Blare Out presenta:
Andata e Ritorno
Festival Invernale di Musica digitale e Poesia orale
Galleria A plus A
Centro Espositivo Sloveno
Venezia, San Marco 3073
28 – 29 -30 Novembre
Blare Out presenta:
Andata e Ritorno
Festival Invernale di Musica digitale e Poesia orale
Galleria A plus A
Centro Espositivo Sloveno
Venezia, San Marco 3073
28 – 29 -30 Novembre
Ricevo e volentieri pubblico questa nota di Raul Montanari (effeffe)
Lettera aperta agli organizzatori del Premio Scerbanenco, nell’ambito del Festival Noir di Courmayeur.
Potevate dirlo prima, che era tutta una messinscena!
Mi sarei risparmiato la procedura macchinosa, grottesca, mortificante di dovermi iscrivere per votare al vostro malfatto sito, rimbalzare fra link impazziti, dover dare i miei dati personali inclusi addirittura gli estremi della carta d’identità (cosa che ho fatto con molta riluttanza, come tutti), perché così chiedevate per garantire la massima trasparenza e correttezza al voto della giuria popolare.
Risultato?
Seconda questa povera giuria popolare, la cinquina dei finalisti doveva essere:
1. Massimo Donati, Diario di spezie, Mondadori [222]
2. Fabrizio Canciani, Acqua che porta via, Todaro Editore [156]
3. Erica Arosio & Giorgio Maimone, Vertigine, Baldini & Castoldi [113]
4. Claudio Paglieri, L’enigma di Leonardo, Piemme [98]
5. Romano De Marco, A casa del diavolo, Fanucci [69]
Peccato che l’aggiunta dei voti “ponderati” della giuria tecnica abbia mandato all’aria la cinquina, confermando il solo Claudio Pagliari ed estromettendo gli altri quattro finalisti a vantaggio di Donato Carrisi, Simone Sarasso, Massimo Gardella e Marco Malvaldi.
Per dare un’idea di quanto poco contassero i voti della giuria popolare, si noti che il primo classificato della cinquina definitiva, Donato Carrisi, aveva avuto quattro, ripeto: QUATTRO voti dai giurati popolari e si ritrova in finale con 964 voti, mentre Donati (222 voti popolari), Canciani (156 voti popolari) e gli altri se ne vanno a casa! E che dire del mio amico Marco Malvaldi? I giurati popolari avevano dato quattro, ripeto: QUATTRO voti anche a lui, eppure eccolo nella finale con 484 voti totali.
Ma non vi vergognate almeno un po’? Non siete imbarazzati?
Abbiate coraggio, ditelo che tutta la strombazzata trasparenza richiesta al voto popolare conta quanto il letame, se alla fine l’unica cosa che vale sono i voti della giuria tecnica! Non state a far perdere tempo alla gente, non imbrogliate il popolo noir mettendo in scena una votazione ridicola che offende il festival e il suo legittimo orgoglio di essere il più grande evento italiano nella narrativa di genere!
In venticinque anni e passa di frequentazione da addetto ai lavori del mondo dei libri ho visto un bel numero di cialtronate, ma questa dello Scerbanenco 2013 passa in pole position con uno scatto degno di Vettel.
Bisogna però darvi atto di avere raggiunto due notevoli risultati:
1. Il ben noto complesso di inferiorità del noir non ha più ragione di esistere: avete dimostrato che nel mondo del noir ci si comporta esattamente come nelle liturgie dell’esecrata letteratura “alta”. L’allineamento è avvenuto al peggio e non certo al meglio, ma questo non deve preoccuparvi.
2. E quei poveri di spirito che mettono in dubbio che il noir sia lo specchio della società? Eccoli serviti da questa perfetta metafora dell’Italietta nostra: un popolo di caproni che votano, illusi che la loro volontà collettiva conti qualcosa, mentre questa volontà viene tranquillamente sovvertita.
Congratulazioni.
Raul Montanari
ESCargot – Scrivere con lentezza e Più libri più liberi
presentano
POESIA 13 (E OLTRE)
Giovedì 28 novembre, presso la Biblioteca di Villa Mercede
(Via Tiburtina 113, San Lorenzo)
Dopo POESIA 13, lo scorso maggio a Rieti, il gruppo ESCargot ripropone la sua formula di lettura-ascolto, mettendo a fuoco nuovi autori e nuovi progetti editoriali
17.30 Nuove collane di poesia: Nino Aragno «i domani», IkonaLíber «Syn», Tielleci «Benway Series»
Intervengono: Andrea Cortellessa, Marco Giovenale e Giulio Marzaioli
Leggono: Damiano Abeni e Moira Egan (testi di John Ashbery), Maria Grazia Calandrone (testi di Alfonso Guida e propri), Mariangela Guatteri, Giulio Marzaioli, Gilda Policastro, Laura Pugno (testi di Giulio Mozzi e propri) e Michele Zaffarano
Coordinano: Francesca Fiorletta e Massimiliano Manganelli
20.30 Letture di Marco Caporali, Elisa Davoglio, Roberta Durante, Paolo Febbraro e Lidia Riviello
L’evento su facebook:
https://www.facebook.com/events/418589124936087/
ESCargot:
https://www.facebook.com/escargot.scrivereconlentezza
Più libri più liberi:
https://www.facebook.com/piulibri.piuliberi
Il flyer in rete:
http://esc-argot.blogspot.it/2013/11/escargot-villa-mercede-28-novembre-2013.html
di Juan Villoro (Traduzione di Maria Cristina Secci)
(Esce domani, pubblicato da Gran Vía, [256 pagine, 14 euro] La Piramide di Juan Villoro. Dalla nota dell’editore: «L’ex rocker Mario Müller scopre una possibilità di guadagno nei Caraibi: il piacere della paura. E in Messico, lungo un’immensa barriera corallina, costruisce La Piramide, un resort che offre ai propri clienti pericoli controllati, per convertire le loro ansie in realtà collaudata. Ma, come sempre accade, non tutto va per il verso giusto e un giorno qualcuno muore. Villoro, uno dei migliori scrittori latinoamericani, riesce a dare corpo e realtà all’utopia, con un singolare thriller tropicale che è anche una storia di amicizia, amore e redenzione con corrosive descrizioni del lato più contraddittorio dell’animo umano, un romanzo impeccabile che il quotidiano spagnolo La Vanguardia ha eletto tra i migliori del 2012». A seguire alcuni brani estratto dal romanzo.)
Per anni mi hanno detto che mio padre era morto o sparito a Tlatelolco, il 2 ottobre del 1968. Mia madre ne parlava appena. Era una donna forte, decisa, che si piegava senza escandescenze né isterismi a depressioni che confermavano negativamente la sua forza. Faceva un doppio lavoro, in un istituto e in una clinica per sordomuti. Arrivava a casa stanca di lottare perché la gente parlasse. Non voleva sentire domande e io smisi di farle. Sapevo solo che la morte di mio padre l’aveva addolorata meno di quanto avrebbe afflitto un’altra persona, qualcuno capace di piangere. Lei non piangeva. Non l’ha mai fatto. È qualcosa di veramente strano. Esisterà un registro di figli con madri che non hanno mai pianto? Dev’essere un gruppo sparuto e confuso. Non mi sarebbe piaciuto vedere mia madre piangere, ma che non l’abbia mai fatto mi è sempre apparso inspiegabile.
Mio padre era ingegnere e a quanto pare i suoi colleghi non lo stimavano. «Aveva un caratteraccio. E poi era un genio del calcolo, cosa imperdonabile» diceva mia madre.
Non ricordo drammi nella mia prima infanzia, però i miei genitori andavano d’accordo solo in una convivenza silenziosa, cosa insolita per una terapeuta del linguaggio.
È possibile che la morte o sparizione di mio padre, quando avevo nove anni, abbia rappresentato per lei un sollievo. Lui avrà approfittato del caos in plaza de las Tres Culturas per liberare mia madre della sua muta presenza? La parola “Tlatelolco” giungeva come il nome segreto di una separazione pattuita.
Il movimento studentesco non era stato popolare nel mio quartiere e neppure nella mia scuola. L’ipotesi che mio padre fosse morto per quella causa lo associava a un mistero delittuoso. Ciò nonostante, con gli anni, il movimento acquisì prestigio e i suoi protagonisti furono considerati vittime. Cominciai allora a pensare che questo mi riservava dei diritti speciali. Quando qualcuno suonava il campanello della porta, m’immaginavo un messo del governo che veniva a consegnare un televisore a colori per i famigliari del caduto a Tlatelolco.
Soltanto una volta beneficiai di quella tragedia. L’insegnante di educazione civica venne in qualche modo a sapere della sparizione di mio padre. Mi mise 10 senza alcun merito. La ricompensa m’infastidì. Non volevo 10 in educazione civica. Volevo che il governo mi desse un televisore.
Cosa ricordo di mio padre? Gli piacevano i tori e sapeva ballare il valzer. Era così alto da sbattere contro i telai delle porte, senza per questo fare smorfie di dolore. Sbatteva come una mosca sbatte contro un vetro. La sua faccia odorava di Old Spice e il suo corpo di detergente. Gli bastava uno sguardo per farsi obbedire. Aveva gli occhi di chi esplode se non gli si dà retta. Era esperto in misurazioni. Calcolava a prima vista la distanza che lo separava da qualunque edificio, e la sua altezza. Non usava occhiali e non sopportava le scarpe senza lacci. Non ricordo altro.
Nella sala era rimasta una sua foto. In essa, non sembrava né un ingegnere né un militante del ’68. Sembrava qualcos’altro che pure era stato: un venditore di zucchero filato. La sua bocca prometteva una dolcezza a poco prezzo.
La sua famiglia aveva un negozio di caramelle in cui lui dava una mano la domenica. Aveva conosciuto mia madre in un parco; lui le voleva regalare dello zucchero filato e lei aveva insistito per pagarlo. Fu quella prima divergenza a unirli.
Mia madre passava la giornata nell’istituto per sordomuti e mio padre era un desaparecido. Col tempo, l’ipotesi della sua morte perse forza e io mi abituai a immaginarlo ballare il valzer a Chihuahua, la sua città natale.
[…]
Perché si abbandona una casa enorme, un giardino con due palme dal grosso tronco, una terrazza con pergolato, una scala semicircolare dove la padrona di casa possa trascinare il suo vestito per diversi gradini, un bagno con piastrelle rosa per bambine o per ninfe? Quale crimine, quale maleficio, quale spettacolare disgrazia avrebbe potuto spiegare quella villa vuota?
I miei amici parlavano di zombi, di fantasmi e di criminali per dare una giustificazione a quelle stanze in cui ogni parola risuonava due volte. Segretamente, io pensavo ad altre ipotesi: il padre se n’era andato, portando la famiglia alla rovina. Ero un collezionista di padri che se ne vanno. In classe sapevo sempre quanti compagni erano senza padre.
[…]
Su un muro notai un geco trasparente. Ho un debole per le lucertole. Sono una meravigliosa compagnia per un tossico. Quando sei sballato, la presenza di un insetto risulta intollerabile e quasi tutte le specie costituiscono una minaccia. Ma le lucertole si muovono con grazia e brillano al buio. Le guardavo muoversi come fossero l’espressione grafica delle mie idee. In quel periodo avevo poche idee, ma le lucertole (veloci, azzurre, gialle, verdi) mi facevano pensare d’averne.
[…]
… mia madre era una donna di trentatré anni, sola e attraente, in un mondo in cui i divorzi erano rari. Indossava una minigonna da hostess. Non era difficile vederle gli slip quando accavallava le gambe. Si muoveva con una scioltezza che io odiavo e che Mario idolatrava. Esalava il fumo della sigaretta in una vanitosa diagonale ascendente, si agitava sulla sedia quando ascoltava una canzone, credeva con insolito ottimismo nel Valium come soluzione a tutti i problemi.
