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Il dono e altri inediti

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di Fernanda Woodman

Il dono

è stato in un primo pomeriggio

il mio ombelico si è deciso a darti udienza.

con il rasoio hai tagliato un lembo di nuvola
per tamponare l’arteria radiale.

il dono è stato criticato dagli angeli del poster.

con un cavo rotto hai fatto un braccialetto
e mentre la polvere danzava nella stanza
c’è stata una scossa così forte
che il muro si è crepato ed è entrata più luce.

Galerie Laure Roynette (Parigi) & La Camera Verde (Roma)

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Samedi 16 Novembre 2013 – Paris

18,00 – 21,00

LA GALERIE LAURE ROYNETTE

Présente

LES EDITIONS DE LA CAMERA VERDE

Sulla questione maschile

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suicidio-120417121154_big di Gianni Biondillo

La letteratura non mi aiuta. Troppo alti, troppo nobili i suicidi nelle pagine dei libri. Le delusioni amorose di Werther, quelle politiche di Jacopo Ortis mi risuonano sorde, oggi, lontano da tanta temperie romantica. E neppure il mio amato Leopardi, la sfida alla natura matrigna di Saffo o Bruto, mi basta: il suo resta il racconto di gesta eroiche, per quanto esistenziali e individualistiche. Oggi sembra si muoia soli, senza spiegazioni; quelle scritte nelle lettere d’addio sono, spesso, solo pezze che non chiariscono nulla.

Sempre più, in questi ultimi anni, le notizie sui sucidi trovano spazio sui media. Pare quasi una epidemia. Basterebbe controllare i dati Istat per scoprire che non è vero. Nei paesi Ocse l’Italia ha uno dei livelli più bassi di mortalità per suicidio e fra il 1993 e il 2009 la percentuale sembra diminuire, lentamente, di anno in anno. Ma si sa, le statistiche bisogna saperle leggere, fermarsi al dato bruto è un errore.

Bisognerebbe studiare i dati nel dettaglio. Scopriremmo così che se i tentativi di suicidio quasi si equiparano fra i sessi (con lieve predominanza maschile), i suicidi reali hanno una supremazia maschile che impressiona. Solo uno su quattro è femminile. Se cercare la morte è una tendenza condivisa fra i sessi, trovarla, riuscirci, morire per davvero, è cosa di uomini.

Non basta. I dati forniti dalla Polizia di Stato e dai Carabinieri dicono ancora altro. Vero: dal 2007 al 2010, cioè dall’inizio della crisi economica, i tentativi di suicidio sia maschili che femminili sono comunque diminuiti, da 3234 a 3101. Ma analizzando le tabelle scopriamo che mentre i suicidi reali femminili diminuiscono, quelli maschili aumentano in modo considerevole. Da 2201 a 2399. Vogliono morire e ci riescono. Si uccidono soprattutto nel Nord-Ovest e nel Nord-Est, dove la crisi ha colpito durissimo. Hanno più di quarant’anni, un titolo di studio medio basso. Sono spesso padri di famiglia. Spessissimo sono padri separati.

È come se la crisi avesse scoperto il vaso di Pandora mettendo in mostra la rigidità del modello maschile italiano e la sua incapacità di adattarsi al cambiamento.  La sua tragica inadeguatezza. Le donne, di fronte al disperdesi dello stato sociale, per antica formazione alla cura familiare, tengono botta, resistono. Gli uomini, perduta la dignità del lavoro, perdono il loro ruolo sociale. Si fanno anomici. Non sanno come reagire, non hanno l’armamentario adatto, e nelle loro espressioni più acute, reagiscono dando la morte. Spesso a se stessi, altrettanto spesso alle loro compagne o ex compagne.

Si parla da qualche tempo, a ragion veduta, di una questione femminile, ma forse dovremmo avere il coraggio di iniziare a parlare anche di una sempre più virulenta questione maschile. Non credo nelle interpretazioni atavista dei dati statistici. Siano esse per suicidio o per femminicidio. Non credo nel numero fisiologico, endemico, “naturale”, di morti. La natura dell’umanità è culturale. Non si da la morte, non ci si toglie la vita, per istinto, per naturale condizione di genere. È una spiegazione pilatesca, farraginosa, miope.  Vecchia come è vecchio il modo di guardare all’universo maschile.

Non è un caso che i giornali abbiano iniziato a raccontarcele queste storie. Non perché ora all’improvviso fa tendenza, va di moda. È l’indicatore, invece, di una nuova sensibilità. Per decenni s’è taciuto, come se morire nel chiuso del proprio appartamento fosse un fatto domestico, una vergogna privata. Ma la percezione di questi fenomeni sociali sta cambiando. È cambiata. Proprio come è accaduto con i padri separati, che decenni addietro vivevano la loro condizione come una questione personale, un’onta da non raccontare: negli anni – cambiando culturalmente la propria idea del ruolo genitoriale – hanno sempre più avuto il coraggio di mostrare la loro ferita, associandosi, ritrovandosi per parlarne, cercando solidarietà, aprendosi al mondo con tutte le loro contraddizioni.

La società italiana è ancora profondamente maschilista, in una realtà che non può più reggere questi modelli obsoleti l’irruzione della crisi economica ha aumentato in modo esponenziale il senso di spaesamento sociale. Cartina di tornasole, in fondo, sono i dati dei suicidi in Italia nelle comunità di non italiani. In quei casi la percentuale femminile aumenta sensibilmente, passando ad 1 su 3, in certe realtà anche 1 su 2. Senza un’identità chiara, senza diritti, senza una rete sociale, anche le donne perdono la loro forza solidale, si ritrovano deboli e inadeguate tanto quanto gli uomini.

Se la crisi economica non cambierà presto di segno (e quanta è grande la responsabilità della nostra gerontocrazia politica!) leggeremo ancora, purtroppo, altre di queste storie. Quello che dobbiamo fare dal punto di vista culturale è stimolare e non ostacolare l’inevitabile cambiamento dei nostri ruoli di genere, ancora troppo statici, evitando pericolose nostalgie, allargando la rete di solidarietà e il sistema dei diritti condivisi. Cercare, insomma, di non avere quelle morti private, quei talenti inespressi, siano essi di donne o di uomini, sulla nostra coscienza collettiva. Farlo, ora.

(pubblicato su L’ordine, inserto domenicale de La provincia di Como, il 3 novembre 2013)

Le tracce di Manolo. Inseguendo un simulacro di Manuel Vázquez Montalbán, a Barcellona

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di Giovanni Dozzini

casa leopoldo

Il ristorante dovrebbe essere da qualche parte dietro Plaça Sant Jaume, verso la cattedrale, io percorro l’ultimo tratto di Carrer Ferran cercando disperatamente di connettermi a questo meraviglioso servizio di wi-fi pubblico e gratuito che dovrebbe coprire tutta la città e che invece per qualche motivo pare funzioni solo nei pressi di Paral-lel, dall’altra parte del cuore vecchio di Barcellona, ai piedi del quartiere in cui vivono gli amici che mi ospiteranno in questi giorni appiccicosi di metà ottobre e appena oltre quello in cui è nato e cresciuto l’uomo che è il motivo stesso del mio piccolo viaggio. Sotto i palazzi del potere, tra la Generalitat e l’Ajuntament, riecheggiano le voci di un gruppo di persone in là cogli anni che protestano e sbraitano con più rabbia che convinzione, “No es crisis, es capitalismo”, in castigliano, e sono poche e quasi confuse con il buio e la gente che passa nemmeno troppo incuriosita, i mossos d’esquadra, con la loro fama di cattivi che la scorsa settimana hanno pensato bene di assecondare pestando a morte per strada un imprenditore omosessuale un po’ su di giri, li tengono d’occhio sbadigliando dall’angolo della piazza che secondo i miei calcoli, o per come me li ricordo, dovrebbe portarmi dalle parti del mio obiettivo di stasera. La cena del congresso, la prima delle due in programma, l’unica alla portata delle mie tasche: pago diciassette euro e mangio assaggi di paella e riso, e bevo vino, tutto buono, in potenza, tutta roba Slow Food. La gente che grida è un pezzo della Spagna che ci raccontano tutti da mesi, la Spagna che annega nella disoccupazione e cerca di venirne fuori smantellando lo stato sociale o dando corda alle peristalsi separatiste delle terre più ricche, la Catalogna ribollente su cui ora sto poggiando i piedi su tutte. Una povertà che mi riguarda ma che per ora mi costringo a tenere a bada, i miei problemi di budget al confronto sono nulla, e prima o poi dovrò fare i conti anche con questo.

