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cave panem : Nanni Balestrini

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Video ( pubblicato su Alfabeta2 ) di Uliano Paolozzi Balestrini, montaggio Francesca Bracci, interpretato da Antonio Rezza, musica di Gianluca Ruggieri, testo di Nanni Balestrini.

CIELO NERO (11 gennaio 1944)

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di Giacomo Sartori

[19 dicembre 1943]

[buio; l’Anziana accende la lampada, lo schermo del computer e il videoproiettore: fa partire un video con delle immagini a colori della Germania attuale: passanti in una via di una città con caseggiati recenti …; per qualche istante lo guarda sullo schermo, ma poi si mette a scrivere delle note sul palmare: lentamente, e con molte pause, come se avesse difficoltà a trovare le idee; la Ragazza è seduta sul letto, con le gambe incrociate, in posizione yoga]

Ragazza [parla piano, guardando in basso]

Vedo solo il suo orecchio

la curva dell’orecchio:

l’anca sensuale di un violino

Le mie labbra premono

contro i suoi capelli fini e non puliti

respiro l’odore di uomo

e di alghe appiattite sugli scogli

durante la marea bassa

 

Anziana

È molto smaliziata

la piccola spia crucca

sussurra lui

stringendomi la vita

con molta delicatezza

come si toccano le cose fragili

 

Ragazza

[rivolta adesso verso il pubblico]

Non si muove:

sembra anche lui in ascolto

dei rumori del corridoio

anche lui aspetta

non può fare altro che aspettare

Mi aggrappo al suo collo [mima con le braccia il proprio gesto]

badando a non muovere il bacino

so che al minimo sussulto

non potrei più dominare l’energia

trattenuta nelle mie braccia ad angolo retto [mima]

nelle caviglie tese nello sforzo

morderei la cartilagine

che le mie labbra sfiorano

affonderei le unghie

nella pelle molle delle sue spalle

E soprattutto urlerei

All’inizio mi voltavo ogni due secondi

temevo di trovare nello spiraglio della porta

gli occhi di uno dei due olandesi

adesso non mi importa più nulla

sto seduta a cavalcioni

sulle sue cosce

veglio che niente rovini il nostro piacere

succederà quello che deve succedere

 

Anziana

Se continui così mi strozzi

mi dice lui

con una voce liquida:

[dando qualche occhiata allo schermo: adesso sfilano immagini di ragazzi in un parco, con coppie che si baciano …]

 

Ragazza

sembra salirgli dalle viscere

Preme però ancora di più la gola

nell’incavo del mio braccio [mima premendosi la mano sul collo]

come per essere strangolato

Sempre restando in ascolto del suo corpo

immobile

Vorrei piantarmelo ancora più in profondità

il suo membro caldo e vellutato

e invece centellino questa dilazione

quasi dolorosa

del piacere

questo comunicare

attraverso i guizzi ineffabili

degli organi più intimi

I nostri corpi si parlano

senza bisogno dell’aiuto di nessuno

i nostri corpi fanno all’amore

mentre noi due stiamo a guardare

 

Anziana

Non può durare

sospira

È un lamento quasi animale

suoni impregnati di umori

la lingua della carne

 

Ragazza

[guarda di nuovo in basso]

Durerà mille anni

dico io

accorgendomi

che dicendolo

è ancora più velleitario

 

Anziana

Dal corridoio giunge un gemito metallico:

una porta

[da qui in poi smette di scrivere: sembra ascoltare il racconto della Ragazza]

 

Ragazza

Lui gira la testa

verso il sottile squarcio di luce

io inarco il bacino [mima il movimento, ma accennandolo appena]

come colpita da una frustata:

tenta di trattenermi

affondandomi i pugni nei fianchi

ma io mi lascio cadere su di lui

con tutto il peso [mima ancora]

Cerca di sottrarsi scivolando all’indietro

io però non posso impedire al mio corpo

di fare quello che ha voglia di fare:

spingo in avanti le anche

come lanciando un lasso

il più lontano possibile

poi le richiamo indietro [mima i propri movimenti]

scalzandolo quasi dalla sedia

e poi ancora in avanti

aggrappandomi allo schienale

Quando lui geme

dentro di me sale una marea tiepida

una schiuma che diventa voce

senza passare per il cervello

Lui mi tappa la bocca:

io mordo con tutte le forze

il palmo di quella mano

che vorrebbe imbrigliarmi

Grida per il dolore

o forse per il piacere

perché il suo sesso ha un sussulto

e poi dei fremiti [li mima facendo tremare la mano aperta]

I movimenti non hanno più effetto

ma non posso fermarmi

qualcosa in me pretende

che quell’istante si protragga

che mi dimeni ancora

Ciano emette dei ragli avidi

come i cani l’estate:

io inghiotto il suo alito

con una concentrazione smaniosa

come bevono gli assetati:

l’aria che mi accarezza il palato

è calda e salata

simile al vento del mare

Dalla sedia crolliamo sul pavimento

senza quasi cambiare posizione

i nostri sguardi evitano la lama accecante

che irrompe da fuori

Lui mi accarezza

con molta delicatezza

non mi vergogno più dei miei seni

non mi sento più una ragazzina pubere

per la prima volta

ho la sensazione

che siamo davvero assieme

Ti amo

dico

 

Anziana

[sfilano adesso immagini della redazione di un giornale]

Anch’io

ribatte lui con una voce chiara e serena

come constatando una cosa ovvia

Sento che il mio cuore si imballa

ho l’impressione che potrebbe scoppiarmi

siamo assieme

e nessuna avversità può sfiorarci

 

Ragazza

La stufa non fa più alcun rumore

lui però non si alza

mi stringe ancora più forte

Il pavimento è gelido e lui è pesante

molto pesante

ma non voglio che vada

ho bisogno della sua pelle

vorrei che questo attimo di grazia

non finisse mai

 

Anziana

[interrompe il video, e fa partire un altro filmato dove si vede Edda in varie situazioni ufficiali, molto elegante; lei le guarda sullo schermo del computer]

Edda e Pucci vogliono

che io organizzi lo scambio del tuo diario

finisco poi per dire

riscossa dai rintocchi delle campane

dei carmelitani

 

Ragazza

Non cominciare pure tu a tormentarmi

con il mio diario

ribatte lui

con una voce lenta e impastata

[si volta a guardare sullo sfondo le immagini di Edda, come ipnotizzata]

 

Anziana

In cambio potresti chiedere

di essere liberato

non è poi così impossibile come sembra

insisto io

 

Ragazza

[sembra disturbata dalle immagini che vede: Edda con Ciano]

So che spezzerò la magia di questo momento

ma non posso sopportare l’idea

di non fare nulla

tra poco verranno con la cena

e non potremo più discutere:

mi svincolo dalla sua stretta

accendo la luce

 

Anziana

Quello che li interessa

è mettere le grinfie sul mio diario

prima che io sia morto

borbotta

riparandosi gli occhi con il braccio

 

Ragazza

[sempre con la testa girata all’indietro, osserva le immagini di Edda, ora con  il marchese Pucci]

Basta organizzare le cose per bene

ribatto

mentre con il fazzoletto

tampono la bava calda

che mi cola sulla coscia

[distoglie lo sguardo dal video]

 

Anziana

Diranno che intendono liberarmi

e invece mi fucileranno

dice

 

Ragazza

controllando che sui pantaloni

non siano restate macchie

come però lo farebbe un bambino

non sembra davvero preoccupato

[l’Anziana si alza, e spegne proiettore, computer e lampada]

 

Questo testo è tratto dall’adattamento per il teatro dell’omonimo romanzo scritto dal sottoscritto [Gaffi, 2011], premio portale Sipario.it 2013, e visibile qui: http://www.sipario.it/images/biblioteca_testi/cielo%20nero_sipario.pdf].
PERSONAGGI:
 – Ragazza: una giovane donna tedesca di ventitré anni, con un abbigliamento che richiama gli anni quaranta del secolo scorso
 – Anziana: una donna, la stessa donna, molto anziana e apparentemente in uno stato di salute precario, con degli spessi occhiali, e un abbigliamento attuale
 RICHIAMI STORICI:
 nell’ottobre del 1943, instauratasi la Repubblica di Salò, Galeazzo Ciano, genero e ex Ministro degli Esteri di Mussolini, viene imprigionato nel carcere degli Scalzi di Verona, in attesa del processo per il suo coinvolgimento negli avvenimenti che hanno portato al 25 luglio e alla destituzione del suocero. Nonostante il carattere per certi versi lasso del loro matrimonio, la moglie Edda, alla quale è quasi subito negato il permesso di rendergli visita, fa di tutto, anche recandosi più volte dal padre a Salò, e aiutata dall’amante Emilio Pucci, per salvarlo. La giovane agente-spia Hildegard Beetz, o “Felicitas”, incaricata dalle alte gerarchie naziste di sorvegliare Ciano, e che passa le giornate accanto a lui, finisce per essere sedotta dal fascinoso quarantenne imprigionato: nel tentativo di sottrarlo alla morte fa il doppio gioco, esponendosi a gravissimi pericoli. D’accordo con Edda, propone lo scambio dei diari tenuti da Ciano quando era ministro, ai quali i nazisti tengono, contro la liberazione del prigioniero. Poche ore prima all’attuazione del piano Hitler però lo blocca, e Ciano viene processato e condannato a morte: viene fucilato l’11 gennaio 1944 al Poligono di tiro di Porta Catena. Dopo la guerra la donna lavorerà come giornalista in Germania, dove morirà nel 2010

 

Forze di quale ordine?