Di mio padre ricordavo alcuni gesti, il modo in cui mi premeva il petto prima di farmi addormentare, come se perdere ossigeno potesse conciliare il sonno, e le telefonate in cui chiedeva di parlare con me per trasmettermi messaggi striminziti (era il tipo d’uomo alla buona che chiama per dire di aver chiamato). Non mi mancava perché l’avevo conosciuto appena. Mi mancava la possibilità di avere un padre e i fratelli che non mi aveva dato.
Mia madre invece si rendeva presente in troppi posti dove non c’ero io. Lavorava in due cliniche per problemi uditivi e a volte usciva di notte.
Crescere al fianco di una donna dai misteriosi movimenti, che non aveva amanti riconosciuti ma che avrebbe potuto averne ed era apertamente corteggiata, mi trasformò nell’Uomo di Fiducia che in qualunque momento può smettere di esserlo.
[…]
In quel momento mi ricordai di una canzone che mio padre cantava mentre si faceva la barba: «Soy un pobre venadito que habita en la serranía…» Il diminutivo non lasciava speranze. Essere un cervo è triste, essere un venadito non ha rimedio.
Gli amici di doppiozero hanno lanciato la seconda edizione di cheFare, il premio che promuove cultura e innovazione con il contributo di 100.000 euro. cheFare è una piattaforma collaborativa per la mappatura, la votazione e la realizzazione di progetti culturali realizzati da organizzazioni profit e non profit con particolare riguardo alle imprese sociali, alle fondazioni e alle associazioni e organizzazioni culturali, alle start up L’iniziativa di doppiozero è rivolta al mondo della cultura, dell’innovazione sociale e alla società civile.
Qui di seguito il bando del concorso:
“cheFare”
1) Cos’è
L’Associazione Culturale doppiozero pubblica il presente bando con la finalità di:
1. assegnare un contributo a favore di un progetto di innovazione culturale caratterizzato da un forte impatto sociale, che integri al meglio i criteri indicati nei successivi articoli;
2. sviluppare a favore degli enti partecipanti un ecosistema comunicativo, ossia un network a livello nazionale avente ad oggetto l’impresa sociale per cambiare gli argomenti di dibattito.
Con il bando “cheFare”, l’Associazione Culturale doppiozero promuove la coniugazione dei valori di impresa e sostenibilità economica con i valori della cultura e si oppone con i fatti alla retorica della crisi, mettendo assieme imprese sociali, operatori culturali e comunità online.
2) Contesto
L’uscita dalla crisi non è solo una questione economica. È anche, e soprattutto, un problema culturale che si esplica nella convinzione che non sia possibile far nulla per contrastare la sfiducia e la mancanza di prospettive. È chiara la necessità di trovare nuove formule adatte a sostenere il mondo della cultura da una parte e quello delle imprese che lavorano sull’innovazione dall’altra. Ma se il mondo delle start-up rappresenta, pur tra mille difficoltà, un settore in crescita, lo stesso non si può dire del mondo della cultura, abituato da decenni, in Italia, a relazionarsi principalmente con le istituzioni pubbliche per attingere a fondi e contributi. Oggi è chiaro che questo modello sta scomparendo. Da qui nasce l’idea del bando “cheFare” (“Bando”): il progetto di doppiozero che vuole costruire una rete tra imprese culturali con alto contenuto di innovazione e ad alto impatto sociale. Tale progetto si pone due obiettivi contemporaneamente:
1) incentivare le dinamiche positive che emergono dalla messa in rete delle competenze di diverse imprese culturali;
2) supportare il mondo delle imprese culturali nella costruzione di nuovi modelli di business economicamente e socialmente sostenibili.
3) I promotori
Associazione Culturale doppiozero.
doppiozero è un’associazione non profit, composta da un gruppo di autori, editori, studiosi, critici (e non solo) che ha a cuore le sorti della cultura e dell’editoria. È un progetto editoriale, un sito web, una rivista on line, una casa editrice di e-book, un archivio, un magazzino di idee e insieme un’ipotesi sul futuro, un gruppo di lavoro e soprattutto, una comunità di lettori e scrittori. Una struttura trasparente ed aperta all’adesione di chi condivide le sue idee e il suo programma. Un luogo virtuale e gratuito dove si può trovare tutto ciò che ruota intorno al contemporaneo. In poco
più di un anno di attività, doppiozero è diventato uno dei più autorevoli punti di riferimento per la cultura in Italia.
4) I partner
Il network di “cheFare” è il motore propulsivo della piattaforma. L’Associazione Culturale doppiozero ha costruito un network di realtà affini e di alto profilo con le quali condividere il percorso di realizzazione del progetto associato al Bando “cheFare”.
Costruire un network non vuol dire semplicemente creare un insieme di soggetti con i quali fare qualcosa ma sviluppare collettivamente una pratica da agire. Non si tratta solo di una struttura ma di uno stile di interazione basato su valori comuni per il raggiungimento di uno scopo condiviso. Il Network dei partner (“Partner”) è sorto per affinità da una precisa volontà dei soggetti coinvolti e da un modo di operare che fa parte della missione di ogni suo nodo.
La condivisione di idee, progetti, conoscenze e competenze è la chiave di volta per realizzare azioni e iniziative di qualità in modo socialmente sostenibile. La pratica quotidiana che impegna ogni soggetto del nostro network verifica e conferma costantemente questo assunto. Al momento della stesura del bando, i Partner sono quelli sotto elencati; è nella natura e nella volontà di “cheFare” ampliarli durante il proprio percorso.
– Avanzi
– Fondazione <Ahref
– Fondazione Fitzcarraldo
– Tafter
– Societing
– Lìberos
Media partner:
– Domenica – Il Sole 24 ore
– Vita
Con il patrocinio della Regione Puglia – Assessorato alle Politiche Giovanili e Bollenti Spiriti
è la collaborazione di Enel.
5) Destinatari
Imprese non profit, low profit e profit: associazioni, comitati, organizzazioni di volontariato, fondazioni, imprese sociali, società di persone, società di capitali, società cooperative, società consortili, organizzazioni non governative, associazioni di promozione sociale, Onlus, associazioni e le società sportive dilettantistiche.
6) Caratteristiche dei progetti richiesti
I progetti presentati per il Bando “cheFare” devono operare nei campi della cultura umanistica generalmente intesa: letteratura, musica, teatro, danza, pittura, cinema, video, fotografia, arti plastiche, performing arts, editoria, filosofia, pedagogia, psicologia, sociologia, antropologia (“Progetto/Progetti”). Ogni Progetto, inoltre, deve essere connotato, in tutto o in parte, dalle seguenti caratteristiche:
A) promuovere la collaborazione. Attivare e incrementare la capacità di relazione e interazione con soggetti terzi attraverso la costruzione di reti territoriali e reti on-line;
B) ricercare forme innovative di progettazione, produzione, distribuzione e fruizione della cultura;
C) essere scalabile e riproducibile. I progetti devono ambire ad un ulteriore sviluppo dimensionale e/o alla replicabilità in condizioni e ambiti differenti;
D) essere economicamente sostenibili nel tempo. La sostenibilità economica, oltre a riferirsi al grado di equità sociale del Progetto, deve garantire la possibilità dello stesso di mantenersi attivo ed efficiente in un arco di tempo limitato e definito;
E) promuovere l’equità economica e contrattuale dei lavoratori impiegati, con particolare riferimento alle tipologie di contratti che si vorrebbero attivare nella realizzazione del Progetto vincitore del Bando “cheFare”;
F) avere un impatto sociale territoriale positivo: attraverso le attività del Progetto, promuovere la coesione sociale nei territori e nelle comunità di riferimento, favorire l’accesso alla cultura e ai saperi e facilitare la fruibilità dei prodotti culturali da parte della collettività;
G) verrà valutato positivamente il ricorso ad ogni strategia di progettazione, produzione, gestione, distribuzione dei contenuti che inquadri la cultura come bene comune (tecnologie hardware e software opensource e freesoftware, impiego di licenze Creative Commons, etc).
H) capacità di coinvolgere le comunità di riferimento e i destinatari del Progetto nella comunicazione delle proprie attività.
I Progetti verranno valutati da un team di esperti, così come meglio descritto al successivo art. 7, paragrafo B), Fase numero 1. Sarà data una valutazione migliore ai Progetti che risponderanno al più alto numero di requisiti, fermo restando il principio della qualità generale.
7) Modalità di partecipazione
A) Documenti da presentare in relazione al Progetto – template di presentazione – e azioni da porre in essere nel corso del Bando.
I Progetti, con le caratteristiche di cui al precedente art. 6, dovranno essere presentati, a pena di decadenza, dal 28 ottobre 2013, ore 10.00, al 9 dicembre 2013, ore 18.00, compilando il form online sul sito www.che-fare.com:
1. presentazione sintetica del Progetto e del Soggetto Proponente (attraverso il modulo presente sul sito www.che-fare.com);
2. 3 immagini (immagini relative all’attività del soggetto proponente);
Dalla data di presentazione del Progetto fino alla data di chiusura delle votazioni on line (Fase numero 2, con scadenza il 13 marzo 2014), i soggetti proponenti sono chiamati ad utilizzare la piattaforma TIMU, sviluppata dal Partner Fondazione <ahref, per stimolare il dibattito sul proprio Progetto e farlo conoscere presso il pubblico. L’utilizzo di tale piattaforma, così come le specifiche modalità di sfruttamento di tale sistema da parte del soggetto proponente, sarà oggetto di approfondita e positiva valutazione in sede di votazione finale della Giuria (Fase 3).
B) Procedure di valutazione
La valutazione dei Progetti, contraddistinti dalle caratteristiche di cui al precedente art. 6 e corredati dei documenti descritti nel presente articolo, paragrafo A), avverrà attraverso tre fasi distinte: preselezione, votazione on line del pubblico e votazione da parte di una Giuria.
Fase numero 1. Preselezione
Entro il 14 gennaio 2014, un team di esperti composto da professionisti e ricercatori espresso dal Network dei Partner (“Team di Esperti”), selezionerà, sulla base dei criteri indicati nell’art. 6 e, in ogni caso, a proprio insindacabile giudizio, fino ad un massimo di 40 Progetti (di seguito, per brevità, “Progetti Selezionati”). Il 15 gennaio 2014, doppiozero pubblicherà sul Sito le schede dei Progetti Selezionati, predisposti debitamente dal Team di Esperti (di seguito, per brevità, “Schede dei Progetti”), al fine di descrivere al pubblico tali proposte e di consentirne la votazione da parte degli utenti.
La pubblicazione di parte delle informazioni relative a tali schede verrà effettuata anche sulle seguenti piattaforme dei Social Network connesse al progetto legato al Bando “cheFare”:
Fan Page di Facebook all’indirizzo http://www.facebook.com/PremioCheFare;
account Twitter http://twitter.com/che_fare .
Fase numero 2. Votazione on-line del Pubblico
Dal 15 gennaio 2014, ore 10.00, al 13 marzo 2014, ore 18.00, gli utenti, con registrazione effettuata sul Sito e confermata via e-mail potranno esprimere la propria preferenza, votando i Progetti Selezionati che ritengono migliori rispetto agli altri in gara.
Ciascun utente potrà esprimere tanti voti quanti sono le sue preferenze, ma potrà votare una sola volta un singolo Progetto Selezionato. Il software utilizzato da doppiozero per la votazione pubblica è costruito in maniera tale da non calcolare i voti effettuati dal medesimo utente o il cui indirizzo e-mail non sia stato confermato dall’utente medesimo.
Durante il periodo di votazione on-line e, comunque, entro il 18 marzo 2014 doppiozero si riserva il diritto di cancellare i voti che risultino conferiti in violazione dei suddetti principi (più votazioni da parte del medesimo utente a favore del medesimo Progetto), da fake account e/o, comunque, da persone inesistenti o la cui esistenza e/o generalità, non siano state confermate, dietro esplicita richiesta avanzata in tal senso dal soggetto promotore. doppiozero si riserva di interrogare singolarmente i Progetti Selezionati per verificare che non incoraggino o promuovano o tollerino la violazione dei suddetti principi. Qualora si riscontino suddette irregolarità i Progetti Selezionati verranno eliminati dal bando.
