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Gaspard Winckler

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condottierodi Romano A. Fiocchi

Georges Perec, Il Condottiero, traduzione di Ernesto Ferrero, Voland, 2012; W o il ricordo d’infanzia, traduzione Dianella Selvatico Estense, Rizzoli, 1991; La vita istruzioni per l’uso, traduzione Dianella Selvatico Estense, Rizzoli, 1984.

 

Nel 1960 Gaspard Winckler è un pittore falsario. Nel 1975 Gaspard Winckler è un bimbo sordomuto. Nel 1978 Gaspard Winckler è un artigiano che fabbrica cinquecento puzzle. Carneade sappiamo ormai chi è, ma Gaspard Winckler, chi era costui? E soprattutto, appurato che sia soltanto un personaggio inventato da Georges Perec, come si spiega la sua compresenza in tre romanzi diversi, in vesti diverse eppure caratterialmente affini? Perché quel cognome, tutt’altro che francese, con quella W iniziale particolarmente insistente che dà addirittura il titolo a uno dei tre romanzi (W o il ricordo d’infanzia), che torna come pezzo finale dell’ultimo irrisolto puzzle di Bartlebooth (La vita istruzioni per l’uso)? E se Perec, che conosceva bene Calvino, condividesse con lui quella sarcastica idea che scrivere fosse nascondere qualcosa in modo che poi venisse scoperto? (Ne La scomparsa, 1969, Perec fa addirittura sparire la lettera E che ricompare nella dedica anteposta al libro successivo, appunto W o il ricordo d’infanzia)

Ma procediamo con ordine. Ordine cronologico, si intende, ossia l’unico ordine possibile in questo tipo di indagini. Gaspard Winckler appare per la prima volta nel romanzo breve Il Condottiero. A dire il vero, il titolo originale è La Nuit (La notte), trecentocinquanta pagine dattiloscritte che assumeranno poi il titolo di Gaspard, quindi nel 1959 di Gaspard pas mort (Gaspard non morto), per ridursi a centocinquantasette pagine nel 1960 con Le Condottière e sparire infine nel modo più assurdo per un manoscritto: chiuso in una valigetta di cartone pressato smarrita durante un trasloco. Perec morì credendo perduto per sempre quello che in W o il ricordo d’infanzia definisce come il primo romanzo più o meno compiuto che era riuscito a scrivere. E che per poco non era riuscito a pubblicare. Il manoscritto era stato infatti rifiutato dalle Éditon du Seuil ma accettato da Gallimard con tanto di anticipo sui diritti, quindi inspiegabilmente ribocciato. Perec aveva allora deciso di accantonarlo: “Lo riprenderò tra dieci anni, epoca in cui questo produrrà un capolavoro o magari attenderò nella tomba che un fedele esegeta lo ritrovi in un vecchio baule che ti era appartenuto e lo pubblichi” (lettera a Jacques Lederer, 4 dicembre 1960). Una profezia. Accadrà proprio così o quasi: non il vecchio baule, ma una remota scansia in casa o nella cantina del giornalista Alain Guérin de L’Humanité. Non il manoscritto originale, ormai smarrito per sempre nel trasloco, ma una copia dimenticata da un quarto di secolo che attendeva il biografo David Bellos con la sua monumentale ricerca sul mondo di Perec.

La storia fin qui ricostruita è esposta nella bella postfazione di Cluade Burgelin all’edizione di Voland de Il Condottiero, prima edizione italiana, pubblicata nel novembre 2012. Ne Il Condottiero Gaspard Winckler – per usare le stesse parole di Perec utilizzate in W o il ricordo d’infanzia – “è un falsario geniale che non riesce a rifare un Antonello da Messina e che, in seguito a quel fallimento, è indotto all’assassinio di chi glielo ha commissionato”. Dopo l’omicidio Gaspard Winckler tenta la fuga e sparisce. Dove? Dentro un altro libro, appunto W o il ricordo d’infanzia.

wIl problema, almeno per quanto riguarda le edizioni italiane, è che sparisce fisicamente anche il libro in cui Gaspard Winckler è sparito. Nel senso che l’ultima edizione di W o il ricordo d’infanzia, quella di Einaudi del 2005, è da tempo fuori catalogo. Girano voci che sotto la spinta delle celebrazioni per il trentennale della morte di Perec, che ricorreva l’anno scorso, la Dalai Editore stia preparando una nuova traduzione. Ma per un lettore compulsivo quale il sottoscritto, non era possibile attendere tanto tempo. Qualche mese a spiare la rete, da Maremagnum a Ebay, infine con soli dodici euro riesco a procurarmi niente meno che la prima edizione italiana, quella di Rizzoli del 1991. Lo leggo e ritrovo Gaspard Winckler: “Gaspard Winckler era a quei tempi un bambino di otto anni. Sordomuto. Sua madre, Caecilia, era una cantante austriaca, nota in tutto il mondo, che durante la guerra aveva trovato rifugio in Svizzera. Gaspard era un ragazzino rachitico e gracile, condannato dalla sua infermità a un isolamento pressoché totale”. Per aiutarlo a superare le sue problematiche, la madre lo porta fare un giro del mondo. Peccato che il Sylvandre, il panfilo di venticinque metri su cui si imbarcano, faccia naufragio al largo della Terra del Fuoco. Gaspard Winckler scompare dal libro e scompare di nuovo dal mondo letterario. Il libro prosegue con un parallelo – a capitoli alterni – tra il tentativo da parte di Perec di ricostruire la propria infanzia e il mondo straordinario di W, isola della Terra del Fuoco dove vige un sistema sociale basato esclusivamente sullo sport ma che via via, nel corso della narrazione, si rileva una vera e propria parodia dei campi di concentramento nazisti. Che il piccolo Winckler, unico superstite del naufragio, sia finito proprio lì? Che tutto sia una metafora, terribile metafora di una realtà che si ripropone ciclicamente nella storia del genere umano? Ma W è anche il titolo della la storia che Perec inventò, raccontò e disegnò nella prima adolescenza. Scrive nel finale del libro: “Ho dimenticato i motivi che, a dodici anni, mi hanno spinto a scegliere la Terra del Fuoco per collocarvi W: i fascisti di Pinochet si sono fatti carico di dare alla mia terra fantasma un’ultima risonanza: vari isolotti della Terra del Fuoco sono, oggi [1974], campi di deportazione”.

Tre anni dopo l’uscita di W o il ricordo d’infanzia, la Librairie Hachette pubblica il capolavoro di Perec: La vie mode d’emploi (La vita istruzioni per l’uso). Il solo titolo è da sé un colpo di genio. Lo stesso anno vince il premio Médicis. L’intervista a Perec, trasmessa su Antenne 2, è reperibile negli archivi on-line dell’ente nazionale francese INA per le documentazioni audiovisive, qui.

la_vitaNe La vita istruzioni per l’uso Gaspard Winckler è di nuovo uno dei protagonisti. Qui è un artigiano. Moltissime le affinità con il Gaspard Winckler de Il Condottiero. Entrambi vengono reclutati giovanissimi da personaggi di un certo spessore economico: il mercante d’arte (o meglio, di arte falsificata) Anatole Madera ne Il Condottiero, l’eccentrico miliardario inglese Bartlebooth ne La vita. Entrambi sono fatti carico di un progetto impossibile: il primo inventare un Antonello da Messina autentico, il secondo cinquecento puzzle perfetti ma diseguali tra loro. Entrambi si ribellano alla propria condizione di sottomissione: il Winckler de Il Condottiero uccide l’antagonista già nella prima pagina, il Winckler de La vita nell’ultima (a cui seguiranno le due pagine dell’Epilogo). Cambia il modus operandi della ribellione: Madera viene ucciso fisicamente, sgozzato con una lama. Bartlebooth viene ucciso da un enigma insolubile: davanti a lui è il quattrocentonovantesimo puzzle in cui manca un pezzo che disegna la sagoma quasi perfetta di una X, ma il pezzo che il morto regge tra le dita ha la forma di una lettera W. Come W di Winckler, ovviamente.

Da X a W. Del resto in W o ricordo d’infanzia Perec ci aveva già svelato i segreti magici di questa lettera: basta accostare di punta le due V contenute in W per ottenere una X. Ma prolungando le aste della X con segmenti uguali e perpendicolari si ottiene anche una croce uncinata, che a sua volta è composta da due S incrociate, ovvero il simbolo delle famigerate SchutzStaffeln. Non solo, la sovrapposizione di due V capovolte genera la figura XX dove è sufficiente riunire orizzontalmente le aste per ottenere la stella ebraica a sei punte.

W è dunque la lettera simbolo, la lettera che contiene in sé tutti i simboli e tutte le altre lettere, il borghesiano Aleph, l’alfa e l’omega di tutti gli alfabeti. E allora, chi è Winckler se non il personaggio che contiene in sé tutti i personaggi, che ne va del suo essere personaggio trasversale di più libri? Ne La vita è riprodotta tipograficamente la partecipazione listata a lutto della sua scomparsa:

“La S.V. è pregata di assistere all’inumazione di Gaspard WINCKLER, deceduto a Parigi il 29 ottobre 1973 all’età di sessantatré anni. Il trasporto avrà luogo il 3 novembre 1973 alle dieci a.m. partendo dall’obitorio dell’ospedale Bichat, boulevard Ney, 170, Parigi 17°. NIENTE FIORI”.

Winckler non è il joyciano Dignam, il funerale non verrà narrato. Gaspard Winckler muore e scompare così. Scompare ancora una volta. Questa è l’ultima solo perché Perec morirà anche lui appena quattro anni più tardi. Ma non mi stupirei se il buon Winckler riapparisse di colpo in un altro libro di altro autore.

Un ultimo appunto: sul sito americano Bob Armstrong’s Old Jigsaw Puzzles è riportata l’immagine di citato un puzzle realizzato da tale Steve McAllister che porta il nome di Gaspard Winkler (con la sola K, senza la C). Questo significa che in rete già si aggira il suo fantasma.

Videogame: Doom3

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di Jan Reister

Negli ultimi 15 anni i videogiochi hanno raggiunto un ruolo nella nostra società pari a quello del cinema: successi commerciali con milioni di giocatori, lunghe produzioni con budget milionari, enormi investimenti tecnologici, un sofisticato lavoro di squadra tra competenze diverse: sviluppo software, progettazione di livelli di gioco, design dell’interazione, arti visive, design del suono e composizione musicale, scrittura e sceneggiatura. Allo stesso tempo si tratta di un mondo ancora aperto, con molto spazio per piccole case indipendenti che non di rado riescono ad avere successo con le loro sole forze.

doom3_icon_desaturatedDoom3 (2004) è un buon esempio di questa industria e delle forze e debolezze del videogioco moderno. Giocarci ora, 9 anni dopo la sua prima pubblicazione (2004), ha inoltre alcuni vantaggi: costa meno, si gioca meglio su hardware moderno ed economico, si può apprezzare di giocare un classico che ha superato la prova del tempo e che ha influenzato profondamente la tecnologia ludica.