Nel ristorante mi imbatto quasi improvvisamente, lo pensavo più in là e invece è già qua, e in vetrina un grande adesivo rosso conferma ciò che fino a un secondo prima era solo virtuale, come molte delle cose su cui ormai siamo abituati a fare affidamento nella vita: nel pdf inviatomi dagli organizzatori c’era scritto che la cena si sarebbe fatta al ristorante Allium di Carrer del Call, e ora ho la certezza provata che le cose andranno davvero così. Ma è ancora presto, le nove arriveranno tra mezz’ora, butto un occhio dentro e giro i tacchi, l’aria di Barcellona oggi è mezza avariata e la gola brucia di quella condizionata, e che non finirò mai di maledire, di Ryanair. Ho bisogno di sedermi, ho bisogno di bere qualcosa. In cima a Carrer Ferran c’è un vecchio bar che somiglia poco allo stuolo di locali in franchising o in fotocopia che si incatenano lungo il resto della via. Vado lì, e mi faccio una cerveza clara.

Mezz’ora dopo sono di nuovo davanti al ristorante, entro e chiedo del congresso, la cameriera dice che è ancora presto e mi fa bere un bicchiere di rosso che non me la sento di rifiutare. Nel tragitto da casa di Bea e David a qui ho già attraversato il cuore della Barcellona di Manuel Vázquez Montalbán, il mio uomo, o perlomeno di quella che siamo abituati ad associare a lui e a Pepe Carvalho: il Raval, il Barrio Chino, il quartiere del popolo e dei pochi di buono, delle puttane e degli immigrati, coi suoi musei d’arte moderna e le sue piazze disinfettate da tre o quattro lustri di riqualificazione prepotente. Undici anni fa, quando studiavo qui, era l’altra faccia della Luna, dalla mia parte della Rambla c’era il Barrio Gotico e c’erano le viuzze medievali e i bar da giovani stranieri viziati, dall’altra sorgeva quel peccaminoso mondo fatto di rottami di palazzi e gente torva e scura frutto di secoli di mescolanze di sangue e di paure.

Nei mesi del mio Erasmus Vázquez Montalbán era ancora vivo, ma io pensavo di avere di meglio da fare che non andare a cercarlo o a cercare le tracce della sua letteratura così aderente alla materia, già amavo Carvalho e già sapevo che doveva aggirarsi in quelle strade, ma non potevo far altro che camminare e rubare occhiate fugaci, perché ero convinto, giovane presuntuoso dall’animo eccitato, che quella materia, la realtà, mi sarebbe venuta tutta addosso da sola.

E quindi oggi, più o meno un’ora fa, sono passato per la prima volta in vita mia – o per la prima volta coscientemente – nella strada in cui Manolo è cresciuto. Carrer d’En Botella è minuscola, corta, uguale a mille altre, poche decine di metri che si innestano nel corpo storto di Carrer de la Cera proprio laddove si torce, col buffo risultato di comporre una sorta di enorme Y fatta di asfalto e cemento. Una porta, l’altra, e quale finestra, non lo posso sapere e mi muove la fretta di mettere insieme più tracce possibili, quelle che da ragazzo avrei avuto tutto il tempo di cercare e riconoscere, così passo senza calma, guardo e registro, mi pare, ed è come fare una crocetta in un elenco della spesa stupido che almeno ho avuto il buon gusto di non mettere per iscritto. Poi mi perdo un po’, vado un po’ avanti e un po’ indietro finché non mi accorgo che dietro l’angolo comincia il grande vuoto della Rambla del Raval, quella col gatto grasso di Botero e i palazzi occupati e malandati, quella che un tempo non era così pulita e così piena di verde, o forse mi sbaglio, la memoria gioca già brutti scherzi, e i ritorni sono stati tanti, e mai con lo stesso grado di attenzione e lo stesso tipo di intenzione.

Seduto al bancone del ristorante Allium di Carrer de Call, un’ora dopo adesso, ripenserò alla vista dell’alto e scintillante cilindro ellittico che hanno piantato proprio al centro della piazza che dal 2009 porta il nome di Vázquez Montalbán, che è come un rigonfiamento della Rambla più plebea di Barcellona, un hotel di vetri viola che suona come un’astronave atterrata di corsa in mezzo alla vecchia suburra. Altri hanno già scritto dell’orrore che Manolo avrebbe provato a vedere il Barceló Raval Hotel fare ombra al suo nome, l’ho fatto anch’io fidandomi senza averlo mai visto coi miei occhi, e al momento di trovarmelo davanti, e sopra, non riesco a reprimere un sospetto di pulita e assurda bellezza che peraltro, è vero, difficilmente avrebbe potuto percorrere i nervi suoi, quelli di Manolo. Poco oltre c’è il ristorante in cui avevo pensato di pranzare sabato, tra due giorni, il giorno prima del ritorno in Italia, il ristorante che dicono fosse una sua seconda casa, o quasi, lo trovo e prima ancora di guardarlo mi faccio atterrire dalla cifra che campeggia in bella evidenza sul menu affisso alla porta vetrata: 45, come gli euro che mi costerebbe quel pranzo, e così non ho nemmeno il bisogno di decidere di accontentarmi di una perlustrazione da fuori, che quantomeno mi dà la soddisfazione di indovinare una foto di Montalbán su una parete, forse a ridosso del tavolo di Casa Leopoldo dove deve aver mangiato molte volte, lui come Carvalho.

una claritaQuando sarò a cena, e cioè adesso che ho buttato giù l’ultimo sorso di questo vino tinto eccellente che nel mio stomaco già fa a cazzotti con la clarita e di cui purtroppo la mia memoria smarrirà il nome, non avrò più il tempo di riflettere sulla mia goffa traversata del Raval, perché ci sarà da individuare commensali di pregio che diano senso alla mia presenza così velleitaria, così azzardata. E naturalmente è stupido, è scemo, scegliere un compagno di cena tra decine di sconosciuti sarebbe ancora più velleitario e goffo, ma ho la fortuna di incrociare lo sguardo di un biondo capelluto e appena barbuto che sorride e si presenta, e parla italiano anche se si chiama Andrei e vive nel Vermont anche se è russo, e domani terrà una relazione sul rapporto tra Montalbán e la Grecia, il che mi suggerisce di avere a che fare con un uomo con molti tasselli fuori posto, e di farmelo sedere accanto perché mi spieghi come poterli mettere insieme con un’idea di senso anche solo approssimativa.

Domani arriverò in ritardo alla sua conferenza, ma questo non lo posso sapere ancora, tardi per non aver ritrovato in tempo, nella corsa continua di questi tre giorni barcellonesi, una delle tante sedi dell’università che si presta al congresso, la Pompeu Fabra, gloria della Generalitat, tardi ma non così tanto da non poter ascoltare il finire dei suoi ragionamenti, che adesso, tra i risi e il vino, mi anticiperà solo fino a un certo punto. Poi ci sarà un messicano pingue emigrato in Andalusia che parlerà di Carvalho e il Messico, anzi di Carvalho e del detective Filiberto García e di Rafael Bernal, gente che io non conoscevo, mi confesso, poi ci sarà una tavola rotonda sul giornalismo con pezzi da novanta che conoscevo appena, due dei quali, per un caso che non voglio sminuire troppo, addirittura compaiono nel libro che tradurrò da qui a Natale, Spagna magica che gioca con me e mi fa un po’ trasalire.

