta. Ho pensato che venissi tutti i giorni per me, per augurarmi buon viaggio e farmi capire che la stazione di partenza è quella giusta, che il treno è quello giusto, che il tragitto, anche se sempre uguale, può essere diverso. Così mi sono andato a sedere, con la tua mano ancora nella mia, e ci ho appoggiato il viso dentro per annusarti e conservare. Quando mi sono svegliato ia distanza era trascorsa per metà e ho pensato che tu sei la ragazza del treno e che aspetti di vedermi partire, ma che non ci sei mai all’arrivo, come se l’importante non fosse la destinazione ma il viaggio.

La stagione delle rivolte a Sud

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11-27-12-tahrir-square Il ciclo della primavera araba: nascita, morte e oblio mediatico

di Lorenzo Declich

Siamo nel 2010. Conosciamo le “masse arabe” per due motivi. Il primo: protestano quando appare qualche cosa che offende l’Islam. Il secondo: protestano quando Israele massacra i Palestinesi. I tiranni, nel primo caso, prendono i manifestanti a fucilate. Il loro ruolo, accettato e benvoluto, è tenere a bada l’anima nera dell’estremismo islamico: fanno bene a reprimere, anche se tutti sappiamo che in fondo si giovano di questa loro posizione di “garanti della sicurezza”. Se non ci fossero loro chissà cosa succederebbe, laggiù. Nel secondo caso i tiranni lasciano fare: per ragioni interne una superficialissima “solidarietà panaraba” è salutare. Le manifestazioni di odio verso Israele hanno l’utile doppia funzione di presentare i regimi come garanti di una certa libertà di espressione e, contemporaneamente, di incanalare la rabbia di chi manifesta verso un nemico esterno (e imbattibile). In Siria, dove l’apparato di sicurezza è sofisticatissimo, le manifestazioni pro-Palestina servono anche a individuare eventuali teste calde. I primi a essere prelevati dalle loro case e portati nelle infami carceri degli Asad, all’alba della rivolta siriana del 2011, sono proprio quegli universitari che negli anni precedenti avevano organizzato le manifestazioni di solidarietà con i Palestinesi e, a bassa voce, avevano preso di mira anche Bashar al-Asad, reo di non far nulla, ma proprio nulla contro Israele.

I fiori eleganti del Santo Genet

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di Igiaba Scego

Santo Genet, ultima fatica della Compagnia della Fortezza di Volterra, tra i colori e i costumi psichedelici di Emanuela Dall’Aglio.

 

Foto di STEFANO VAJA
Foto di STEFANO VAJA

Fiori, ci sono fiori dappertutto.

Fiori tra i capelli, fiori che adornano giacche ipercolorate, fiori che come rampicanti montano su visi traslucidi. Armando Punzo, mente e cuore della compagnia della Fortezza di Volterra, è attorniato da fiori, quasi circondato. Nello spettacolo Santo Genet i fiori sono minacciosi, sono come pistole puntate che fanno sussultare di piacere i nostri petti sordi. Minacciano il nostro equilibrio, il nostro perbenismo, la nostra morale. Fiori maledetti, tragici che ci spingono a cercare in noi una qualche tenerezza che abbiamo dimenticato di possedere. In questo Armando Punzo segue fedelmente il verbo di Jean Genet che vede un filo rosso legare i fiori al carcere. D’altronde nel celebre incipit di Diario di un ladro l’autore multiforme francese dirà esplicitando la sua visione: “Ch’io abbia da raffigurare un forzato – o un criminale, – sempre lo coprirò di tanti e tanti fiori ch’esso, scomparendovi sotto, ne diventerà un altro gigantesco, nuovo”.

Ed ecco che l’intera fortezza medicea si trasforma sotto ai nostri occhi in una serra. Non solo i detenuti-attori guidati da Armando Punzo si trasformano in rose, tulipani, anemoni, ma l’intero impianto carcerario diventa una foresta colorata ed anarchica. Il bianco cangiante della scenografia esterna raffigurante un cimitero lisergico e gli specchi moltiplicatori dell’interno hanno la funzione di dare luce a qualcosa che spesso la società nasconde. Ed ecco che gli attori-fiori di Punzo danno vita ai mille personaggi di Genet – Santo Genet come lo aveva ribatezzato Sartre- nel segno del colore e della passione.

Passione d’amore, ma anche passione di dolore.