E’ un First Person Shooter (FPS, sparatutto in soggettiva) per computer, controllato da mouse e tastiera e con la grammatica di controllo standard in questo genere di giochi. Il protagonista è un soldato inviato nell’anno 2145 su Marte nella base della Union Aerospace Corporation (UAC, un conglomerato militare-industriale) per svolgere una missione legata a una strana serie di incidenti. Ben presto assiste ad episodi di follia, esplosioni e aggressioni da parte di zombie, militari ostili ed esseri mostruosi da affrontare e sconfiggere con le armi a disposizione.

doom3-2004-08-15-11-58-04-5L’interazione del giocatore con l’ambiente avviene attraverso il movimento spaziale, le armi e manipolazioni semplici. Il gioco segue uno schema a missioni, che consistono nel muoversi da un punto a una destinazione in ambienti ignoti, raccogliendo oggetti e risolvendo enigmi fisici. A intervalli regolari delle missioni chiave con boss di livello permettono di avanzare nello schema del gioco.

La storia viene raccontata attraverso tagli di scena in video e con gli artefatti incontrati durante le missioni: email e audioappunti di soldati, scienziati e amministratori, filmati di addestramento della UAC, manuali tecnici. Le narrazioni secondarie sono talvolta assai dettagliate: vi si percepisce la personalità dei personaggi incontrati (ingegneri, soldati, ricercatori), l’ambiente disfunzionale, burocratico e compartimentato in cui lavorano, il cinismo della UAC, ben descritti negli anodini video di addestramento che si incontrano nella base marziana.

flashlightIl gioco si richiama a Doom (1993) nella storia e nell’ambientazione: gli ambienti sono spesso bui, labirintici ed opprimenti, gli esterni sono inospitali. Deve molto anche ai successivi Quake e QuakeII di ID Software, per la dimensione esplorativa negli ambienti, le architetture monumentali, i problemi fisici (i classici salti, piattaforme mobili e movimenti a tempo). Viene usata abbondantemente l’oscurità come elemento di incertezza per coinvolgere emotivamente il giocatore: molti livelli sono in penombra e alcuni assolutamente bui, la torcia elettrica non è utilizzabile insieme ad un’arma e ciò costringere il giocatore a scegliere se vedere o sparare, o a snervanti cambi di mano tra pila e fucile divenuti ormai proverbiali.

doom3-2004-08-20-06-06-50-6La storia si dipana in aree sempre più profonde della base marziana, svelando man mano le cause sovrannaturali e al contempo concretamente umane degli incidenti in corso nella base, con effetti grafici spettacolari e talvolta nauseanti. Le scelte artistiche di disegno grafico sono rigorose dando all’intero gioco una consistenza unitaria ed esteticamente interessante, che rende ancora più impressionanti le scene a tinte forti gore e splatter. Il tutto è accompagnate da un design del suono molto attento che contribuisce a creare un’atmosfera opprimente, solenne e disperata.

doom3-2004-08-20-06-42-49-5Nonostante gli elementi di spaesamento, le narrazioni collaterali e l’interesse artistico, l’esperienza di gioco è lineare, alla portata di tutti giocatori. I corridoi apparentemente labirintici della base UAC sono in realtà percorsi obbligati in cui è impossibile perdersi, le interazioni con gli avversari seguono schemi riconoscibili e ripetitivi, i bivi della storia portano a conclusioni standardizzate. Il gioco realizza così un compromesso accettabile tra lo sparatutto puro e semplice, il survival horror, la narrazione di fantascienza ed il gioco esplorativo.

doom3-2004-08-15-15-19-42-0Ogni gioco ha una componente simbolica e porta allo sviluppo di specifiche competenze: per gli scacchi la strategia militare nello scontro fra eserciti, nel go il controllo del territorio e l’influenza sull’avversario, nel mancala i cicli e la gestione delle risorse.

Se il solo modo per giocare è sparare, i giochi FPS insegnano che uccidere l’avversario è naturale e che la guerra riguarda solo i soldati, mai le popolazioni civili. In Doom3 curiosamente l’ambientazione militare contrasta con lo svolgimento della storia, che propone un forte scetticismo nei confronti dell’autorità e del potere. Rimangono comunque gli aspetti ideologici tipici del genere: la sparizione dei cadaveri degli uccisi allo scopo di rendere più accettabile l’azione (in Doom3 solo per gli esseri demoniaci), le medicazioni con cui si può rigenerare all’infinito il proprio stato di salute, l’identificazione degli avversari con mostri alieni nel più classico cliché di disumanizazione del nemico.

Doom3 ha avuto un enorme successo commerciale e un impatto profondo sulla cultura popolare. Nel 2005 è uscito un pessimo film basato sulla trama del gioco, un seguito del gioco (Doom3 Resurrection of Evil) piuttosto divertente da giocare, ma artisticamente inferiore, e nel 2012 una edizione speciale (BFG Edition) dedicata all’arma più grossa dell’arsenale di gioco, il big freaking gun.

Il motore software del gioco (id Tech 4) è stato successivamente usato in vari giochi commerciali (tra cui Quake 4, Prey, Enemy Territory Quake Wars). Nel 2011 il codice sorgente è stato rilasciato con licenza aperta GPL, come tutti i precedenti motori di ID Software. Il progetto più interessante ad avvalersi di id Tech 4 GPL è finora The Dark Mod, un gioco stealth di ambientazione settecentesca con incursioni cyberpunk, sviluppato indipendentemente da una comunità di appassionati e distribuito in modo aperto e gratuito.

Doom3 su Wikipedia in inglese

Una recensione e guida visiva che mi ha molto influenzato: Doom3 walkthrough di Mike Mangold. Le immagini sono tratte da lì, tranne la prima che non riesco ad attribuire con precisione.

Doom3 BFG su Steam (la migliore opzione per giocarci su Windows)

Doom3 su Amazon per gli amanti del DVD nella custodia

Giocato su un PC con Linux, il DVD originale e leggendo la documentazione.

Tre estratti

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di Gherardo Bortolotti

Da Senza paragone, Transeuropa, Nuova poetica, 2013.

senza paragone

 

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01. come le monete che trovi in tasca, gli scontrini, le palline di filo, i granuli di materia ignota in mezzo a cui le dita scoprono le sedi adeguate per gesticolazioni spastiche, improvvise, mentre il tuo sguardo indugia in particolari di secondaria importanza alla fermata dell’autobus, lungo il marciapiede, seguendo, come uno che non ha che raramente il senso del proprio avanzare, la ragione che lo porta a credere, senza altri sospetti che non siano innocui

02. simili ai giochi di posizione tra te, i tuoi colleghi, le fotocopiatrici ed il resto dell’arredo dell’ufficio, in mezzo a cui vi spostate seguendo le geometrie irregolari delle vostre mansioni e dei sotterfugi, delle distrazioni che vi lasciano arenati, per pochi minuti, di fronte alle finestre, lungo il corridoio, in cerca, per quell’istante, di una parola incerta, di una specie di commento marginale alle grandi idee che vi attraversano come fronti di maree e che rendono, in prospettiva, diafani i volumi commerciali, in cui avanzate gli sguardi ed i passi

03. simili alle occasioni che sprechi in primavera, per conto della persona che sarai, prevedendo altre mattine di sole e cielo terso, in cui guardare attraverso le cose trasparenti, mentre il riflesso, la rifrazione, come fenomeni di verità locale

04. diverso dal senso di immobile disfatta che segna il giorno, le ore del mattino e le tue intenzioni, le vicende quasi assurde che interessano chi è vivo, magari seduto in cucina, partecipando all’equivoco collettivo generale dell’ennesima data, del tardo dopo cristo

05. diverso dai piccoli segni di un passato recente, dalle cose lasciate fuori posto, dagli scontrini, dalle considerazioni di poco conto che non riesci a scordare e, mentre esci di casa, come chi ha un progetto di medio e lungo termine, che costringe le ombre del mondo, i passanti, il mercato globale ad essere veri e, quindi, ideali

06. come tutto quello che non capisci, e non ti interessa, e pensi sia tuo preciso compito ignorare mentre procedi conto terzi nel supermercato, verso l’ottusità del domani, in preda a una ridotta capacità d’acquisto, alle versioni sempre meno chiare

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01. come le poche cose che ti ricordi, di quasi tutto quello che ti è successo, come le vicende secondarie scartate, in qualche processo di filtro della memoria a lungo termine, riallocate lontano, depositate in catene paradigmatiche di associazioni di idee, affinità, paragoni i cui elementi, come quello che avanza di una vecchia collana, in fondo a un cassetto

02. diverso dalle nuvole in aprile, dalla profondità del cielo sereno contro cui veleggiano, al di sopra delle aree residenziali, dei distretti commerciali periferici, in vista di un futuro imminente, votato alla perfezione ed agli acquisti pomeridiani

03. come tutto quello che manca perché si possa chiudere, per sempre, la vicenda arbitraria della tua vita, il reale come termine di paragone di qualcosa di cui ti hanno detto, di cui pare sia vero, aggiungendo alle vicende dei tuoi mattini in ufficio, alle soste nei bagni illuminati dal sole tra pensieri grandi e impersonali, fatti di una materia diafana, di voci, di frasi ripetute in cui qualcosa di urgente, e impreciso, ancora una volta cerca di farsi ubbidire

04. diverso dalle prospettive infrasettimanali di un pomeriggio pieno di luce, che comporta l’ennesima resa al tempo che passa, all’esubero dei particolari d’ambiente, ai tempi marginali fondati sull’attesa di momenti come la cena, la visione di un serial, la pratica serale di una conversazione in chat sottilmente disperata

05. come alcuni episodi di poco conto, coincidenze trascurabili, realmente accadute

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01. analogo alla posizione delle sedie che ti accolgono in sala, come testimoni di qualcosa avvenuto in tua assenza, l’episodio remoto e minore di una saga di fatti che ti sfuggono, che ignori mentre, passando in cucina, processi il tuo giorno, convinto di ciò che vedi, le fattispecie di quello che è reale, passibile delle tue certificazioni a vuoto, sprecate, tra i miliardi di miliardi di atti di razionalità locale che i tuoi simili producono, nel tempo di quello che è in corso

02. somiglianti alle discussioni inefficaci che condividi con gli altri, alle strutture frasali in cui scarichi le spinte delle tue ragioni, mentre collabori alla tessitura, tra i mobili, di transazioni di senso che una volta zittiti, una volta che l’altro se ne va, sbattendo la porta, rimangono a mezz’aria, nel vuoto che vi separava, come nervature fossili di istanti precedenti

03. differente dalla mattina, dalla luce attraverso cose trasparenti, dal senso di pienezza che ti danno gli alberi in estate

04. come la fisiologia sottile, membranacea, della paura che ti infesta mentre pensi agli anni che ti aspettano, ai destini quasi irreali di momenti senza rilievo, di silenzi pomeridiani, di degenze senza guarigione, alle occasioni per perdere, per essere occupazione del dolore, per vedere soffrire gli altri, ai distinti fallimenti di quelli cui ora rivolgi la parola, ponendo le basi per le relazioni che corromperai nel tempo, destinate a disfarsi, a confondersi come cenni, in lontananza, sotto la pioggia

05. diverse dalle scarpe che abbandoni in un angolo, dalle tracce sbiadite che hanno lasciato all’ingresso, decifrabili ancora, alle tue spalle, come prove di una stagione precedente del tuo essere vivo, del fatto che altrove hai solcato il presente, disfacendoti in parte, in superficie, sprecandoti nel processo del tuo futuro imminente

Alfazeta per Alfabeta: D come Debito

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Un video girato in occasione della presentazione alla libreria Comunardi di Torino, del libro, La fabbrica dell’uomo indebitato. di Maurizio Lazzarato. Incontro a cura di Paolo Barsi e Francesco Forlani, moderato da Carlo Capello.