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di Antonio Sparzani
morte Stefano Cucchi

Non lo faccio ormai quasi più, perché mi dico “tanto lo so già”, ma l’altra sera ho ceduto perché ho mangiato tardi per via di certi fagioli, e allora ho guardato «presa diretta» sul terzo canale della nostra tv di stato e per l’appunto «morti di stato» era il titolo della puntata: i bravi Riccardo Jacona e Giulia Bosetti raccontano con partecipato distacco e buona professionalità le tristi vicende, è il caso di dirlo, di Federico Aldrovandi, Gabriele Sandri, Stefano Cucchi, Giuseppe Uva, Michele Ferrulli, Riccardo Rasman e Stefano Brunetti. Tutti cittadini italiani sui quali le forze dell’ordine hanno infierito selvaggiamente senza ragione alcuna, anche perché nessuna ragione ci può essere per il tipo di trattamento che a questi cittadini è stato riservato. La maggior parte di questi cittadini sono morti in seguito al trattamento, gli altri sono rimasti invalidi per tutta la vita. In qualche caso gli autori sono stati processati e condannati, di solito a pene abbastanza miti, per omicidio colposo e mai di più, talvolta mitissime tanto che alcuni tra i poliziotti assassini non hanno scontato un solo giorno di carcere e anzi sono stati mantenuti in servizio, e spesso promossi.
Se volete i dettagli potete guardare in rete, ad esempio qua, ma le cose che non capisco e su cui vorrei che tutti fossero un po’ più sensibili sono schematicamente le seguenti:

1. Quale molla spinge questi uomini (e, talvolta, donne) delle forze dell’ordine, che così si chiamano perché appunto sono delegati da tutti noi a far rispettare l’ordine democratico in una nazione dove, almeno di nome e in parte anche di fatto, un tale ordine esiste ed è regolato da leggi, quale brama di piccolo potere li spinge a esercitare la loro piccola ma spesso letale violenza su altri cittadini ?

2. Perché con quasi uniforme regolarità, il corpo di appartenenza, Polizia di Stato o Carabinieri, è omertosamente connivente, minimizza, copre, mai riconosce, mai si scusa anche dopo sentenze chiarissime passate in Cassazione, anzi promuove i colpevoli, ufficialmente riconosciuti tali?

In taluni casi, attenzione, la verità viene a galla, malgrado i rapporti ufficiali che dunque si rivelano platealmente falsi, grazie alle benedette telecamere di sorveglianza, che, sì, ci sorvegliano ormai in ogni istante della nostra vita pubblica, ma talvolta fanno il loro mestiere di documentare una realtà incontrovertibile a favore della giustizia. Sono passate nella trasmissione di Jacona alcune immagini di queste telecamere, e io vorrei che tutti le vedessero: non c’è scusante per l’aggressione gratuita del forte contro il debole, aggravata dal fatto che il forte in questi casi rappresenta la legge e l’ordine. L’unica scusante, pardon, spiegazione, è da psicopatologi.

Chi mi conosce immaginerà che sono particolarmente sensibile a questo tema, dato che nel 1971 un gruppo di poliziotti armati ― questore di Milano, per chi non ricorda, era Marcello Guida, ex-uomo di fiducia di Mussolini, che ricoprì, negli ultimi anni del ventennio, l’incarico di direttore del confino politico di Ventotene, e anche lui rimasto bellamente in servizio con una posizione di prestigio ― si avventò su di me con manganelli, rompendomi una mano, visto che per fortuna mi riparavo con questa la testa; fui poi, abbastanza ironicamente, denunciato per “resistenza aggravata”.

Ed è ben vero che il constatare come nulla sia cambiato da questo punto di vista mi provoca una feroce rabbia; e mi chiedo quale sia la strada per cambiare questo modo di essere che così malamente caratterizza il nostro paese: le forze preposte dallo stato, cioè da noi tutti, a mantenere l’ordine diventano in alcune occasioni i nostri nemici, o meglio noi diventiamo i loro nemici, sui quali sfogare aggressività e frustrazioni. E non è, in casi come questi, minimamente rilevante la famosa invettiva di Pasolini sui poliziotti “figli di poveri”, che oltretutto va letta fino in fondo, ad esempio qui.

Messico e Male; 2666 anni con Roberto Bolaño

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di Helena Janeczek

juarez

L’invito a partecipare al vostro “Seminario sul romanzo” mi ha suggerito una scelta istintiva e immediata. 2666 di Roberto Bolaño era l’ultimo libro incontrato dove la fatica di attraversare la lettura coincideva con lo stupore infinito che il romanzo fosse ancora capace di rinnovarsi in modo tanto spericolato e necessario.

Su “Il giorno che diventammo umani”

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di Francesca Fiorletta

zardi

Leggere Paolo Zardi, per me, è stata una sorpresa.

Sono su internet a fare zig zag tra i vari siti di letteratura che reputo solitamente più attendibili, e trovo un titolo che all’improvviso cattura la mia attenzione: “Il giorno che diventammo umani”.

Eh, chissà quando toccherà a me, mi viene da pensare, col sorrisetto a mezza bocca. La firma della blogger non la riconosco, l’immagine di copertina ha un che di languido e pietrificante insieme che sembra promettere fuochi artificiali, oppure solo un (altro) lungo pomeriggio soporifero? Sfondo blu notte, un  primo piano di bambina col pigiama rosso fuoco che dorme di profilo, a mani giunte, capelli raccolti dietro l’orecchio, sembra una giovane madonna asburgica intenta a galleggiare nella placenta ittica dell’oblio volontario, stato a cui invero forse solo gli adulti riescono ad ambire con così tanta tenacia. Gli adulti, cioè, dopo essere (loro malgrado) diventati “umani”. Sarà questo che intende l’autore, con quel titolo così apparentemente assurdo?
La casa editrice è la Neo., ho già letto libri interessanti e ben curati da loro, m’incuriosisco, scrivo subito una mail e chiedo se per caso mi mandano il libro, l’incipit della recensione non è affatto male, ma aspetto ancora un poco prima di farmi un’idea, la grande madre editoriale sembra essere sempre incinta, molto spesso senza il suffragio di una reale motivazione, staremo a vedere.

Mi arriva il libro e lo lascio per qualche giorno sulla scrivania, in cima alla pila di tomi e tomini che m’ero ripromessa di leggere per la settimana, il mese, chissà, non c’è mai abbastanza tempo per fare tutto, vita inumana.
Riprendo il lavoro al pc che mi fa bruciare gli occhi ogni sera, la nausea della retroilluminazione, e per caso mi imbatto nuovamente in un racconto di Paolo Zardi, un inedito stavolta, scritto per rispondere simpaticamente a una giornalista, che lo sfidava a scrivere un testo che non trattasse né di morte né di sesso né di atroci fobie. (E perché mai?)

Lo leggo celermente, mi incuriosisce ancora una volta, dove l’avevo messo, quel libro? Lo rintraccio, sposto la patina di polvere e i due post-it gialli che avevo incollato sulla madonnina dormiente, incrocio le gambe e inizio finalmente a diventare umana.

Di venti racconti si compone questa raccolta, ma a me ne basta uno solo, il primo, uno dei più caldi e raggelanti incipit che io abbia letto negli ultimi anni, scritto da un autore contemporaneo, vivente, italiano, classe 1970: “È risaputo che le puttane di colore non danno mai il culo”.

Sulle prime, la femminista sopita che è in me inizia a gridare sangue e vendetta, ma guarda un po’, un altro maschio in crisi ormonale che non sa come sublimare le sue voglie represse, che è convinto di risolvere i drammi del suo piccolo mondo erotico spiattellandole su carta.

Poi torno indietro, alla prima pagina, leggo la dedica del libro: “A mia madre”. Sta a vedere che ha pure un cuore, il pentito. L’esergo è una citazione di Charles Darwin sull’evoluzionismo, parla della delicata interazione fra i lombrichi e la formazione spontanea della crosta terrestre, che si materializza “in ogni contrada discretamente umida”.

Paolo Zardi ha capito qualcosa, allora, mi dico, quell’attenzione alla composizione superficiale, quell’indugio sulla consistenza “discretamente umida” deve averlo colpito molto, anche il tono che annunciava la deflorazione sarà dunque principalmente provocatorio? Diamogli una chance.