In Genet c’è parecchia sofferenza. Punzo e i suoi attori lo sanno e ci fanno i conti. Cercano con la loro carnalità, i loro vissuti, di colmare i vuoti d’amore di un autore francese nato senza padre e abbandonato presto dalla madre. Quei vuoti sono i loro vuoti, ma sono anche i nostri. Il vuoto di un mondo moderno che ha perso ogni grammatica sentimentale che possedeva. Il tentativo di Armando Punzo, e della sua compagnia, è di fatto quello di ricreare l’ossatura di quella grammatica antica. Ed è in questo che i personaggi di Genet sono ponti indispensabili per arrivare al nostro essere più profondo. Divine Culafroy di Notre Dame de Fleurs o George Querelle del celebre Querelle de Brest sono solo pretesti per parlare di noi. Ed ecco che il cuore quasi si ferma all’apparire delle quattro vedovelle transessuali, castigatissime nei loro abiti neri e le loro violette di plastica. Camminano a passettini, geishe improvvisate, che sembrano dirigersi verso il nostro funerale.

Il pubblico è parte di questa serra. Vorrebbe essere altrove a tratti, perché i sentimenti, gli sguardi penetranti, quel contatto di respiri e avambracci crea disagio. C’è folla, c’è claustrofobia. Ma quel colore ci avvinghia, ci costringe a vagare per celle, a cogliere brani quà e là, alla rinfusa. Giriamo come automi in quella fortezza estranea,in quel carcere così alieno alle nostre esperienze quotidiane. Sudiamo, cerchiamo di capire, non capiamo. Del resto lo straniamento era cominciato prima dello spettacolo stesso con i controlli della polizia per entrare nel carcere, con quella disconessione con la tecnologia a cui non siamo più abituati. Per questo siamo inondati da sensazioni strane, qualcuno per la prima volta fa la conoscenza con se stesso. I tablet, gli smartphone, i computer sono banditi e noi in un certo senso liberati o a seconda del sentimento totalmente persi. Il pubblico confuso è tutto sommato felice (o disperato a seconda del caso) di questa sua nuova condizione. Le persone si beano, si compiacciono di questo essere nuovo che si porteranno addosso per poche ore. Alcuni visi del pubblico rasentano l’estasi, altri invece non si lasciano andare, ancorati alle loro piccole inutili certezze, fanno fatica a vivere nello spazio esistenzialista di Santo Genet. I loro visi contratti ed austeri si piegano in smorfie abominevoli. Il sentimento regna, buono o cattivo che sia, regna. Ci passano accanto generali, prelati, San sebastiani, marinai, prostitute, guappi. Gesti rallentati, sorrisi accennati. Mi chiedo- così all’improvviso- chi guarda chi? Chi è veramente in scena? Il pubblico o gli attori? Armando Punzo ha creato di fatto una doppia rappresentazione, un teatro che ti cade letteralmente addosso.

Ed è in questo progetto di teatro totale che i costumi assumono un ruolo centrale.

Emanuela Dall’Aglio, parmigiana, più che la costumista di Santo Genet è quasi il Michelangelo dello spettacolo. Il suo è un processo creativo che mi affascina. Dopotutto i miei antenati, i miei genitori, sono somali e la Somalia (nonostante la guerra che sta andando al galoppo verso il venticinquesimo anno di conflitto) è ancora la patria del barocco, dell’esagerato, della carne viva che si fa colore. Non potevo io non essere colpita dal suo lavoro.

In lei si percepisce una conoscenza meticcia, che l’ha portata a mischiare lo studio attento e meticoloso (istituto dell’arte e accademia di pittura di Brera) con una formazione sul campo che prima di approdare al costume è passato per un lavoro come decoratrice e realizzatrice di fondali.

Il costume diventa non a caso scultura, impalcatura, dove si crea la relazione tra il corpo dell’attore e il suo lavoro. Emanuela è attirata dal costume che trasforma chi lo indossa anche se è scomodo da portare, D’altronde su questo con Armando Punzo c’è piena concordia. È lui a dire ai suoi attori “usa la scomodità per trovare un nuovo modo per stare in piedi”. L’impalcatura di Emanuela Dall’Aglio, quasi come una corazza, condiziona il movimento, condiziona l’essere, impedisce di abbandonarsi alle solite posture.

Ma è anche una corazza da interporre tra sé e il mondo. Permette la libertà, il celarsi, l’atto performativo. Il costume più è scomodo, più è fantascientifico, più rende il corpo libero di giocare con se stesso, le parole e il mondo.

Ed ecco che le giacche si riempiono di piume e i pantaloni di gomma lattice. È il trionfo del leopardato, dei tessuti damascati, degli ori e degli immancabili fiori.

I più timidi si sentono protetti da questi costumi e i loro sguardi si fanno più coraggiosi, a tratti sfacciati.