Alfadomenica è la nuova rubrica di alfabeta2 in rete:

ogni domenica articoli di approfondimento, dibattiti, scritture, poesie

Lettera aperta di Mario Sechi al Rettore dell’università di Bari

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[Ricevo da Luigi Weber, dell’Università di Bologna, la lettera aperta che Mario Sechi, dell’università di Bari, ha indirizzato al suo Rettore. Pur non condividendo le analisi di Sechi in diversi punti, mi pare che la crisi di fondo che sta attraversando l’università, in Italia come all’estero, meriti ampio dibattito. La lettera aperta di Sechi vi contribuisce]

 

Magnifico Rettore,

mi rivolgo a lei, e allo stesso tempo a tutta la comunità accademica barese, per richiamare l’attenzione su un aspetto solitamente trascurato della crisi di sistema in cui l’Università italiana versa da ormai molti anni. Le politiche di austerità e di “spending review” messe in atto dagli ultimi Governi, miranti a correggere alcune disfunzioni e persino patologie dell’autonomia universitaria, e soprattutto a contenere un incremento di spesa per il personale che era in crescita non controllata e non programmata, hanno finito per enfatizzare il problema dei bilanci e delle disponibilità di risorse, indispensabili per garantire la tenuta dell’offerta didattica e della gestione complessiva dell’Università azienda. L’allarme è fondato, poiché non è chiaro, o quanto meno non appare chiarito, il disegno strategico del legislatore e del Governo sul destino dell’intero sistema universitario italiano. Si vuol andare verso un ridimensionamento, o verso una riclassificazione gerarchica di compiti delle diverse sedi, o verso una più completa e anarchica aziendalizzazione, secondo il modello anglo-americano?

Ma io credo che, al di là di queste emergenze, che colpiscono oggi più le grandi e medie Università che le piccole, più le Università pubbliche che quelle private, più le Università storiche che quelle di fresca istituzione, più quelle non-telematiche che quelle telematiche, si debba riconoscere un indicatore allarmante della situazione di crisi attuale nella campagna di delegittimazione e denigrazione sistematica del ruolo di sociale e pubblica utilità dei professori universitari. Sia nella stampa e nei media, sia nel linguaggio della politica, e direi nella cultura politica spicciola dei nostri tempi, corre e si alimenta quotidianamente una rappresentazione delle comunità accademiche come caste arroccate nella difesa di loro presunti privilegi, appesantite da un’anzianità anagrafica eccessiva, sostanzialmente improduttive, meritevoli di un occhiuto controllo di legittimità su ogni atto o funzione che essi svolgano, nello svolgimento dei doveri ordinari (la ricerca e la didattica), e soprattutto nelle funzioni di selezione e di riproduzione dello stesso ceto accademico: concorsi, abilitazioni e quant’altro. In questa campagna di denigrazione non a caso è tornata in voga, in senso spregiativo, dall’alto e dal basso, la definizione di “baroni”: parola anacronistica, come ognuno di noi sa, priva totalmente di senso nell’Università attuale, o quanto meno da reinterpretare in modi nuovi e differentissimi dal passato, posto che le posizioni di potere accademico oggi, quando sussistano, non sussistono senza una capacità di attrazione di consistenti risorse finanziarie, e dunque senza una prossimità a centri di potere o di finanziamento esterni.

Lamentando questa aggressione (spesso ideologicamente motivata nella cultura di destra), che ha trovato un’eco a mio parere poco controllata alcuni giorni fa in un’inaudita esternazione del Ministro Carrozza alla radio di Confindustria (“Se i professori fossero onesti e generosi…”), non intendo riferirmi alle contestazioni di responsabilità e di errori, e tanto meno alla denuncia di abusi e di scandali, quando documentati. I professori universitari come comunità sono in parte corresponsabili degli errori gravi, compiuti in passato da legislatori poco competenti e talvolta temerari, e alcuni di loro sono stati riconosciuti responsabili in proprio di abusi e di scorrettezze anche gravi. Da tutti questi addebiti, soprattutto dall’accusa di aver condiviso per inerzia o per calcolo scelte politiche rivelatesi dannose se non distruttive, non ci si può facilmente discolpare, occorrerà riflettere e rielaborare una storia che sta alle nostre spalle, e che ancora pesa e peserà a lungo.

Il problema che io pongo si riferisce invece all’attacco al valore sociale del capitale umano che i professori universitari rappresentano per la comunità nazionale, al valore dei saperi e delle competenze che essi incarnano. La professoressa Carrozza, prima di assumere la responsabilità del Ministero, ha più volte avanzato la proposta di una “rottamazione” dei docenti universitari, con un drastico abbassamento della età pensionabile ai 65 anni (era fissata ai 75, come tuttora per i magistrati, fino a pochi anni fa). All’idea della rottamazione corrisponde anche, ne sono certo, una sua visione culturale del ruolo delle Università, che per quanto discutibile ritengo ovviamente legittima. Ma l’idea di ridare slancio a un sistema ingessato, non reinvestendo selettivamente nel reclutamento, non pilotando un processo di transizione e riequilibrando un sistema fortemente squilibrato sul piano territoriale e all’interno di ogni suo polo, ma tagliando, decapitando, distruggendo l’organico di fatto delle Università, e distruggendo in questo modo saperi consolidati, spesso innovativi, che non hanno magari potuto essere trasmessi e rinnovati in un adeguato reclutamento di scuola, implica con tutta evidenza una sottovalutazione completa dell’aspetto istituzionale, culturale e anche politico, della questione. Se aderiamo all’idea secondo la quale la ricerca va valutata in termini di produttività immediata (magari affidandosi a un’Agenzia indipendente australiana o finlandese, o anche all’ANVUR), se aderiamo all’idea che i professori universitari siano non più che una “categoria” come tante di lavoratori privilegiati, da “mandare in pensione” al più presto, per fare spazio alla libera espressione e competizione, cioè al mercato della creatività scientifica, se aderiamo all’idea che la docenza universitaria sia una funzione volatile da attribuirsi in base a valutazioni in itinere, magari con abbondanza di contratti precari il cui peso sulla partita di spesa fissa nei bilanci sia assai ridotto, se infine riteniamo che si possa intervenire su queste materie con la logica della lotta alla disoccupazione giovanile, contrapponendo (come fa il Ministro) le giuste aspettative dei ricercatori precari e la resistenza dei vecchi ordinari, aggrappati alla proprie poltrone (qui siamo veramente alla farsa), allora credo che siamo sulla strada di nuovi e più gravi e forse irreparabili errori.

Ma concludendo, con la consapevolezza della complessità delle questioni appena accennate, vorrei rimettere fiduciosamente nelle Sue mani il compito, che sono certo saprà svolgere con rigore durante il Suo mandato, di vigilare – e non sempre ciò è accaduto in passato – sulla onorabilità e sulla dignità della nostra comunità di studiosi e di studenti, vale a dire sulla missione fondamentale del nostro lavoro quotidiano, scoraggiando l’uso di linguaggi e di argomenti di polemica fortemente lesivi e ingiuriosi, sia negli organi di governo di Ateneo sia nelle relazioni interne con sindacati e associazioni studentesche. Per trovare un florilegio di ingiurie e di gratuite derisioni nei confronti dei professori esperti di assalti alla diligenza, riportate e talvolta amplificate dai giornali, è sufficiente sfogliare con pazienza sul nostro sito la rassegna stampa degli ultimi anni.

E’ a tutti noto che, assorbite dai Sindacati generalisti le problematiche specifiche di autotutela delle vecchie associazioni di categoria, i professori universitari, forse unici nel panorama delle professioni e dei ruoli istituzionalmente rilevanti del nostro paese (magistratura, informazione, sanità, ecc.), sono praticamente privi di qualunque voce di rappresentanza, salvo la flebile voce del CUN e la voce non sempre intonata del Ministro.

La ringrazio vivamente per l’ascolto, e Le rinnovo gli auguri più sentiti per l’impegno assunto alla guida della nostra Università.

diventare Fabrizio

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di Antonio Sparzani
Fabrizio Centofanti
Voglio parlare di Diventare se stessi di Fabrizio Centofanti (Effatà editrice, 2013, 173 pagine, € 12), perché è un libro che mi ha preso per mano e mi ha condotto alla fine senza permettermi di distrarmi e nello stesso tempo senza mai darmi un punto fermo, a cui attaccarmi; sì, qualche frase isolata buttata lì senza parere, ma che dice molto più di quel che sembra, e invece un continuo inseguimento di sé, mai davvero raggiunto. Sono passati otto anni da quando lessi Alla cieca, di Claudio Magris (Garzanti, 2005), ma questo libro di Fabrizio me l’ha fatto ricordare. Con tutte le differenze del caso, naturalmente, anche rispetto alla mole del lavoro, ma anche in quel caso, arrivato furiosamente alla fine, mi chiesi perché non andava avanti, perché non mi trasportava ancora un po’ più in là.

Tra le righe Fabrizio parla della sua adolescenza, di una problematica giovinezza, della vocazione sacerdotale, della figura di don Mario Torregrossa ― il parroco di S. Carlo da Sezze di Acilia (RM), che il 24 novembre del 1996 fu gravemente ustionato per opera di uno squilibrato ― che per la vita di Fabrizio ebbe un’importanza vitale, ma ne parla con uno stile e una leggerezza davvero uniche. Sono 84 capitoli, ciascuno di una pagina, una e mezza, lampi di delirio nei quali lo scavo nella memoria del proprio passato è continuo, spudorato e impietoso.

Apro a caso e vi copio qui il cap. 26:

«Il marinaio
L’adolescenza è un magma di sensazioni senza capo né coda: vuoi essere tutto e non sei nulla. Resti il bambino timido con la paura di sbagliare, e nello stesso tempo ti scopri una specie di playboy di cui s’innamorano tutte le ragazze; stacanovista, curvo sui libri un pomeriggio intero, e studente cui basta niente per distrarsi: un libro di racconti lasciato lì per caso, la copertina glamour con la donna che ti guarda sorridendo, il film di Zorro che comincia tra poco alla TV. Sei sempre lo stesso, e cambi ogni minuto. Adesso vai da Massimo, il compagno di classe che abita di fronte a casa tua; seduti al tavolo rotondo, scrutate un rettangolo di cartone rigido, con un perimetro di caselle colorate e otto percorsi interni, grigi, di forma disuguale. Devi decidere gli obiettivi che hai intenzione di raggiungere: Soldi, Fama e Felicità; attribuire a ognuno un valore numerico, in modo che la somma sia sessanta. Un guaio per te, che prendi sul serio pure i giochi. Scegliere tra le carriere, poi, è ancora più penoso: astronauta? politico? attore? marinaio? Professore universitario: è questa, per uno come te, la strada più indicata per ottenere la dose giusta di fama e di felicità. Già ti vedi nei corridoi della Sapienza, con l’ordinario che ti stringe la mano e Alexandra che ti squadra con l’espressione da regina egizia, sempre abbronzata, l’aria complice di chi è uscita con te la sera prima, nelle vie del centro, ascoltando rapita il Romeo e Giulietta di Tchaikovsky. Non lo conoscevo. Non mi dire! Lo trovo straordinario. Sorride; non capisci mai se sia il momento di piazzare la frase galeotta, o se saresti fulminato dallo sguardo aristocratico e la vedresti uscire, offesa, dalla macchina. Non è come le altre: ha scritto libri, tenuto lezioni in aula magna, conosce professori prestigiosi, anche parigini, e tu pensi di poterla conquistare con un semplice Tchaikovsky? È l’unica capace di tenerti in soggezione: non trovi il coraggio di farle una carezza, di avvicinare le labbra alle sue labbra regali. Pensa se, poi, lo riferisse al titolare: ci ha provato, direbbe, in via Ripetta; mi ha sussurrato a tradimento, con l’occhio di triglia: non senti qualcosa pure tu? Ma io gli ho riso in faccia; ci vuol altro per una come me. Il professore ti osserva in modo strano: dice che sì, sognare è. bello, ma bisogna pestare, pestare; e a te vengono in mente la cicala, il cedro, l’orario di lavoro, e ti chiedi se al mondo esistano davvero i trenta punti di felicità che hai scelto come tuo obiettivo. Massimo ti guarda con aria rassegnata, coi dadi in mano, che sta cercando di passarti da mezz’ora. Ho cambiato idea, gli dici, voglio fare il marinaio.»