Mentre il mio riso, o forse la mia paella, tarda ad arrivare, non so che ascoltando quella gente e i loro racconti su Montalbán e il passato e il futuro della professione non sbadiglierò nemmeno una volta, come invece ormai faccio sempre da quindici anni, a volte ininterrottamente, quando mi siedo tra un pubblico chiamato ad ascoltare un qualsiasi oratore. Sentirò i loro dubbi e le loro idee sul giornalismo di domani, esposti in maniera così genuina e in fondo grossolana di fronte a una ventina di persone chiuse tra le quattro mura di una piccola aula della sede di Poble Nou della Pompeu Fabra, e inevitabilmente penserò ai panel e agli incontri super-referenziati del Festival del Giornalismo che ogni primavera viene ospitato dalla città in cui vivo, senza sapere che proprio in quelle ore starà divampando una polemica devastante sul suo, di futuro, non del giornalismo ma del festival. E avrò persino la presunzione di percepirlo migliore, questo sparuto consesso spagnolo, per gli sbadigli che non mi ha indotto e per il gusto del buon senso dell’esperienza, e dopo un bocadillo al maiale lungo una delle vie che portano verso il mare, mi siederò più o meno nello stesso posto di prima ad ascoltare un americano che ha scritto un libro sul calcio spagnolo e sui suoi conti in sospeso con la letteratura e il cinema e un catalano che riassume scientificamente e con qualche forzatura filo-indipendentista l’opera di Vázquez Montalbán dedicata allo sport.

Sarà la fine del congresso, per me, ma non sarà per quello che sarà valsa la pena di essere venuto a Barcellona. Quello capita già adesso, a cena, al ristorante Allium, lontano dal Raval e dal Poble Nou, cogli organizzatori del congresso seduti a un tavolo nella saletta di là e io seduto in mezzo a quindici, forse venti italiani più Andrei, né vecchio né giovane com’è, grossomodo come me. Davanti a noi una giovane donna che lavora per le edizioni di Slow Food e un vecchio cuoco toscano che ci fa lezione e ci ascolta, meraviglia tra commensali che succede di rado: la settimana scorsa ha cucinato per la moglie di Manuel Vázquez Montalbán nel suo locale ricavato in un vecchio borgo diroccato del basso Appennino aretino rimesso a nuovo un quarto di secolo fa bell’e apposta, per una serata organizzata come questa proprio da Slow Food, e adesso si fa la gita a Barcellona in compagnia. Staremo insieme fino a una ventina di minuti prima che cominci il giorno in cui Montalbán sarà morto da dieci anni esatti, ma nessuno ha il bisogno di rimarcarlo, mai, Mauro ci racconta del ristorante e del suo cucinare, dei suoi viaggi a San Pietroburgo e dei russi che parlavano napoletano, del Pci e delle tasse che ormai ammazzano l’impresa, del suo allievo giapponese che ha aperto a Kyoto riproducendo i suoi piatti e adesso, con il fisco che gli piglia solo il 10%, è uno dei più apprezzati del Sol Levante.

Mauro parla e beve e mangia, Andrei parla ridendo, a volte ridendo persino troppo, e quando si tratta di discutere di cibo questi due qua davanti, Mauro e la tipa di Slow Food, recitano un teatro che io afferro appena e che per forza mi affascina, abbiamo tutti fame e abbiamo tutti sete, più di quanto a giudicare dal poco che ci riempirà piatti e bicchieri ci converrebbe avere. Poi le righe si sciolgono, in strada, in pochi attimi una chiacchiera confonde più del dovuto e c’è chi è andato via e chi se ne sta andando, e prima di mezzanotte io sono già sulla Rambla, senza più sentimenti per la Barcellona che avevo così forsennatamente amato undici anni fa e senza troppi sentimenti, devo ammettere, per l’uomo di cui sono venuto a cercare le impronte e le ombre in quest’altra Barcellona che mi ritrovo a percorrere adesso. Forse è il cuore che si indurisce, forse è il tempo che prosciuga, ma sono i sensi e il cervello a godersi la felicità di essere qui, il riso, il vino, i racconti, quelle due ore di giro del mondo tra San Pietroburgo e il Vermont passando per la Grecia e il Giappone, e la Toscana.

Manuel Vázquez Montalbán è morto troppo giovane, come tutti, dieci anni fa, e io in questo momento sento più di ogni altra cosa la stanchezza e il riempimento di mezza giornata trascorsa muovendomi, sempre, così lontano dalle parole lette e da scrivere, così lontano dai giorni di tutti i giorni. Mi aspetta un letto che è un divano, in una casa sconosciuta, penso al sonno e al wi-fi di Bea e David che mi consentirà di riallacciare i contatti col mondo là fuori, con la donna che presto sarà mia moglie e con le immagini già vecchie dei giochi di oggi di mio figlio. Domani il congresso, altri viaggi e altre stanchezze, e poi niente ristoranti, basta Raval, ho deciso, Manolo è morto e ha scritto così tanto, ascoltare i discorsi dei relatori russi e messicani e americani e catalani, ascoltare i ricordi di Forges e di Enric González, andrà tutto benissimo, sarà sufficiente, varrà la pena, certo, è chiaro, lampante, sicuro. Con tutto quel che c’è da vedere, e da mangiare, e da bere, con tutte le parole che impara mio figlio, ogni giorno una nuova, macché una, cinque, dieci, di più, con tutto quel che può capitare mettendosi a cercare tracce di uomini, senza poterselo figurare, senza poterlo anche solo immaginare, più che altro rimpiango che Vázquez Montalbán non mi sia mai venuto a bussare alla porta, undici anni fa, quando ero giovane e passavo il mio tempo a Barcellona, per portarmi a mangiare a Casa Leopoldo e raccontarmi qualcosa, qualcosa che avesse a che fare col calcio o con la politica o con la letteratura, certo, o con l’amore, o con qualcuna delle altre innumerevoli maniere di esorcizzare la morte in cui tutti gli uomini sono chiamati a esercitarsi più o meno ogni giorno e ogni ora e ogni minuto delle loro faticose esistenze necessarie. Avrebbe pagato lui, naturalmente. Io ero solo un ragazzo, e avrei mangiato e ascoltato di gusto dall’inizio alla fine.

Spitfire

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di Andrea Cortellessa

Gregory Crewdson (b.1962), Untitled (beckoning bus driver), 2001–2002.

«Non è un romanzo storico, ma la vicenda di un uomo che si guasta». Così definiva un anno fa, Francesco Pecoraro, il libro cui da molto ormai attendeva – il suo primo romanzo – sino ad aver fatto, di quel manufatto riottoso e debordante, una vera e propria malattia. Un guasto aveva finito per essere, cioè, l’opera stessa che in quel guasto frugava – come un bisturi spietato. Il coltello e insieme la piaga, la cura che affligge e consola. Ora che il telo finalmente è caduto, e possiamo contemplare nella sua interezza La vita in tempo di pace, si capisce il perché di tanta ansia, di quell’insofferenza pungente.

Incontinental Jazz : Sascha Feinstein

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Il jazz: pura poesia. Incontro con Sascha Feinstein
Extended version dell’intervista uscita su Alias del Manifesto

di Franco Bergoglio

Sascha Feinstein insegna presso il Lycoming College di Williamsport, nella verdeggiante Pennsylvania. Il prestigioso istituto sta per compiere duecento anni, eppure lungi dall’essere immobile (come i suoi prati curati e le architetture neoclassiche) rappresenta un centro di fermenti culturali. Qui nasce la rivista Brilliant Corners, l’unica a occuparsi negli Stati Uniti di jazz e letteratura pubblicando poesie, racconti, estratti di romanzi, saggi di autori contemporanei. Tra i collaboratori di spicco della rivista pochi sono disponibili al lettore italiano, ma abbiamo la possibilità di leggere i lavori di ben due vincitori di Pulitzer: il primo è Charles Simic e il secondo Yusef Komunyakaa, del quale nel corso dell’intervista si cita Testimony, tributo in versi a Charlie Parker contenuto nella raccolta Il ritmo delle emozioni (Liberodiscrivere, 2004). Sascha, poeta egli stesso, è fondatore e direttore della rivista e sul binomio letteratura/jazz ha compilato numerose antologie. Spiritoso e disponibile, nel tempo libero suona il sassofono e spesso si esibisce nel campus assieme agli studenti.

Come hai iniziato a scrivere poesia? Il tuo interesse è nato contestualmente a quello per il jazz?