Ricomincio a leggere, già con l’animo lievemente mutato, e da lì le prime 50 pagine sono tutto un fiato corto: si passa da un amplesso violento e incredibilmente tenero a un male incurabile che inizia a deturpare il corpo partendo proprio dal suo fulcro nodale, il cervello. Pranzi di famiglia mancati, salubri promesse procrastinate, sparizioni inattese e altrettanto inaspettate redenzioni: devo già prendermi una pausa da Paolo Zardi, troppa umanità può anche incutere un po’ di timore, di primo acchito.

Non si tratta tanto di witz e trovate voyeristiche, ma di una vera e propria letteratura di vita.

Nei giorni successivi quelle parole continuano a ronzarmi in testa, la costruzione così meticolosa delle frasi più ossute e taglienti, lo scavo d’introspezione mai ammiccante o esasperato, la resa gnomica dell’attualissima condizione di angoscia esistenziale, di spaesamento del vivere quotidiano, e insieme un attaccamento viscerale, marmoreo, quasi altezzosamente ostinato nei confronti dell’umanità, dei suoi aspetti più ferali e primordiali.

Gli istinti atavici, molecolari, ricondotti così sapientemente dentro narrazioni brevi e fulminanti, aggressive e meditabonde insieme, sono quanto di più affascinante si possa ricercare nella letteratura oggi, a parer mio. E di questo procedimento, Zardi si rivela un ottimo esempio.

Le restanti 150 pagine le leggo quindi tutte in una volta, in una girandola ellittica che mi fa perdere e riacquistare il contatto con la più autentica materialità, fuori e dentro la pagina scritta, e così finalmente la spiegazione del titolo mi appare del tutto limpida, nella sua ineluttabilità.

Questo libro ha il grande merito di risultare una sorta di agnizione al quadrato, sia perché raccoglie in sé la moltitudine di agnizioni di cui si rendono partecipi i singoli personaggi raccontati, sia perché, esattamente come accadrebbe con un collage di spiccato stampo umanista, il lettore percepisce con chiarezza quel sentimento in nuce confuso e poi via via stoicamente decisionista che si definisce nel gergo comune come “presa di coscienza”.

Un genitore che guarda i figli con occhi diversi, un compagno che rivaluta le relazioni amorose, una creatura che reagisce o s’abbandona concretamente al dolore, ma senza mai rassegnarsi alla vera fine. La morte, in questo libro, funge da grande protagonista assente.

Non è un caso, perciò, se l’ultimo racconto, sviluppato in prima persona, tre pagine vergate fitte con un unico punto fermo, quello finale per l’esattezza, suona proprio come un autentico richiamo alla gioia della vita, dopo averne necessariamente toccato con mano, occhi, bocca e anima tutte le peggiori sfaccettature.

Forse i lombrichi darwiniani siamo noi, forse sono invece le inevitabili asperità dell’esistenza, ma una cosa è certa: l’umidità della scrittura di Paolo Zardi si sente eccome, nelle lacrime lancinanti e commosse, negli umori del sesso, nei liquami fetidi del corpo, nei sudori ardenti dei desideri.

Diventare umani, nostro malgrado, anche in letteratura, si può e si deve.

Fissò il lampione che dondolava sopra la strada, oltre al muro di recinzione; e poi guardò le piante, e l’erba, e gli parve di vedere, per un attimo, tutte le bestie che strisciavano in quel giardino, trascinando la loro fame instancabile da una foglia all’altra, e quelle che se ne stavano infilate dentro la terra da giorni, da mesi, per sfuggire ai loro insaziabili predatori, e quelle intente a costruire trappole mortali per le loro prede: da quanti miliardi di anni andava avanti quella lotta abominevole? Per quanto tempo sarebbe continuata? Poi, girandosi verso il salotto, vide la cagna assopita, le stampe alle pareti – c’era anche quella di Mirò – , le centinaia di libri allineati nella libreria, il baluginio azzurro della televisione, il divano che aveva scelto con sua moglie in un sabato pomeriggio di novembre, un cesto accanto alla poltrona con i giocattoli dei suoi nipotini e improvvisamente capì cos’era la vita – era quell’ammasso confuso di cose e, insieme, i suoi occhi che lo guardavano; e la morte era qualcosa che riguardava solo lui, e la sensazione, impossibile da condividere, di esistere. Poi, sulle scale per salire in camera, sentì che non voleva morire: che sarebbe stato disposto ad accettare che tutte le piante e tutti gli animali sparsi per il mondo finissero di colpo, se questo gli avesse garantito un giorno di vita in più.

Su “Contromosse”

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di Valerio Nardoni

Col volumetto Contromosse ( Bologna, Confine Edizioni, 2013) Paolo Maccari si presenta di nuovo – il mio ricordo va alla precedente plaquette, Mondanità, che anticipava Fuoco amico – con una piccola opera di grande solidità, che tende a rafforzarsi di lettura in lettura. Questo è frutto del lavoro poetico di Maccari, i cui testi poetici, in genere, né procedono isolati – come dettati dal momento –, né per serie – cioè, intenzionalmente correlati –, configurandosi semmai come prodotti di una stagione, in cui le poesie respirano la stessa aria ma non necessariamente si assomigliano a prima vista. Le poesie di Maccari richiedono un certo tempo affinché possano lievitare le une a contatto con le altre, come se fossero punti di partenza e non di arrivo di un pensiero. È un modo di praticare la poesia diverso da altre scritture apparentemente più frizzanti, ma la cui estemporaneità può a volte correre il rischio della frivolezza o – peggio – del facile ammiccamento.

“Frivolo”, qui, è invece il comportamento di un non meglio detto re del mondo (mi si passi il vezzo musicale), che nella poesia di apertura tratta gli uomini, sua creazione, come una canzonetta improvvisata fischiettando e poi subito dimenticata. Leggero è il motivetto iniziale, ma ben più grave il fondo oscuro a cui allude, cioè la fine di una certa fede e un nuovo bisogno di perdono per poter ripartire (o quanto meno mantenersi saldi): “Credemmo in tutto / poi in nulla / perdonami e sopportami”, così recita la citazione di Attilio Lolini in epigrafe.

Questo ribaltamento di termini, come indica il titolo Contromosse, comporta un moto di difesa più che di attacco (seppur siamo in gioco!), nei confronti di una stagione della vita che è giunta al suo epilogo. A parlare, adesso, non è più l’infante creatore del mondo ad ogni passo, ma il giovane uomo che – appunto – conosce a memoria tutte le mosse della partita che si ripete identica a se stessa, nella vita di chi ha imparato a rinunciare senza paturnie e a sopravvivere senza le smanie che si credevano l’unica fonte di realizzazione.

Sono diverse le poesie che indagano tale zona di confine, e sta infatti qui il fulcro di questo gruppo di testi: nel “presente anestetizzato”, nell’abilità di affrontare le situazioni a occhi chiusi senza più attraversarle né esserne attraversati, spunta lo spettro della falsità. Sotto movimenti lungamente educati fino alla naturalezza, ritorna un’immagine di sé che si era voluta eliminare: l’acqua del rimorso spenna il cigno e svela un pennuto antiestetico e incontentabile: “Quasi mai i cigni riescono a mantenersi cigni. Si immergono in acqua e tornano su brutti anatroccoli, quelli che erano stati, o quello che con grande fatica avevano saputo evitare di rivelarsi” (Cigni). Non si tratta, dunque, di fare dei bilanci tra prima e dopo; semplicemente, è finita la forza di non rivelarsi per quello che si è (si riuscirà a coglierla come un’opportunità?); bisogna però fare i conti con un passato che non ci appartiene più ed un presente che non può definirsi come proprio.

Certo, il tempo è passato, si inizia a notare la giovinezza dei giovani – come i due innamorati che con gesto superletterario (ma non lo sanno) incidono le proprie iniziali nella corteccia e poi la fotografano col telefonino – e a metà del cammino ci si ritrova, da una parte, il ritorno indocile di un sé che ha seminato errori a non finire; dall’altro, un nuovo spazio interiore – forse non volitivo, ma libero dai bisogni di apparire – che potrebbe essere una nuova casa del pensiero di sé.

Il problema vero sembra essere quello di seppellire il passato, non tanto attraverso la comprensione dei propri abbagli e oscenità, ma ottenendo il “perdono di quanti trassi in inganno / dicendo che credo, che so, che sono”.

Un libro di ripartenza nel segno di un necessario perdono che, però, per giungere a se stessi, non può più percorre le strade dell’autoinganno, ma dovrà passare attraverso la compromissione con gli altri, con l’altro, con quello che davvero c’è.