È fatto di brandelli di esperienza del corpo vivo dell’autore, questo libro, che non cerca applausi, non ammicca, si piazza lì davanti a te lettore e dice, beh, a me è successo così, e a te, lettore, cosa succede, qual è la tua storia, ti ricordi come sei diventato quello che sei adesso?
Fabrizio ha scritto molto, basta guardare qua, perché mi pare abbia la scrittura nel sangue, così come ha nel sangue la capacità di relazione, e riesce forse a conciliare, cioè a trovare il tempo sia per la scrittura che per il suo defatigante lavoro di parroco, perché pratica entrambi con la stessa stupefacente intensità.

Maledetta la terra

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di Erri De Luca

5decemb1 “Maledetta la terra”, dice la divinità a Adàm, ultima creatura uscita dai sei giorni dell’opera.

Maledetta la terra: non è una condanna, ma una dolente constatazione. Dopo il frutto della conoscenza di bene e di male, che ha accresciuto le facoltà umane, Adàm non si contenterà più del prodotto spontaneo del suolo. Moltiplicherà gli sforzi su di esso per estrarne maggiore prodotto, ricavarne profitto. Asservirà la terra che così sarà maledetta dallo sfruttamento delle risorse, dal sudore della fronte. La divinità avvisa Adàm: stai attento al suolo, prendine cura o te lo ritroverai intossicato.

In altra parte del racconto iniziale si pronuncia la consegna della terra a Adàm: “Per servirla e custodirla”. I due verbi dell’ebraico antico sono gli stessi del culto dovuto alla divinità, anch’essa da servire e custodire. I traduttori aggirano l’uguaglianza dei due verbi, ma così stanno le cose nella scrittura sacra: Adàm e la sua specie stanno tra terra e cielo e a loro spetta opera di congiunzione. Servire e custodire la terra, servire e custodire il cielo.

Sulla scorta di questa responsabilità’ s’intende meglio la consegna del sabato. In ebraico vuol dire cessazione. È visto dalla parte della terra che smette di essere lavorata e non dalla parte dell’uomo che ci fa festa sopra. Perché il sabato è diritto che sale dal basso e garantisce prima di tutto il riposo della terra. Le spetta un giorno su sette, un anno su sette. Il sabato non appartiene all’ uomo ne’ alla divinità, il sabato spetta alla terra.

È il riconoscimento che siamo ospiti, non padroni di casa. È il rispetto dovuto al luogo comune e non licenza di schiamazzo. Dimenticare il sabato, profanarlo è arroganza di conquistatori che asserviscono lo spazio e il tempo.

Nel sabato neanche si poteva accendere un fuoco, perché pur’esso è vita della terra. Perciò il sabato e’ santo, tempo staccato e separato dal resto dei giorni.  Sta a punto di contatto tra la terra e il cielo.

Dal sabato ignorato, calpestato come un giorno qualunque, proviene la licenza di aggressione all’ambiente, la sua maledizione sotto lo sfruttamento.

(se qualcuno fosse interessato a qualche informazione di carattere più tecnico sul grosso problema della terra/ suoli, può vedere quanto ho scritto su NI in occasione della giornata del suolo del 2012: https://www.nazioneindiana.com/2012/12/05/la-terra-con-t-minuscola/, che purtroppo resta attualissimo; GS)

La mia terra

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di Vincenzo Pardini

5decemb1 Con la terra ho sempre avuto un legame di viscere e di mente. Non potrei vivere in città; mi sentirei peggio di un orfano o di un recluso. Debbo guardare la terra ogni giorno, alla stregua di un volto e di un corpo che si ama. Quando la lavoro (taglio di erba e seminagione) avverto che mi trasmette un’insolita energia: un contraccambio di sentimenti e di sensazioni. Non ricordo quando, ho veduto un documentario: c’erano dei negri, forti e alti che, poggiati a terra sulle braccia, mimavano un rapporto sessuale con lei. La visione di quei corpi trasmettevano una forza primitiva insuperabile: quella che anche noi siamo fatti di  terra, impastati da Dio nella sua polvere e poi modellati a immagine e somiglianza di Lui. Non posso sopportare chi getta rifiuti nei boschi e nei prati. Sento che la terra se ne offende, alla stregua di una madre insultata e percossa dal figlio. Stanco durante il lavoro, mi siedo su un poggio, il cane accanto. I suoi sguardi e il contatto con il suolo mi infondono prima serenità di  spirito, poi energia. La terra non mi ha mai tradito. Ogni volta che torno in quella natale, mi accoglie e mi fa rivivere quanto di bello ho avuto. Non solo i ricordi. Ma i suoi odori, specie vicino ai torrenti o al fiume: dove acqua, sassi, alberi e rena sono un mondo di quiete e di armonia. Quando la raccolgo, tenendola in pugno, non la stringo mai. Mi sembra di avere tra le dita un cucciolo di cane, di gatto o di lupo, a cui potrei far male. Perché la terra, pur essendo immensa, è anche delicata e sensibile. Vuole sentirsi amata, vuole sentirsi dire che le si vuole bene. Deturparla e inquinarla è un’autentica bestemmia. Un peccato che, mi pare di capire, grida vendetta davanti al cospetto di Dio, perché è Lui che l’ha creata, dandoci, oltre la madre naturale, lei. Io sono innamorato della mia terra.

La fabbrica della terra

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di Marino Magliani

5decemb1 Questa è la storia di un contadino ligure al quale se chiedete brav’uomo, cosa fate nella vita, non vi potrà neanche dire che fa il contadino, perché qui si sono rubati persino le parole. Vi dirà semplicemente che va in campagna. Cosa fate brav’uomo, su e giù per queste frane polverose e appese? Vado in campagna. Qui le frane erano una cattedrale, immaginate lunghi muri a curvare come una cassa toracica, una mulattiera che fa da dorsale e tiene tutto collegato. Ma poi è arrivato il neorealismo, e prima ancora è arrivata la mosca a deporre le uova nelle olive e a divorare le foglie e gli ulivi hanno patito, e poi è arrivata la sete e gli ulivi hanno patito, poi hanno deciso che l’ulivo spagnolo e quello pugliese, nato su pianori larghi e dolci, doveva fare concorrenza alle ceppaie di qui che occupano mezza terrazza e tra muro e ceppaia non ci passa un trattore. Poi è uscito uno a dire che si poteva fare il dop e il doc ma per poco i grandi dell’olio ligure non lo fanno frustare perché col dop non potrebbero comprare le olive in Spagna e sostenere che è olio di olive liguri, e allora sono arrivati i rovi. E ora in campagna ci si passa di sbieco. Ma i rovi non rovinano mica, pare che  conservino il territorio come fa una banca, mantengono intatto il paesaggio sotto la cortina minerale e chi ci entra si dissangua, ma poi il premio è la Liguria com’era una volta: i muretti, le falci arrugginite, le bottiglie piene di terra e di lumache morte che sono state le bottiglie dei falciatori assetati. Tutto, là dentro, è rimasto com’era. Ecco, per ultimo sono arrivati quelli come me a guardare le cose che sono dentro i rovi. Ma non funziona, non se lo crede mica nessuno che i rovi conservano, sono le cose dei libri. I rovi nascondono la verità che sotto i rovi crollano i muri, e sotto i rovi i condotti si riempiono di terra e l’acqua sfonda, gonfia la terra, e nelle notti di pioggia si sentono le piccole frane della cattedrale. I muri costruiti con pietre d’arenaria davanti, e le scaglie e il buon grotto dietro a fare da drenaggio. L’arenaria non soffre il sole, il grotto sì, si sfarina subito, e ben lo sapevano gli antenati. E i muri che crollano non si rifanno più, neanche quelli su quel 10% di terra coltivata, non c’è tempo, pare, non ci sono i soldi, figuriamoci che non c’è neanche il tempo per pulire le terrazze col decespugliatore, che significherebbe tempi lunghi, ma bisogna trovare il modo di far concorrenza agli uliveti spagnoli, a quelli pugliesi, e allora si usano gli erbicidi e il veleno entra nelle radici dell’erba che la natura ha inventato per trattenere il sugo della terra, e le piogge slavano, la notte gli scrittori escono ad ascoltare le pietre che rotolano. Non c’è neanche più poesia, una volta sì, il turista e lo scrittore, ai tempi del neorealismo, cercavano legittime difese affezionandosi a quel senso di decadenza, l’accarezzavano, si facevano impietosire, la ruralità era una malattia con la quale si conviveva degnamente, poi, l’ho detto, hanno vinto i rovi, e con loro i cinghiali, e le gazze si mangiano i nidi. E la notte l’usignolo tace. E il contadino è l’uomo che va in campagna. Si va andando, diceva uno. Io me ne sono andato. Dicono che la saliva della Liguria sia uno sputo di cemento, e questa è la storia di un contadino ligure al quale il padre ha lasciato un terreno di circa tremila metri quadri su una collina che è diventata lo sputo di cemento. E allora tutti a consigliare all’uomo di non andare più in campagna ma di costruirci due villette, ora che il Comune ha reso edificabile il terreno. Ma l’uomo ha incrociato le braccia e detto no, è terra che è sempre stata coltivata e tale resterà. Niente ville. Altri, sul resto della collina – ognuno sul suo pezzo di cattedrale che gli appartiene – hanno provveduto. Hanno tagliato i rovi e fabbricato. È la fabbrica della terra. Qui non si dice costruire, qui si fabbrica. Uno fabbrica, dall’oggi al domani. Come dire uno inventa. Circa 120 villette, le cui concessioni sono state rilasciate diligentemente dal Comune. Progetti approvati, cartelloni, foto dall’alto e impatto ambientale, calcoli del cemento armato, calcolo degli oneri naturalmente e infine, all’interno di un comune che non supera i 1000 abitanti, sono spuntate le 120 opere. Solo che poi è arrivata la Provincia (alcuni vivevano già nelle villette) e con lei la Procura. Tutto bloccato, tutti fuori, macché, scherziamo! Il Comune non poteva rilasciare concessioni, sono zone agricole. Rischio abbattimento e multe agli inquilini per colpa di un Comune distratto. Ma forse c’è ancora una soluzione, dicono, trasformare la collina in zona residenziale, dotarla di più articolati impianti idrici, luce, fogne, grandi parcheggi e giardini. Giochi per bambini. Solo che per << residenziare la collina >> occorre terra nuda, libera, senza villette. terra non fabbricata insomma. E non è facile trovarla. Così il Comune ha proposto all’uomo che andava in campagna di concedere i suoi numeri catastali << liberi da vincoli>> per il nobile scopo di salvare dall’abbattimento la parte di villette ignobilmente inquisiste e sequestrate dalla procura. Offrire dunque, a un prezzo generoso, i suoi miserabili tremila metri quadri di terra che vorrebbe destinare – per ubbidire a un volere del padre – alla triste coltivazione di verdure liguri, tondo liscio, borlotti, fagiolini pigri, cuor di bue blu di verderame, patate bintje, e un filare di nostralina acida. Offrire dunque la terra al Comune, che l’accetta, perché le ruspe non spianino i sogni di una generazione. E questa è la storia di uno che a breve deve decidere se andarsene davvero, e comunque vedersi  espropriare il terreno, o diventare parcheggiatore.