Sono cresciuto in una famiglia “artistica”: i miei genitori erano entrambi pittori e ho sempre saputo (fin dalla culla, direi) che l’arte sarebbe stata al centro della mia vita. Nell’infanzia ho scritto poesie e racconti: roba terribile! Contemporaneamente dipingevo e studiavo musica. L’interesse per il jazz è nato prima che io pensassi di diventare uno scrittore. Mio padre e un suo caro amico mi spalancarono il mondo del jazz quando avevo tredici anni e il potere estetico di quella musica mi sopraffece. Non ho mai sentito suoni migliori nella vita. Provavo la necessità di ascoltare tutto quello mi passava per le mani e di approfondire la conoscenza con i geni che avevano creato questa musica. Iniziai a improvvisare al clarinetto e al college cercai seriamente di combinare insieme le mie passioni scrivendo di jazz.

Qual è il singolo elemento caratterizzante o importante che il jazz porta alla tua poesia?

Non sono sicuro che vi sia un singolo elemento del jazz che vada sottolineato come influenza; però non posso scrivere senza leggere le parole ad alta voce. Il mio orecchio è un critico altrettanto buono dell’occhio. Cadenza, variazione ritmica e musicalità del linguaggio si devono percepire. Penso che il mio senso del verso e dell’interruzione della strofa, dello spazio bianco come silenzio necessario debbano molto alla musica.

Come Direttore della rivista Brilliant Corners, come poeta e autore di libri di critica tu sei la persona ideale con la quale parlare del rapporto tra jazz e poesia. Come funziona questo scambio musica-letteratura?

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Innanzitutto rispetto il jazz e la letteratura come arti a se stanti. Il processo di produzione le divide: il jazz tende a essere una esperienza di gruppo che emerge da un interplay di sensibilità artistiche, la scrittura rimane un lavoro solitario. I suoni poi sono più veloci: colpiscono il corpo con una immediatezza senza riscontri, la si giudica nel breve periodo, la letteratura richiede più tempo.
Sbuffo quando mi dicono che la poesia “è” jazz. Nessuna singola forma d’arte è esattamente parallela a un’altra. La poesia può esplorare attraverso le immagini e la narrazione una personale interpretazione della musica. Il linguaggio può farci ripensare il suono, anche in modo semplice come per il titolo di una canzone. Prendiamo Alabama di John Coltrane. Dal momento che gli studiosi spiegano come questa composizione rispondesse all’atto terroristico compiuto in una chiesa di Birmingham, i suoni portano all’ascoltatore una maggior tristezza. O, se vogliamo cambiare mezzo espressivo, consideriamo il famoso quadro di Bruegel Paesaggio con la caduta di Icaro. Senza quel titolo, avremmo un qualche collegamento per interpretare quelle minuscole, bianche gambette in mezzo all’oceano? Se anche dovessimo notarle, potremmo supporre trattarsi di un nuotatore un po’ matto. Mi sono spiegato?
Recentemente ho intervistato Robin Kelley, autore di una brillante biografia su Thelonious Monk. Nel libro, Kelley spinge continuamente l’argomento verso le politiche razziste del tempo; così gli ho chiesto di fare una ipotesi: se noi sapessimo che Monk aveva composto Brilliant Corners con in testa un intento politico, la metà lenta a rappresentare l’oppressione e il raddoppio del tempo a rappresentare la liberazione, tu ascolteresti la musica in maniera diversa? E Robin Rispose: «E’ una eccellente domanda», poi dopo una pausa disse: «è possibile, forse l’ascolterei diversamente. Ma sono meno possibilista e poi sono convinto che lui la sentisse in un altro modo e io vorrei adeguarmi». Thelonious_Monk,_Minton's_Playhouse,_New_York,_N.Y.,_ca._Sept._1947_(William_P._Gottlieb_06191)
Il linguaggio direziona l’interpretazione.
Ma gli incroci sono interminabili. L’argomento della poesia collegata al jazz fa sorgere infinite possibilità. Certe qualità formali della poesia –ritmo sincopato, chiamate e risposte improvvisate, sperimentalismo, sono state spesso fortemente messe a paragone con la musica. Le vite dei jazzisti sono spesso diventate nutrimento per un numero imprecisato di poemi e racconti. E potrei andare Avanti per ore a parlare…

Cito dalla tua antologia Etheridge Knight: Making jazz swing in / Seventeen syllables AIN’T / No square poet’s job (far swingare il jazz in diciassette sillabe NON E’ roba per poeti borghesi). Haiku jazz, perfetto…

Mi manca Etheridge. Lo conobbi quando vivevo a Bloomington nell’Indiana, dove mi stavo laureando. Negli ultimi anni della sua vita tenevamo delle letture poetiche congiunte quando eravamo invitati agli stessi convegni e legammo molto. Andrebbe apprezzato maggiormente. Qualche anno fa, quando la Norton aggiornò la sua antologia sulla poesia americana contemporanea mi chiesero delle indicazioni, che sono state quasi del tutto rigettate, almeno per il periodo contemporaneo. Spingevo con tutte le mie forze per l’inclusione di Etheridge Knight e altri che non sono stati inclusi. E’ un grosso peccato.

Ho letto in un’altra intervista che cerchi per Brilliant Corners poesie che dimostrino una profonda comprensione della musica e: «non cadano nel cliché, come quelli del gergo hipster da beat generation…» E di volere materiale «che toccasse le corde del lettore per i suoi meriti letterari e non perché semplicemente invoca il jazz…».

Sì. Ricordo di averlo detto. Troppe proposte per Brilliant Corners arrivano da gente che adora l’idea del jazz, che pensa a citarlo per essere alla moda, come fosse un Alka Seltzer contro tutti i mali, senza conoscerne la musica.

Poeti del calibro di Al Young e John Sinclair nel tuo libro di interviste citano Natura morta con custodia di sax di Geoff Dyer. Un lavoro controverso: qualcuno lo odia, altri lo amano alla follia.

3887991Al (Young) conosceva Mingus e aveva trascorso del tempo con lui. Critica Dyer perché parlando di Mingus ne distorce la profondità artistica. Io sono d’accordo con lui su queste riserve, però il discorso non si chiude con la coppia amore/odio, come suggerisci. Ad esempio Al ne riconosce le capacità narrative e la prosa eccellente e io concordo: si può dire ancora tanto su certi eventi drammatici accaduti nella storia del jazz. Una cosa è scrivere che i poliziotti arrestarono Thelonious Monk perché non rispondeva alle loro domande e gli appariva minaccioso; ben diverso sentire le voci di quei razzisti in divisa e la Baronessa (Pannonica, n.d.r.) che li implora piangendo mentre assiste alla scena in cui manganellano le mani del pianista. Gli studiosi rischiano di essere controproducenti, anestetizzando la brutalità della vicenda; un narratore come Dyer è invece abilissimo nel rendere vivido il racconto.

Nei tuoi libri citi spesso Monk e altri pianisti come Fred Hersch e poi Tommy Flanagan, con un commovente ricordo…Non ti chiedo le preferenze, ma chi ha influenzato maggiormente il tuo lavoro?

0e5c527fd6bePossiedo più di 6500 dischi di jazz e la collezione si ingrossa sostanziosamente ogni anno. Saranno anche chiamati compact disc, ma non sono abbastanza “compatti”: mi stanno spingendo fuori casa! Non me la sento di nominare una manciata di lavori su tutti…Però menzioni Tommy Flanagan che andavo a vedere ogni volta mi fosse possibile. Nel gioco cretino dell’isola deserta, se potessi portarmi l’opera omnia di un solo artista, sarebbe la sua. Primo, i trii per piano rimangono tra i più incantevoli su disco. Poi come sideman ha partecipato a lavori straordinari come Saxophone Colossus di Sonny Rollins mentre le sue prime incisioni arrivarono con figure leggendarie come Davis e J.J.Johnson e Giant Steps di Coltrane! Si trova sul mio disco preferito di Sonny Criss, Sonny’s Dream e ha lavorato per alcune stratosferiche session con Coleman Hawkins. Si trova sopra The Incredibile Jazz Guitar Of Wes Montgomery e su Boss Tenor di Gene Ammons. Ha accompagnato per anni Ella Fitzgerald, ha registrato con Benny Golson, Milt Jackson, Booker Little, con i suoi amici di Detroit Kenny Burrell e Pepper Adams. Ci sono jam a Montreux con Johnny Griffin, Eddie “Lockjaw” Davis e Dizzy…Una produzione discografica pazzesca.