A questo secondo momento, cioè quello di un nuovo incontro col mondo, è dedicata la seconda sezione del libro, Pensieri in piazza, sedici brevi componimenti in prosa, che tracciano le prospettive aeree di vite che, a un certo punto, si posano per un attimo su una panchina e poi rivolano via. La piazza è perfettamente rotonda, al centro la statua, intorno le panchine, le strisce pedonali, il camion del venditore di frutta e verdura, i piccioni più o meno malconci, i cani che si annusano, la pioggia… Lo sguardo del poeta va dalle stringhe delle sue scarpe fino al cielo paffuto di nuvole, nell’arduo tentativo di prendere la vita per quel che è. Lasciare finalmente alla povera statua il centro del mondo e riservarsi un posto laterale, essere passante tra i passanti, con uno sguardo che non si difende più dall’ingenuità e un’intelligenza che combatte le sentenze. Questa (forse) la reale contromossa del poeta, nel pungente desiderio che, se questo scacco funzionasse, “quell’uomo e quel bambino, incantati da quella felicità, smetterebbero di essere un rimpianto e un miraggio e per qualche ora, magicamente, esisterebbero”.

 

 

La (difficile) arte della manutenzione della bicicletta

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La_mia_bicicletta

o delle aporie della conservazione

di Alberto Giorgio Cassani

Avevo bisogno di una bicicletta. Ma, volendo risparmiare, avevo deciso di comprarmene un’usata. Il mio amico Giancarlo, un giorno, mi telefona dicendomi che ne ha vista una di fronte a casa sua che sembra fatta apposta per me: è “vecchia”, ancora in buone condizioni, leggera di telaio; è però senza cambio. Ma a Ravenna, dove io abito, non ci sono troppe asperità da superare. Felice dell’acquisto, comincio a girare finalmente per la città col mio nuovo mezzo di trasporto, se non dopo aver comprato un’enorme catena americana che, da sola, costa più della bicicletta; ma mi sono già affezionato a quest’ultima e non voglio che me la rubino, come già accaduto con quella che usavo in precedenza.

Passato qualche mese, mi accorgo che, nel cerchione della ruota posteriore, un paio di raggi si sono rotti e la ruota non è più perfettamente calibrata. Allora vado dal mio ciclista di fiducia e li faccio cambiare. Certo, ora quei nuovi raggi stridono, nella loro brillantezza, rispetto ai vecchi arrugginiti. Io, che sono un sostenitore convinto della conservazione, cioè del mantenimento della materialità dell’opera, non posso essere felice di questo processo di sostituzione: ma dove trovare raggi vecchi e come pensare che possano durare? Mi consolo pensando che il sacrificio di pochi raggi originali mi permette di salvare il cerchione.

Passano altri mesi e il numero dei raggi si rompe con tale frequenza da dover ricorrere sempre più spesso al mio meccanico di fiducia, il quale, con mio grande disappunto, mi propone di sostituire l’intero cerchione. Io, naturalmente, inorridito, dico di no e preferisco spendere un euro a raggio. Col tempo, però, anche i raggi nuovi si rompono e mi trovo costretto, con rammarico, a dover accettare il rimpiazzo dell’intero cerchione (a forza di sostituire i raggi rotti, avevo speso, ormai, una cifra pari a due cerchioni nuovi). Guardo la mia bicicletta: il nuovo cerchione brilla del suo “valore di novità”: un pugno nell’occhio nel contesto dell’intera bicicletta. Devo solo sperare che il tempo (ma quanto ci vorrà?) lasci la sua patina e renda meno stridente il contrasto col cerchione della ruota anteriore.

Nel frattempo erano accaduti altri due fatti incresciosi: i pedali della bicicletta non stavano più nel perno e mi scappavano in continuazione, creando situazioni di vero pericolo per me e per gli altri. Per qualche tempo ho anche pedalato senza un pedale – sempre per evitare la sostituzione dell’autentico vecchio pedale, ma poi, visto che rischiavo la pelle, ho dovuto procedere all’acquisto di due nuovi pedali e alla sostituzione anche dei due perni. Altra dolorosa perdita d’autenticità.

Inoltre, un bel giorno – avevo parcheggiato la mia bicicletta in Piazza del Popolo nelle rastrelliere davanti al Comune –, un simpatico studente di una gita scolastica mi aveva per scherzo rubato la parte in plastica della sella originale della mia bicicletta – che, quasi subito dopo l’acquisto, aveva perduto i due fermi che lo univano alla struttura sottostante – lasciando quindi in vista lo scheletro in ferro di quest’ultima. Devo dire che, sempre per spirito di conservazione, non avevo mai pensato di comprare una nuova sella, ma ora non potevo certo più farne a meno (per qualche giorno mi ero seduto sulla struttura in ferro, ma la scomodità della cosa era più che evidente). La nuova sella, in similpelle, ma modello “vecchio”, non mi poteva certo soddisfare: avevo perso l’autenticità della sella originale e l’avevo addirittura sostituita con una nuova imitante quelle di una volta. Una doppia inautenticità. L’ultima disgrazia è stata il dover cambiare il vecchio fanale – definito addirittura “marcio” dall’aiutante del mio ciclista di fiducia. Ora lo guardo: è la solita imitazione, in plastica “cromata”, di un vecchio modello. Luccica in modo sgradevolissimo, e temo che su di esso la patina del tempo non potrà far nulla, se non mettere penosamente in luce, col tempo, la plastica che c’è sotto (che già fa capolino a causa di un graffio).

Le tristi vicende della mia bicicletta fanno emergere le aporie che s’incontrano quando si pretende di conservare qualcosa che deve servire ad un uso: il “valore di antichità” non può nulla di fronte al “valore di novità”. Questo è molto triste, ma ci deve far riflettere.

Senza dire che, con quello che ho speso per tutti gl’inautentici pezzi di ricambio, mi sarei potuto comprare un’autentica bicicletta nuova fiammante.

 

Post scriptum 1

L’amico Mario Bencivenni, cui ho fatto leggere quest’appunto, mi suggerisce giustamente che avrei potuto cercare su E-bay i pezzi “originali” via via accidentati. Questo, però, secondo me, avrebbe creato ulteriori aporie: la materia originale perduta può sostituirsi con altra materia proveniente da altri “monumenti” dislocati in altri luoghi? Un po’, mutatis mutandis, quello che succede nei musei con le opere d’arte e su cui scrisse pagine veementi Antoine Chrysostome Quatremère de Quincy.

 

Post scriptum 2

Un altro amico, Lucio Fontana, cui ho sempre inviato questo mio testo, mi fa dono di questo breve, per me illuminante, commento:

«I (veri) ladri di biciclette (è facile il gioco: la realtà non è come il cinema, nella realtà le biciclette si rubano davvero) oggi rubano più biciclette, le smontano e le ricompongono utilizzando parti provenienti da differenti biciclette. In questo modo il derubato non può riconoscere la propria bicicletta rubata. Il risultato è un pastiche tra parti diverse, nuove e vecchie, originali e non, originali per epoca o per marca ma di epoca di costruzione o d’uso diversi, ecc. ecc.

La tua bicicletta mi ha ricordato questo processo. Stesso risultato partendo da due pensieri e azioni diversi. Di sicuro i ladri non sono dei conservatori. I conservatori sono dei ladri?».

 

Tariffe

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Di Giorgio Mascitelli

 

Alba di Milano e io lavoro. Alba di Milano e io già in piedi. Alba di Milano in cielo e io già sui mezzi a terra. Alba di lavoro a Milano che io sono qui per questo.

Signora, signora non è che mi si agita? Non è che mi si agita perché quello lì è scappato senza avere il biglietto. Non si preoccupi,  quello lì è un portoghese. Signora, ce l’ ha presente i portoghesi?  Finito, il tempo dei portoghesi è finito, non c’è da preoccuparsi. No problem. Il portoghese ha i giorni contati. I portoghesi sono morti e non lo sanno e camminano e scappano ancora e si ostinano, vitalismo di pretta marca bergsoniana. Certi cadaveri dopo morti continuano a farsi crescere le unghie e i capelli, idem i portoghesi. Canzone preferita del portoghese: mi ritorni in mente bella come sei, ma soprattutto mi ritorni in mente. I portoghesi è come dire i ladri di biciclette. I portoghesi è come dire gli scioperi, sì magari addirittura i tranvieri in sciopero. La statistica dice di quello lì che se non sarà preso oggi, sarà preso domani e pagherà una multa più cara di qualsiasi tariffa di abbonamento. Così dice la statistica e così credo io. Signora,guardi l’alba: alba striata di Milano decorata dall’inquinamento, altro che luce grigia, alla Bigazzi,qui c’è il rossore che si perde oltre l’orizzonte, cioè oltre la città. Dove lo trovano il biancoenero, il grigio, il chiaroscuro, io mi domando, dove? Dove potrà fuggire il portoghese in quest’alba striata di rosso? No, il tempo dei portoghesi è finito e basta. Ma forse lei, signora, è troppo giovane e non ricorda il tempo dei portoghesi.