D’altronde lo stesso Genet diceva che l’eleganza era “Trovare un accordo fra cose di cattivo gusto”. Ed Emanuela Dall’Aglio segue queste parole come una Bibbia, le fa proprie. Nelle sue sculture di tessuto c’è tutta la storia dell’arte dei suoi primi studi. C’è di fatto qualcosa di Pontormo a tratti, almeno così mi par di percepire a pelle. In verità potrebbe anche esserci Leonardo, Rosso Fiorentino, Tiepolo, Parmigianino. Io non lo so. Ma percepisco che la storia dell’arte, quel Rinascimento e quel Barocco, fa parte della sua esperienza visiva come studiosa in primis e poi come costumista. Ma – è bene sottolinearlo questo- per sua stessa ammissione Emanuela Dall’Aglio sa che ad influenzarla di più è l’arte contemporanea e nemmeno disdegna le sfilate di moda. Per preparare Santo Genet infatti si è imbevuta di installazioni, performance, defilé. Stimoli multiformi che le hanno permesso di creare qualcosa che prima non c’era. Ed ecco che lo stile eclettico di uno stilista come Galliano si sposa con l’immaginario omoerotico di Moschino. E per andare verso l’arte contemporanea, Emanuela Dall’Aglio, sa di essersi abbeverata alla fonte caotica di David LaChapelle e all’iconografia mitica di Pierre et Gilles. In Emanuela Dall’Aglio, non a caso, il costume si fa buffo, fantastico, onirico, sprezzante.

Per fare gli abiti è stata aiutata da alcuni attori della fortezza che avevano una certa dimestichezza con il mestiere e le macchine da cucire. Il lavoro poi si è fatto tutto con materiali poveri, reinventati, rattoppati. Molte tende sfrangiate, molti tessuti damascati sono stati riciclati da vecchi film di Cinecittà. Inoltre anche l’attore ha partecipato con i suoi accessori a questa costruzione barocca di sé. Ed ecco che una collanina, un tatuaggio mostrato, un paio di occhiali da sole rendono il tutto più plausibile nella sua eccentricità. Il risultato è ricco, sontuoso. Ma è una ricchezza effimera. Lo si nota dal gioco tra magnificenza e povertà che emerge nella figura del Papa. Una mitra gigantesca sfiora il soffitto ed ori spuntano da ogni lato per soggiogare chi osserva. Ma la stoffa, l’abito è solo davanti. Dietro non c’è nulla, un vuoto che è spesso metafora di una vita fatta di apparenze.

Gli abiti scultura giocano sulla loro pretesa di essere importanti. Il generale nero ne è un esempio preciso. La divisa incute timore, come del resto il copricapo alla Bonaparte che indossa mette di fatto distanza. Ma, come fa notare Emanuela Dall’Aglio, il militare è un bluff. I suoi gradi sono di pietre comprate a due soldi in qualche emporio cinese se non addirittura bottoni a buon mercato di merceria. C’è un’attenzione al dettaglio nel senso del vestire di Emanuela Dall’Aglio . Gli ombrellini delle vedove, il laccio nero al braccio del marinaio, i veli fiabeschi delle donne, i guanti da cucina della serva sontuosamente vestita.

Il corpo dell’attore diventa una pagina bianca dove disegnare ossessioni, paure e far fiorire invece speranza. Emanuela Dall’Aglio tenta, sperimenta e la sua non è mai una imposizione, ma un dialogo che rende l’attore partecipe come non mai al suo presente.

Tutti quei colori stordiscono.

Sono stordita.

Finisce lo spettacolo in una epifania che non si coglie fino in fondo. Non è uno spettacolo frontale del resto. Capire non è importante. Santo Genet lo sentiamo, lo viviamo, ci cade addosso come detto in precedenza.

Mentre mi avvio lentamente verso l’uscita del carcere mi chiedo se quell’eleganza barocca, profondamente dissonante, sarebbe piaciuta a Jean Genet. Se su quella barca-serra ambigua e struggente, in cui è stata trasformata la fortezza di Volterra, ci si sarebbe imbarcato volentieri pure lui. Non ho naturalmente la risposta di Genet, dovremmo andarlo a trovare nella sua solitaria e poverissima tomba di Larrache (cittadina a sud di Tangeri) per saperlo. Ma una cosa la so, qualcosa che posso dire senza titubanze, ovvero che la compagnia della fortezza riempie i nostri occhi di spettatori di una magnificenza onirica che ci lascia senza fiato. E senza fiato ci lasciamo attravesare da una bellezza che ferisce.

les nouveaux réalistes: David Shields

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Reality hunger

[Dissolviamo i generi; riformuliamo il diritto di autore.]

di

Lisa Orlando

Una delle opere più importanti di teoria letteraria pubblicata negli ultimi anni è Reality Hunger, dello scrittore e saggista statunitense David Shields (in Italia pubblicato da Fazi con il titolo Fame di realtà).