Ti fermo, altrimenti l’intervista finisce con Flanagan.
Già e poi se dovessi portare solo Flanagan dovrei lasciare a casa i dischi di Monk e non potrei vivere senza.

Perchè nella poesia jazz i nomi di Coltrane, Monk e Parker sono tanto sfruttati? Ci sarebbero altri personaggi…Nella tua antologia ricordo un poesia di Hayden Carruth che aveva per oggetto il trombonista Vic Dickenson …Perché pochi seguono il suo esempio?

I poeti amano la tragedia. In parte è uno dei motivi per cui Coltrane, Bird -ma aggiungerei anche Billie Holiday- sono stati tanto intensamente immortalati nei versi. E’ significativo notare che ben pochi poemi su Trane, Parker o Lady Day siano stati composti mentre erano in vita. Monk invece si trova in una categoria differente: sebbene anch’egli abbia attraversato tante tragedie, è stato soggetto di centinaia di poesie a causa delle sue eccentricità. Non voglio insinuare che la poesia sia sensibile solamente alla tragedia o alle stranezze. I migliori poemi dedicati al jazz vanno oltre questo approccio facile. Penso al brillante tributo di Yusef Komunyakaa a Charlie Parker, Testimony. Ma se si parla di numeri la risposta corretta mi pare questa!

AskMeNow_feinstein_span3Nell’introduzione di Ask Me Now hai scritto: “sono diventato maggiormente consapevole della centralità della musica nella storia della poesia del ventesimo secolo; e di come alcuni poeti non possano essere affrontati senza riconoscere l’influenza che il jazz ha avuto su di loro”. Ma non si potrebbe affermare lo stesso per il cinema o le altre arti visuali?

Sì, anche se in poesia troviamo interi movimenti governati dal jazz e non penso che lo stesso si possa affermare riferendosi al cinema o alle arti visuali. Almeno non con quello stesso grado di diffusione capillare.

John Gennari, l’autore americano che con il libro (capolavoro di critica) BLOWIN’ HOT AND COOL: Jazz and Its Critics ha raccontato per primo –e nel modo migliore- la storia della critica jazz dagli anni Venti ad oggi, sostiene l’interessante tesi che “il jazz simboleggia una storia culturale dal fascino illimitato”. Qual è la tua opinione sulla critica jazz contemporanea?

Molta critica può essere senza spessore, specialmente quella che esce dalle riviste e dalle recensioni; ma abbiamo anche la fortuna di vedere all’opera alcuni critici eccezionali. Tra gli altri David Hajdu e Robin kelley hanno definitivamente imposto un nuovo, altissimo livello per le biografie dei musicisti jazz (Hajdu è l’autore della biografia di Billy Strayhorn, inedita in italiano, mentre sono stati tradotti suoi lavori su Bob Dylan e sui fumetti; Kelley ha scritto il ponderoso volume su Thelonious Monk pubblicato da Minimum Fax, n.d.a).
Sono anche un fan delle note di copertina dei dischi curate da Bob Blumenthal e dei saggi scritti da Michael Cuscuna per i cofanetti di ristampe della casa discografica Mosaic, che allargano sempre le mie conoscenze. E senza dubbio devo menzionare Gary Giddins che colpisce sempre per chiarezza e passione nell’esporre i suoi argomenti. Mi devo ripetere: fuori c’è tanta spazzatura che andrebbe sbattuta via senza rimpianti, ma sono anche grato al lavoro di alcuni studiosi particolarmente acuti.

La tua critica “alla critica di regime” vale ovviamente anche per il nostro Paese…Ma rimaniamo al lavoro sul campo. Hai condotto moltissime interviste a poeti, musicisti e critici. Quale di queste tre categorie ti ha intrigato di più?

Mi sono divertito durante tutte le interviste che ho fatto, magari per motivi diversi tra loro. A volte il piacere consiste nell’imparare fatti nuovi che riguardano un vecchio amico, in altri casi nasce addirittura una amicizia nuova di zecca. Comunque il nocciolo è sempre nel voler imparare qualcosa da qualcuno. Ovviamente poi ci sono delle conversazioni che è più facile trascrivere e trasformare in un articolo di altre. Ma sono tutte interviste interessanti perché scelgo a priori, e con molta cura, i soggetti per le mie domande.

Una di noi

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di Eleonora Tamburrini

Qualche giorno fa in un giornale locale, un titolo che si sforzava di mantenersi anodino (“Una gravidanza a 15 anni”) annunciava nel dettato spicciolo della cronaca la storia di una ragazzina che rimasta incinta senza volerlo di un suo quasi coetaneo, dopo aver programmato l’aborto decideva invece di diventare madre. Il fatto si trovava in cronaca perché a distanza di tre anni la ragazza, che frequenta una scuola maceratese, ha vinto un premio scolastico con un tema sulla sua esperienza. A presa diretta e con apparente indifferenza di fronte ai contenuti della storia, il giornale derubricava la notizia in quello che poteva essere lo spazio delle eccellenze del territorio: una pagella d’oro, un campione di atletica giovanile sarebbero stati probabilmente presentati allo stesso modo, con la stessa felpata, apparente noncuranza. Coscienziosamente e integralmente seguiva il tema vincitore, e con esso la ressa dei commenti virtuali, per lo più elogi alla vita e all’amore che trionfano. Chi vuole, può farsene un’idea qui.

Mappa dei morti arrivando in Europa

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mapFortressEuropeEng

Pallino blu: Affogamento (per naufragio, traversata di fiume o lago)

Pallino viola: Asfissia (su camion o container)

Pallino rosso: Ipotermia durante viaggio aereo

Pallino verde: Altro (incidente, collasso, ipotermia, campo minato)

Pallino giallo: Suicidio

Pallino bianco: Mancanza di assistenza, atti di razzismo

Pallino nero: Violenze della polizia

 

La figura in alto a destra mostra il numero dei morti per grandezza del pallino, dai 20 ai 3300.

Ricordo di Giorgio Orelli

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Domenica 10 novembre è morto a Bellinzona il poeta Giorgio Orelli, aveva 92 anni. L’ultima sua uscita pubblica avvenne a Legnano il 19 ottobre scorso per ricevere il Premio Tirinnanzi alla Carriera. L’appuntamento era alle h 17. Alle h 16 Giorgio Orelli fece il suo ingresso in sala accompagnato dalla famiglia e poi tenne una memorabile lectio di poesia. Ciao Giorgio, grazie. Franco Buffoni

… a quest’ora la martora chi sa
dove fugge con la sua gola d’arancia.
Tra i lampi forse s’arrampica, sta
col muso aguzzo in giù sul pino e spia,
mentre riscoppia la fucileria.

La vicina

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(Questo testo è incluso nel progetto “Musée Vivant” realizzato da Robert Cantarella. Prossima esposizione, il 16 e 17 novembre 2013 al Musée de la Chasse di Parigi all’interno del “Festival Paris en toutes lettres”. La traduzione francese, a cura di Laurent Grisel, appare in contemporanea sul sito remue.net)

di Andrea Inglese

Questa vicina è una vecchia, ha tutto quel che, sul viso, nei modi, nell’indolenza maligna, malfidente, nell’insistenza dello sguardo, lanciato da dietro le sbarre del suo cancello, la rende vecchia, il mutismo, l’asciuttezza del corpo, quasi fosse bidimensionale, una sagoma di cartone, i capelli corti e slavati, non grigi ma bianchi, non le occhiaie ma le borse, ossia dei rigonfiamenti lividi sotto gli occhi, la vecchia di cui non so nulla, tranne che è vecchia,

Sulle tracce dei fantasmi di Portopalo

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(Questo racconto-testimonianza è apparso il 20 agosto 2010 sul sito Melting Pot Europa in una versione più lunga. Lo riproponiamo oggi nel contesto della discussione che abbiamo aperto intorno alla questione del diritto di asilo.)

di Filippo Furri

Risaliamo in macchina, prendiamo il bivio per l’Isola delle correnti e guido lentamente verso il campeggio dove viene in vacanza quasi ogni estate. È una notte di luna bianca, più avanziamo verso il mare più c’è vento. All’isola delle correnti c’è vento sempre, dicono. Dopo qualche centinaio di metri la strada d’asfalto lascia spazio ad un fondo polveroso di terra battuta, la strada si allarga leggermente prima di un’altra biforcazione alzo i fari ed alcuni corpi si sottraggono alla luce: sei o sette ragazzi, vedendoci arrivare, scartano dalla strada e s’infrattano in un viottolo o direttamente nella sterpaglia che circonda i campi e le serre.