Cioè lei magari, signora, adesso crede che io sono un controllore:  molto di più di un controllore, signora, io sono dissuasore.  Lei continua a credere che quel portoghese se ne sia andato, scappato, che abbia fottuto il campo, ma in realtà non è andato da nessuna parte. Girerà per un po’, prenderà un’altra linea, scenderà cercando di incrociare qualche altro mezzo che lo porti alla meta, magari sfuggirà ancora a qualche collega ( una giornata fortunata non si nega a nessuno) e alla fine dopo tre ore arriverà alla sua meta, ammesso e non concesso che un portoghese possa avere una meta. Questa città si perde oltre l’orizzonte, ma nell’epoca odierna tre ore è come andare a piedi e lei mi insegna che nell’epoca odierna i tempi di connessione sono tutto. Non c’è città che tenga, non c’è orizzonte che tenga, non c’è tariffa che tenga di fronte a tre ore, probabilmente il tempo che impiegava mio nonno con la cavagna sulle spalle ricolma di prodotti nostrani per andare alla fiera dell’Est. Io sono un dissuasore, se controllo il biglietto, è solo per amore delle tradizioni, per rassicurare lei e gli altri passeggeri onesti. Oggi si fa diversamente: per esempio qualche giorno fa ero di servizio in metropolitana e lì il controllo avviene sul mezzanino. Bene un portoghese scende dal treno mi vede, torna in banchina e prende il treno per scendere alla stazione successiva; io me ne accorgo, avverto i colleghi che lo aspettino lì e lui come li vede, torna di nuovo in banchina e prende di nuovo il treno e così ad ogni stazione fino al capolinea. Al capolinea ci sono anch’io, ma  lui resta sul treno e torna indietro e cerca di nuovo di fare lo stesso gioco, ma anche io faccio lo stesso gioco: alla fine lo acchiappo io all’altro capolinea, a cui lo avevo rispedito, e nel comminargli la multa gli dissi “se lei si ostina a non convalidare il documento di viaggio, in futuro le commineremo altre multe”.

E il portoghese mi guarda storto, ma poi si mette a piangere, quando si accorge che nessun controllore teme più i portoghesi perché l’orologio dello sviluppo li ha superati e che io sono un dissuasore e per un dissuasore non c’è nessuno da temere, semmai da intimorire. Ma il controllo non è che la fase iniziale, la preistoria, della circolazione e delle attività di dissuasione. L’obiettivo è dare un nuovo ordine alla circolazione in cui tutto procederà con naturalezza senza bisogno di alcun intervento censorio e i giovani cederanno i posti a sedere agli anziani, chi deve scendere per ultimo non si metterà stolidamente davanti alle porte, nessuno avrà accessi di flatulenze che disturbano gli altri viaggiatori e i matti in metro staranno zitti. La mia e quella degli altri colleghi sarà semplicemente una presenza amichevole o meglio ancora una presenza e basta. Attraversare la città sarà un sogno dal quale non si vorrà essere svegliati e anche i forestieri resteranno incantati a salire per la prima volta. I tempi di connessione che verranno allora saranno tempi d’oro.E chi non ha i soldi se ne starà a casa sua. Sì, magari qualche portoghese lo terremo in attività, giusto perché i più giovani di noi facciano pratica. Sarà un lieto diversivo anche per i viaggiatori la caccia al portoghese residuo. E con questi mezzi la città non sarà più Milano, ma veramente una nuova Atlantide e dove arriverà un nostro mezzo lì sarà la città e poco a poco allora Milano non verrà più chiamata solo Milano, ma la Milano celeste, sul modello di quella marittima. E tutti  nel prendere il passante ferroviario si compiaceranno di questo curioso ossimoro di un passante celeste che va sottoterra. Una città celeste senza limiti di spazio e di tempo e non so perché quando penso così mi vengono spontanee le parole del poeta: tutta mia la città, un deserto che conosco, questa notte un portoghese piangerà.

Il tempo dei portoghesi è davvero finito e anche loro lo sanno, non vorranno insistere e spariranno come il serpe velenoso al ritorno della nuova età. Nulla è più sicuro: infatti se i portoghesi non esistono più, non potranno certo prendere il tram o l’autobus o il metro senza pagare, giacché se lo facessero, avremmo di nuovo dei portoghesi e abbiamo visto che essi non esistono più. Essendo in meno, si viaggerà più comodamente. Avremo una città bellissima senza limiti di circolazione, con tempi di connessione rapidissimi sostenuti da tariffe vantaggiose e semplicemente i portoghesi non ci saranno.

Signora, non vorrei mai che lei mi prendesse per uno di quegli utopisti dei secoli passati che se la menavano tutto il giorno con i loro sogni. Tutto non accadrà subito. Ci saranno dei problemi. C’è da rimboccarsi le maniche. Signora, proprio ieri su questa stessa linea …. A proposito, signora lei ce l’ha il biglietto? Non è mica per essere malfidenti, però sa anche lei come dice il proverbio: amor ch’al cor gentile ratto s’apprende.

Ecco, infatti a pensar male si fa peccato, ma quasi sempre ci si prende. Lei ha il biglietto valido solo per la tratta urbana e  siamo nella prima semizona extraurbana. Le devo applicare la soprattassa.   Non si rifiuti, non inizi a polemizzare, proprio con me che non voglio far polemiche, piuttosto che far polemiche me ne vado, come quella volta che ho urtato un ciclista con l’auto e quello polemizzava e io me ne sono andato. Guardi lasciamo perdere che è un’ingiustizia che già la parola ingiustizia mi innervosisce. Senta, lo so vedo anch’io che qua dove siamo ci sono case e negozi, come a Milano; senta adesso io stendo il verbale, però non è che mi ripete ogni tre secondi che  è un’ingiustizia,eh? A me non mi interessa niente che questa è un’estensione di case a cui si sono dati per finta nomi diversi. Adesso è colpa mia se la città lì è finita? Magari la città sarà anche unica, ma le tariffe sono differenti. La città ha i suoi limiti che sono le tariffe e questi limiti si possono superare, pagando però. Secondo me, lei continua con questa storia dell’ingiustizia, perché non è una sportiva, se no saprebbe che la lealtà è alla base di ogni sano spirito agonistico.

Ancora? Adesso basta! Oh l’ho dovuta abbattere.

Un frammento, due ritratti

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di Davide Orecchio

Accidenti, lenzuolo!
Mi sveglio, m’alzo e scopro che sei una memoria.

bosco

FRAMMENTO
Ecco gennaio con la pioggia sui vetri e la ghisa che s’intiepidisce nella dimora. L’inverno è il ripostiglio di piccole cose, gesti minuscoli. A. sostiene un esame. S. compra un vestito e un computer. A Maccarese mangiano frittura di pesce. L’inverno è la teoria della vita, l’ansia e il progetto; è scrittura.

Dialoghi per l’anno che verrà

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Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere

Vend. Almanacchi, almanacchi nuovi; lunari nuovi. Bisognano, signore, almanacchi?
Pass. Almanacchi per l’anno nuovo?
Vend. Sì signore.
Pass. Credete che sarà felice quest’anno nuovo?
Vend. O illustrissimo, sì, certo.
Pass. Come quest’anno passato?
Vend. Più più assai.
Pass. Come quello di là?
Vend. Più più, illustrissimo.
Pass. Ma come qual altro? Non vi piacerebb’egli che l’anno nuovo fosse come qualcuno di questi anni ultimi?
Vend. Signor no, non mi piacerebbe.
Paas. Quanti anni nuovi sono passati dacchè voi vendete almanacchi?
Vend. Saranno vent’anni, illustrissimo.
Pass. A quale di cotesti vent’anni vorreste che somigliasse l’anno venturo?
Vend. Io? Non saprei.
Pass. Non vi ricordate di nessun anno in particolare, che vi paresse felice?
Vend. No in verità, illustrissimo.
Pass. E pure la vita è una cosa bella. Non è vero?
Vend. Cotesto si sa.
Pass. Non tornereste voi a vivere cotesti vent’anni, e anche tutto il tempo passato, cominciando da che nasceste?
Vend. Eh, caro signore, piacesse a Dio che si potesse.
Pass. Ma se avestge a rifare la vita che avete fatta nè più nè meno, con tutti i piaceri e i dispiaceri che avete passati?
Vend. Cotesto non vorrei.
Pass. Oh che altra vita vorreste rifare? La vita c’ho fatta io, o quella del principe, o di chi altro? O non credete che io, e che il principe, e che chiunque altro risponderebbe come voi per l’appunto; e che avendo a rifare la stessa vita che avesse fatta, nessuno vorrebbe tornare indietro?
Vend. Lo credo cotesto.
Pass. Nè anche voi tornereste indietro con questo patto, non potendo in altro modo?
Vend. Signor no davvero, non tornerei.
Pass. Oh che vita vorreste voi dunque?
Vend. Vorrei una vita così come Dio me la mandasse, senz’altri patti.
Pass. Una vita a caso, e non saperne altro avanti, come non si sa dell’anno nuovo?
Vend. Appunto.
Pass. Così vorrei ancor io se avessi a rivivere e così tutti. Ma questo è segno che il caso, fino a tutto quest’anno ha trattato tutti male. E si vede chiaro che ciascono è d’opinione che sia stato più o di più peso il male che gli è toccato che il bene; se a patto di riavere la vita di prima con tutto il suo bene e il suo male, nessuno vorrebbe rinascere. Quella vita ch’è una cosa bella, non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce; non la vita passata, ma la futura. Coll’anno nuovo, il caso incomincerà a trattar bene voi e me e tutti gli altri, e si principierà la vita felice. Non è vero?
Vend. Speriamo.
Pass. Dunque mostratemi l’almanacco più bello che avete.
Vend. Ecco, illustrissimo. Cotesto vale trenta soldi.
Pass. Ecco trenta soldi.
Vend. Grazie, illustrissimo: a rivederla. Almanacchi, almanacchi nuovi; lunari nuovi.