E’ un’opera assolutamente straordinaria, poiché oltre a essere un quadro (perfetto) dello status quo narrativo, è una dichiarazione poetica nella quale si prospetta ciò che sarà (o racchiude l’essenza di ciò che si vorrebbe diventasse) la letteratura futura. Shields, infatti, audacemente ridisegna i confini per una nuova forma di letteratura capace di annullare i generi, e ristabilire il rapporto tra fiction e non fiction.

Oltre a ritenere atrofizzato (e miseramente soffocante) il romanzo quale costruzione di una storia fatta di mera immaginazione, e di una serie ordinata di fatti: la trama – ormai da seppellire definitivamente sotto una pietra tombale? –; Shields si interroga su come realtà e finzione debbano confrontarsi sul terreno della pagina. La realtà, come una creatura di fiamma, irrompe nella scena letteraria, travolgendo (fino a incenerire) la distinzione tra verità e immaginazione. “Fiction e non-fiction non esistono più: esiste solo la narrativa”, sostiene Shields, “o forse non esiste nemmeno questa?”.

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Una citazione rilevante, e che riassume efficacemente il pensiero di Shields, posta (intenzionalmente credo) al centro del saggio, è questa: “Amo la letteratura”, afferma l’autore, “ma non perché ami le storie in sé. Trovo quasi tutte le mosse del romanzo tradizionale incredibilmente prevedibili, fiacche, improbabili ed essenzialmente inutili. Non ricordo mai i nomi dei personaggi, gli snodi della trama, i dialoghi, i dettagli dell’ambientazione. Non mi è chiaro cosa dovrebbero rilevare sulla condizione umana narrazioni simili. Invece sono attratto dalla letteratura come forma di pensiero, di coscienza, di sapienza. Mi piacciono le opere che mettono a fuoco non solo pagina dopo pagina, ma riga dopo riga quello che importa veramente allo scrittore, invece di sperare che tutto questo emerga chissà come misteriosamente dalle crepe della narrazione, che è quello che oggi accade in quasi tutti i racconti e i romanzi”.

Uno dei motivi per i quali mi sono interessata realmente a questo saggio è ché vien messa in discussione l’idea di autorialità, tanto da rivoluzionare la struttura autoriale classica; lo stesso libro di David Shields è appunto costruito con frammenti di altri libri, ma senza riportare note, senza dichiarare l’appartenenza delle innumerevoli citazioni presenti nel saggio. “Un frullato di parole altrui, insomma, che genera, però, un distillato del tutto nuovo”.

Un’eccellente innovazione, si direbbe, e che fornisce la chiave per una diversa forma di letteratura. Anche perché credo sia tempo di finirla col diritto d’autore; il concetto stesso, spiega Stefano Salis nella prefazione, tenderà inesorabilmente a dissolversi (insieme a quello di plagio – tra l’altro, cosa sarà mai il plagio nella nostra epoca?) in nome del remix, anche grazie (o per colpa di, a seconda dei punti di vista) alla enorme quantità disponibile simultaneamente, utilizzabile prontamente e visibile gratuitamente, che le nuove tecnologie (internet in testa) ci garantiscono.

E poi, ancora, non è stantia l’idea di originalità a tutti i costi?

Bacon che riprese Velàzquez, cosa fu? plagio?, imitazione?, deformazione?, citazione? All’epoca, tutti ne riconobbero la provenienza, ma nessuno si scandalizzò; perché, a dirla tutta, l’originalità (in modo assoluto) non è mai esistita – è sempre stato il velleitario tentativo in cui tutti hanno fallito?

Dunque, Shileds, nel suo saggio, pare suggerirci, esortando tutti gli scrittori, ma non solo: desumo pur pittori, musicisti, cantanti, registi, attori, fotografi : copiate, imitate, interpolate, riformulate, riproducete, remixate, modificate, alterate, contestate, accettate, rifiutate, et cetera, et cetera – ad infinitum!