Indymaps- cartografia dei luoghi indipendenti- Libreria Trebisonda (San Salvario-Torino)

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rastello gobetti

Su Laquinzaine di questo mese, nella sezione dedicata agli spazi indipendenti in Italia abbiamo intervistato Malvina
(1) Ci parli della tua libreria? Presentazione, storia, caratteristiche sul territorio, criticità e anche dei momenti belli tosti, se ti va.

La Trebisonda è nata nel febbraio 2011, in un quartiere vivace e multiculturale: San Salvario, vicino alla stazione di Porta Nuova, a Torino. Un’attenzione particolare è rivolta alla piccola e media editoria, alla narrativa straniera e per l’infanzia. I lettori grandi e piccoli possono sedersi e sfogliare i libri: c’è anche un divano su cui leggere e degli espositori ad altezza bimbi. La libreria occupa l’angolo tra due vie piene di locali e ristoranti, ed è aperta, oltre che alcune sere la settimana per incontri di vario genere, anche il sabato fino all’una di notte. Delle otto vetrine, una è dedicata ai fumetti e agli illustrati, una ai remainder, due alle novità e una a un paese straniero (finora: Iran, Russia, Finlandia e Romania). La libreria ha proposto, oltre che incontri con gli autori e reading di prosa e poesia, corsi di scrittura (con Paolo Cognetti e Elena Varvello) e di poesia (con Anna Lamberti-Bocconi e Carlo Molinaro), di avvicinamento ad alcune lingue (arabo, persiano, portoghese); la lettura dei classici, in collaborazione con diversi autori (tra cui Andrea Bajani, Margherita Oggero, Enrico Remmert, Amara Lakhous, e altri) e altre iniziative e rassegne, come il ciclo di incontri sulla violenza contro le donne Nessuno tocchi Eva organizzata con la giornalista Federica Tourn. La primavera del 2013 ha visto nascere “GiraLibro a SanSalvario”, una sorta di biblioteca diffusa con libri donati da 24 piccoli e medi editori italiani come minimum fax, Iperborea, Del Vecchio, Marcos y Marcos, la Nuovafrontiera, Voland, Hacca, Miraggi, Scritturapura, distribuiti in trenta “Punti GiraLibro”: locali, ristoranti, bar, associazioni, B&B e negozi del quartiere. I lettori possono prendere in prestito i libri (anche per bambini) e restituirli in uno qualsiasi dei punti. Il progetto è della Trebisonda ed è sostenuto dall’Associazione commercianti San Salvario (di cui la libreria fa parte) e della Circoscrizione 8 di Torino. Il sito http://giralibro.com contiene l’elenco completo degli editori, dei libri donati, dei punti GiraLibro e gli ultimi sviluppi del progetto. Esiste, ovviamente, anche un GiraLibro Junior.

(2) Quando entri in una libreria (da lettore, cliente) cosa osservi? Che cosa attira la tua attenzione?

davanti alla libreria

La mia esperienza di libraia è limitata a due anni e mezzo. Credo di guardare ancora le librerie con gli occhi della compratrice efferata che sono stata in passato. Quindi, le vetrine: mi chiedo il perché di certi accostamenti, mi ritrovo a sognare su certe copertine, mi chiedo come sarà l’ultimo nato di un autore che amo o il libro di un autore e di un editore che non conosco; entrando, mi colpiscono gli scaffali con le copertine bene in vista, e i tavoli con poche copie per titolo: gli ammassi di merci, in particolare le pile di libri, mi provocano un disagio quasi fisico che finisce per farmi uscire dal negozio. Da libraia osservo le scelte dei titoli e degli editori, mi colpiscono le case editrici minori, specie se non le conosco.

(3) Come definiresti oggi una libreria indipendente?

Il punto di vista di una libreria indipendente non può non essere particolare e di nicchia rispetto a quanto accade a chi muove grandi numeri: di titoli, tiratura e di vendite. Rimanere costantemente aggiornati, specie se si è soli a gestire la libreria, è quasi impossibile; preferisco allora concentrarmi su pochi ma buoni titoli da poter consigliare a ragion veduta, in modo da creare un rapporto di fiducia con i clienti. La differenza rispetto alle grandi catene la fa il conoscere sempre meglio l’offerta della piccola e media editoria, anche perché spesso i lettori si orientano sui grandi marchi come se fossero garanzia di qualità. Un mito da sfatare, anche perché chi pubblica tanto ormai tende a risparmiare sui costi di traduzione e di correzione di bozze a scapito, appunto, della qualità del prodotto finale.

(4) Come vedi il futuro delle librerie indipendenti? Quali strategie devono adottare i librai indipendenti per darsi un futuro?

Vorrei poter dire che alle librerie indipendenti basta, per sopravvivere, una buona conoscenza dei libri belli da consigliare ai clienti, e una grande efficienza nel procurare loro testi anche fuori catalogo, o in lingua straniera. Purtroppo non credo sia più così: infatti a patire la crisi sono anche tante librerie “classiche”, aperte da decenni, con un patrimonio di sapere da condividere. Credo sia fondamentale reinventarsi: ognuno può trovare la sua vocazione, la sua strada, basandosi magari sul tessuto sociale e culturale del territorio, cercando di stringere alleanze, di portare avanti progetti comuni. La Trebisonda, in un quartiere come questo, non può non essere aperta di sera. Tanti lettori, poi, mi dicono che agli incontri nel classico orario delle 17.00-18.00 non riescono a partecipare, perché lavorano!
Ma quello che più manca, nei librai indipendenti, è la capacità di fare rete per rivendicare il ruolo di promotori della cultura. Parlo di ciò che conosco: a Torino è difficilissimo trovarsi per fare qualcosa insieme. Ognuno preferisce andare per la sua strada, e alla fine ci rimettiamo tutti.

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(5) Consigliaci un libro: qual è il più significativo, il libro-simbolo della tua libreria?

Il Don Chisciotte. Un libro che mi accompagna fin dall’infanzia e che ho riletto più volte, trovandolo sempre avvincente, divertente, malinconico. Moderno. Anche da qui, la ferrea volontà di non lasciare i classici a impolverarsi sugli scaffali, tentando sempre nuove strade per farli conoscere. In questo momento, parte di una delle vetrine è dedicata al capolavoro di Cervantes, nell’ambito dell’iniziativa realizzata coi commercianti del quartiere per il salone del libro Off, “San Salvario ha un libro nel cuore”; e poi, la sirena-polena della Trebisonda ha un libro per le mani: indovina quale.

Nome: TREBISONDA libreria indipendente a San Salvario
Titolare: Malvina Cagna

Indirizzo: Via S. Anselmo 22, 10125 TORINO
Telefono: 011 7900088
Sito Web: www.trebisondalibri.com
E-mail: trebisondalibri@gmail.com
Skype: libreria trebisonda
Facebook: libreria trebisonda
Orario: DOM e LUN chiuso, MER 16.00-20.00; MAR, GIO, VEN E SAB 10.00-13.00 e 16.00-20.00; SAB aperto dalle 23.00 alle 1.00

Indyzionario
la parola a Trebisonda.

COSTANZA, ma anche PERSEVERANZA … che fa rima con RESISTENZA: vd. s.v. “trebisonda, (non) perdere la)

PERSEVERANZA, vd. s.v. “costanza”.