In mezzo alla terra

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di Franco Arminio

5decemb1 Oggi ancora Puglia, ma è un viaggio muto, non voglio portare a casa impressioni particolari, non voglio trovare niente di nuovo. Vago tranquillamente nella campagna. Mi fermo davanti a una masseria semiabbandonata. Poi passo per Ordona, ma oggi i paesi non mi attirano, potrei andare a Stornara e a Stornarella, preferisco camminare un poco a piedi su queste strade tra i campi dove non passa nessuno. Si vede tanta terra da ogni lato, ecco, sono qui per la terra, sono qui lontano dall’Italia urbana e anche da quella paesana. Oggi sento di avere la giusta densità umana per stare tra le cose. Sono qui anche per stare lontano dal computer e dalla scrittura. A un certo punto mi avvio verso Foggia, poi ci ripenso, proprio non me la sento di vedere semafori e file di macchine, prendo ancora una via che non so dove porta. Quello che mi piace è non avere umori precisi, intenzioni precise, sono come il grano che cresce, sono leggermente commosso dalla luce che declina, il giorno di maggio non finisce mai a precipizio, il giorno di maggio è accogliente, sono i giorni migliori per stare all’aperto. La giornata di oggi spiega tante cose dei miei ultimi due anni in mezzo ai paesi. Poco alla volta l’interesse per le cose è cresciuto ed è diminuito quello per le persone. Non ho incontrato tanti sindaci, non ho parlato con tanti ragazzi. Non si può dire che mi sono preoccupato di approfondire la conoscenza dei paesi. In molti casi mi sono limitato a passarci dentro e oggi non ho fatto neanche quello.

Il pensiero del momento è questo: i paesi non sono la soluzione e la soluzione non è la città e neppure la campagna e neppure i nostri affari. La grazia è infilare le ore con un filo di svagatezza, giocare con il tempo che passa senza inseguire niente e nessuno. Un puro stare con le cose e nelle cose, un puro stare lontano dal mormorio degli umani per qualche ora e poi tornarci dentro, ricominciare a sentirli, cercando di non assillare nessuno e di non farsi assillare, scivolare lungo un margine silenzioso, mettersi anche al centro, ma con un cuore molto leggero, non spingere nessuno a vedere dove siamo, sentirsi come un cardo, come certi fiori che crescono fuori dall’aratura, come una stalla che ha perduto il tetto e anche le bestie che c’erano dentro, eppure a vederla ti fa piacere, ti fa sentire qualcosa. Non mi interessa che nella mia scrittura la voce sia grossa e il passo militare, mi interessa che dentro le frasi ci sia un senso di terra, ci sia quest’aria di oggi, dove niente è gonfio, anche la paura di morire è un pensiero che dura giusto il tempo che occorre a una lucertola per nascondersi dentro una fessura. Il Sud che amo è il Sud dove non c’è nessuno. Oggi non ho visto neppure quelli che lavorano la terra, mi danno fastidio i macchinoni, le insegne dei bar, mi danno fastidio quelli che parlano dei problemi dei paesi. Oggi non ci sono problemi e non ci sono idee brillanti da illustrare, non ci sono progetti da lanciare. Penso che per me ormai la direzione sia questa. Cercare la terra, cercare gli spazi che gli uomini trascurano. La paesologia era già fatta di poche cose e quasi tutte le lascia andare. Sento che lascia andare anche i grovigli della mia testa, rimane poco, rimane il fatto di essere per qualche ora all’aperto e mettere fuori parole semplici, asciutte, senza gonfiori, senza muscoli. La paesologia diventa sempre più lontana dai pensieri che ci sono in giro, senza pretendere di piazzare chissà quali invenzioni. È un semplice stare a metà tra se stessi e le cose. Io sono una terra di mezzo, me ne sono accorto oggi che ero in mezzo alla terra. Io sono aria e vento e creta e niente. Faccio parole con la carne e con la terra. Con le parole faccio carne e terra e niente.

(questo brano è tratto da “Terracarne”, Mondadori, 2011)

Ricordo di Ghérasim Luca

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di Claire Trean

trad. di Carlo Carlucci

Gherasim Luca apparteneva alla piccola schiera degli amici di Anne Zamire. È grazie a lei che Jacques (Bertoin n.d.t.) lo ha conosciuto agli inizi degli anni settanta. Luca strinse subito amicizia con lui. Ed è proprio Luca che è citato in Moins Cinq (pag. 49) là dove Jacques narra del suo apprendistato come scrittore e del suo imbarazzo quando gli si chiedeva di che cosa scrivesse: «Sai, Jacques, uno scrittore di quelli veri, un giorno seppe porre fine al mio stato di incertezza, concludendo per me: “Allora stai scrivendo dei tuoi drammi?”»….
(Ecco mi pare di risentire ancora oggi quella bella voce dai toni gravi di Luca che ritma questa frase corta sulle tre ‘r’ che contiene, mentre il suo sguardo intenso, sorridente e benevolo, avvolge il suo interlocutore. Ti ricordi, Carlo, la maniera assai particolare che aveva di rivolgersi a voi? Ci metteva tutto il suo essere, dava l’impressione di essere fisicamente coinvolto nel dialogo, fosse anche il più insignificante, di essere totalmente preso, totalmente offerto nella relazione con il suo interlocutore non fosse anche che per poche parole scambiate.)
Gherasim Luca viveva in un minuscolo appartamento in un piccolo e antico edificio, assai modesto, in via Joseph de Maistre, a Montmartre. Pagava poco di affitto e ci viveva assieme alla compagna della sua vita, Micheline Catty, che faceva la pittrice. Sembrava una piccola grotta di Alì Babà, dove si ammucchiavano libri e quadri e dove il visitatore doveva muoversi con molta precauzione, dato che i passaggi erano stretti e ingombri, ma dove, miracolo dell’amore e dell’intelligenza per lo spazio, i due si erano ricavati un reciproca dimensione di grande libertà, quella di creare. Questa specie di antro era a tutti gli effetti un prolungamento del suo essere, rigurgitante di ricchezze spirituali e di cose belle, dove ogni centimetro quadrato gli era familiare, amichevole, consustanziale.
Un giorno, all’inizio degli anni novanta, sono arrivati i cosiddetti speculatori immobiliari: la casa si trovava proprio sulla Butte Montmartre, a due passi dalla pittoresca rue Lepic, il luogo prometteva lauti guadagni e il piccolo, desueto edificio a tre piani era anacronistico. Dunque fu acquistato dalla macchina immobiliare e destinato alla demolizione. Gli inquilini naturalmente sarebbero stati sistemati altrove in appartamenti più spaziosi, più confortevoli, senz’anima. La cosa andò avanti per mesi: minaccia di sfratto, speranze di farcela e infine la sconfitta. Nella lettera d’addio per Micheline prima del suo suicidio, Luca scrisse «non c’è più posto per i poeti in questo mondo».
Questo mondo lui lo percepiva con molta intensità. Questo mondo si estendeva infinitamente più in là di via Joseph de Maistre per questo apolide per principio, per natura, che ancora viveva senza documenti in Francia da più di quarant’anni. Ma nel momento in cui, dalla sua tana-osservatorio nella via Joseph de Maistre, registrò con terrore il risveglio della cosa immonda, dell’antisemitismo, del razzismo, ecco che nello stesso tempo viene sfrattato, strappato dal suo mondo, e aveva ottant’anni.
Ricordo uno dei suoi recitals al Beaubourg, la sua voce affannata, a scatti, quasi balbuziente, che disarticolava le parole facendone nascere altre e con ben altri significati, una voce ora sussurrante ora tonante, rattenuta e spiegata, ammaliatrice, il suo corpo immobile, teso all’estremo, quel suo corpo che si faceva voce, la sua voce che disfaceva le parole per tentare di rifarne altre. Il suo fare tragico, quell’energia sovrumana che improvvisamente dispiegava per cercare di uscirne.
Nell’avventura di questa sua poesia (scritta) chiedeva l’aiuto di amici artisti, Jacques Herold, Wilfredo Lam, Piotr Koswalski, per illustrare i suoi libri o farne dei libri-oggetti, assemblati con minuzia di orefice e pubblicati da Josè Corti o da Le Soleil Noir. Era invitato a tenere le sue letture a Amsterdam, Copenaghen, New York, aveva un suo pubblico fedele e appassionato, giovani per lo più, ma vendeva poco.
Luca proveniva da quella Romania prebellica che aveva prodotto gli Tzara, i Brancusi, gli Ionesco, tanto per citarne qualcuno, assieme al pittore Victor Brauner e al poeta Paul Celan, questi ultimi due tra i suoi amici più intimi. Nel suo status di apolide viveva a Parigi in dignitosa povertà.
Assieme alla sua arte, assieme alla bellezza dei suoi canti letteralmente scolpiti, mi colpiva la stessa presenza fisica di quest’uomo, ormai avanti negli anni quando lo conobbi, piccolo e un po’ curvo, dal volto ossuto e dallo sguardo radioso. Ero altresì colpita dall’intransigenza con la quale difendeva l’indipendenza del suo pensiero, della sua poesia, della sua vita. Tanto per fare un esempio, aveva rifiutato non so che elargizione o premio che fosse, decretatogli dal ministero francese della cultura, in quanto non accettava nessuna forma di dipendenza. Ha vissuto i suoi ultimi anni sotto una vera e propria persecuzione, attentato alla sua dignità di uomo, dato che uno speculatore qualsiasi aveva potuto privarlo della sua povera abitazione. E come vera e propria tragedia, da cui non si sarebbe ripreso, visse il risorgere, nella sua Francia, dell’estrema destra, antisemita e razzista. Una vera e propria ossessione che «potesse ricominciare», un’ossessione che ha pesato, come aveva pesato per Paul Celan, sulla sua decisione di finire in suoi giorni nella Senna.
La cerchia degli amici di Anne Zamire era quindi composta da Luca e dalla sua compagna Micheline, da Giséle Celan, che era stata la moglie di Paul Celan, dalla pittrice Irene Dominguez, tornata a vivere a Parigi dopo il golpe in Cile nel 1973. Spesso a pranzo c’era Boris, padre di Anne. Boris Bovine Frenkel era anche lui una figura anomala: un vecchio signore un po’ truculento, dai folti baffi bianchi, di spirito bundiste (movimento operaio ebraico che non si identificava né con il marxismo né col sionismo, e che interessò Russia, Polonia e paesi baltici n.d.t.), di orientamento decisamente anarchico. Boris era un pittore il cui universo ricorda quello di Chagall e che fu a suo tempo critico d’arte nella rivista in Yiddish UnzerStimme. Boris e Luca si volevano bene, volevano bene a Jacques che li ricambiava. Questo è tutto.