 

 

 

 

 

Anima di madre

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kogldi Gianni Biondillo

Gabriele Kögl, Anima di madre, Keller editore, 2013, 157 pag., traduzione di Laura Bortot

 

Il cuore di una madre può essere un luogo molto buio. Niente indulgenze in questo romanzo della scrittrice austriaca Gabriele Kögl. Innanzitutto nei confronti del lettore: Kögl è laureata in sceneggiatura, saprebbe come scrivere una storia rendendola “cinematografica”, con quella scrittura che in questi anni va per la maggiore, fatta di immagini forti, di dialoghi fitti, di una lingua propedeutica alla messa in scena. Niente di tutto ciò in questo romanzo.  Anima di madre è uno sterminato, sfibrante monologo. Un canto dolente per voce sola, che potrebbe essere letto aprendo a caso il volume, tali e tante sono le digressioni, i salti temporali e logici. Il romanzo non si apre e non si chiude, è un circolo vizioso e opprimente.

L’Io narrante è quello di una donna, una madre appunto, ormai avanti negli anni. L’età avanzata però non le ha dato alcuna maturità, alcuna profondità. Vivere nel chiuso di una società contadina del cuore della Stiria ha reso la sua psicologia altrettanto chiusa e meschina. La donna ci racconta la sua vita: il marito anafettivo e beone, la figlia fuggita a Vienna per una carriera d’attrice, i due figli, uno rimasto a fare il contadino, l’altro, illegittimo, suicida dopo aver subito un tradimento da parte della moglie tedesca. Ma piuttosto che comprendere per davvero le scelte, le logiche, i bisogni di chi dice di continuo d’amare, le vere preoccupazioni che scaturiscono dalle parole della donna sono quelle di non sfigurare di fronte alle malelingue del paese, così simili a lei stessa, altrettanto egoiste e ossessionate dallo sfoggio di un ruolo sociale fatto di pura apparenza.

Nella sua lunga confessione la protagonista finge pietà, o trasporto, per la tragica fine del figlio, ma quello che in realtà fa di continuo è porsi come vittima: di un marito che non l’amava, di una figlia che la contestava, di una esistenza fatta di stenti. Posizione comoda, auto indulgente, che maschera l’evidente fallimento di una vita. Rendendola, perciò, vittima per davvero.

(precedentemente pubblicato su Cooperazione, numero 44 del 29 ottobre 2013)

Tra l’Italia e l’altrove, giovani ventenni figli di migranti si raccontano

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Cappello iniziale di Igiaba Scego

Testo narrativo di Antonio DiStefano in arte Nashy tratto dalla raccolta Fuori Piove, dentro pure, passo a prenderti (autopubblicazione)

Antonio DiStefano in arte Nashy
Antonio DiStefano in arte Nashy

Letteratura della migrazione, letteratura postcoloniale, letteratura transnazionale…così e in altri mille modi diversi è stata definita la letteratura scritta da migranti e figli di migranti in Italia. Per 23 anni persone come Pap Khouma, Kossi Komla Ebri, Christiana de Caldas Brito sono stati considerati l’eccezione e non la regola. Un corpo estraneo che stava “invadendo” le patrie lettere, un corpo estraneo che molti operatori davano per spacciato. “Non sfonderà mai in Italia questa letteratura” e non era raro sentire anche “si stancheranno presto di scrivere e torneranno a fare i nostri servi, come deve essere”. Invece per fortuna non si sono/siamo stancati, anzi hanno/abbiamo moltiplicato i loro/nostri sforzi. E da questa effervescenza sono nati tanti scrittori di pregio che hanno fatto del meticciato letterario la loro cifra narrativa. Gabriella Kuruvilla, Helena Janaczek, Cristina Ali Farah…ma anche la sottoscritta sono/siamo una dimostrazione reale di tutto questo. Per me (e meglio che ve lo dica subito) la differenza che di solito si fa tra chi è venuto e chi è nato in Italia non ha molto senso ormai, almeno non ce l’ha per me. C’è gente che scrive, che ci crede, che arricchisce di senso la letteratura italiana….per me solo questo conta alla fine. Inoltre siamo in una fase dove anche scrittori italiani da generazioni (faccio la differenza qui solo per farvi capire il concetto) come per esempio gli Wu Ming si sono “contaminati” ibridandosi con temi che sembrano solo apparentemente lontani da loro. Gli Wu Ming raccontando la potente storia di una donna italo-somala dal fascismo ai giorni nostri (Timira Einaudi) di fatto hanno dimostrato che in Italia qualche barriera, almeno in letteratura, sta finalmente cadendo, che insomma gli scrittori si ascoltano e ne possono uscire fuori delle belle. Purtroppo però ultimamente devo segnalare una cosa che proprio non mi piace, uno stop da parte delle case editrici di fare uno scouting serio su autori giovani che hanno un background migrante. Possibile che io o una Cristina Ali Farah siamo percepite ancora come novità? Possibile che la curiosità di un editore si fermi alla generazione dei trentenni-quarantenni? A me personalmente piacerebbe sapere che stanno combinando giovani autori figli di migranti come me, autori in erba di 20 anni. Cosa scrivono? Cosa pensano? Quali sono i loro problemi? Che stile stanno sviluppando? Hanno ancora i problemi legati al razzismo che avevo io a 20/25 anni? E come si vivono la loro identità divisa? E l’amore…come sta l’amore dalle loro parti? E in cosa possono migliorare? In cosa possono arricchire il loro vocabolario? E noi generazione trenta-quarantenni-cinquantenni che siamo venuti prima come possiamo metterci in dialogo con loro? È possibile in questa Italia frammentata lo spazio di un incontro?