Nel medesimo periodo di votazione on-line doppiozero si riserva il diritto di eliminare i Soggetti proponenti che non provvederanno a creare e condividere, attraverso la piattaforma TIMU, almeno 1 documento testuale, 10 immagini/foto, 3 clip multimediali. Tale misura serve a doppiozero per valutare la capacità dei Soggetti proponenti di entrare in contatto con la propria comunità di riferimento.
Fase numero 3. Votazione della Giuria
Tra il 19 marzo 2014 e il 3 aprile 2014, gli 8 Progetti più votati dal pubblico durante la Fase 2 (“Progetti Finalisti”), saranno sottoposti alla valutazione di una giuria, che selezionerà il Progetto vincitore (“Progetto Vincitore”), a suo insindacabile giudizio e sulla base delle linee guida sviluppate nel presente Bando. La valutazione della Giuria sarà effettuata anche tenendo conto del comportamento proattivo dei soggetti partecipanti sulla piattaforma TIMU.
La comunicazione di vincita sarà effettuata pubblicamente sul sito di “cheFare” la settimana successiva e sarà confermata al soggetto partecipante tramite raccomandata r.r.
La giuria (“Giuria”), che deciderà a suo insindacabile giudizio, sarà composta da personalità! di spicco dei diversi settori tematici attinenti al presente Bando e, in particolare,:
– Paola Dubini (Economista, Università Bocconi di Milano),
– Gustavo Pietropolli Charmet (Psichiatra, psicanalista e docente),
– Eliana Di Caro (Redattore delle pagine cultura e sviluppo della Domenica – Il Sole 24 ore),
– Christian Raimo (Scrittore, giornalista e blogger),
– Ivana Pais (Sociologa, Università Cattolica di Milano)
Durante la Fase numero 3 doppiozero si riserva la possibilità di organizzare un evento di approfondimento dei Progetti Finalisti, al quale i rappresentanti dei relativi 8 soggetti proponenti saranno tenuti a partecipare, pena l’esclusione dal Bando stesso (“Evento di Approfondimento”).
Ai soggetti proponenti verrà inoltre richiesto di presentare il Business Plan del Progetto Finalista al fine di rendere note, in modo dettagliato ed esaustivo, le diverse peculiarità dello stesso. Il Business Plan (che non sarà oggetto di alcun tipo di diffusione al pubblico, ma solo di disamina da parte dei membri della Giuria, dai membri dei Partner e da quelli dell’Associazione Culturale doppiozero) dovrà essere consegnato a doppiozero entro e non oltre il 19 marzo 2014, pena l’esclusione automatica dal presente Bando, tramite raccomandata r.r. all’Associazione culturale doppiozero, via A. Fioravanti, 3 – 20154 Milano (Italia). L’eventuale Evento di Approfondimento, della durata massima di 2 giorni, avrà i seguenti obiettivi:
– analizzare in profondità e raffinare i Progetti Finalisti, con l’ausilio di personale esperto dei Partner del Network;
– permettere alla Giuria di sviluppare una conoscenza più approfondita dei singoli Progetti Finalisti al fine di poter operare una valutazione quanto più puntuale ed informata possibile.
8) Manleve e Garanzie
Con la partecipazione al presente Bando, ogni soggetto proponente dichiara espressamente che il Progetto presentato è originale e non viola in alcun modo, né in tutto né in parte, diritti e/o privative di terzi, manlevando sin d’ora l’associazione doppiozero e/o i suoi Partner da ogni e qualsivoglia responsabilità, richiesta di risarcimento dei danni danni e/o sanzione avanzata da terzi al riguardo.
Con l’adesione al presente Bando, inoltre, i soggetti proponenti sono vincolati, fino all’avvenuta proclamazione del Progetto Vincitore, a non cedere in licenza, né totalmente né parzialmente, a terzi qualsivoglia diritto riconducibile ai Progetti presentati e di ogni altro materiale che sia stato scritto, ideato, preparato, concepito, sviluppato o realizzato, sia interamente che parzialmente, al fine di partecipare al presente Bando. In caso di violazione di tale principio, resta sin d’ora inteso che il soggetto proponente sarà! automaticamente escluso dal Bando.
Resta da ultimo inteso che qualora il proprio Progetto rientri tra quelli Selezionati e votabili on line (Prima Fase), il soggetto proponente si impegna ad inserire sul proprio sito internet istituzionale e/o pagina social un banner al Sito ed a darne adeguata comunicazione alla propria comunità di riferimento.
9) Liberatoria di utilizzo
Con la partecipazione al presente Bando, i soggetti partecipanti autorizzano l’associazione doppiozero, i Partner e qualsivoglia altro soggetto coinvolto nella realizzazione di tale iniziativa, a pubblicare sul Sito e sulle piattaforme dei Partner una breve descrizione del Progetto e/o i documenti presentati ai fini della partecipazione al Bando di cui al precedente art. 7, paragrafo A) (template di presentazione), e/o a promuovere presso il pubblico i Progetti in altre forme e modi al fine di stimolare un dibattito culturale in merito e, in generale, aumentare le votazioni on line del pubblico, restando fin d’ora inteso che il business plan non sarà oggetto di alcun tipo di diffusione e/o utilizzo.
I materiali presentati congiuntamente ai Progetti, così come il Progetto stesso, potranno essere utilizzati da doppiozero, dai Partner e dai Media Partner nell’ambito della loro attività di comunicazione ordinaria e straordinaria sul sito di cheFare, sui Social Network e su altri canali di comunicazione a mezzo Internet, radio, stampa e televisione.
Anche nella fase successiva alla pubblicazione on line, il Team di Esperti potrà eliminare i contenuti dei Progetti che a suo insindacabile giudizio non corrispondono ai criteri indicati per la partecipazione al presente Bando oppure siano comunque ritenuti lesivi di diritti di terzi.
Resta inteso che la liberatoria d’uso del Progetto e/o dei documenti presentati ai fini della partecipazione al Bando viene concessa dai soggetti partecipanti a titolo gratuito, senza alcuna limitazione di carattere territoriale o frequenza d’uso, per intero o in parte, singolarmente o unitamente ad altro materiale, ivi compresi, senza limitazione alcuna, testi, fotografie o immagini predisposti e/o realizzati e/o comunque prescelti da doppiozero o dai Partner, o da qualsivoglia altro soggetto coinvolto nella realizzazione di tale iniziativa, in qualunque formato, su internet e su radio, stampa e televisione e per tutto il periodo di durata del Bando.
Resta altresì inteso che, con la partecipazione al presente Bando, la suddetta liberatoria viene concessa, con le medesime modalità sopra descritte e con riferimento ai soli Progetti Selezionati, per un ulteriore periodo di tre (3) anni dalla proclamazione del vincitore, al fine di consentire alla Associazione Culturale doppiozero, ai Partner o a qualsivoglia altro soggetto da essi coinvolto, di promuovere presso il pubblico tale iniziativa e fargli conoscere l’avvenuta realizzazione del Bando stesso.
10) Privacy
Il trattamento dei dati personali relativi al legale rappresentante del soggetto proponente, così come quello degli utenti votanti sono espressamente regolamentati dalla privacy policy del Sito http://www.che-fare.com e dalle singole informative privacy a cui si rinvia specificatamente.
11) Contributo
Al soggetto vincitore del Bando “cheFare” sarà riconosciuto un contributo pari ad euro 100.000,00. Tale contributo verrà erogato in due tranches da 50.000 euro ciascuno. La prima tranche verrà erogata entro tre mesi dalla proclamazione del Progetto Vincitore. La seconda tranche verrà erogata con altri due versamenti cadenzati da 25.000 euro ciascuno, vincolati ad una serie di incontri periodici di monitoraggio. Durante gli incontri di monitoraggio verrà verificata la trasparenza di spesa del Progetto Vincitore ed ottimizzati gli aspetti economici e di impatto sociale.
Le modalità di erogazione del contributo, in ogni caso, verranno specificamente disciplinate tramite una apposita convenzione che verrà stipulata tra il soggetto vincitore e l’Associazione Culturale doppiozero, entro un mese dalla proclamazione della vincita.
12) Esclusione
Ogni dichiarazione falsa o incompleta implica l’esclusione immediata del soggetto proponente dal Bando. Sono da considerarsi esclusi dalla selezione i Progetti non presentati entro il termine previsto, presentati in forma parziale o comunque in contrasto con una qualsiasi regola del presente Bando o che risultino maggiormente votati dal pubblico in base a votazioni poi risultate false, con le modalità e nei limiti descritti ai paragrafi precedenti. I soggetti proponenti sono inoltre invitati a non prendere contatto con i membri della Giuria, pena l’esclusione dal Bando stesso.
Link e contatti:
www.che-fare.com
Video Vimeo: http://vimeo.com/77795294
Facebook: PremioCheFare
Twitter: @ che fare
Associazione culturale doppiozero
Via A. Fioravanti, 3 – 20154 Milano (Italia)
02 45495593 – 02 45494988

Di Sergio La Chiusa
( tratto da ‘ Il dormitorio di Sequals’)
Domenica un ozio nervoso opprimeva le camerate. Allenati com’erano a rispondere a comandi e istruzioni circostanziate, persino per allacciarsi le scarpe, lasciati a se stessi sembravano persi. Alcuni, in tuta da ginnastica, se ne stavano stesi sulle brande, concentrati, come assorti in complicati calcoli mentali: di tanto in tanto scattavano a sedere e sentenziavano: “Cento all’alba!” “Centocinquanta!” “Duecento!” “Impazzire!” “Impazzire!”. Poi ricadevano esausti. Altri per passare il tempo annusavano meticolosi le calze di lana arrotolate dentro gli anfibi. Altri ordinavano i propri beni, rovistavano negli armadietti, traslocavano mutande da un ripiano all’altro. Altri ancora vagavano insensati nel corridoio: si sentiva l’andare e venire cupo delle ciabatte, come di vecchi pensionati, anche se avevano diciotto, diciannove anni al massimo.
Bordini, insaccato tra le lenzuola, liberava le potenze creative. Aveva strappato da una rivista una riproduzione della caduta dei ciechi di Bruegel e l’aveva attaccata con lo scotch al materasso di Lamanna, che occupava il letto sopra il suo, così ora poteva comodamente lavorare da sdraiato copiando con calma il suo modello. Anche se non era semplice per via degli scossoni improvvisi di Lamanna, che oggi era molto agitato e ogni tre, quattro minuti era preso da una crisi, saltava sul letto e ordinava: “Mutismo e rassegnazione! Mutismo e rassegnazione!”, e poi si ributtava indietro soddisfatto perché in quel momento nessuno stava parlando, e tutti sembravano in effetti piuttosto rassegnati. Resistendo alle scosse, Bordini era riuscito a riprodurre con cura i corpi di tutti i ciechi senza teste e a tratteggiare il paesaggio campagnolo, e non si era nemmeno limitato a un arido lavoro di copista. Al posto della chiesa con il tetto a cuspide e il campanile slanciato, sullo sfondo, aveva rappresentato con poche linee esemplari la caserma di Sequals, un cubo isolato, senza aperture, senza rapporti con il mondo, e in cima ci aveva pure messo l’immancabile tricolore che pendeva dalla sua asticella come un cencio moscio. I vecchi panni da mendicanti dei ciechi, invece, li aveva sostituiti con mimetiche nuove e le scarpe di pezza con solidi anfibi militari. Adesso si lambiccava sulle teste mancanti. Anche se l’ultima crisi di Lamanna non accennava a calmarsi: il letto traballava con particolare insistenza, emetteva rumori sinistri, e ora sembrava persino sollevarsi pericolosamente su un lato. Che combinava Lamanna? Bordini aveva levato gli occhi dai ciechi. La testa capovolta di Lamanna, lunga e stretta, rossa d’eccitazione, si stava insinuando sotto il telaio del letto a castello.