Claire Trean

Dieci ragioni molto laiche per votare Civati alle Primarie

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secondo l’umile opinione personale di Helena Janeczek

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1) Non c’è nulla da perdere. Da guadagnare, tanto per cominciare, ci sarebbe un momento di pallone o panico nel notabilato Pd, spindoctor, opinion-leader che aspirano a coincidere misticamente con l’Opinione Pubblica. Sarebbe sufficiente un risultato inatteso per potersi godere una piccola soddisfazione dal sapore beffardo o ritorsivo. Poi qualcuno ci racconterà che tutto è stato prova dell’esemplare democraticità di un Grande Partito, ma basta cambiare canale, pagina, sito ecc. Se poi vorranno credere alla loro stessa propaganda, sarà principalmente un problema loro: se di questo pensano di potersi accontentare, saranno bastonati dagli elettori – come prima, più di prima.

I MASCHI (autismi mitografici 2)

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di Giacomo Sartori

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Qualche volta mi domando chi ce lo fa fare di sopportare tutti questi maschi che ci sono in giro. Testosteronici, assertivi, vanitosi, ottusi, tronfi, insulsi, psicorigidi, insensibili. E a guardar bene anche meschini, pavidi, opportunisti, profittatori, infidi. Il mondo trabocca purtroppo di insopportabili maschi. Basta aprire un giornale o navigare due secondi su internet, per appurare il loro arrogante dilagare, il loro strapotere. Dirigono nazioni, decidono e fanno guerre, trasformano le banche in pericolose bande a delinquere, o anche solo girano inutili film, scrivono romanzi inani, causano incidenti automobilistici, rubano, stuprano, assassinano. Un’inflazione di maledetti maschi che con la loro irresponsabilità e le loro intrinseche tare stanno mandando a scatafascio il pianeta. A ben vedere l’avidità del capitalismo neoliberale è l’avidità dei maschi, l’irresponsabilità della finanza è l’irresponsabilità dei maschi. Invece di prendercela con delle categorie astratte come il capitalismo neoliberale o la finanza dovremmo prendercela con loro.

Come si può constatare in qualsiasi nefasta riunione di famiglia, o anche solo di amici riprodotti, i maschietti rompono i coglioni a tutti già nei primi mesi di vita, e mano a mano che il tempo passa è sempre peggio. Le loro sorelline se ne stanno buone e tranquille (sono quasi sempre adorabili), loro devono a tutti i costi correre come ossessi, urlare, tirare calci, strattonarsi, danneggiare oggetti e indumenti. A scuola le ragazzine studiano, e sembra che abbiano dieci anni di più, loro non fanno niente, e paiono ritardati mentali. E se studiano è solo per assecondare una immoderata ambizione, il bisogno di padroneggiare: si preparano a fare i maschi dominatori. Senza veri sentimenti, senza fantasia, senza una comprensione profonda delle cose.

Gli adulti maschi, anche questo è sotto gli occhi di tutti (nonostante si dica e ridica che le cose sono molto migliorate rispetto al passato), sono limitati, egotistici, permalosi, invadenti, vanagloriosi, vacui. Interessati, desolantemente aridi, immaturi, e nel contempo immutabili, sclerotici, incapaci di adattarsi ai cambiamenti. A parità di età e di condizioni, dimostrano un’età psichica doppia rispetto alle loro coetanee. Quasi sempre non trovano di meglio che trincerarsi nelle loro funzioni e nei loro ruoli sociali, nascondendo la loro pochezza sotto la facciata sociologicamente opaca del lavoro. Impiego che molto spesso consiste nel martoriare qualcuno, o comunque nel perpetrare qualche danno. Nell’età avanzata le cose si aggravano ancora: diventano autentiche mummie, grottesche caricature di quella che è la autentica umanità.

Le donne anche a novant’anni, o a novantadue, sono capacissime di evolvere. Faccio l’esempio della madre di mia moglie, che per l’appunto ha novantadue anni, e per vicende che non sto qui a raccontare si è sempre considerata stupida e incolta. Considerandosi stupida e incolta, e anche per altre vicissitudini esistenziali per così dire accessorie, non ha mai letto un libro, non ha mai aperto un giornale. Ebbene, nella casa di riposo dove si trova ha conosciuto di recente un’anziana che legge un sacco di libri e ama ragionare su tutto (una donna davvero interessante). Ebbene, a novantadue anni si è messa anche lei a leggere libri e giornali, a ragionare su tutto. Nel corso delle lunghe discussioni con la sua nuova amica, considerata all’interno della struttura un punto di riferimento culturale, ha cominciato a usare la sua intelligenza, ha scoperto di essere molto intelligente. Adesso la sua amica è deceduta (in quel tipo di strutture le persone decedono purtroppo spesso), e quindi lei si ritrova a sostenere il ruolo dell’apprezzata intellettuale. Legge i giornali di sinistra (sospira che purtroppo non ci sono quelli di destra, ma solo per una fedeltà postuma al marito), e racconta alle altre anziane le sue analisi sull’attualità e sulla politica, o anche sul teatro e la letteratura. Tutto questo a novantadue anni. Se va bene un uomo a novantadue anni ripete le cose che diceva a ottantadue, che a loro volta erano quelle che sciorinava a settantadue. Ammesso e non concesso che a ottantadue anni sia ancora vivo, intendiamoci.

Se c’è insomma una cosa assolutamente da evitare sono gli amici maschi. Con gli amici maschi (ma forse sarebbe meglio dire “cosiddetti amici maschi”, vista la potente rivalità sempre latente) non c’è verso di parlare di qualcosa che non sia il calcio o la politica: potrebbe sembrare un luogo comune, e invece è drammaticamente vero. Le donne non ci credono quando glielo dici, ma è così. Tutto quello che i maschi dicono è per palesare che conoscono e sanno, per brillare di fronte a se stessi, convincersi ancora di più delle loro aprioristiche convinzioni, farsi belli, umiliare, dimostrare che sanno dominare, ottenere qualcosa. Due maschi possono passare dieci anni assieme su un’isoletta deserta, parleranno solo di calcio e di politica, cercando di dominarsi a vicenda, senza un accenno alla vita intima.

Gli unici maschi che frequento io hanno una parte femminile molto sviluppata: sono sopportabili per quello. Sono pur sempre maschi, e hanno imperdonabili impennate maschili, ma io mi rivolgo alla loro parte femminile, e ignoro quell’altra. Io stesso ho una parte femminile molto sviluppata, quindi mi viene facile. E per fortuna che in certi maschi la parte femminile è molto sviluppata, altrimenti staremmo freschi. Altrimenti non si saprebbe proprio dove sbattere la testa. Ma intendiamoci, a ben guardare la parte femminile dei maschi è lamentosa, viziata, appiccicosa, venata d’isteria. Sempre mille volte meglio di un’assoluta mascolinità, non dico, ma insomma restiamo lontani dalla perfezione.

Qualche volta mi domando perché diavolo devo sorbirmi la fetta maschile dei miei amici maschi, se quella che mi interessa è solo la femminile. Perché devo incassare le palate di merda, che pur essendo minoritarie sono pur sempre palate di merda? Perché non optare per individui senza quelle magagne, vale a dire delle donne? Sarebbe come ordinare un gelato alla fragola e al pistacchio, e poi mangiare solo la fragola, perché piace solo quella (io detesto il gelato al pistacchio). Perché non chiedere allora un gelato solo alla fragola, cassando una volta per tutte il pistacchio? Perché stare lì a soffrire? Per quanto mi riguarda credo proprio che d’ora in poi frequenterò solo donne. La vita è troppo breve per essere buttata via in malo modo.

Le donne sono notoriamente più capaci, più elastiche, più acute, più oneste. Migliori a mediare, a dirigere, a decidere, a governare, ma anche più precise e più accurate nei mestieri manuali. Non si impuntano come galletti, non devono sedurre tutto il pollaio, non hanno da dimostrare che hanno dei coglioni così e colà. Sono molto più brave a fare le infermiere, le dentiste, le giornaliste, le bariste, le hostess, le insegnanti, le presidentesse della repubblica, le regine, le deputate, le sacerdotesse, le fioraie, le contadine, le dirigenti d’azienda, le sommelier, le bagnine, le poliziotte, le impiegate agli sportelli, le astronaute, le scienziate, le guide turistiche, le commesse, le psicologhe, le ammaestratrici di animali, le spie, le occhialaie, le formaggiaie, le architette, le contorsioniste, le operaie, le geomorfologhe, le farmaciste, le scrittrici, le critiche letterarie, le rabdomanti. A ben vedere resta fuori molto poco. Forse allora gli uomini potrebbero essere adibiti a quei rarissimi mestieri dove non sono poi malaccio, come i becchini, i parcheggiatori abusivi, i raccoglitori di palle da tennis, gli asfaltatori, i sollevatori di pesi, i culturisti, gli informatici. E beninteso i pedofili. È chiaro che se uno vuole dei buoni pedofili (che poi anche come capri espiatori tornano sempre utili), i maschi sono meglio. Bisogna sapere essere imparziali, e riconoscere a cesare quel che è di cesare.

Nelle api e in tante altre specie animali i maschi tirano le cuoia subito dopo l’accoppiamento. Questa raffinata soluzione messa a punto dalla natura mi sembra essere quella ideale. Gli si dà un contentino, visto che ci tengono tanto all’accoppiamento, e poi fuori dalle palle. Probabilmente anche tra le api, in passato i maschi vivevano più a lungo, poi l’evoluzione ha aggiustato le cose. Il problema è che l’uomo con le sue trovate tecnologiche ha bloccato il processo evolutivo prima che si potesse arrivare a questo miglioramento, altrimenti saremmo certo approdati anche noi lì.

In realtà un rimedio ci sarebbe. Una soluzione già collaudata, e già in uso. Parlo dell’inseminazione artificiale, utilizzata da decenni nei bovini. Con quel sistema uno stesso toro può fecondare migliaia di mucche. Basterebbe insomma un uomo per mille o duemila donne (e con i progressi delle tecniche di diluizione forse anche meno). Già si migliorerebbero molto le cose, si ridurrebbe il problema (eliminando anche l’annoso dramma della disoccupazione). Certo qualche saccentone obietterà che le mucche fanno una vitaccia. E invece le mucche stanno benissimo. Sono felici, da quando non devono sottostare ai soprusi e all’ottusità dei tori.

Del resto da qualche anno per i bovini da latte si sta diffondendo un perfezionamento ancora più interessante. Il seme sessato, come viene chiamato, permette di far nascere solo femmine. Così si evita di mettere al mondo maschi dei quali bisogna poi sbarazzarsi (il che potrebbe far pensare a certe brutte cose successe nel passato). Si fanno nascere solo femmine, e quel piccolo numero di maschi strettamente necessario alla riproduzione artificiale.

Purtroppo il mondo attuale è quello che è, ci vuole molta pazienza. E molto coraggio, se si vuole battersi per migliorare le cose.

 

(l’immagine: Laura Craig Mc Nellis, “Black Coat with Pink Accents”, tempera su carta, 2010-11)

Tre poesie

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di Marco Giovenale

AGATHE SNOW S+M (SALT AND MULCH), 2007  vedi sito per i materiali PERES PROJECTS LA.

 

Da Maniera nera, inedito.