COSTANZA, vd. s.v. “perseveranza”

TREBISONDA, (NON) PERDERE LA
di Malvina Cagna (libreria Trebisonda, Torino)

OLYMPUS DIGITAL CAMERAIn molti chiedevano, e chiedono, perché Trebisonda. Più di un anno fa avevo in mente diversi nomi; tra questi, non so perché, Ondina. Che, scoprivo, era anche il diminutivo di Trebisonda Valla, un’atleta nata nel 1916 e morta novant’anni dopo. L’antica Trabzon, grande porto sul Mar Nero, era un crocevia, un punto di riferimento importante, come la stella polare. Ecco il perché dell’espressione “non perdere la trebisonda”, con cui sarebbe stato bello giocare, pensavo. E quale nome migliore per una libreria che apriva, un anno fa, a San Salvario, quartiere che è a sua volta un approdo, stretto com’è tra la stazione e il fiume. L’angolo tra via Sant’Anselmo e via Pellico continua a essere più frequentato di sera che di giorno. Ma non dispero. Voglio continuare a immaginare modi di far vivere i libri perché diventino compagni di vita quotidiana, non un lusso, un di più, ma strumenti indispensabili per aprire le menti di qualsiasi età. I libri ci portano a casa la varietà del mondo e della natura umana, ci avvicinano a autori e personaggi lontani migliaia di chilometri, vissuti centinaia di anni fa. Qualcosa di simile a un’ondina, una sirena che è in realtà una polena, se ne sta da novembre appesa a una parete della libreria; legge il Quijote. Forse tutto, prima o poi, torna al suo posto, e così, fra qualche anno, tra via Sant’Anselmo e via Silvio Pellico ci sarà la vera Trebisonda.
Spesso capita che entrino mamme e papà con i loro bambini; si fermano sulla soglia e mi chiedono: “C’è un’area bimbi?”. “Sì”, dico indicando il divano, il tappeto, e i libri per bambini. E mentre lo faccio mi accorgo che sempre, sempre, il bambino o la bambina sono già seduti sul divano, con un libro aperto sulla pancia. Magari al contrario: un piccolissimo errore di rotta.

Tre bei modi di sfruttare l’aria

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kites

di Francesco Balsamo

 

 

gli animali invernali delle mani
che chiedono il pane dei vetri

gli animali degli inverni
delle mani

che chiedono solo
il pane dei vetri

 

Indypendentemente: The Others

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MANIF OTHERS copia(1)


Si segnala inoltre la presentazione del libro di Maurizio Lazzarato alla libreria Comunardi di Torino

comunardi verso

Primo Levi, una nuova edizione del «Rapporto su Auschwitz»

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di Domenico Scarpa

levi_primo.jpgIl Centro Studi Primo Levi (www.primolevi.it) pubblica – grazie alla generosità di Einaudi editore, che ne ha coperto i costi di lavorazione e di stampa – la prima edizione italiana a sé stante del Rapporto su Auschwitz, che Primo Levi scrisse a quattro mani con un suo amico e compagno di Lager, il medico torinese Leonardo De Benedetti.

Si tratta di un’edizione di pregio offerta in sottoscrizione ai sostenitori del Centro Studi. Ed è la prima testimonianza che Levi abbia reso su Auschwitz; fu redatta su incarico del governo sovietico che nella primavera 1945, a Katowice, raccolse migliaia di testimonianze di ex-prigionieri del Lager. Il testo fu poi pubblicato nel novembre 1946 nella prestigiosa «Minerva Medica», omologo italiano dell’inglese «Lancet».

Questo Rapporto su Auschwitz si colloca all’origine di tutta la successiva opera di Primo Levi testimone, analista e scrittore. Il testo che il Centro pubblica nel volume Einaudi offerto ai nostri sottoscrittori è stato ricontrollato filologicamente, è corredato da una documentazione fotografica inedita, è arricchito dal saggio storico-intepretativo di Fabio Levi, direttore del Centro studi, saggio che ricostruisce le origini del Rapporto, i suoi significati politico-letterari e la fisionomia dei suoi primi lettori.

Rapporto su Auschwitz è stato stampato da Einaudi in un elegante volume rilegato, in 400 copie numerate fuori commercio. Viene offerto esclusivamente su prenotazione, fino a esaurimento della tiratura, a quanti vorranno fare una donazione a favore del Centro studi. Le prenotazioni si raccolgono all’indirizzo info@primolevi.it oppure al numero telefonico 011 4369940.

Sarebbe superfluo descrivere la situazione in cui si sono trovati ultimamente a operare gli enti che si occupano di cultura. Malgrado questo stato di cose, nei suoi cinque anni di attività il Centro ha ottenuto risultati di cui possiamo dirci contenti: le nostre Lezioni Primo Levi, stampate da Einaudi in edizione bilingue italiano-inglese, sono già al quinto appuntamento (dopo quelli con Robert Gordon, con Massimo Bucciantini, con Stefano Bartezzaghi e con Mario Barenghi), questa volta con la storica Anna Bravo, che giovedì 7 novembre ha tenuto nell’aula magna «Primo Levi» dell’università del Torino la sua lezione sul tema Raccontare per la Storia.

Nel 2010 l’allestimento del dialogo scenico Il segno del chimico, curato da me e interpretato da Valter Malosti in Italia e da John Turturro a New York, è stato un buon successo e ha diffuso un’immagine di Levi più sfaccettata di quella usuale. Allo stesso modo, i nostri contatti con scuole e insegnanti del Piemonte e di altre regioni si sono moltiplicati e consolidati, producendo tra l’altro un video innovativo su Levi e il lavoro (Primo ufficio dell’uomo. I mestieri di Primo Levi, a cura di Roberta Mori e Peppino Ortoleva), che è a disposizione degli studenti. Sempre in questo ambito, il Centro ha organizzato più volte letture multilingue di testi di Levi (l’ultima, al Salone del Libro 2013, con il titolo «La nostra lingua manca di parole») eseguite da ragazzi appartenenti alle più diverse comunità, e che studiano o lavorano a Torino.
levi
Il sito www.primolevi.it è lo specchio delle attività del Centro ed è il canale privilegiato di comunicazione con il suo pubblico. Negli anni gli accessi sono stati in costante crescita e sono venuti da un’area geografica sempre più ampia. Il sito è completamente bilingue (italiano e inglese) ed è organizzato per ambiti tematici: Opera, Biografia, Auschwitz, Scienza, Lavoro, Argon (dedicato al rapporto tra Primo Levi e il mondo ebraico), Ai giovani. Dal novembre 2009 al settembre 2013 ha avuto oltre 152.600 accessi, provenienti da 145 paesi.

Il Centro ha raccolto sinora una bibliografia delle risorse documentarie di e su Primo Levi costituita di 5.900 registrazioni in italiano e in altre lingue. Possiede una collezione (Fondo bibliografico Primo Levi) completamente dedicata alla vita e all’opera dello scrittore che comprende 4.500 titoli e raccoglie opere di Primo Levi (in italiano e in altre lingue) e numerosi saggi critici in massima parte in italiano, inglese, francese, tedesco e spagnolo. Il catalogo in linea è accessibile dal sito: esso fornisce il massimo di informazione sul contenuto dei testi e consente un accesso tematico alle registrazioni per parole chiave appositamente studiate per la letteratura critica su Primo Levi.

Per i prossimi anni abbiamo in progetto molte altre iniziative, per realizzare le quali sarà essenziale poter contare sul sostegno dei nostri interlocutori. A costo di ripetermi, sottolineo ancora una volta l’importanza dell’operazione legata al Rapporto su Auschwitz. I primi sottoscrittori saremo noi dipendenti del Centro. Spero che tutti voi veniate a farci compagnia in questa impresa, che equivale a un’energica nostra scommessa sul presente e per il futuro.

da “L’abitante”

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di Domenico Lombardini

 

chiara non è la luce,
ma la sua percezione. facile
sarà allora ricordare il rosso,
una palla, un fiore, se
lo sfondo era nivale
di bianco e albedo
(un quadro).