“L’Artista! L’Artista!” si era messo a urlare “L’Artista! Guardate l’Artista!”, la testa si era allungata tutt’intera sopra i ciechi e continuava a mobilitare i commilitoni con la sua vocina stridula. Le cose si mettevano male per Bordini. Bastava che un imbecille come Lamanna lanciasse un’iniziativa perché l’intero dormitorio si scuotesse dal torpore, e allora tutti si sollevavano dall’ozio sfregandosi le mani per la novità. Chi era la vittima? Bordini? Già erano accorsi in quattro, cinque, sei, sette, saltavano dai materassi e si stringevano intorno all’impalcatura metallica del letto, chiudevano ogni scappatoia, si curvavano per curiosare, accorrevano sempre più numerosi ciabattando scatenati dal corridoio, e ormai Bordini era letteralmente accerchiato da tutte quelle teste rozze, grossolane, un campionario di teste semilavorate che sembravano estratte di peso dalla sarabanda di Bruegel di Detroit, il suonatore di zampogna e i sovreccitati danzatori, solo espropriati delle rispettive dame e senza tutti quei sessi protuberanti che mettevano a dura prova le cuciture dei calzoni: e per questo più torvi, più tetri, più pericolosi. “E le teste? Non le sai fare le teste?”, avevano cominciato a pretendere ritratti singoli e di gruppo da mandare alle mamme e alle presunte fidanzate, le estraevano dai portafogli, le fidanzate formato tessera, ne approfittavano per esibirle, si spintonavano l’un l’altro per avere la precedenza, e intanto le mani s’intromettevano, si contendevano i ciechi, sporcavano la carta, ci lasciavano impronte… le dame! ci volevano le dame per calmarli! che se li venissero a prendere! che irrompessero tutte insieme nella camerata e se li portassero via! Bordini le invocava inutilmente, le dame di Bruegel, massaie sempliciotte, odorose di rigovernatura, cavoli lessi, verze, agli, cipolle, imbacuccate in gonnone monacali e immacolate cuffie da cuoche, e tuttavia irresistibili se solo si lanciavano nel vortice delle danze nuziali con i loro passi concitati, le occhiate vivaci, la voglia di vivere che prorompeva dalle poppe, e i maschi che non capivano più nulla e si lanciavano anche loro, i volti inebetiti, i ventri saltellanti, trascinati nel moto impetuoso dei grembiali! Ci volevano loro, insomma! Che se li portassero via! Indietro! Nelle loro storie private! Un ballo liberatorio e poi tutti a casa! Accuditi da mamme e fidanzate!

Quando infine ci aveva pensato la campanella del rancio a sedarli e disperderli, Bordini, solo nel silenzio della camerata, tornava a occuparsi delle teste mancanti. Dopo scrupolose osservazioni era arrivato a scegliere i sei crani che sembravano più interessanti. I più adatti alla caduta. I prescelti, loro ancora non lo sapevano, erano, in rigoroso ordine di precipizio, dal primo capitombolato all’ultimo: Lamanna, Stampelli, Tortelli, Tartaglia, Rogna, Zampogna. Lamanna era già piombato nel dirupo. Stampelli, senza più un solido appoggio, brancicava con una mano nel vuoto. Gli altri, invece, non sospettavano nulla e marciavano in colonna nella loro ottusa cecità militare, ancora all’oscuro del loro destino di ospedalizzati.
Ma ora le teste! Mancavano solo le teste! Mentre loro si rimpinzavano in sala mensa, Bordini si accaniva sulla carta con la tenacia del vendicatore. Aveva cercato di riprodurre su un secondo foglio i tratti somatici dei prescelti accentuandone i difetti, e infine con una precisa operazione di chirurgia plastica, un lavoro di forbici e vinavil, aveva installato i crani provvisti di regolari berretti verde oliva sui corpi dei ciechi di Bruegel. Sola eccezione: Lamanna. Lui la stupida l’aveva persa nella caduta. Anzi, Bordini gli aveva persino scoperchiato con un certo minuzioso godimento il cranio da cui sgusciava invece della labirintica massa cerebrale una semplice effervescenza, un gas, un pulviscolo di puntini neri. Zampogna, ultimo, sorrideva con gli occhi vacui, ancora ombreggiati dalla visiera protettiva della stupida.
L’opera, in un primo momento, complice la mezza luce della camerata e l’entusiasmo della creazione, era sembrata rimarchevole, destinata a occupare un posto non del tutto trascurabile nella Storia dell’Arte Occidentale del XX secolo. Si collocava tra Otto Dix e Georg Grosz. Nel cuore dell’avanguardia e dell’Europa. Il ritardo di cinquant’anni era una questione secondaria. Bordini si vedeva correre infervorato per le strade di Monaco con la sua cartella di disegni e schizzi preparatori sotto braccio. “Aspettatemi!” urlava “Aspettatemi! Anch’io sono un artista degenerato! Ho tutte le carte in regola! Anarchico! Anti-militarista! Mentalmente deviato! Perché m’avete escluso, imbecilli?”, ma ecco che superava con slancio la coda di ottusi visitatori, si faceva largo tra la folla, passava davanti alle teste mortifere della delegazione ufficiale, spintonava via con una manata il piccolo corpo poliomielitico e repellente di Goebbels e con un colpo secco di martello inchiodava al muro il vaticinio delle sue “Teste” proverbiali: “Specchiatevi, dementi!” diceva ai visitatori additando con mano tremante i ciechi militi, mentre Goebbels, che evidentemente si era specchiato in Lamanna, si contorceva sul pavimento in preda a un’improvvisa crisi di svelamento e si rimpiccioliva a vista d’occhio trascinandosi per la sala degli espressionisti con il tipico movimento vermicolare dei capitolati, smascherati e ridotti alla loro natura ordinaria, sempre più minuscolo, sempre più inequivocabilmente verme, sino a che non veniva calpestato dai suoi stessi sottoposti.
A questo punto si sentì un peto clamoroso provenire dal corridoio. Qualcuno stava tornando. Uno dei prescelti? Sospettava qualcosa? Tornava a vedere l’opera? Lamanna, per esempio! Si sarebbe riconosciuto, la testa scoperchiata, spudoratamente vuota, e magari se la sarebbe pure presa, avrebbe spiattellato tutto al capitano! Bisognava nascondere i ciechi! ma invece di muoversi, Bordini, come intrappolato nelle coperte, rimboccate secondo i severi regolamenti militari, cercava le ossature metalliche dei venti letti a castello che si andavano scomponendo nell’oscurità della camerata: il marrone uniforme delle coperte si stava spandendo dappertutto, si allargava come una malattia insanabile, contaminava, complottava con la luce torbida della sera, rimestava tutte le cose in un’unica massa incolore. Ridimensionato, neutralizzato dalle coperte nelle quali lui stesso si andava perdendo, sperava almeno di vedere le sue opere dissacranti bruciare nelle latrine: le teste sproporzionate che si accartocciavano, crepitavano, alimentavano un minimo incendio e si riducevano in cenere sotto gli occhi illuminati dei commilitoni e del capitano, che infine tirava la catenella dello sciacquone con un gesto di sufficienza, e i pezzetti inceneriti delle teste vorticavano, risucchiati con un ultimo scroscio nelle profonde tubature della turca: destino di tutte le opere d’ingegno. Qualcuno intanto era entrato e si stava raspando rumorosamente la testa. Senza sconvolgere l’ordine del letto, sporgendosi con movimenti cauti, Bordini aveva nascosto i suoi ciechi nell’armadio. Mentre chiudeva lo sportello, lo vedeva di schiena, nella penombra, il raspatore, che ora era passato alle natiche e ci dava dentro con tutte e due le mani. Furibondo. Come lottando con un’intera colonia d’invasori. Ma Bordini non si preoccupava. La sua ribellione era al sicuro, conservata nel ripiano dei suoi oggetti sacri. Accanto al barattolo delle cipolline sottaceto.
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Fonti iconografiche: La parabola dei ciechi e Danza di contadini di Pieter Bruegel il Vecchio.
Di Giorgio Mascitelli
La letteratura, come l’ho appresa io negli anni ottanta, quelli del liceo e dell’università, era un’attività regolata da una serie di istituzioni e convenzioni, definite di solito società letteraria ( critica accademica e militante, le collane editoriali, le riviste, la figura dell’autore, i concetti di tradizione e avanguardia ecc.), che in realtà erano già entrate in crisi allora, anche se io non me accorgevo perché ero troppo entusiasta della mia scoperta di quel mondo. Tale società, che si presentava ai miei occhi come un fatto naturale, si era formata completamente solo nel corso del novecento e i suoi primi elementi costitutivi risalivano tutt’al più al settecento.
Insomma si trattava di un prodotto storico: quello che, per esempio, noi intendiamo con il concetto di autore è qualcosa di diverso da come veniva inteso fino al Settecento. Eppure proprio in virtù di questa storicizzazione è possibile affermare in maniera più consapevole che la società letteraria novecentesca ha consentito la creazione di un ambiente abbastanza favorevole all’autonomia dello scrittore e alla sperimentazione di nuovi linguaggi.
Questa società entra in crisi non perché improvvisamente gli editori pensano solo a fare i soldi e a pubblicare libri commercialmente e non artisticamente validi ( questo lo hanno sempre fatto), ma perché, come spiega Bourdieu, il campo letterario moderno, su cui si è edificata la società letteraria, nasce a cominciare dall’Ottocento su un’opposizione tra una polarità antieconomica dei beni simbolici e una economica, capitalistica, che considera i libri una merce come tutte le altre. Ora il primo di questi due poli indebolisce progressivamente la sua forza attrattiva e il campo letterario entra in crisi. Non è esatto dire che la crisi sia originata da fattori storici, nel senso che ovviamente il trionfo del capitalismo, il neoliberismo, la cultura di massa hanno un’influenza, ma non esiste un rapporto di corrispondenza meccanica. Ciò che invece ha fatto entrare in crisi la società letteraria è un cambio di estetica dominante: in passato, diciamo fino al sorgere del postmodernismo, predomina un’estetica dell’originalità di origine romantica che cede progressivamente il passo a un’estetica del profitto, che ha origine nella cultura di massa.
Che cosa intendo per estetica del profitto? Semplicemente il fatto che il valore di un’opera d’arte sia determinato o misurato dal suo successo commerciale. Che cosa intendo per estetica dominante? Un’idea dell’arte o della letteratura che circola nella società, nelle idee di tutti, indipendentemente dal fatto che sia enunciata in formulazioni teoriche più articolate. In altri termini quando nel passato predominava l’estetica dell’originalità, anche il più avido editore doveva confrontarsi con questa idea, magari finendo con il pubblicare qualche libro ‘artistico’ per ragioni di prestigio. Viceversa in questa epoca anche il più elitario e disinteressato dei mecenati si dovrà confrontare con il tema del successo commerciale.
Spero che nessuno si arrabbi perché uso l’espressione estetica del profitto e che non mi scambi per il perfido direttore megagalattico che costringe il povero Fantozzi ad assistere alla proiezione della Corazzata Potemkin anziché alla partita della nazionale, la uso solo perché è la più efficace per indicare questo fenomeno. L’idea che un libro sia interessante perché è in classifica da quarantatré settimane o perché ha venduto cinquecentomila copie, amplificata in mille modi dal sistema mediatico, fa breccia e forgia la mentalità collettiva, magari nella convinzione che queste opere rappresentino lo spirito dei tempi, emarginando l’idea concorrente che un libro sia degno di essere letto perché a vario titolo originale.
Come scrivevo sopra, spiegare questo fenomeno ricorrendo a concetti come logica del capitalismo o società dello spettacolo non è sbagliato, ma generico: mi pare che all’interno di questa cornice ci siano tre fattori culturali specifici che abbiano un peso determinante. In primo luogo va citata la progressiva marginalità dell’idea di umanesimo, che fa venire meno anche l’idea di tradizione letteraria come storia viva che influisce e dialoga con la produzione contemporanea. In secondo luogo l’estetizzazione diffusa della società corrode progressivamente sia l’autonomia dell’arte e della scrittura sia quella che potremmo chiamare, con un’espressione un po’ grossolana ma qui chiara, l’autenticità della vita d’artista a sua volta connessa con l’estetica dell’originalità. Infine vanno considerati anche gli effetti sulla letteratura di quel processo che Giorgio Agamben ha chiamato a suo tempo la distruzione dell’esperienza ossia il fatto che “la giornata dell’uomo contemporaneo non contiene quasi più nulla che sia traducibile in esperienza”; questo fenomeno si riflette sulla parola letteraria, visto che la percezione dell’esperienza storicamente ha assunto una forma perlopiù narrativa.