 

Cammina / ha
specchio alto avanti:
ci vede sé (se) non vede
dove corre scorre preso / il
disequilibrio
lo tiene

 

*

 

Inizio di serie
ferita (ferente), dice, ritiene,

Overbooking: Leonardo Bonetti

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Leonardo Bonetti ha da poco pubblicato un bel romanzo, Una storia immortale. Mi ha colpito nello stile la rarefazione delle sequenze, dei personaggi, l’immobilità dei paesaggi quando tutto sembra muoversi in altre direzioni da quelle immaginate. Ne pubblico qui un capitolo sperando di fare cosa gradita. effeffe

Capitolo 8
Un treno è partito

Un treno è partito alle otto e un quarto di sera da Bruxelles e sta sfrecciando all’altezza di Zurigo. Sono le dieci e venti e a bordo ci sono più di ottocento passeggeri. Dopo tre ore, a Milano, sosterà quaranta minuti prima di ripartire. Solo nel tardo pomeriggio giungerà sullo stretto per attraversare il ponte sopportando la pressione e la spinta di una corrente verticale formidabile.
Ma prima, più o meno all’alba, sarà a Roma dove, nella carrozza numero cinque, c’è un posto prenotato per il signor Raffaele Giarra, vicino al finestrino e in direzione di marcia.

I treni sono un’opzione irresistibile per chi ama viaggiare, nonostante la tristezza del mezzo sia paragonabile solo alla fantasmagorica elezione del pallone volante. Il treno è malinconico, monotono e lungo come l’estensione del viaggio che si va a intraprendere. Si maneggiano accuratamente i bagagli prima della partenza affinché la giacca e la camicia appena stirata non patiscano offese. E ogni volta si immagina che il viaggio sarà indimenticabile temendo il contrario.
Così dovrebbe essere per il signor Raffaele Giarra pronto sul binario numero quattro alla stazione Termini di Roma. Sempre che questo signore si trovi davvero sul posto, pronto alla partenza, armato di ogni fiducia così come di tutte le paure del caso. E se non dovessimo aggiungere, senza temere di incorrere nelle ire del nostro lettore, che il signor Giarra non esiste affatto. Perché, sebbene sia possibile supporre che un qualsiasi signor Giarra viva in un luogo qualunque perso dentro la bellezza della nostra nazione, quel signor Giarra, quello della camera 46 e del treno Bruxelles-Milano-Bologna-Roma-Reggio-Palermo numero 9563 che sosta alla stazione di Roma alle 6,30 del mattino, una domenica come tante altre, in attesa di una primavera che tarda a venire, quel signor Raffaele Giarra, insomma, non esiste e non è mai esistito. È una pura condanna del caso.
E se non esiste, forse, è davvero meglio così.

Sennonché noi possiamo vederlo, al binario numero quattro, attendere un treno, per nulla interessato alle voci digitali che ordinano di spostarsi in questa o quella direzione mentre dagli schermi a cristalli liquidi frullano sciami di puntini mutando partenze e destinazioni. Ecco, lampeggiano i contasecondi, i contaminuti; oltre cinquecento monitor accesi, di cui duecento sparsi ovunque nella mezzaluce; basta posare lo sguardo sulle file che si allungano davanti agli sportelli della biglietteria per perdere memoria delle proprie azioni e dei propri desideri. Qua e là scarpe consumate, valigie ultramoderne; mentre un uomo d’argento, proprio quello, passa incolume al binario numero quattro sotto il bagno ammoniacale. Il suo treno è arrivato, e lui lo osserva cercando dietro i finestrini un profilo vuoto tra gli scompartimenti.
Intanto un fiume di persone si muove lungo i marciapiedi con lo sguardo fisso, le labbra serrate, lo stordimento di chi crede di andare in un luogo, ed è invece trascinato da una forza estranea, priva di consapevolezza. Il ritmo è inumano, i movimenti coatti.
Ma lui sale sul treno fermo al binario numero quattro con la percezione esatta del peso del suo corpo, del suo bagaglio: chili, età, volume. Ecco tutta intera la realtà secondo un uomo d’argento che sale sul treno per Perugia: azione spontanea, automatica, disgusto della parola.

In fondo lui conosce le stazioni come le sue tasche: sono anni che viaggia in lungo e in largo questo nostro paese in cerca di qualcosa o di qualcuno. A meno che non si tratti di fuga. Non ne sappiamo ancora abbastanza per essere più precisi.
È appena salito sul treno senza rispondere al saluto di una signora. Ora toglie il soprabito e siede nella direzione di marcia. Tiene molto a questi particolari.
Messa la mano nel taschino, appare sorpreso. Un oggetto o un biglietto a lui molto cari sembrano essere scomparsi. Si fa più serio, cerca di ricordare: li ha persi in tassì, forse, o alla stazione. Si affaccia dal finestrino per cercare sul marciapiedi, ma sa già che non troverà nulla. Il treno, d’altronde, è in partenza, e non c’è più tempo per scendere.
Subito dopo, però, ricorda qualcosa: nel laboratorio d’analisi s’era fermato a riprendere fiato, stanchissimo dopo la fuga dall’albergo. Lì, sfilato dal taschino il fazzoletto, aveva perso l’equilibrio per una vertigine. E proprio in quel momento, con ogni probabilità, gli era caduto qualcosa. Ma ora si rasserena guardando dal finestrino la stazione in tutta la sua lugubre consistenza. Le stazioni, pensa, sono cattedrali umide e dolci, con l’aria guasta tipica delle gallerie. E soprattutto con tante piccole luci lontane.
Quindi si siede poco prima che il treno prenda a muoversi con un lungo lamento. Si tocca ancora il taschino, ma è più tranquillo; forse ciò che ha perso non è perso per sempre.

Note Movie : Oh boy

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Oh boy, un caffè a Berlino
di Sophie Brunodet

Una giornata storta
Ti svegli, non hai ancora indossato i pantaloni, e già ti rivolgono la parola. Non solo, ti vengono poste delle domande così decisive da lasciarti inebetito e silente, tanto da farti persino rifiutare un caffè prima di andar via. “Il caffè”, sarebbe meglio dire, dal momento che dopo questo lasciato indietro tutti gli altri li mancherai, come se fino a che non avrai fatto ordine nella tua vita ogni altro appagante pausa alla caffeina ti dovesse essere negata; come se il tempo per pensare fosse giunto a termine e la privazione del piacere di un caffè fosse lì a fartelo presente; come se il tuo rifiuto fosse stato uno sfacciato affronto alle cose della vita che arrivano quando devono arrivare e ora tu fossi tenuto a ripassare la lezione a suon di privazioni durante quella che non è altro che una lunga, intensa, inemendabile giornata storta. Perdi la ragazza; il tram; la patente; e ogni caffè che tenti di avvicinare. Il bancomat ti trattiene la carta per un conto ormai seccato dalla sua fonte paterna, che improvvisamente vuole sapere cosa ha fatto negli ultimi anni, invece di laurearsi, il suo unico figlio, mantenuto a mille euro al mese, senza interessi.
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Jan Ole Gerster ha scritto e diretto una commedia fresca, semplice, ironica e attualissima, estremamente apprezzata in patria dove ha vinto ben sei premi al German Film Award: miglior film, miglior regista, migliore sceneggiatura, miglior attore, miglior attore non protagonista e migliore colonna sonora. L’opera è attuale non solo per il fatto che la cosiddetta “giornata no” è cosa davvero umana, sperimentata da sempre e da chiunque in qualunque momento e indipendentemente dall’estrazione sociale, ma anche perché Oh boy, un caffè a Berlino, tratta specificatamente la “giornata no” di un quasi trentenne del giorno d’oggi, portando in scena precarietà, orizzonti temporali strettissimi, insicurezza, confusioni e domande molto pressanti nella realtà odierna. E lo fa attraverso un bianco e nero suggestivo, una energica colonna sonora jazz e una fotografia ricca di immagini riflesse, quasi a suggerire la presenza di un intrinseco riverbero di opzioni, punti di vista, significati ed emozioni a ogni singolo attimo registrato dalla telecamera.

Prima c’era Michele, poi è venuto Drugo. Ora è il tempo di Niko.
Quel “ho pensato” che il protagonsita, Niko Fischer (Tom Schilling) risponde al padre che finalmente lo interroga su quello che ha fatto negli ultimi anni invece di laurearsi, richiama alla mente il “giro…, vedo gente…, mi muovo…, conosco…, faccio cose…” del giovane Moretti settantottino, ma rimanda anche a quel meraviglioso fannullone novantottino de Il grande Lebowsy. C’è qualcosa di entrambi in Oh boy, un caffè a Berlino, ma allo stesso tempo il film tedesco se ne distanzia, mettendo in scena una condizione esistenziale quotidiana propria dei giovani del nostro tempo. Già, perché mentre l’Ecce bombo è un lungometraggio dedicato a una generazione di delusi giovani isolati, privi tanto di idee quanto di interessi, che devono fare i conti con il fresco fallimento degli ideali rivoluzionari, disfatta emblematicamente rappresentata dal sorgere del sole alle spalle dei ragazzi che hanno atteso l’alba per tutta la notte guardando dalla parte sbagliata; mentre il Drugo è l’antieroe per eccellenza della fine del secolo scorso: post sessantottino ormai pacificato e che “la prende come viene”, pantofolaio anni novanta, asociale e pigro, politicamente disinteressato, con due amici e tre sole passioni, il bowling, la marijuana e il white russian; ebbene, rispetto a questi personaggi, il Niko berlinese è ancora qualcosa di differente: è una sorta di somma di entrambi che ha come esito una nuova condizione propriamente attuale. Magari è una ricezione tutta mia, ma quel “ho pensato” fa di Niko non un esempio negativo, simbolo di un’accidia epocale dei giovani d’oggi – come altri hanno scritto – , bensì lo rende ai miei occhi un ragazzo ben calato nelle e molto sensibile alle energie del suo tempo: elemento instabile di una realtà instabile e per questo, forse, capace di stare in equilibrio e di vivere momenti di felicità, magari proprio perché l’illusione di un mondo migliore lui non l’ha mai vissuta.

Niko non si chiude in casa abbattuto dalle sue sciagure, ma non è neanche un disinteressato cronico in vestaglia come Drugo. Non sbatte la porta in faccia all’invadenza e alla disperazione del suo vicino di casa ficcanaso e non si autocommisera né col suo amico né in un gruppo di autocoscienza che si parla addosso senza, in definitiva, dire o ascoltare nulla davvero, come fanno Michele Apicella (Nanni Moretti) e i suoi amici. E neanche sfoga le sue frustrazioni approfittando di una grande piccola ossessa ragazza bionda spuntata all’improvviso dal suo passato. All’opposto, il protagonista di Oh boy, un caffè a Berlino è calmo, silenzioso, in meditativo ascolto degli altri che incontra. Dà valore alle persone che gli stanno attorno, alle loro storie, ai momenti che vive con loro e agli insegnamenti che ne trae, manifestando un atteggiamento verso la vita confuso, certo, ma consapevole e attento. E in cambio, almeno così è parso a me, la vita gli fa trovare un accendino a portata di mano per ogni sigaretta maneggiata; doni preziosi come il dolce abbraccio di una nonnina sconosciuta o l’ultima intima confidenza d’infanzia di un vecchio testimone della storia del secolo scorso; l’alba di un giorno nuovo, con i cocci alle spalle, le lezioni apprese nelle scarpe, il sole in fronte (non alle spalle!) e un caffè a portata di mano. Certo, Niko sta in giro, vede gente, si muove, conosce e fa cose, ma non è in preda all’ansia e all’insoddisfazione di Michele. Non è in un vuoto cosmico di valori, di entusiasmi, di idee come quello rappresentato da Moretti, dove perfino prendere la decisione di alzarsi dalla sedia del bar e salutare gli amici diventa un compito impossibile e frustrante. D’altro canto, Niko non si accontenta di una pacata routine pressoché antisociale come fa Drugo, pur condividendo con quest’ultimo una quasi improbabile leggerezza, che se non può essere definita propriamente serenità, può essere intesa come una pacatezza che lascia libero il passaggio agli interessi e alle passioni che il vivere quotidiano vorrà portare.