Giacomo Leopardi

“Dicono che repetita iuvant;
che il primo bacio è insipido, ma è il secondo che conta;
che il bis d’un minuto radioso
s’insaporisce d’un miele che ci sfuggì quella sera …
Ma l’anno che ritorna col suo rauco olifante
a soffiarci dentro le orecchie
l’ennesima Roncisvalle,
e ingrossa i fiumi, impoverisce gli alberi;
l’anno che nello specchio del bagno consegna
a uno svogliato rasoio la barba sempre più bianca;
l’anno che cresce su sé con l’ingordigia dei numeri,
sgranando sul calendario
il recidivo blues del Mai più …
chi oserebbe dire che meriti la festa del Benvenuto?
chi potrebbe giurare che non sia peggio degli altri?
Il male si moltiplica e repetita non iuvant.
Eppure … Eppure nella tombola arcana del Possibile
fra i dadi e il caso la partita è aperta;
gonfiano fiori insoliti il grembo d’una zolla;
lune mai viste inonderanno il cielo,
due ragazzi in un giardino
si scambieranno i telefoni, i nomi,
stupiti di chiamarsi Adamo ed Eva;
verrà sotto i balconi
un cieco venditore d’almanacchi
a persuaderci di vivere …
Crediamogli un’ultima volta”.

Gesualdo Bufalino

I poeti appartati: Anna Santoro

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Poesie

di

Anna Santoro

Fare mattoni con parole

usarle come pezzi di cemento

concrete – pazientemente poste

le une accanto alle altre

a (de)costruire senso

 

Parole da toccare, assaporare

Alfazeta per Alfabeta: P come Poesia

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Francesco Forlani in Alfazeta per Alfabeta2

Elektro-poetry a Milano (Libreria Popolare di via Tadino)
All’interno degli incontri di Tu se sai dire dillo

LIBRERIA POPOLARE DI VIA TADINO
via A.Tadino 18 3 ottobre 2013, giovedì ore 21

Andrea Inglese e Stefano Delle Monache presentano il libro Lettere alla reinserzione culturale del disoccupato + cd There’s a choir in the straw stack (ed. ItalicPequod, 2013), in una performance per voce e live electronics insieme con Giovanni Cospito.

Migreurop e la carta dei campi chiusi per stranieri

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[Dal sito Migreurop: osservatorio di frontiere pubblico questo intervento, che chiarisce gli intenti dell’osservatorio militante e fornisce un aggiornamento sulle campagne contro la detenzione dei migranti nei campi chiusi.]

393. E’ questo il numero di campi chiusi per stranieri che appaiono sul sito closethecamps.org, online da oggi. Recensiti nei paesi dell’Unione europea (UE), quelli candidati all’adesione all’UE, elegibili alla politica europea di vicinato (PEV) o ancora negli Stati che collaborano alla politica migratoria europea, questi campi erano tutti operativi tra il 2011 e il 2013.

Note per un Romanzo che non scriverò

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di Francesco Forlani

(progetto settembre 2013)

con immagini  di Salvatore Di Vilio

« Perché realizzare un’opera quando è bello sognarla soltanto? »
(Pier Paolo Pasolini nel ruolo dell’allievo di Giotto- Decameron)

 

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La Reggia custodita

Per Jean-Michel Gardair

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Jean-Michel Gardair, professore e letterato, scrittore e traduttore, è morto lo scorso agosto nella solitudine della malattia (http://etudesitaliennes.hypotheses.org/4456). Tra i molti ricordi, il più intenso è la presentazione che abbiamo fatto, in una piccola libreria parigina, oltre dieci anni fa, del suo libro Jean-Michel Gardair legge Il fu Mattia Pascal di Luigi Pirandello (Metauro, 2001); è una straordinaria e personalissima lettura del romanzo pirandelliano. Questo il primo capitolo.

 

 

Il fu Mattia Pascal
romanzo del fu Luigi Pirandello

Quid amabo nisi
quod aenigma est?
G. De Chirico, Autoritratto, 1911

 

Il fu Mattia Pascal è l’autobiografia postuma di un suicida e, in quanto tale, idealmente dedicata ai «fratelli» suicidi («fratelli miei», p. 87, li chiama appunto il narratore protagonista) di tutti i paesi e di tutti i tempi, suicidi veri o finti, o presunti, o falliti, o semplici candidati al suicidio, a tuti coloro, insomma, che hanno il suicidio per pensiero dominante; se non addirittura riservata a loro, così come Jean Genet aveva apertamente (ad apertura di libro) riservato agli «invertiti» la lettura di Querelle de Brest.

Ma è anche un giallo. Un giallo ontologico di un morto latitante. Un giallo in cui non si tratta di scoprire chi sia l’assassino, ma chi sia morto, e dove sepolto; addirittura se sia vivo o morto, o risuscitato: la sua tomba potrebbe essere vuota, e il presunto morto, suo latitante ospite, potrebbe essere il narratore che, specchiandosi nella lapide del proprio cenotafio, esclama in extremis: «Io sono il fu Mattia Pascal». O perfino l’autore, se, scherzando – ma non troppo – in una lettera dell’autunno 1904 (ossia tra la pubblicazione del romanzo a puntate e l’imminente edizione in volume), può suggerire il seguente frontespizio: Il fu Mattia Pascal / romanzo del fu Luigi Pirandello. Il giallo ontologico diventa, prima, ontologia del romanzo (di questo romanzo, e della narrativa in genere), poi, ontologia della scrittura.

Ma la tabula rasa del frontespizio e della lapide, la lapidaria eleganza del tombeau letterario non deve far dimenticare né il lungo intricato romanzo del dolore, cui attinge il «pensiero dominante» del suicidio, né il lampo accecante dell’ultima sofferenza che spinge all’ultimo salto nel buio.

(…)

La lettura che segue è stata ispirata e scandita da quotidiane passeggiate tra due tombe, nel parigino cimitero di Montparnasse, entrambe intestate a Baudelaire, lungo un percorso idealmente parallelo a quello che porta Mattia Pascal, dall’affollata scena della sua alienazione giovanile, fino alla pace del soliloquio con la lapide di se stesso. La prima, ad ovest, modesta e perfino meschina, defilata in seconda fila, piena, anzi strapiena in un angusto spazio, quasi un monumento all’infelicità familiare di Baudelaire, strozzato dall’odioso amore per la madre, risposata col Generale Aupick, che si pavoneggia in eterno nella vanitosa pompa di una lapide piccolo borghese:

 

Jacques Aupick
generale di divisione, senatore,
già ambasciatore
a costantinopoli e a madrid,
membro del consiglio generale
del dipartimento del nord, grand’ufficiale
dell’ordine imperiale della legione
d’onore, insignito da numerose
onorificenze estere,
deceduto il 27 aprile 1857
all’età di 68 anni
___________
 
Charles Baudelaire
suo figliastro, deceduto a parigi
all’età di 46 anni, il 31 agosto 1867
 
___________
 
Caroline Archenbaut Defayes
vedova in prime nozze di
Mr Joseph François Baudelaire
in seconde nozze
del generale Aupick
e madre di Charles Baudelaire
deceduta a Honfleur (calvados)
il 16 agosto 1871, all’età di 77 anni.

 

All’altra estremità, lungo il muro di cinta, ad est, la lapide sepolcrale, segnata dal solo nume del poeta, del cenotafio di Baudelaire, che vi giace sopra, ad occhi chiusi, fasciato da strette bende di pietra, vegliato, in cima a un piedistallo a forma di pipistrello, da un genio meditabondo e scontroso che potrebbe essere il poeta stesso, o il suo doppio, l’ipocrita lettore, «(son) semblable, (son) frère».

Sulla diagonale contorta che porta dall’una all’altra, s’incontrano pure, volendo, le tombe di Ionesco e Beckett.

Ma oltre alle indubbie affinità –psicologiche e formali–, tutt’altro è il singolare percorso di Mattia Pascal; tutt’altra l’originalità del fantasticare pirandelliano, oggetto primo della nostra indagine.