Troppe domande lo so, a cui spero piano piano di trovare una risposta. Allora ho deciso di fare una specie di focus sugli autori giovani di origine migrante. Molti di loro saranno navigati, altri alle prime armi. Molti testi saranno belli, altri meno. Ma ecco vorrei dare loro, grazie a Nazione Indiana, uno spazio di visibilità e soprattutto di discussione. A me capita spesso di parlare con giovanissimi che mi chiedono come sia pubblicare con uno “grosso” e capisci dai loro occhi che insomma non sanno molto della crisi dell’editoria, del precariato di chi fa un lavoro culturale. Vorrei che i giovani autori prima di pensare di pubblicare con uno “grosso”, si facessero le ossa per migliorare il loro stile. E questo vale anche per me e per tutte/i i miei colleghi trenta-quarantenni-cinquantenni. Tutti dobbiamo migliorare, affinarci, sudare sette camicie…anzi settanta. La scrittura è fatica, la scrittura è sudore, la scrittura deve portarci a qualcosa di più di un contratto o di un premio. Dobbiamo UDITE UDITE tornare ad avere l’ambizione di cambiare il mondo. Se non tutto, almeno quella parte intorno a noi che ci è vicina. Vorrei aprire con loro, con i giovanissimi autori, un’agorà per capire dove si può andare tutti insieme. Quindi quando mi capiteranno vi presenterò dei testi. Non lo farò con continuità cronologica (dipende dai testi e dalle persone che incontrerò), ma spero di poter aprire su questo punto un dialogo che mi interessa fare con tutti voi lettori, curiosi, scrittori di Nazione Indiana.

Oggi per cominciare vi presento Antonio Di Stefano detto Nashy, classe 1992, nato a Busto Arsizio e ora residente a Ravenna. Lo conoscono tutti nella sua città di residenza perché spesso sta in giro per le scuole a parlare di razzismo. Il ragazzo, figlio di genitori angolani, sta spopolando in rete soprattutto tra i suoi coetanei. Antonio si è anche autopubblicato un libro Fuori Piove, dentro pure, passo a prenderti [disponibile gratuitamente online].

Di questa raccolta vi presento due scritti:

Primo Brano

[brano tratto da Fuori Piove, dentro pure, passo a prenderti]

«Chiara come stai?»

«Così così, oggi mi sono abbuffata. Ma purtroppo il mio stomaco ha voluto tenere tutto dentro senza voler espellere nulla, e ho una pancia che mi impedisce di stare seduta. Tu come stai?»

«Hai mangiato parecchio oggi? Mi puoi spiegare meglio che vuol dire “ho una pancia che non mi permette di stare seduta? Io sto bene.»

«Ah praticamente dopo parecchi mesi che non ti nutri normalmente arriva un giorno in cui sei costretto a divorare tutto quello che ti trovi davanti e ti riempi fino a respirare poco, e la pancia ti si gonfia.»

«Cavoli..»

«Molte ragazze anoressiche sono morte a causa della rottura dello stomaco, ed è fuoriuscito tutto il cibo nel corpo.»

«Non lo sapevo, questa è una cosa che proprio non sapevo.»

«Cosa non sapevi?»

«Che fai fatica a mangiare, che rimetti, 

cioè dai hai capito.»

«Credevo l’avessi capito, comunque si lo sono. E poi ci sono ragazze che sognano di essere anoressiche, quando non sanno che non esiste solo la fase “non mangio e dimagrisco”..».

Chiara si pesava dieci volte al giorno, finiva di mangiare e correva subito in bagno, digeriva solo le sigarette e lo yogurt la mattina. Odiava con tutta se stessa guardarsi allo specchio, passava ore a confrontarsi con le altre ragazze, a dare sfogo alla sua competitività. Ripeteva

«Non è il pensiero ma gli occhi con cui mi guarda la gente a farmi male..».