La foresta che cresce

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via Pascarella, Quarto Oggiaro
via Pascarella, Quarto Oggiaro
via Pascarella, Quarto Oggiaro

di Gianni Biondillo

Pasquale l’hanno ucciso a neppure cento metri da casa di mia madre. Sarò passato di lì migliaia di volte. Che dico, milioni. Via Pascarella e via Trilussa sono come il cardo e il decumano della mia memoria infantile. Sono cresciuto in via Lopez, nocciolo duro di un quartiere difficile. Nel mio cortile c’erano (e tuttora ci sono) detenuti agli arresti domiciliari, appartamenti occupati abusivamente, alloggi sovraffollati e diroccati. Quarto Oggiaro è ancora casa mia, anche se ora vivo da un’altra parte. So come si sentono gli abitanti del quartiere in questi giorni. Scoraggiati, delusi, frustrati. Anni e anni di lavoro per le strade del quartiere, dal basso, per sfatare un luogo comune, per lavare l’onta di un pregiudizio, buttati via nel giro di pochi giorni. Decine di giornalisti, televisioni, alla ricerca di una notizia. “Ma io con quelli non ci parlo” mi dicono gli amici, “vengono qui solo quando c’è il morto.” Si sa, fa più notizia un albero che cade che una foresta che cresce.

“Ma ti ricordi com’era il quartiere quando eravamo bambini?” mi chiede Marco. Certo che me lo ricordo. Ricordo la banda di via Lopez, ragazzini che per gioco gettavano dal tetto dei palazzoni i gattini raccolti sugli alberi, o legavano alle rotaie del treno i cani, oppure, crescendo, li rapivano, per chiedere il riscatto ai proprietari. Adolescenti col destino segnato, scolpito nella colpa. Ricordo il pestaggio del giovane vicepreside della scuola media, a fine degli anni Settanta, colpevole di aver sgridato uno della banda. Picchiato mentre apriva la portiera della sua 128 coupé rosa. A terra, lui e le zampe d’elefante dei suoi jeans. Ognuno di noi potrebbe raccontare una storia così. Quarto era un quartiere difficile, dove anche solo un gesto di generosità poteva essere pagato caro. “Una volta alle medie aiutai Mario, un ragazzo di prima, che veniva preso in giro, il giorno dopo mi aspettarono fuori dalla scuola e mi pestarono fino a farmi sanguinare”, ricorda Marco, che vive ancora lì, in via Graf. Mario crescendo frequentò i “giri giusti”. “Ogni tanto lo incrociavo sul suo Mercedes, alla fermata dell’autobus, quando tornavo dal liceo” – quel liceo che si frequentava vergognandoci di dire dove vivevamo – “E mi caricava per darmi un passaggio fino a casa.” Perché succedeva anche questo a Quarto. Curiosi incroci di vite, di esperienze così differenti. Aderenze e distanze, spesso incolmabili.

Dalla finestra di casa mia vedevo il cortile dove abitavano i Tatone. Ma non si creda che ne avessimo un timore reverenziale. Si viveva nello stesso posto come fossimo in realtà spaziotemporali diversissime. Noi avevamo la sala musicale, la biblioteca, l’oratorio. Ognuno faceva le sue scelte, viveva la sua vita, dandoci le spalle. Lo sapevamo, ovvio. Della droga, della delinquenza. Lo sapevano i nostri genitori, che ci venivano a prendere per le orecchie, avvertiti dal controllo sociale dei cortili, per riportarci a calci a casa. “Non frequentare quella gente. Non combinerai mai nulla nella vita”, mi dicevano i miei. Ognuno a casa sua. Evitare di infettarci, di vivere la nostra condizione di sottoproletari come una scusa per lasciarci affascinare dal male.

Guardo un video del Corriere fatto sul luogo del delitto, dove alcuni amici della vittima hanno lasciato dei fiori, sullo sfondo riconosco mia madre. “Stavo tornando dal supermarket” mi dice. Poi mi racconta una storia. Tutti hanno una storia da raccontare a Quarto Oggiaro. “Una volta, mentre facevo la fila col carrello della spesa vedo una signora tutta ingioiellata davanti a me. Le chiedo se non ha paura ad andare in giro così, ma lei mi risponde sprezzante di non preoccuparmi.” Santa donna mia madre, che neppure aveva riconosciuto “Nonna Eroina” mentre sfoggiava come la regina di Saba i suoi ori a ostentazione del controllo  della sua famiglia sul territorio. Ma niente è eterno, pure a Quarto Oggiaro. Pasquale era già sfuggito ad un attentato quasi vent’anni fa. A fare questa vita perdi sempre. i Tatone, camorristi autoctoni, hanno fatto il loro tempo, non sappiamo chi li sostituirà. Quello che so è che il quartiere, di fronte al pregiudizio e all’abbandono da parte dell’intera cittadinanza, ha sempre saputo produrre da solo i suoi anticorpi. Che erano il Circolo Culturale Perini o l’associazione Quartoggiaro Vivibile, che è lo Spazio Baluardo, e tutta quella infinita serie di associazioni sorte dal territorio per il territorio. Così tante che si sono associate tutte assieme. Vill@perta si chiamano. Questa è la Quarto Oggiaro che non viene raccontata mai, quella dalla quale partire per davvero per restituire dignità ai loro abitati, stufi di essere inchiodati dentro ad un luogo comune, incorniciati in un pregiudizio duro a morire. Tutti mi chiedono: com’è oggi il quartiere, hanno paura ad uscire di casa?

Hanno paura ad essere abbandonati quando il chiasso mediatico finirà, questa è la verità. Quando pubblicai il mio primo romanzo neppure esisteva un commissariato a Quarto Oggiaro. L’hanno inaugurato poco dopo, quasi che la realtà si dovesse adeguare alla fantasia di uno scrittoruncolo. Molto lavoro hanno fatto e fanno le forze dell’ordine, ma non è militarizzando il territorio che si risolve la voglia di rivalsa del quartiere. Quanti di voi che mi state leggendo c’è mai venuto qui, mi chiedo. Non è forse anche questa Milano? Qui, ad un tiro di schioppo dall’Expo? Non meriterebbe di essere vissuto dall’intera cittadinanza, conosciuto di persona, attraversato a piedi, questo quartiere pieno di storie di emancipazione e di riscatto, e non solo di criminalità troppo spesso romanticamente romanzata?

Quello che sta accadendo – una lotta fra faide per il controllo dello spaccio? – ad oggi non c’è dato saperlo. Lasciamo agli inquirenti le indagini. A Quarto dobbiamo andarci tutti. Ma non oggi o fra una settimana a fare i turisti dell’orrore. Dobbiamo andarci, numerosi, il mese prossimo e quello dopo ancora. Non per l’ennesimo albero criminale che crolla, ma per la foresta di legalità che cresce. Rigogliosa.

(pubblicato ieri su Il Corriere della Sera)

Porno e dot-com. Trasfigurazione di San Francisco

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di Silvia Pareschi

BDSM

“Qui, prima dell’aids, il sesso era dappertutto. Quando andavo a una festa, spesso mi ritrovavo in mezzo a un’orgia”, mi racconta un amico nostalgico. San Francisco, con la sua vasta comunità gay, venne colpita duramente dall’epidemia, che ne modificò almeno in parte l’atteggiamento gaudente nei confronti del sesso. Ma il trauma dell’aids non è l’unico avvenimento che ha cambiato la faccia stravagante e anticonformista della città. Alla fine degli anni Novanta arrivò il primo dot-com boom, la bolla speculativa del settore informatico con epicentro nella vicina Silicon Valley. La città si riempì di giovani imprenditori e programmatori strapagati, e l’afflusso spropositato di denaro, con il conseguente aumento del costo della vita, contribuì a espellere dalla città quelli che non potevano più permettersi di abitarci, fra cui una buona parte degli artisti e degli eccentrici che riuscivano a rendere interessante un posto un po’ provinciale e sonnacchioso come San Francisco.

Sformato di merluzzo

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[C’è questo gran cuoco, davvero un cuoco dai mille piani (un principe  dell’anarco-gastronomia), ma assolutamente discreto – pur avendo contaminato la nostra cucina tradizionale con la nouvellissime cuisine – ebbene costui mi ha distrattamente lasciato in casa, durante un pranzo, questa ricetta: la rendo pubblica per il piacere dei lettori nostri buongustai, che la sperimentino su fuochi & la innaffino con grappe, ne facciano materia orale e gustativa. a. i.]

di Nanni Balestrini

 

la mano sinistra si appoggia sul libro come una conchiglia non perdiamo l’occasione di vivere un’avventura fatta

Trittico della letteratura italiana, #2

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di Mariasole Ariot

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