Zuppa di testa di capra

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goatsdi Gianluca Veltri

 

Sì, sì, ora comincerete a dire: “Ah, il disco di ‘Angie’”; “Ma i veri Rolling Stones sono quelli di ‘Jumping Jack Flash’”; “Ma i dischi migliori dei Rolling sono ‘Let It Bleed’ e ‘Beggar’s Banquet’”, e via disprezzando. Non lo troverete mai nelle discografie consigliate, ma fermatevi un attimo: perché “Goats Head Soup è un album straordinariamente sottovalutato, che merita attenzione a quarant’anni esatti dalla sua uscita. È stato considerato il classico vaso di coccio in mezzo a un vaso di ferro (“Exile On Main Street”, 1972) e a un altro, se non di ferro comunque di qualche metallo (“It’s Only Rock’n’Roll”, 1974). Ma a essi “Goats Head Soup”, la “zuppa di testa di capra”, non ha nulla da invidiare. Anzi, ci offre una versione per molti versi inedita degli Stones, interessante, che non va trascurata. Un unicum.

Ed eccoci a “Angie”, una canzone che gioca sull’ambiguità. È dedicata a una donna (e se sì a quale? Alla fatale Anita Pallenberg o ad Angela, la signora Bowie?), o forse alla droga, l’eroina che stava dilaniando Keith Richards? Proprio attorno a lui ruotano diversi aspetti che riguardano questo disco dalla copertina gialla del 1973. “Angie” è soprattutto sua, anche se Richards partecipò poco alle session: stava tentando di riabilitarsi dalla tossicodipendenza. Non prese parte neanche alle session fotografiche, infatti si nota facilmente che la sua foto, sul retrocopertina, è diversa dalle altre ed è stata rabberciata alla meno peggio. È dovuto essenzialmente alla sua presenza a mezzo servizio, il volto inedito che la band assume: più spazio all’altro chitarrista Mick Taylor, Mick Jagger in forma strepitosa, la solita formidabile sezione ritmica della premiata ditta W/W (Wyman/Watts) e largo ai tre storici tastieristi stonesiani: Bill Preston, Ian Stewart, Nick Hopkins. Richards suona poco, ma c’è: il suo modo di comporre era cambiato, in quello scorcio di anni. Richards stravedeva per Mick Taylor come chitarrista, tanto da scrivere i pezzi prevedendo gli spazi che Taylor avrebbe riempito. Salvo rimanerne molto deluso sul piano umano, a causa della scarsa comunicativa dell’allievo di John Mayall. Ma questa è un’altra faccenda.

Qual è la sostanza di cui è fatto “Goat’s Head Soup”? È un disco decadente. Un miscuglio in cui si rileva una forte matrice blues, spruzzate di rock’n’roll – e fin qui… − ma anche ingredienti decisamente più sorprendenti. Il mantra chitarristico di “Dancing With Mister D”, la traccia iniziale del disco, è qualcosa più di un riff: incessante per tutta la durata del brano, diventa un ostinato che nella strofa danza sull’armonia di un solo accordo (La). Quasi un sabba modale. Quel modulo sembra parente di certe formule minimaliste alla Terry Riley, già entrate nel rock in quegli anni (tra gli altri, si pensi agli Who di Pete Townshend). “Dancing With Mister D”, laddove D dovrebbe essere d’iniziale di Devil, il diavolo, rimanda ovviamente al brano di qualche anno prima “Sympathy For The Devil”, del quale riprende, seppur con approcci differenti, un senso di possessione incalzante, dentro un crescendo dal vago sapore voodoo. I brani più sostenuti sono di ottima fattura: “Star Star”, il cui titolo originario “Starfucker” fu censurato; l’ovattato e ossessivo blues ferroviario “Silver Train”; il rhythm and blues di “Heartbreaker”. Il tono fondamentale dell’album, il colore prevalente, è dato però dalle ballad lente, pervase da un senso di malinconia invernale, di spoglio disfacimento. “Coming Down Again” è un pezzo ispirato (d)al vortice tossico di Keith Richards: ballata pianistica, di caduta e sperdimento, cantata dallo stesso Richards, il quale non si è mai ritagliato il ruolo di vocalist per brani men che rimarchevoli. Lenta e struggente, “Coming Down Again” inaugura un’ideale spina dorsale del disco, che prosegue con una romantic song un poco più convenzionale come la citata “Angie”, e soprattutto, sulla seconda facciata, da “Winter” e “Can You Hear The Music”. È un gioiello assoluto, “Winter”: una perla atmosferica, impressionista, con una chitarra ritmica sotto, utilizzata come bordone, un tappeto riverberato costante, e la chitarra solista usata in funzione fortemente vocalizzante (come già in “Coming Down Again” e in diversi altri episodi del disco). Introdotta da un flauto orientaleggiante, “Can You Hear The Music” è un’altra ballad ambientale, insistente, ipnotica. Le melodie ondeggiano su una base armonica che si mantiene mono-accordo (Do) per tutta la strofa, prima di intraprendere un ritornello a scala discendente fortemente melodico.

L’ascolto di questo disco, registrato in Giamaica e uscito giusto quarant’anni fa, ci mostra un volto meno noto dei Rolling Stones. Osservarlo con la lente del tempo attribuisce un fascino onirico ancora maggiore a questi solchi.

Le cose cambieranno

5

Lande 7di Andrea Inglese

Eravamo immersi, da anni, e così in tanti, che ci sembrava fosse normale starcene lì accucciati, in mezzo a chiazze di calce, cherosene, plastica carbonizzata, pensando al cibo, a come procurarselo, con chi andarne in cerca, e come estrarlo, macerarlo, triturarlo, cucinarlo.

Newton alchemico

8

di Antonio Sparzani
Sir Isaac Newton by Sir Godfrey Kneller
Isacco Newton nacque il 25 dicembre 1642: la faccenda del calendario usato (giuliano e non ancora gregoriano) l’ho già spiegata qui, con tutti i dettagli del caso, quindi non sto a soffermarmi oltre.
Noto invece che, mentre la sussiegosa wikipedia inglese descrive così: «he was an English physicist and mathematician who is widely regarded as one of the most influential scientists of all time and as a key figure in the scientific revolution», sostanzialmente seguita dalla wikipedia catalana e da quella tedesca che parla di “filosofo” nel senso più ampio della parola, le wikipedie romanze, eccetto appunto quella catalana, comprese quelle in sardo, in romeno e in friulano, recitano tutte più o meno così: «è stato un matematico, fisico, filosofo naturale, astronomo, teologo e alchimista inglese.».
Ovvero i neolatini apprezzano la componente alchemica che senza alcun dubbio è stata una delle componenti importanti nella formazione di questo gigante della riflessione sulla scienza. Dico “gigante” non a caso, perché la metafora fu da lui stesso usata in una lettera a Hooke del 1676 (“Se ho visto più lontano, è perché stavo sulle spalle di giganti”), col quale peraltro litigò furiosamente. Ma la cosa che intendo sottolineare è questa parte non menzionata dalle wikipedie anglosassoni, e cioè la componente alchimistica. Come mai?
Comincio col tradurvi qui di seguito il prologo del libro di Jean-Paul Auffray, Newton ou le Triomphe de l’alchimie, Le Pommier-Fayard 2000, che racconta in breve la rocambolesca vicenda delle carte alchemiche di Newton.

«Tre mesi prima della nascita di suo figlio, destinato a diventare il grande sir Isaac Newton, Hannah Newton perde suo marito. Tre anni più tardi sposa in seconde nozze il reverendo Barnabas Smith, al quale dà tre figli ― un figlio, Benjamin, e due figlie, Hannah e Mary.
Venticinque anni dopo Hannah Smith sposa il reverendo Robert Barton, dal quale ha una figlia nel 1679. Intelligente e di grande bellezza, Catherine Barton conduce una vita avventurosa prima di sposare, all’età di trentotto anni, John Conduitt, di dieci anni più giovane. Essi hanno una figlia, Catherine, che Newton, che è negli ultimi anni della sua vita [morirà nel 1727], chiama affettuosamente Kitty.
Nel 1740, tredici anni dopo la morte di sir Isaac, Catherine «Kitty» Conduitt sposa il visconte Lymington. Il loro figlio diventa il secondo conte di Portsmouth.
Passano gli anni. Nel 1872 il suo discendente fa dono all’università di Cambridge dei libri e degli scritti lasciati da sir Isaac e conservati a cura della famiglia. Il bibliotecario compila un catalogo di tutti questi documenti e quindi restituisce al donatore un certo insieme di manoscritti che egli considera come «non di natura scientifica».
Nel 1936 il visconte Lymington apre la valigia che contiene i manoscritti e restituita a suo nonno e chiede all’illustre istituzione londinese Sotheby & Co. di metterli in vendita. Viene redatto un catalogo descrittivo nel quale i manoscritti sono suddivisi in 121 lotti. Con la vendita i manoscritti si disperdono. Lord John Maynard, barone Keynes, si ribella al fatto che questi documenti scritti dalla mano di Newton siano stati sparpagliati ai quattro venti e si prefigge il compito di recuperarli al più presto.
Arriva a ricomprarne una sessantina. Li esamina, ed è sconvolto da quanto scopre. Nell’occasione del terzo centenario della nascita di Newton [1942] annuncia, tra la sorpresa generale: «Newton non è stato il primo del secolo della Ragione, è stato l’ultimo del secolo dei Magi, l’ultimo dei Babilonesi e dei Sumeri, l’ultimo grande spirito ad aver penetrato il mondo del visibile e dello spirito con gli stessi occhi di quelli che cominciarono a edificare il nostro patrimonio intellettuale poco meno di diecimila anni fa.
Mi propongo qui di raccontare la storia vera di Isaac Newton, ultimo dei grandi Sumeri, che non vuol dire insultare la sua memoria, dato che egli stesso si fece apostolo del culto di Vesta e che considerava che gli Antichi detenevano, meglio di noi, il segreto della verità.»