Benvenuti nell’epoca del “si vedrà”
“Ho pensato”, dunque, è una risposta che lascia basiti, certo, ma non nego che mi sia comparso un sorriso complice nell’ascoltare quelle parole. Parole in cui mi sono riconosciuta, parole vere, assertive di una condizione che conosco. Perché è facile dare degli scapestrati disinteressati che vivono alla giornata ai giovani d’oggi, ma seriamente: chi non vive con un po’ di leggerezza e senso dell’avventura un’esistenza difficile, precaria e instabile come, di fatto, è oggi la vita dei più, è destinato alla nevrosi, all’attacco di panico, alla depressione, all’immobilità. Il mercato del lavoro da un lato è impantanato in una rovinosa palude che non sa cosa farsene di tutti i giovani laureati e di molti dei suoi attuali lavoratori; dall’altro richiede persone flessibili e composite quanto a formazione, disponibilità, prospettive. È un’epoca schizofrenica la nostra: divulga ancora vecchi ideali di realizzazione, mentre richiede a chi voglia riuscire nella vita una plasticità operativa, logistica, affettiva inedita, e al tempo stesso addita come inconcludenti bamboccioni svogliati coloro che improvvisano percorsi “altri” che poco o nulla hanno a che vedere con la pianificazione e la sicurezza. Ebbene, tutt’altro che inerti sprovveduti privi di ambizioni, spesso coloro che vivono alla giornata e concludono le frasi dicendo “e vediamo cosa succede” – quasi tutti coloro con cui mi rapporto quotidianamente – sono “dei Niko” che oggi sanno sorridere, distrarsi, reinventarsi, andare avanti lungo la strada della vita nonostante imprevisti, mutamenti, insicurezze, senza la minima garanzia di riuscita, realizzazione, salvezza. Gli altri, spesso, lottano contro l’angoscia delle possibilità infinite di questa fase in cui davvero la libertà sembra essere una condanna capace di togliere il fiato e la felicità pare nient’altro che un miraggio, mentre il rischio di cadere in un caos disilluso “alla Michele” o di abbandonarsi a uno stallo fatto di canne, white russian e bowling “alla Drugo” è sempre pericolosamente a portata di mano.

Oggi non è più il tempo della pianificazione e delle certezze. Oggi la realizzazione personale assomiglia più all’apertura di una nuova via che alla scalata di una via attrezzata di spit, che passa dagli studi, al lavoro, alla casa, alla famiglia, come è stato per le generazioni precedenti. Anzi, per stare al mondo, e tentare di starci bene, oggi bisogna essere dei bravi trapezisti: capaci di saltare nel vuoto, sempre pronti a lasciare l’asta senza alcuna certezza nel fatto di poterla ritrovare. E questo è quello che fa Niko: esce di casa, incontra gente, fa cose, riflette, ma senza essere chiuso in una bolla apatica alla Lebowsky o disillusa alla Ecce bombo. Non si abbatte per tutte le cose andate storte nella sua “giornata no” e nella vita, si lascia bensì sollecitare ed emozionare – facendone tesoro – da tutti gli eventi, le persone e gli imprevisti che gli capitano quotidianamente, senza per questo smettere di agognare la sua tazza di caffè e il suo posto nel mondo, anche se solo per oggi. Domani si vedrà.

Santi in Gran Paradiso

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CVT_Je-le-jure_6177Gentile dottor Forlani,
le allego la risposta del Festival alla lettera di Raul Montanari relativa al Premio Scerbanenco.
Cordialmente

La nostra risposta definitiva a una polemica strumentale sul Premio Scerbanenco.

La polemica di un lettore/scrittore come Raul Montanari contro il Noir in festival di Courmayeur, che organizza da oltre un ventennio il Premio Giorgio Scerbanenco-La Stampa per il miglior romanzo noir italiano dell’anno, per noi non è particolarmente nuova. E’ difficile far accettare alla mentalità italiana, così incline alle consorterie e alle dietrologie, che qualcuno cerchi invece un metodo trasparente per combattere intrallazzi e favoritismi su valori immateriali come quelli della cultura e dei libri.

Il metodo da noi sperimentato e adottato negli anni forse non sarà il migliore o l’unico, di certo è semplice: consultiamo la platea dei lettori sulla rete e ne bilanciamo le scelte e le preferenze col voto ponderato di una giuria di esperti. Sul nostro sito per due settimane si possono votare 23 libri che rappresentano una prima selezione rispetto agli oltre 100 iscritti al Premio e la votazione viene promossa anche dalle nostre pagine Facebook e dal supplemento letterario de La Stampa.
Alcuni di questi titoli non sarebbero nemmeno arrivati a importanti recensori come lo sono diversi dei nostri giurati se non fosse stato per il Premio, altri non avrebbero avuto l’attenzione che con gli anni il Premio ha richiamato, e non perché siano dei cattivi prodotti culturali, ma perché non sempre le case editrici investono sulla promozione dei loro libri o perché sono piccole o perché troppo grandi e con troppi titoli in catalogo.

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Anche i giurati oltre ai lettori esprimono il proprio voto ed è ovvio che il loro “peso specifico” abbia un valore
diverso, proprio perché lo fanno per mestiere e con competenza (non certo per un compenso che di norma è poco più dell’ospitalità al festival e la nostra gratitudine). Capita ovviamente che non sempre il loro giudizio coincida con quello degli appassionati lettori e che quindi la somma delle due classifiche vada a vantaggio di opere magari non specialmente “promosse” sulla rete, ma certamente eccellenti come dimostra negli anni il palmarès del Premio Scerbanenco. Altre volte capita invece che i giudizi si sommino o che il favore popolare porti un titolo fino alla rosa della cinquina dei finalisti. Quest’anno è stato il caso del libro di Claudio Paglieri, arrivato quarto nella classifica dei più votati dai lettori e premiato con i voti di alcuni giurati che però, da soli, non avrebbero potuto farlo entrare nella cinquina ufficiale. Il solo voto dei lettori non ci garantisce che il titolo sia quello giusto, ci vuole la scelta combinata di lettori e critici. Gli uni controllano gli altri, e insieme si arriva alla trasparenza.

Come è inevitabile le polemiche fioccano lo stesso, quasi naturalmente. Spesso ci siamo chiesti chi ce lo fa fare ogni anno ad ascoltare l’amico degli amici degli scrittori o degli editori di turno che polemizza, per lo più in maniera maleducata, contro il Premio, spesso i giurati ci chiedono di lasciar perdere il voto dei lettori, perché troppo “fazioso”.

Ma noi siamo testardi, come spesso lo sono gli appassionati di questo genere, e continueremo a promuovere i libri noir in tutti i modi possibili, facendoli votare, facendone parlare, ma soprattutto facendoli leggere.
Marina Fabbri

Ndr Il titolo del post si avvale di una piccola licenza poetica geografica giocata sulla prossimità del luogo in cui ha sede il festival, Courmayeur e la vicina vetta del Gran Paradiso dal cui versante orientale, verso la Val di Cogne, scende il Ghiacciaio della Tribolazione.

L’incubo ad aria condizionata

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di Angela Bubba

scena z. p.

Sono le sei del pomeriggio e sto davanti a una libreria di Crotone. Entro e dico buonasera ai presenti ma non risponde nessuno. Poco male. Continuo a camminare e penso che è una bellissima giornata: dolciastra, moderatamente calda, col teatro dei burattini che fa rumore in piazza e i bambini che perdono sangue dai ginocchi perché correndo sono caduti. Quelle voci m’intronano ancora la testa e con loro il ricordo della strada appena percorsa, l’odore d’olio bruciato delle pizzerie, il riverbero pungente del sole sull’asfalto, l’orizzonte grigiolavanda.

Tutte le madri felici si somigliano

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di Helena Janeczek

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“La nuca, quella parte anonima, angosciosa e arcana, la nuca fu ai miei occhi il volto di Giulia nei primi diciotto mesi di vita di nostra figlia”, confessa Glauco Revelli, Il padre infedele dell’omonimo romanzo di Antonio Scurati. Anita, la bambina, è venuta per salvare e per dividere: salvare da un’esistenza satura, dividere suo padre da sua madre. Accade con il terremoto di un parto indotto e attraverso il protrarsi di una sofferenza tanto più sconvolgente quanto è corollario di un legame affettivo mai provato prima.

Balla che ti passa

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Caro Silvio,

balla che ti passa…

Serge Gainsbourg e Jane Birkin: La décadanse.

La figlia

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Clara-Usón

di Gianni Biondillo

Clara Usón , La figlia, 488 pag., Sellerio, 2013, trad. di Silvia Sichel

La Storia ha smesso di avere dei confini già da qualche anno nella letteratura mondiale. Immaginare che gli avvenimenti luttuosi della guerra della ex Jugoslavia siano argomento solo per scrittori slavi è circoscrivere in una provincia, e per ciò ghettizzare, ciò che ha sconvolto l’Europa intera, alla fine del secolo scorso. L’assedio di Sarajevo o l’eccidio di Srebrenica sono ferite che ci riguardano, tutti. La guerra, infine non ha sesso, raccontarla non è prerogativa di una scrittura virile. Ecco perché ho trovato ben strutturato, ben scritto, di grande qualità, e per le cose dette, perfettamente coerente, La figlia, romanzo della scrittrice spagnola Clara Usón.

Romanzo, ma anche saggio storico, reportage, scrittura di confine. Qui il dato storico e il dato narrativo si (con)fondono, diventando ancora più veri e necessari. Il romanzo racconta di Ana, figlia del criminale di guerra Ratko Mladić, e del suo viaggio fra amici a Mosca. Un gruppo di studenti universitari spensierati, moderni, che vivono le pulsioni etniche come distanti dalla loro vitalità borghese. Quello che sappiamo – e questa è Storia – è che al suo ritorno Ana, a soli 23 anni, deciderà di mettere termine alla sua esistenza. Clara Usón cerca di ricostruire in questo romanzo le ragioni di una scelta così estrema. Espediente romanzesco, appunto, che ci permette di scavare così nella psicologia labile di un popolo subissato da recrudescenze identitarie che risalgono come fiumi carsici dal cuore del medioevo.

Nel corso della lettura un altro protagonista, Danilo, ebreo agnostico e disincantato di Sarajevo, conoscente insofferente di Ana, si farà spazio nelle pagine di questo libro, trasformandosi in un riflesso razionale e disilluso che contrasta con l’innocenza colpevole dell’amore filiale di Ana per un genocida che ha scritto col sangue delle sue vittime le peggiori pagine della nostra Storia. Danilo è il testimone oculare dell’orrore. Ancora vivo e perciò, più di tutti, sconfitto.

 

(pubblicato su Cooperazione, n 21 del 21 maggio 2013)