La capivo. Quelle stesse persone guardavano storto anche me sull’autobus che portava a scuola. Io ero nero, lei magra, se avesse trovato la forza avrebbe potuto combattere il problema mangiando, ma io? 

«..Anto quelle persone mi guarderebbero male lo stesso, hanno bisogno di un pretesto, per escluderti e se non fosse stato per il mio aspetto mi avrebbero esclusa per le mie scarpe. I veri problemi li hanno loro».

Chiara mi confessò che stava perdendo i capelli, che i denti le facevano male, che le sue ossa erano diventate fragili come le sue sicurezze, mi raccontò dei crampi, delle gambe che non camminavano più, delle natiche che non le permettevano di sedersi, di una solitudine che non le permetteva di dormire. Molte persone che hanno famiglia, amici, conoscenti restano inevitabilmente sole perché nessuno le capisce.

Non so perché mi disse tutte quelle cose, perché scelse me tra tutti. Quella sera con le sue parole riuscì a farmi sentire meno solo. Io però con lei non ci riuscivo, potevo raccontarle tutti i miei problemi, tutte le mie paure, che non sarebbe servito a nulla, ogni mio sforzo non l’avrebbe resa più forte. 

«Chiara ma quante calorie ha la felicità ?»

Non replicò, si limitò a sorridere.

Quella sera m’insegnò “che quando salvi una vita, salvi il mondo intero“ e lei salvò la mia mostrandomi il suo mondo. 

«Io mi sento invisibile in certe situazioni.»

«Per me i tuoi occhi hanno tante cose da raccontare, che però non racconti, un po’ come il libri di Baricco, segregati in dispensa, che non facciamo leggere a nessuno.»

«Ecco vedi, mi avevano detto che cogli il cuore delle persone con semplici parole. Quello che fai tu non credo abbia un nome sai? Io non credo nella necessità di dover dare a tutto un nome, che tu faccia poesia, canzoni, filosofia, che tu scriva d’amore, solitudine, razzismo infondo poco importa, hai un animo buono, lo si percepisce dalle tue parole, dall’umiltà e dall’amore che ci metti. Ecco perché la gente ti scrive, ecco perché quello che fai arriva alle persone, anche se ancora non è un libro o un disco. 

Ti ho detto tutte queste cose perché tu meriti di saperle, ne farai tesoro. I tuoi occhi parlano per te.»

Secondo Brano

[brano tratto da Fuori Piove, dentro pure, passo a prenderti]

Vivevamo in un quartiere di emarginati, pieno di luoghi comuni, dove il sogno di una vita diversa passava per l’illegalità. Passavo le notti davanti alla tele ad immaginare una vita simile a quella dei miei compagni, volevo sopratutto i loro compleanni, le loro camere da letto fitte di regali, il loro equilibrio.

Niente di più.

Perché una famiglia c’è l’avevo. A differenza di molti come ripeteva con orgoglio mamma, avevo tutt’e due i genitori insieme e una casa mediocre, che con la fantasia poteva benissimo essere il nostro palazzo.

Imparai presto a non chiedere nulla, ad accontentarmi delle fotocopie perché i libri costavano troppo, a far miei senza far storie i vestiti di mio fratello che prima erano stati di mio padre, a mentire spudoratamente alla maestra che ci faceva fare il tema “Dove siete stati per le vacanze?” quando rientravamo dalla sosta natalizia.

Odiavo mentire.

Odiavo mia madre quando vendeva il sangue all’ambulatorio per comprarci la carne, la nostra Opel asmatica, le padelle annerite che riempivano la cucina, la costante paura di essere sfrattati, andare alla partita la domenica e non trovare nessuno in tribuna che fosse li ad incitarmi, aspettare quindici minuti in più degli altri all’uscita da scuola, rientrare a casa dopo allenamento e andare subito a letto perché l’Enel aveva staccato la luce, affrontare tutte quelle notti immense, da solo.

Alla domanda «Chi è il tuo Idolo?» rispondevo tutte le volte con un sorriso sincero

«Mio padre, perché tutte le mattine si sveglia per fare un lavoro che non gli piace solo per me».

Lo raffiguravo sempre come il più alto nei disegni all’asilo, con un espressione seria, ma con le braccia distese che rappresentavano la sua generosità.

Stefano in arte Papà, aveva avuto un infanzia difficile, cresciuto senza genitori nel nord dell’Angola, ultimo di tre fratelli, costretto all’età di tre anni a vivere nella foresta per scappare dalla guerra. Ogni volta che finiva di narrarmi la sua infanzia aggiungeva:

«C’è chi sta peggio di noi,ma nessuno e meglio di te, impara a sorridere».