Del contenuto parleremo la prossima volta.

video arte #26 – masha godovannaya

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(Masha Godovannaya, Untitled #1, 2005.)

Racconto di Natale

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di Ivan Ruccione
TitreMenuNoel
Sono tre giorni che guardo un pezzo di Vigevano da uno schifo di finestra di uno schifo di cucina, e il mio schifo di commìs de cuisine sembra remarmi contro, sembra che voglia mandare alle ortiche il tanto atteso cenone di Natale.
E Dio solo sa quanto ci tenga a questa ricorrenza, quanto sia importante per me, Vladimiro Strizzacapra., chef del ristorante “Cavoli Amari”, fare bella figura.
Non lo sa lui, macché, e no che non lo sa quanto sia stata dura per me passare notti insonni sui fogli dei ricettari cartacei e su quelli virtuali di internet, con gli occhi crepati dalla stanchezza e da uno schifo di whiskey, per studiare un menù che soddisfacesse il mio schifo di esigenze: ripulire i frigoriferi dalle materie prime deperite.

C’è un sacco di roba da non so quanto tempo, congelata e non congelata, marcita e non marcita, e l’etica professionale me lo proibirebbe, ancora di più le norme H.A.C.C.P. , ma vallo a dire tu agli ispettori sanitari che c’è la crisi, che il mio capo non c’ha più un soldo, che a lavorare siamo solo in due, che la tredicesima non la becco come non ho beccato la dodicesima, l’undicesima, la decima e la nona, che l’ottava giusta l’ho beccata quando ho urlato dietro al somaro di aiutante che mi ritrovo, tutto intento a saltare le verdure in un rondò troppo piccolo:
Quante volte te lo devo dire? Tromba nello stretto ma lavora nel largo!

Una semplicissima panna cotta, non gli ho chiesto tanto, una semplicissima e modestissima panna cotta con panna fresca scaduta da un mese. È vero, ha una consistenza e un gusto che si avvicinano più al formaggio stagionato d’alpeggio che altro, ma Jesu Christi: una bella bollitura con due buste di vanillina in più e chi se ne accorge?
Stavo cercando di aggiustare il manico di un coltellino quando l’abbattitore di temperatura ha avvertito con un suono il termine del raffreddamento, e quindi ho tirato fuori i pirottini di alluminio sistemati su un vassoio d’acciaio. Con il coltellino scassato ho fatto per sformare una porzione per assaggiarla, ma la panna si è riversata sul banco come una secchiata di smalto bianco sulle mie sporche intenzioni.

Augusto! – chiamo.
Dica, chef!
La colla.
Augusto molla le verdure che sta mondando e corre verso un mobiletto pensile, apre l’anta, ci rovista dentro, e poi mi viene incontro col suo faccione lentigginoso che sembra un uovo di quaglia.

Ecco, – dice. E sorride.
Mi metto a braccia conserte. Lo fisso dritto negli occhi.
Bravo, – mi congratulo.
– ‘Via, non c’è n’è biFogno, chef! Dovere. Anzitutto piacere.
No no. Bravo.
– Non ce n’è biFogno, davvero!
No no. Quel che è giusto è giusto: bravo.
È Ftato lei ad inFegnarmi di guardare Fempre intorno per avere il controllo della Fituazione. E coFì ho visto che il coltello era rotto e Fubito ho capito coFa le Ferviva. – Mi strizza l’occhio, con aria boriosa.
Cos’è quella?
Colla!
Ribadisco: bravo. Bravo pirla!

L’angolo della sua bocca inizia a tremare in preda a un tic nervoso. – Che ho fatto?
La colla, idiota che non sei altro!
– Ma eccola!
– Di pesce! La colla di pesce nella panna cotta!

Prendo dal contenitore di plastica appoggiato sul piano della plonge i fogli di gelatina in ammollo.
– Perdoni, chef! Mi Fono dimenticato!
Gli dico: – Apri.
Obbedisce, e le labbra si schiudono di colpo come se il guscio di quell’uovo di quaglia l’avessi sbattuto sul bordo di una bastardella. Poi gli ficco in bocca i fogli. – Magari è la volta buona che ti si aggiusta quella maledetta esse blesa!
Dopodiché, come tutte le volte che Augusto fa una cazzata, lo sbatto a calci in culo fuori dalla cucina. – Avanti, tre giri del perimetro, di corsa.

Dallo schifo di finestra guardo le nuvole di vapore dei suoi respiri accartocciarsi nel freddo, i suoi vent’anni e il suo metro e novanta allampanati pesticciare a ritmo di corsa blanda la neve mista al fango nel cortile del ristorante.
Al traguardo del terzo giro lo richiamo.

Sono le 18. Mo’ mangiamo, ché anche per noi è Natale.
– Che Fi mangia?
– ansima contento Augusto, massaggiandosi lo stomaco.
Pasta al burro.
– Wow, che cenone!
– Poi serviamo quei cento bastardi che hanno prenotato e ce ne andiamo a casa. Ok?
– Ok, –
dice tamponandosi i capelli biondi sudati che sbucano da sotto la bandana.
Dove sono le polpettine che ti ho detto di preparare stamattina?
– Chef, non ci Fono le polpettine…
– Come non ci sono?
– Mi rifiuto. Mi vergogno. Non poFFiamo dare alla gente quella roba là! Ha viFto in che Ftato era quella Fpalla di maiale?
– Tutti uguali. Tutti uguali siete voi altri aspiranti cuochi! Sapete qual è il problema? Che pensate troppo e male! Con cosa credi siano fatte le polpettine? Con filetto di manzo fresco?
– Non dico queFto, chef. Però…

Sono in cucina da quando ho quindici anni. Come già dissi a un mio vecchio sottoposto: non hai visto ancora niente. Se vedessi tutte le porcate che si fanno in cucina non andresti più a mangiare nei ristoranti. Hai presente la lavagna che si usa mettere all’entrata con scritto “Lo chef consiglia”?
– Altroché!
– Ecco: mangia tutto tranne quello che consigliano. Nella maggior parte dei casi ci si pulisce il frigorifero, con quella storia. Non stiamo facendo niente di più e niente di meno di quello che fanno tanti nostri concorrenti. E sfruttando il numero considerevole dei commensali nelle festività ce lo puliamo alla svelta, il frigorifero.

Camminando verso casa ripenso al buon servizio svolto, mentre il gelo della pianura padana mi sta aprendo le nocche con sottilissimi tagli. Sotto il chiarore pallido dei lampioni ammiro il luccichio dei cristalli di brina che un leggero vento scrolla dagli alberi e dalle case, e mi fermo, alzo il naso al cielo, chiudo gli occhi, e lascio che quei coriandoli fiabeschi mi inciprino il viso.
E penso ai sorrisi delle famiglie che ho visto entrare nel ristorante, alle madri che incalzavano la camicia ai bambini, alle mani dei bambini piene di regali che si stavano godendo quei momenti inconsapevoli che un giorno niente sarà più così, che un giorno si troveranno tristi come i loro nonni. E poi penso alla stronza di mia madre e alla buon’anima di mio padre.

Entrato in casa mi spoglio e il freddo del silenzio mi squarcia le nocche più in profondo. È passata da un’ora la mezzanotte.
L’albero di Natale non l’ho fatto. Figuriamoci il presepe. Faccio un giro per le stanze e guardo alcune immagini sacre che la vecchia inquilina aveva inquadrato ai muri. La vergine Maria è stupenda: giovane, bionda, occhi azzurri da fare un baffo al cielo. Ho tramestato con gli occhi temendo la firma di Hitler, in quel capolavoro ariano. Vi è poi un quadrettino raffigurante tre santi. Ho atteso con ansia il 25 dicembre. Li metto in un sacchetto e li porto in cantina. Proprio come hanno fatto loro con me. Con molti di voi. Con molte persone nel mondo.

Tornato dalla cantina vado a sedermi subito vicino alla finestra. La mia famiglia è nient’altro che l’odore della scorza di mandarino sul termosifone.
Se domani non lavorassi vedrei Anna, potrei abbracciarla, farle gli auguri.
Anna è la mia ragazza, e di bello c’ha solo il culo. Tutto il resto è meraviglioso.

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