E’ chiaro che questo stato di cose contiene un invito implicito ma perentorio a tutti gli scrittori e a tutti i lettori ad adattarvisi. Ogni spinta all’adattamento, però, produce sempre i suoi disadattati: vi sono sempre coloro che non possono capire come stanno le cose, coloro che non vogliono capire, coloro che capiscono, ma non sanno cambiare e insomma tutti coloro che sono in ritardo nella loro stessa vita, per così dire ( tra i quali naturalmente mi colloco anch’io). Questi non sono a priori né migliori né peggiori degli altri, sono semplicemente coloro che occupano le posizioni marginali nel nuovo sistema che si sta creando. Proprio per questa ragione uno degli errori che questo genere di disadattati non può permettersi di commettere è parlare dello stato di cose presenti come se quel campo letterario di cui ho scritto sopra esistesse ancora. Quando nel proprio discorso ci si riferisce a determinati principi o valori, è necessario sapere se questi sono socialmente condivisi o sono minoritari. Non si tratta di una sorta di galateo della comunicazione, ma della consapevolezza della posizione in cui si prende la parola, dalla quale dipende molta dell’efficacia del discorso.
In questa prospettiva può essere interessante che piccole comunità di lettori e autori pongano la questione della durata dei testi: attualmente il mercato propone libri destinati a durare pochi mesi ( basti pensare all’organizzazione delle librerie) accompagnati da grande clamore mediatico per questo breve tempo. Insomma si tratterebbe, per parafrasare un celebre slogan, di contrapporre al quarto d’ora di celebrità garantito a molti testi qualche lustro di attenzione semiclandestina a pochi libri. Oggi non c’è alcuna certezza che le vie che si intraprendono portino a uno sbocco. Proprio per questo lavorare con lentezza, perché in definitiva è questo che propongo, non è solo un’antica pratica di ogni marginale e di ogni subordinato che deve centellinare spazi ed energie, ma è forse l’unica forma di saggezza che i tempi ci permettono.
[In occasione del 70° anniversario dell’eccidio di Cefalonia, esce in libreria per i tipi di Marsilio una nuova edizione di “Cefalonia 1945-2001” di Luigi Ballerini. Riprendo qui i primi sette testi del libro, di cui, per chi fosse interessato, si terrà una prima presentazione con l’autore, e interventi critici di Vincenzo Frungillo, Cesare De Michelis, Paolo Giovannetti e Italo Testa, il 27 novembre alle ore 21 presso la Libreria Popolare di Milano.]
Luigi Romolo Carrino
Ciò che complica le cose in una partita di calcio
è la presenza della squadra avversaria.
Jean-Paul Sartre
Carlo Petrini è stato un calciatore italiano in auge soprattutto alla fine degli anni Settanta. Fu coinvolto nell’affaire del Totonero e rimediò una squalifica che mise fine alla sua carriera. L’ex attaccante del Bologna, del Milan, della Roma, del Genoa, diventò scrittore e per la Kaos Edizioni pubblicò un bel po’ di libri: Nel fango del dio pallone (2000) divenne un best seller nonostante il boicottaggio mediatico. Petrini raccontò con tenera e spietata sincerità il mondo dei pallonari, il loro sfreno sessuale, il doping, le partite combinate, i favoritismi all’asse Milano-Torino (Juventus-Milan, passando anche per Roma), i dictat dei Palazzi del Potere (Lega e Figc), le simpatie degli arbitri e le loro mirabilanti Lamborghini, che giallemente abbagliavano i loro modesti introiti, e raccontò anche dello strano caso del centrocampista Donato Bergamini, morto dopo essere stato investito da un TIR: questa, almeno, è stata la versione ufficiale per molto tempo.
Carlo Petrini raccontò la dark side del moon calcio.
È morto l’anno scorso, cieco e aggredito da svariati tumori, conseguenza di tutta la monnezza che le società dove ha giocato gli hanno iniettato nelle vene e spinto in gola per renderlo più competitivo. Come a tutti gli altri, del resto. In effetti, soprattutto oggi, tra gli impegni di campionato, delle coppe europee e della nazionale, ce ne vuole di forza fisica per disputare una partita ogni tre giorni! Ma oggi non ci sono casi di doping: siamo migliorati fisicamente, ci prepariamo meglio, c’è il turn over e siamo diventati onesti.
Una chiacchierata col massaggiatore o è lo stesso nostro procuratore a dircelo come funziona all’antidoping. Sappiamo quello che succede. Tranne casi eclatanti, le cose si mettono sempre a posto. Il Sistema calcio non collassa per le scommesse truccate, figuriamoci per una questione di droga, soprattutto se si tratta di cocaina. Se proprio serve, si sacrifica qualcuno di tanto in tanto. A quelli del ciclismo li massacrano. Per i calciatori, la protezione dall’antidoping è massima. Figli e figliastri, a seconda dello sport che si pratica.
Justin Fashanu è stato un calciatore inglese in attività soprattutto negli anni Ottanta. L’attaccante del Southampton, del Manchester City, pagato un milione di sterline l’anno dal Notthingham Forest (il primo giocatore di colore a essere pagato così tanto), nel 1990 decise di dichiarare la propria omosessualità e rimediò almeno un altro milione, ma di insulti e minacce, fu rinnegato dal fratello, anch’egli calciatore, e qualche anno dopo dovette chiudere la sua carriera e anche la sua vita, perché si suicidò in seguito alle dichiarazioni (rivelatesi poi false) di un diciassettenne che lo accusò di averlo violentato.
Justin, povero ragazzo, non avrebbe mai immaginato quello che sarebbe successo in seguito al suo coming out.
Se questa sera di fine agosto che ti batte forte il petto, e sei per la prima volta in A e sei il talento che corre 90 minuti e sei questo col piede sulla palla a centrocampo, se stasera tu sei tutto questa cosa che sta ora qui al Dall’Ara nella prima giornata di campionato della massima divisione allora tu sai, da stasera più che mai, sai che non puoi dire a nessuno e proprio a nessuno che a te ti piace il cazzo.
I gay nel calcio non esistono. Nell’universo dei machi pallonari non ce ne sono. Il calcio è uno sport duro, contrasti aggressivi e cattiveria agonistica, senza contare che si sta nudi negli spogliatoi. Non esistono, ma nel caso ce ne fossero, dice su Vanity Fair la Seredova, moglie di Buffon, si dovrebbero dedicare spogliatoi ai soli giocatori gay.
Non ha importanza se qualcuno dice di esserlo, come Lucchello, ex portiere del Sion, che quest’anno è stato eletto Mister Gay dopo aver lasciato l’attività, non ha importanza se l‘americano David Testo o se lo svedese Anton Hysen e molti altri (non in Italia!) abbiano deciso di rivelare il loro orientamento sessuale ai compagni di squadra e ai tifosi, e non ha alcuna importanza se il presidente della federcalcio tedesco Niersbach o la Merkel dicano ai loro calciatori “Non abbiate paura“ (ripetuti i loro inviti al coming out; non costa nulla, tanto non sono certamente loro a dover scendere in campo ogni settimana, ma vuoi mettere la bella figura che fanno?): i gay nel calcio non esistono!
O meglio: nel calcio maschile. Va da sé che le giocatrici sono tutte lesbiche, e da sempre due ragazze omosessuali solleticano l’immaginario del maschietto che non vede l’ora di intrufolarsi nel loro letto (volgarità socio-antropologica, ignoranza). Del calcio femminile non si interessa mai nessuno e d’altra parte il business che gira intorno al calcio dei ragazzi ha volumi giganteschi rispetto a quello delle ragazze: quindi, chi se ne frega del loro orientamento sessuale eccetera eccetera.
“Si a sfaccimm da gent nun sai nient e pallon sai sul e ricchiun“ – evito la transcodifica.
Questo è uno dei – quasi sempre sgrammaticati – messaggi che in questi giorni mi stanno arrivando su fb, dopo l’uscita del mio nuovo romanzo Il Pallonaro, storia d’amore ambientata nel campionato di calcio italiano tra un portiere e un attaccante della stessa squadra.
“Vedi“, dice Lalla Careddu sulla mia bacheca fb, “questo paese ingoia tutto, ma non l’insulto al grande C. Il grande C è l’ossessione, il totem. Il grande C sta nelle mutande e va solo in una direzione, quella che voi campani chiamate la fessa. Il grande C ha la sua apoteosi negli stadi. Tocca il grande C, fallo deragliare ed ecco qua. Questo paese è ossessionato dal cazzo”.
Profonda verità.
Qual è la ragione di tutto questo ostracismo? Perché un calciatore non può dichiarare di essere omosessuale? Verrebbe da chiedersi perché dovrebbe farlo, ma la risposta la conosciamo già.
Cosa arriverebbe dagli spalti? Il coro delgi ultrà sarà Ricchiò! Ricchiò! Ricchiò! oppure intoneranno la canzone de L’elefante gay, non più lui ma lei?
Quali ripercussioni economiche si avrebbero riguardo gli sponsor? La Nike ritirerà i suoi svariati milioni o proporrà scarpette con tacchettini a spillo fucsia? E magari poi farà come la vigliacca Barilla?
In squadra, proprio nello spogliatoio, cosa accadrebbe? Si potranno ancora sentire cose come: “Mi passi il bagnoschiuma? È proprio qui, ai miei piedi“?
In campo, il riccioluto Diamanti urlerà ancora “finocchio di merda“ all’indirizzo del metrosessuale Borriello? O lo linceranno, magari lo accuseranno di omofobia, lo tortureranno costringendolo a guardare per un’intera settimana spot olandesi e danesi sul coming out dei giocatori?
E infine, quell’allenatore là, dopo l’allenamento, quando tutti gli altri se ne sono andati, continuerà a fare sesso nella palestra dello spogliatoio col suo biondissimo difensore centrale?
Sì, cambia l’ambiente, ma è proprio come certi manager facevano (fanno) con la loro segretaria (miserabile eredità machista che ha visto il suo acme negli anni Ottanta).
Ogni domenica sugli spalti ci sono decine di migliaia di persone. Ognuna vive una settimana intera la sua realtà fatta di lavoro, di figli da portare a scuola e di stipendio da farsi bastare, di anziani genitori da accudire. Ogni settimana centinaia di migliaia, milioni di persone, davanti al televisore o sopra le gradinate, quando ci vedono giocare vivono un sogno. Nessuno di loro potrà mai avere la vita mia o la tua. Sono dei perdenti e lo sanno. Noi abbiamo una responsabilità: questa gente chiede, sì, anche a me e a te Baldini, chiede a noi di essere il mito e di essere il vincente che loro non saranno mai. È un sogno, riscatta la loro realtà.
Il mito. Il sogno. Il riscatto. Tutte parole maschie. Il mondo è maschio da millenni. Come il potere. Che sia su una poltrona in cucina o una in pelle al Parlamento. Il calcio, parola maschietta, ha a che vedere con la cultura e la politica di un Paese, e queste ultime due sono parolelle femminucce, quantomeno da noi in Italia. Perché quando qualcosa, come il calcio da noi, è così popolare allora diventa una macchina del consenso ed è capace di influenzare i gusti, le consuetudini, il pensiero di un popolo intero.
L’animale. Il tifo. Il credo. Il cazzo.
Il nostro Paese fa il bullo su princìpi di civiltà che gli Stati di tutto il pianeta stanno affermando. Invece, sui ricchioni e sulle lelle, pare ci sia una Russia nascosta nel profondo dell’anima di molti italiani. Sarà così?