Ero più scuro di lui, ma più italiano. Quando vedevo un africano per strada lo salutavo nella speranza che mi accettasse e che mi ritenesse uno di famiglia, infondo per loro ero uno straniero.

A scuola invece i curiosi mi chiedevano:

«Ma ti senti più italiano o del tuo paese?»

e io rispondevo «del mio paese..» che però non si trovava in Africa, era un posto lontano che si situava nei cuori di chi era figlio di un popolo senza bandiera, stufo come me, di essere considerato una frazione, una via di mezzo, una scheggia. Dove non c’era niente di sbagliato nell’essere nero, nell’essere nato con gli occhi a mandorla, dove le persone preferivano spegnere il cervello, il cellulare, la televisione, e dare spazio all’emozioni, dove ogni uomo era consapevole di esistere per volere di un altro uomo .

Ludovico Einaudi “al di là del vetro”- PLAY

La fantasia l’ho ereditata da mamma e quando le raccontavo di questo posto, sorrideva, perché ne era consapevole. Lei che chiamò mia sorella Meraviglia perché Dio le diede la forza di lavorare fino al nono mese di gravidanza. Era una donna di chiesa, ammiravo la sua fede anche se spesso non l’assimilavo, una di quelle persone capaci di vedere in uno stagno infangato un oceano pieno di navi. Mi guardava spesso, diceva:

«Tu mi somigli»

ed io pensavo “che fortuna”.

Ricordo le sue incursioni in bagno mentre facevo la doccia perché c’era sempre qualcosa da sistemare, quando esagerava e mi chiamava “il mio bimbo” difronte ai miei amici ridendo a fior di labbra con tutta la faccia, con tutto il corpo, contagiando tutti i presenti.

Non l’ho mai vista piangere.

Non pianse nemmeno il giorno che ci diedero lo sfratto.

Non pagavamo l’affitto da cinque mesi, e il proprietario si stufò di aspettare, quando venne a riferircelo di persona, ricordo che si avvicinò alla porta minacciando che avrebbe cambiato la serratura se non avessimo liberato l’appartamento entro tre mesi.

Furono giorni difficili. Le agenzie non affittavano casa agli stranieri e le poche che lo facevano chiedevano un contratto di lavoro indeterminato. Papà ne aveva uno a chiamata, per questo fissava sempre il telefono.

Ci trasferimmo a casa degli zii come topi nelle tane.

Dormivamo in cinque in una stanza.

Mamma e Papà a mezzogiorno non riuscivano a venire ogni volta all’uscita della scuola perché quando lavoravano, operavano fuori città.

Quando riusciva mi portava a casa la maestra Marianna, che aveva capito nitidamente senza fare alcuna domanda la nostra situazione, altre volte di soppiatto tra la folla fuggivo, alla peggio ero costretto a passare interi pomeriggi in un aula a ripassare matematica insieme ad altri bambini che come me vivevano nell’attesa che qualcuno si ricordasse di loro.

Per fortuna quasi sempre venivo ricordato per primo.

Solo Dio sa quanto abbiamo sofferto. Tutti i giorni recitavo la stessa preghiera, che in realtà era più simile ad una lista.

Sognavo una casa di proprietà, una macchina ed una cucina nuova, una camera tutta mia, una maglia del Milan autografata da Weah, mamma e papà felici.

Stefano la conosceva a memoria perché tutte le notti prima di dormire la ripetevo nel letto accanto al suo, non lo dava a vedere però credo che la parte finale li strappasse pure un sorriso.

Scherzando a tavola diceva :

«Io non finirò mai in uno sfizio, piuttosto uccidetemi, è come se io vi lasciassi in un orfanotrofio».

In parole povere ci chiedeva di non lasciarlo solo, di non fare come certi figli che abbandonano i genitori quando hanno una certa età, perché li ritengono un peso. Come potevo dimenticare o rimuovere col tempo una persona che mi aveva dato così tanto da ricordare? Non avevo tantissime foto con lui, forse anche perché davo per scontato il fatto che sarebbe rimasto per sempre, la goccia di sangue che non si lava via.

«Mamma vorrei pagarla cara per tutte le volte che hai pianto a causa mia. Voglio farmi un tatuaggio con le iniziali di tutta la famiglia, posso?»

«Antonio non hai bisogno di nessun tatuaggio, perché le cose importanti della vita, vanno incise nel cuore. Lì troverai sempre la tua famiglia.»