Marisa vuole raggiungere almeno cinquanta membri. Professionisti. Provenienti dalla A e dalla B, soprattutto. Portieri, centrocampisti, terzini, centrali, attaccanti. Lo scopo è un coming out collettivo che prenda per le palle il sistema. Uno, due o tre, non servono. Singolarmente non cambia nulla. Ma cinquanta insieme per il Palazzo del calcio diventa un nodo da gestire. Lo dovranno fare, soprattutto se ci sono nomi importanti. Giocatori eterosessuali ci appoggeranno. Anche glorie del passato sono disposte a rivelarsi. Dopo i due mesi di prova ti verrà chiesto se sei disposto a dichiararti quando verrà il momento. Se non accetti sei fuori. Questo è l’obiettivo.
“Non comprendo. Su quali basi sostieni la presenza dei gay nel calcio? Addirittura una rete (Marisa, nda) di calciaori gay! Per sua natura, il calcio non impatta gli omosessuali. Agli omosessuali il calcio non piace. Il mio consiglio è di continuare a occuparti di camorristi, di psicopatici e di neomelodici: è quello è il tuo ’campo’.“ – messaggio firmato. nella mia posta. Questo è scritto meglio rispetto agli altri, ma privo di argomentazioni se non le solite cose riguardo la virilità.
Un omosessuale non è virile e, viceversa, se uno è virile non è omosessuale. E poi, l’eterosessuale ’maschio’ rispetta sempre e comunque la legge della foresta: l’omm’ adda puzzà. Poco conta se la cosmesi maschile fa tre miliardi di euro di fatturato all’anno, il 30 % delle vendite di categoria: è il principio che conta e che deve immutabilmente essere sempre vero.
Gli omosessuali, si sa, sono tutti gentili e teneri.
Siamo ancora a questo punto?
Il nostro Paese ha bisogno di un po‘ di leggerezza emotiva su questi argomenti, sia da parte degli etero sia da parte dei gay, ha bisogno di reimparare il rispetto della persona, il senso del limite e ha necessità di un bel po‘ di trasparenza su tutto il resto.
Petrini ha pagato i suoi errori e lo ha detto chiaramente qual è l’ambiente dei pallonari. Fashanu ha pagato la sua onestà intellettuale con la morte. Ogni giorno decine di migliaia, centinaia di migliaia di uomini e di donne affermano la loro dignità, in silenzio, subendo l’inverosimile in un contesto che si definirebbe progredito.
Si dice che i calciatori gay non esistono. Si dice, semmai esistessero, che il problema sarebbe la convivenza con i compagni – etero – di squadra. Si dice che i tifosi non lo accetterebbero mai. Si dice che è un fatto di soldi, che gli sponsor poi li ritirerebbero ’sti soldi.
Robbie Rogers, centrocampista della Major League Soccer, a febbraio di quest’anno si ritira e dichiara la sua omosessualità. Convinto dal suo procuratore, torna a giocare e firma con i Los Angeles Galaxy. Al 77° minuto della partita contro i Seattle Sounders sostituisce un compagno. L’ovazione dei suoi tifosi, non appena mette piede in campo, e l’abbraccio del suo capitano sull’erba, dicono tutto quello che c’è da comprendere.
Certo, c’è un oceano di mezzo. In tutti i sensi.
Si dicono tante cose, pur di non ammettere che la questione è ricondicibile a chi guida, a chi comanda, ai dirigenti. E naturalmente non sto parlando solo di calcio: per la nostra classe dirigente le cose devono andare così, perché così sono andate sempre.
In realtà, se un calciatore, se tutti i calciatori di serie A venissero allo scoperto sarebbe un grande passo verso quel consenso (detto beceramente e politichesamente) che determinerebbe un salto di civiltà nell’immaginario collettivo, obiettivo che nessuna legge sull’omofobia – men che meno quella proposta! – potrà mai raggiugere.
I verdenero convergono nella nostra area di rigore. Si stringono intorno a me e Stefano. Si dispongono intorno a noi e fanno una cupola con la testa. Tutte le teste vicine e le mani che abbracciano la vita. Difficile vedere, da qualsiasi angolazione, cosa succede dentro al cerchio. A me e a Stefano ci manca la forza nelle ginocchia. Ci mettiamo come in castigo, senza ceci a terra ma solo erba, erba sotto le ginocchia. Sono a dieci centimetri dalla sua faccia e lo tengo ancora stretto tra le mie dita. Stefano capisce cosa voglio fare, mi toglie una mano e se la porta sul petto. È tenerezza.
– È un fatto nostro.
– Fammelo fare.
– Una cosa alla volta, me lo hai insegnato tu.
– Non significa niente. Io così io non esisto. Non esistiamo.
– Sono con voi. Qualsiasi cosa fate – dice il capitano. – Tutti noi siamo con voi.
I verdenero fanno sentire un sì forte e chiaro a tutto lo stadio.
Boato dei tifosi. Sul videowall c’è una squadra in cerchio che si stringe intorno alla soddisfazione di aver centrato la Champions. Una squadra che compie il suo rito di fratellanza, di festeggiamento, di fedeltà.
– Non cambierà mai niente – dico disperato.
“Ci sono argomenti di cui non si dovrebbe scrivere. Questo è un romanzo che non andava scritto“. Lo ha detto l’editor di una prestigiosa casa editrice dopo aver letto il mio romanzo, dopo averlo inesorabilmente rifiutato. Mi verrebbe da replicare qualcosa, più di qualcosa ma taccio.
Le cose si fanno, ma non si dicono.
È la nostra legge.
Perché ciò che complica la verità di un uomo è la presenza di un altro uomo di fronte.
Questo articolo sta diventando troppo lungo. I ‘suggerimenti‘ che qui vi ho dato bastano e avanzano per per fare le vostre considerazioni e… anche per urlare, dagli spalti o in faccia a un televisore con altri cento amici, liberatoriamente e felicemente: Forza Napoli!
(i corsivi contenuti nel testo sono estratti dal libro )
di Paolo Mossetti
Il candidato Democratico Bill De Blasio è il vincitore delle elezioni per la poltrona di sindaco di New York. Il suo trionfo è stato definito da quasi tutti i giornali come una landslide, una valanga. Se come diceva Camus “dare un nome sbagliato alle cose contribuisce all’infelicità del mondo”, questo vale in particolar modo per New York, in cui ognuno vede e legge ciò che vuole e ciò che più gli conviene. In effetti il Repubblicano Lhota è rimasto staccato di oltre cinquanta punti percentuali. Ma in termini assoluti, considerando la totalità della popolazione newyorkese, De Blasio è stato eletto da una esigua, microscopica minoranza.
di Davide Vargas
Intorno preme la flotta rugginosa delle acciaierie. Fumi. Carriponte. Moli. I becchi delle gru. Chiatte e pontoni. Un gigantesco ramarro con zampe e code di ferro.
Taranto è città con tre mari. Due alvei di acqua ferma nella trama continua della città. Come due fori. Attraversando il dedalo dei ponti [girevoli e no] non ne hai percezione. Segui le sponde e non sembrano richiudersi. Mentre la presenza dell’industria incombe ad ogni passo. È sempre così. Un incubo nasconde la bellezza e ne rende lancinante il bisogno di contatto. Il terzo mare come un cormorano apre le ali verso il largo. Sulla sponda seguo la forza centrifuga dell’anfiteatro marino e vorrei staccarmi da terra. Come le navi. In un angolo la carcassa spersa dell’Andrea Doria nega il viaggio verso un’acqua libera. E così lo trasforma in aspettativa.
Trani si distende lungo un mare uniforme. Aperto e sconfinato. Dal bastione forzuto di un monastero fino alla punta di una specie di falesia ricoperta di pini e falasco una lunga striscia di cattiva edilizia accompagna la linea della costa. Ma nel porto case bianche e dorate si affacciano sugli alberi delle barche aggrappate ai pontili. La luce di questa terra protesa alla fine della terra sbianca i selci dei pavimenti. Ammorbidisce le pietre della case. Scivola sui cantonali dei vichi che come Ismaele scendono al mare. Sulle bancarelle ricci e cozze sono delizie a buon mercato. Tre euro per le cicale che si agitano nelle vaschette d’acqua salata. La puzza delle pozzanghere risulta piacevole come nelle penombre degli angiporti. La domenica tutto il porto si riempie di gente che passeggia e si gode l’incanto del sole e del mare. Ho l’impressione di una volontaria tregua al pensiero.
Penisola di pietra gialla. Consumata. Camminiamo per le strade vuote ed è come percorrere il profilo di un corpo in decomposizione. Struggente nobiltà divorata dall’incuria. Nell’Italia degli anni cinquanta che Guido Piovene visitò e descrisse nel suo “Viaggio in Italia” Taranto viene raccontata come “amabile, e la sua grazia naturale è più profonda e più forte della retorica. Pulita, ben illuminata ed ariosa è un esempio…
Cinquanta anni di ruberie. Hanno sventrato tutta l’Italia. Fino alla perdita di ogni speranza. Ma c’è un silenzio che accompagna le ombre che porta il sole quando filtra nei vicoli stretti e si deposita sulle trame dei conci. Sulle rugosità. O sulle zone levigate dal vento. Sulle cornici delle finestre svuotate e sui portali sbarrati e inchiodati. E si sa, il silenzio, questo silenzio, è sempre attesa di un evento. La città vecchia di Taranto è una zattera stremata. Da fermi siamo immersi nella metafora del viaggio. Dove ogni cosa è un avvertimento. Un gruppo di gatti nell’incavo della strada. Un albero piantato in un vaso di lamiera. Una targa sul fianco di un palazzo. Un taglio e si vede il mare. Avvertimento di presenze millenarie. Beviamo birra Raffo in un luogo deserto. La gente preferisce le fotocopie di città altrove. Tra densità di cemento e macchine.
Come l’intorno della Concattedrale. Di Giò Ponti. Palazzoni che si richiudono intorno senza spiragli. Ci si arriva passando di fianco alla monumentalità esagerata del Palazzo del Governo di Brasini. E agli edifici e gli spazi della marina. Gli unici tenuti con cura nella città. È una vita che voglio visitare questa chiesa. Forse per questo mi delude. Cerco un’emozione nella pancia e non trovo niente. L’intonaco è malandato. Gli infissi vecchi. Resiste meglio la vela traforata. Casa del vento. Degli uccelli. Degli angeli. Entità più rispettose degli uomini. Una nuvola bianca passa e si posa in uno dei registri. Cerco un a vista frontale. La chiesa si specchia verdastra nelle vasche d’acqua putrida come lanca. Niente. Forse occorre un rapporto più diretto. Far scorrere sul filo del sentire le immagini e le sensazioni. Ma siamo in troppi. C’è fretta. La voce dell’architettura tace e non c’è l’attitudine a fermarsi e aspettare. Perché io so che proprio nella rabbia dell’impossibilità c’è il riconoscimento di un rapporto possibile. Ed è allora che si sente la voce. O si ricorda.
La cattedrale di Trani è un luogo fatidico. Una nave protesa verso il mare. Toglie il respiro. Nel cielo nero un forte vento di mare sbatte i gabbiani che atterrano sulla pelle dell’acqua come foglie cadute. Galleggiano sfiniti e luccicano simili a pezzi di ferro bruno. Le palme sono squassate e la cattedrale ingrigisce come un vecchio ancora in piedi. Il vento mi spinge indietro con la stessa forza che hanno le parole dolorose. Nei vortici d’aria i passi incespicano. Allora mi pare che l’unica sia lasciare che l’indicibile proceda nel solo modo possibile [il suo] e attraversare la bufera senza l’illusione dell’approdo. Poi sarà così. E all’imbrunire quando tutto si placa i gabbiani cercano un punto di riposo. Il campanile come a Meséglise cattura cielo e ombre. La cattedrale si accende di una luce rosata. Ci giri intorno, negli spazi larghi che la circondano. Il molo fugge nel mare fino al faro. Avanguardia di una fuga. Ma la cattedrale è solida e imponente. Così è vera presenza. Ed è una cosa tattile. Oltre la vista degli occhi. Come nel racconto di Carver.
25/26 ottobre 2013
di Paolo Maccari
.
Riepilogo di un’amicizia
Abbiamo camminato
per tanti anni insieme
una vita che non ci veniva bene.
La novità della reciproca insoddisfazione
fu un nuovo evento,
salutato come l’ennesimo salvatore.
Tanto per dire,
nello spazio verde delle nostre campagne
giriamo ora soli, intenti al volo
breve di un fagiano,
compiacendoci di una bacca variegata
in modo appena strano,
di un tronco cavo, nascondiglio di nessuno.
Le ghiandaie che fuggono
sono creature mirabili del mondo,
colori allettanti intravisti tra i rami.
Non fanno in tempo i fiori
a esalare i loro magri profumi
che ne inaliamo ogni molecola
ingordi e teatrali.
Abbiamo smesso di camminare.
Guardinghi e apertamente estranei,
cerchiamo un po’ di bene per noi stessi.
Ci affidiamo a manutentori accorti
che sfoltiscono i sottoboschi nei pressi
dei nostri sentieri. Siamo più calmi.
Non camminiamo più, il cuore ha smesso
coi suoi ottovolanti. Lui non rumoreggia
e noi non camminiamo,
non fatichiamo: cautamente, si passeggia.
I sensi sono diventati apparecchi
di precisione, per saperci partecipi
di un gioco le cui regole
conosciamo a memoria
ignorandone la gioia.
Mentre la tristezza grande è che sappiamo
ciò che facciamo. Ne siamo
persuasi. Noi bambini ubbidienti a noi vecchi.
*
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Personaggi al tramonto
Il giorno prosegue lattiginoso senza pertugi,
si lascia appena scalfire qualche miraggio
che stampiglia maligno sull’asfalto.
Intorno al lago bivaccano
erbe inebetite e proterve
e presto il tramonto si tufferà
nell’imbuto di cielo
lasciato sgombro da due colline glabre.
Nel sottopasso una signora
sta per pestare una siringa,
affretta il passo per le scale
e il sole con un raggio mentre inciampa
all’ultimo scalino appiccicoso la irride.
“Saliamo ancora” protesta il figlio
ma è l’ora di tornare nelle pianure abbacinate
la macchina già sgomma mentre
automaticamente si libera
del carapace superiore
e l’aria calda abbronza i volti somiglianti.
Si toglie la cravatta, ansima, si tasta il braccio
sinistro, poi barcolla, poi si regge al fusto di un lampione.
Commedia vana. La signora scampata
lo ignora, la macchina scoperchiata, appena spenta
emette due uomini ringhiosi e felici.
Nel lago salta un trota e ingoia una mosca finta.
Il giorno non muore e non butta sangue.
Tramonta sfrigolando ancora bianco
un sole attaccabrighe
che giura di tornare
e di farcela pagare.
*
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Ipotesi di guerra nel parco
Se degli alberi le cortecce fossero
armature e lame i rami e i fili d’erba.
Se le teste di cavallo e di leone
avessero un corpo conficcato in terra
che aspettasse soltanto il loro timone,
se i bambini dalle dita impacciate
lasciassero andare uno sbriciolio nel lago
di polvere da sparo, che nel becco delle
anatre e tra le labbra plastificate dei carassi
agissero da lievito che ingrossa la ferocia,
se poi l’ordito sanguigno d’ogni foglia
prendesse esempio dalla trama di uno stemma
che posa e ringhia sulla parete del palazzo,
se tutto il parco fermentasse
adirato fin nelle torsioni delle radici
avviluppate in schiere di amici e nemici
allora anche l’albero fantasma
che svetta sull’isola pietrosa
e come un faro indifferente mutamente si staglia
anche l’albero simbolista animandosi
con stile imprevedibile
darebbe battaglia.
*
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Un vecchietto traversa la strada
In questa piazza ho visto un ometto vestito di tutto punto, vecchio vecchio, che camminava lentamente con una specie di rassegnata dignità. Fu per attraversare la strada, si guardò dalle due parti, fece un passo. Nel mentre sopraggiunse veloce una macchina; frenò, facendo urlare le gomme, all’ultimo momento. Il fatto è che sarebbe potuta passare. Il guidatore si fermò per mostrare al vecchio che si fermava. Per gentilezza si dirà. Ma io non credo. Io che c’ero dico: per il piacere di rimproverare, di far pesare al signore la sua lentezza. Per fargli misurare la distanza tra la scattosità felina dell’auto e la sua lentezza. Potrei giurarci. Anche il vecchio la pensò come me (e in fondo è questo che conta). Alzò le mani come per scusarsi. Quindi passò, sforzandosi penosamente alla sveltezza. Giunse alla mia panchina e si sedette. Io che leggevo alzai lo sguardo. Il vecchio mi fece un sorriso dolcissimo. Continuava a scusarsi. Si scusava col mondo intero.
Anch’io sorrisi: mi scusai di far parte del mondo, dei suoi nemici.
*
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Come mi sarebbe apparsa la piazza quando stavo male
Al tempo della mia paura una piazza come questa m’avrebbe terrorizzato. Tutto ciò che è circolare mi terrorizzava: temevo e sentivo d’esserne il centro. Aspettavo che la punta metallica di un compasso smisurato mi ribadisse centro foro e abisso. Sudato e con la vista sfocata m’andava a male il sangue nelle vene e l’aria diventava torba e sassosa non appena m’entrava nei polmoni. A quei tempi avevo sempre paura di morire. Cercavo compagnia, qualcuno pronto a soccorrermi. Invece le persone non mi rassicuravano. In molti quando li vedevo scansavano l’argomento. Nessuna voglia d’entrare nel mio incubo. Conto gli amici, da allora, con molta più cura.
*
.
Sole
Ha preso il sole di petto la signora: sta immobile su una panchina sotto la statua e si lascia aggredire dai raggi. Non suda. Gode. Ai suoi piedi giace un cagnetto legato a un guinzaglio rosso di quelli riavvolgibili come certi metri. Niente, pare, potrebbe svegliarla, nemmeno una persona che le scuotesse la spalla. È tanto piena di luce che sembra disincarnata. Porta pantaloni color crema e una camicia chiara a fiorami, i capelli biondi tirati su da una molletta, infradito ai piedi ornati di perle. È un’immagine antipatica di autosufficienza: un essere umano seduto a una panchina che non aspetta. S’abbronza, sta. Quando arriva un uomo e le si siede accanto non apre gli occhi. Gli domanda se ha preso tutto: l’uomo, il marito a questo punto, elenca una serie di prodotti guardando dentro il sacchetto che tiene tra le ginocchia. La signora non risponde. Il marito la invita ad alzarsi per andare alla macchina. Poi, cozzando con la perdurante immobilità della donna, le propone di aspettarlo: sarebbe arrivato fin lì con la macchina. Si mettono d’accordo, e l’uomo si avvia. Io resto indeciso tra la curiosità di vedere la signora resuscitare e il timore di sorprenderla viva. Infine mi decido; corro a casa. Tutto sudato mi butto sul letto e cerco il sonno.
*
Paolo Maccari, Contromosse, Con-fine edizioni, Monghidoro (Bo), 2013. Con prefazione di Luca Lenzini e postfazione di Giuseppe Di Bella.
di Danilo Mandolini
Guardo mio padre guardarmi,
negli occhi parlarmi.
Guardo mio figlio guardarmi,
negli occhi ascoltarmi.
Bari, 15 ottobre 1959
[…]
La partenza per Napoli si avvicina.
Domenica mattina alle due e trenta, infatti, lasceremo Bari.
[…]
Dicono che per andare a Capri, da Napoli, ci vogliono solo tre ore di vaporetto; sicché, volendo, si può andare anche tutte le sere.
[…]
Rispondimi subito.
[…]
I sassi neri nel buio sono bianchi
ed io parlo di mio padre che non c’è,
che due volte è morto e che mi manca,
che lo prego perché torni nei miei sogni
a dire cos’è stato del suo essere
e del mio che ne sarà già da domani.
Nero è il nero che qui si ostina,
che sembra sopravvivere alla vista.
La sera del ventuno dicembre del millenovecentosettantasette un treno si fermò (fu fermato) nei pressi di Faenza.
L’aria era calma e fredda, prima di partire, scossa soltanto dalla vertigine invisibile che il vento crea quando s’insinua tra due pareti prossime e senza luce nel mezzo.
Così… Rapidamente salendo e poi precipitando, come a tracciare i confini di una percezione che scappando ti stordisce.
Nel mezzo di un dicembre senza luce
la fessura di un sorriso che saluta
lacera e ferisce come un taglio
il volto di chi guarda e non capisce
che un lampo non dice chi è che resta
o chi muore e non sa cosa succede.
Tu cadevi in un fremito convulso
e con forza mi spingevano lontano.
Napoli, 9 novembre 1959
Mia cara, finora non ho potuto vedere Il musichiere perché alle nove di sera lo spaccio chiude.
Questo mi dispiace molto e tu sai quanto mi piaceva Il musichiere.
Purtroppo è così.
Pazienza.
[…]
Ti bacio con amore.
Tutto è fermo e il mondo corre
sotto l’azzurro luminoso e alto
dell’ambulanza che fende aria e vie,
che spinge avanti cancelli e case
fin dove il fiato si spezza, rovina
solo a pensarci vicini e nostri.
Altri come noi respirano l’assenza;
come te: morti e vivi dentro un corpo.
Sorride, sorride e serra gli occhi
mentre la suora che va e poi ritorna
implora di dormire e non stancarsi,
ripete con parole che non dice
che la pena è un passo da levare
incontro a un luogo senza nome,
qui, tra letti e foglie, oltre i vetri.
Sorride, sorride e serra gli occhi.
Arrivarono nel buio la mattina
mia madre col fratello dentro un’ombra
a segnare una dimora che si scorda,
che si scorge, si perde e che lascia
la memoria in pegno alla paura
nell’istante trafitto dalla quiete.
Poco di certezze conoscevo, poco
di città e distanze ricordavo.
Napoli, 29 settembre 1960
Mia cara, torno di nuovo a te per rispondere alla tua ultima lettera e per darti mie notizie.
[…]
Io sto sempre meglio, mangio molto e non sento più alcun fastidio.
Ancora mi seguitano le cure.
Credo ancora per poco, però, perché a me sembra di essere ormai guarito.
[…]
L’ospedale si trova in uno dei punti più alti e più belli di Napoli.
Da quassù, dal Vomero, si vede tutta la città.
[…]
(il figlio che insegna al padre a leggere e scrivere)
Ripete le parole che gli dico,
legge a voce alta e senza ritmo,
scrive con le dita che gli tremano
frasi che dell’essere raccontano
il muoversi in noi come la sabbia
di mattini, di nuovo tempo che verrà.
Tredici anni e non ero già più figlio;
un po’ padre, un po’ madre ero anch’io.
Senza data.
Sulla cartolina: la foto in bianco e nero del Tevere a Roma
Ti porto sempre nel mio cuore, ti abbraccio con amore.
(i morti sui campanelli delle case)
Fessure e riflessi che danno sul vuoto,
parole randagie che sono dei nomi,
folle a seguire che sono derive
e nulla che parli del dire che cade…
Ora li sfioro col dito e con gli occhi
quei segni che sanno di noi che giungiamo,
quei nomi tra i quali c’è anche mio padre
che vive appartato nel soffio di sé.
Napoli, 29 novembre 1960
[…]
Credevo di essere a casa in questa settimana; invece, non c’è niente da fare.
È tutto stato rimandato ai primi della prossima.
Ormai, però, è deciso.
[…]
Sapessi quanto sono lunghi questi giorni.
Non passano mai.
[…]
Mi ha fatto un bell’effetto, sai, vedere il mio paese in televisione.
Vedere gente che conosco.
Guardo mio figlio parlarmi,
negli occhi guardarmi.
Guardo mio padre ascoltarmi,
negli occhi guardarmi.
*
Stanno, le sagome degli oggetti ,
quelli noti e quelli sconosciuti,
nella gravità del loro stesso peso
e sotto il peso di onde dal suolo
si donano fattura e sembianze
di minima materia senza corpo.
Il ricordo atteso dai rumori
si sperpera, si spegne lentamente,
nel breve viaggio che oscillando va,
attraverso ciò che è già stato,
oltre i confini di ogni forma.
E si sta aggrappati ad un’attesa
quasi come a cercare una forma,
un modo per asciugare i ricordi
sotto il sole acceso d’agosto.
Transita una nuvola sul viso
e non è grande abbastanza, il viso,
per raccogliere, oltre alla nostra,
anche la bocca socchiusa degli altri.
E gli altri ci guardano in bocca
aspettando un cenno d’affanno
e una prossima, vivida età.
I ciottoli, ai bordi del cammino,
riflettono il seme delle frasi,
spingono il clamore delle parole
oltre la parte più scura dell’ombra.
Ed è un po’ come scappare dal tempo,
dal tempo che ci porta in inverno
e che ci lascia una coltre di neve
a custodia duratura del sole.
*
[I testi sono tratti da Danilo Mandolini, A ritroso (L’obliquo, Brescia, 2013)]

di Agostino Zanotti
Avviare una campagna per l’apertura di un canale umanitario verso l’Europa implicitamente è mettere una pezza alla problematica della condizione di vita delle persone nei vari Paesi del mondo. E’ vero che in questo modo si tutela il diritto alla fuga, però così facendo si accetta la situazione che li spinge a fuggire da luoghi dove esistono poteri dittatoriali e logiche postcoloniali che rendono inabitabili alcuni Paesi.
di Giacomo Cerrai
l’indulgere – certo – ad uno
sguardo microscopico
per puro terrore
(il sovrastante è enorme – infatti –
ed inventato)
produce visioni minime.
1.
molti di questi chiaroscuri
erano in riva a un lago, fatti
per lo più d’ombre e varie
tonalità d’un grigio affettuoso.
Erano a volte l’aria di chi pensa ad altro,
più spesso il sorriso di chi
– innocente –
si costituisce.
C’era molto addensarsi di corpuscoli
come presenze in controluce,
una non reversibile
sconfitta della grana. E le strisce
di bianco come
lo scontornato perimetro
di prove documentali −
d’un paesaggio e persone e pietre
poi dispersi.
Nel corso degli ultimi anni, da settembre 2008 a gennaio 2013, il critico e romanziere Enrico Capodaglio ha scritto e ordinato un proprio zibaldone di pensieri, di rado intervallati da brevi racconti e apologhi, che l’artista americano Nathaniel Katz ha ora pubblicato on-line in un sito dedicato
a Firenze, giovedì 21 novembre 2013, alle ore 18:30
presso Cuculia (Via dei Serragli 3R)
presentazione della raccolta di versi
Delvaux
di
Marco Giovenale
(Oèdipus, 2013)
Interventi critici di
Cecilia Bello Minciacchi
di Giacomo Verri

Non s’intitola una via, un monumento, un ponte con leggerezza e superficialità. Non lo si fa perché piace o perché a un’amministrazione comunale va così. E infatti non credo che il proliferare di targhe e targhette dedicate a militi e marescialli fascistissimi discenda da decisioni prese con avventatezza. Si tratta piuttosto di casi balordi di revisionismo tenace, quando va bene, o di scura arroganza, di provocazione beota, negli altri casi. C’è dunque da sbizzarrirsi; ed è difficile dire quale delle due cose sia peggio.
La Storia della Repubblica Italiana, la Storia con la S maiuscola, fatta di tante storie relative, ma così importanti da diventare somme, discende solo da chi, per esistere, ha Resistito (scrisse il partigiano Beppe Fenoglio: “partigiano, come poeta, è parola assoluta”, non ammette le gradazioni, non sente le scalfitture, non teme i distinguo, né quelli doverosi portati dalla ricerca storica, né quelli arbitrari e degenerati avanzati dai revisionismi). Ed è la Storia stessa a insegnare perché è giusto celebrare cinque partigiani e non venti repubblichini. Non solo, come scrisse una volta Alberto Asor Rosa, parafrasando Italo Calvino, perché “dietro il milite delle Brigate nere più onesto, più in buonafede, più idealista, c’erano i rastrellamenti, le operazioni di sterminio, le camere di tortura, le deportazioni e l’Olocausto; [mentre] dietro il partigiano più ignaro, più ladro, più spietato, c’era la lotta per una società pacifica e democratica, ragionevolmente giusta, se non proprio giusta in senso assoluto, ché di queste non ce ne sono”; non solo perché le camicie nere seguitarono a combattere a fianco di una potenza, o forse sarebbe meglio dire ai piedi di una potenza, quella tedesca, entrata da invasore in territorio italiano; non è giusto – non dico ricordarli, ché quello si può anche fare, ma celebrarli – perché i militi che decisero di intraprendere la via più nera, non volevano l’Italia del 25 aprile, del 2 giugno, della Costituzione, non volevano un posto libero, pacifico, democratico. Volevano ancora obbedire e odiare perché ai loro occhi quello era l’insegnamento più gagliardo che avessero mai ricevuto. Alcuni, coi decenni, se ne pentirono. Fortunati quelli che hanno provato vergogna e hanno sofferto nelle loro coscienze. Ma spazio per celebrarli non ce n’è.
Il giurista e filosofo tedesco Carl Schmitt, che pure fu iscritto al Partito Nazista, seppe scorgere con asciutta precisione alcuni agghiaccianti aspetti di quella guerra che vollero le alte gerarchie tedesche e alla quale furono costretti i partigiani, una “guerra dell’inimicizia assoluta”, una guerra che “non conosce alcuna limitazione. Trova il suo senso e la sua legittimità proprio nella volontà di arrivare alle estreme conseguenze”. E ancora: “Il partigiano moderno non si aspetta dal nemico né diritto né pietà. Egli si è posto al di fuori dell’inimicizia convenzionale della guerra controllata e circoscritta, trasferendosi in un’altra dimensione: quella della vera inimicizia, che attraverso il terrore e le misure antiterroristiche cresce continuamente fino alla volontà di annientamento”. Quelle furono le condizioni. Anche in Italia: i militi della RSI, asserviti alle divisioni tedesche, vollero una lotta che non ebbe più nulla di umano, niente regole, niente misericordia, nessuna norma bellica. Basti pensare alla infame e spietata violenza che seppero perpetrare anche verso i civili. Si calcola che furono tra i dieci e i quindicimila quelli uccisi dai militari tedeschi o della Repubblica Sociale tra il 1943 e il 1945. Solo dell’agosto ’44 – e pesco quasi a caso – si possono ricordare diversi episodi che dimostrano la schifosa perversione nazifascista: dall’abietto informatore olandese della Gestapo che il 4 agosto comunica alle forze naziste il nascondiglio della famiglia di Anna Frank; alla fucilazione senza processo, sei giorni dopo, in piazzale Loreto a Milano, di quindici partigiani prelevati dal carcere di San Vittore (a sparare furono i militi della Legione Ettore Muti); a una delle più spaventose tragedie dell’umanità: il massacro di Sant’Anna di Stazzema, 12 luglio 1944, oltre 500 civili trucidati dalla sedicesima divisione delle SS.
Bene. E cosa si fa oggi in Italia? Si preserva, certo, il ricordo di chi ha dato la vita per Resistere. Ma non si fa abbastanza per tenere a freno chi sputa su quella memoria, e soprattutto chi bellamente vuole affiancarvi altre memorie, più torve e non degne di essere innalzate al pubblico ricordo. C’è allora chi genericamente vuole incidere targhe a ‘martiri’ fascisti. Ma già in termini filologici la questione non sta in piedi: martire è colui che per testimoniare una fede immola la propria vita in presenza di una forma di persecuzione. E durante il Ventennio, e anche dopo, sotto la vergognosa Repubblica Sociale, quale persecuzione hanno mai subito questi ‘martiri’?
La faccenda diventa particolarmente grave quando la celebrazione, anziché procedere da qualche fanatico (come a Girifalco, provincia di Catanzaro, dove ai piedi della madonna di Monte Covello è apparsa, nell’agosto del 2012, una targa dedicata ai martiri fascisti; e pochi giorni or sono la locale sezione della Fiamma Tricolore ha organizzato una lugubre manifestazione con tanto di saluto romano e magliette con lo slogan: ‘fiero di essere dalla parte sbagliata’), è coltivata pubblicamente dalle amministrazioni comunali. A Voghera, a esempio, dove nel 2010 la giunta Pdl e il sindaco ‘afflissero’ la popolazione con una targa in memoria di sei repubblichini, appiccicata, guarda caso, proprio sul muro del Castello Visconteo, che durante la Resistenza fu una gattabuia per partigiani e antifascisti.
Ma poi c’è Cremona dove la giunta comunale, sempre nel 2010, ha intitolato una via a Aldo Protti che, oltre a essere stato un buon baritono, con quella sua voce fece il fascista fanatico, in Val di Susa, e cantò allegramente accompagnando la marcia delle camicie nere che salivano a fare i rastrellamenti – più di quaranta, per inciso – su ordine di quello squadrista di Roberto Farinacci.
Avanti. Ci sono comuni più o meno grandi dove le amministrazioni amano tirare fuori dai bauli ferrati vecchi cimeli e altre anticaglie: nel piccolo paese di Salle, in Abruzzo, il sindaco, Florindo Colangelo, ha deciso di rispolverare a pochi giorni dalla Festa della Liberazione un marmo del 1933 col quale il Municipio ringraziava ‘l’uomo del destino’ per avere ricostruito il paese dopo il terremoto (come se ricostruzione rimasse, anziché con atto dovuto, con dono elargito).
A Brescia, poi, s’è tentato di fare le cose più in grande. Fin dal 2011 infatti la giunta comunale aveva proposto, dopo un restauro che è infine costato 150.000 euro, la ricollocazione in Piazza Vittorio del Bigio, il colosso realizzato da Arturo Dazzi nel 1932, un bolide che venne elogiato da Mussolini come raffigurazione dell’Era fascista. Figuriamoci! Poi son venute le proteste, l’ANPI ci ha messo anima e corpo e il colosso alto sette metri e mezzo per ora se ne sta nei sotterranei. Ma Emilio del Bono, sindaco di Brescia dal 10 giungo scorso, non ha intenzione di buttare alle ortiche i soldi spesi per far bello il Bigio.
E di palanche (poche o tante che siano) spese male ce ne sono molte altre. Solo al massacratore di partigiani Giorgio Almirante sono stati dedicati, in giro per lo stivale, 40 strade, 5 piazze, 2 parchi, 1 ponte e 1 busto bronzeo. Quest’ultimo ad Affile, 1600 abitanti, in provincia di Roma, là dove la giunta comunale s’è data alla gioia pazza e ha inaugurato anche un sacrario a quel bel tomo di superfascista che fu Rodolfo Graziani (tirato in piedi con 130.000 euro sborsati dalla Regione Lazio). Brava persona, maestro di stragi e di perversioni, assieme a quell’altro gerarca, Ugo Cavallero, maresciallo d’Italia, al quale la giunta di Casale Monferrato, nel 2011, ha intitolato i Giardini Pubblici: per entrambi sarebbe sufficiente ricordare il ‘nobile’ comportamento tenuto durante la guerra d’Etiopia, quando non esitarono a adoperare su donne, bambini e vecchi, alcuni gas tossici non previsti dalle convenzioni internazionali.
Tant’è. Questo non è revisionismo. Peggio. Queste intitolazioni sono atti di provocazione, sono marche d’arroganza di una politica ‘bulla’ e smargiassa che calpesta ciò che ostacola il suo borioso cammino. Sono brutali e stolide dimostrazioni di forza che assomigliano a una pernacchia o alla idiota ostentazione di un paio di chiappe in mezzo alla strada. Ma hanno ben altro peso. Purtroppo. Gravano sulla memoria e la insudiciano come la bava molle di uno sputo in cima alla nostra Costituzione.
Che dire, infine? Che almeno sappiamo con chi si ha a che fare.
di Fernanda Woodman
Il dono
è stato in un primo pomeriggio
il mio ombelico si è deciso a darti udienza.
con il rasoio hai tagliato un lembo di nuvola
per tamponare l’arteria radiale.
il dono è stato criticato dagli angeli del poster.
con un cavo rotto hai fatto un braccialetto
e mentre la polvere danzava nella stanza
c’è stata una scossa così forte
che il muro si è crepato ed è entrata più luce.