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La fila

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di Giovanni Dozzini

«Più che altro l’ho fatto perché per una volta vorrei vincere. Non che non abbia avuto dei dubbi, altroché, soprattutto all’inizio, ma oramai è talmente chiaro che non ci resta più alcuna scelta. Il passato è stato sconfitto, hanno ragione, ma in questo modo credo sia possibile guardare in avanti senza archiviarlo del tutto. Perché, diciamocelo chiaramente, anch’io faccio parte del passato».

Les saltimbanques de la Révolution selon Albert Cossery

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L’insurrezione della pigrizia

di JB Thomas e Jamila M.H. Mascat

Il 7 novembre 2013 Albert Camus avrebbe compiuto 100 anni.
Albert Cossery ne avrebbe compiuti altrettanti il 3 novembre.
Albert l’uno, Albert l’altro. A.C. A.C.
Amici di lunga data, avrebbero potuto brindare insieme.

“L’unica cosa che prendo sul serio è la letteratura”, disse una volta, o più di una, Albert Cossery. Si fatica, però, a dar retta alle parole di chi della dérision ha sempre fatto un antidoto formidabile contro l’insensata ricerca del senso della scrittura, o in ogni caso il migliore che avesse a disposizione.

Henry Miller, che lo fece tradurre e conoscere negli Stati Uniti, apprezzava gli effetti collaterali dell’ “umorismo crudele” di Cossery, capace di suscitare il riso e il pianto allo stesso tempo. Quel riso amaro, che fermenta lentamente e poi a tratti sonoramente tra le sue pagine, precipita la lettura in un vortice paradossale, in cui non c’è più niente da ridere − eppure non ci resta che ridere. Così vuole la dialettica in stato sinistro che sovrasta le mésaventures dei suoi romanzi.
Nel 1945 Cossery, poco più che trentenne, lascia il Cairo, dove è nato e tornerà solo di rado. Da Parigi, dove si trasferisce per studiare – invano, perché non studierà e farà invece voto di letteratura e povertà − continuerà comunque a raccontare le strade e le piazze d’Egitto che abbiamo visto esplodere da tre anni a questa parte. La strada ritratta da Cossery non ha niente a che vedere con i mosaici edificanti della società cairota immortalati nella trilogia di Naguib Mahfouz, ed è anni luce distante dagli affreschi militanti di Sonallah Ibrahim. Cossery cattura piuttosto il marciapiede, su cui i ragazzini scorazzano, gli anziani zoppicano e i mendicanti mendicano, mentre nei canali di scolo tutto scorre tra le esalazioni maleodoranti. Come il giovane Ossama, elegante ladruncolo di belle speranze protagonista dell’ultimo dei suoi sette romanzi, Les couleurs de l’infamie (1999), che contempla affacciato al parapetto di una sopraelevata la circolazione scomposta dei pedoni in mezzo al traffico di piazza Tahrir, Cossery si lascia intrattenere dal chiasso della strada: le chiacchiere sgarbate, le rimostranze fantasiose, le invettive astruse e «quel miscuglio di insolenza e di orgoglio che la miseria concede ai suoi eletti».

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Gli « eletti » di Cossery sono appunto Les hommes oubliés de Dieu, titolo della sua prima e unica raccolta di racconti pubblicata in Egitto nel 1941. Lustrascarpe, squattrinati, maitresses e prostitute, ambulanti, scalzacani, ladruncoli, antieroi, parassiti, sordidi e abietti. Ma anche artigiani senza clienti e impiegati senza ufficio, diplomati senza diploma e lavoratori senza lavoro, intellettuali vanitosi e prolissi, brevettatori professionisti di ingiurie e bestemmie. Fuori legge, senza credo e senza fede, pur essendo spesso devoti, i personaggi di Cossery difendono una filosofia radicale dell’esistenza all’insegna dell’insubordinazione, coltivando la pigrizia e il rifiuto del lavoro.

Nessuno di loro combatte per la rivoluzione né l’aspetta, innanzitutto perché tarda a venire e poi perché dei rivoluzionari spesso non c’é da fidarsi . A volte le rivoluzioni fingono. Si spacciano per mutazioni fulminee, terremoti, eruzioni che scoppiano dalle viscere del popolo e poi si rivelano congiure feroci e perverse orchestrate dall’alto, perfino da despoti sadici come Ben Kadem, il primo ministro del Dofa, che in Une ambition dans le désert (1984) scatena una serie di attentati pseudo-sovversivi per attirare l’attenzione dell’Occidente sul suo piccolo emirato desertico e esangue, in cui del petrolio non c’è nemmeno l’ombra. Quando invece i rivoluzionari si prendono troppo sul serio, la serietà rischia di nuocere anziché giovare alla causa, e un’ironia senza sorte condanna i militanti severi a inciampare nei tranelli del potere e ritrovarsi al posto dei nemici che combattono. Alla rivoluzione gli sfaticati protagonisti di Un complot de saltimbanques (1975) preferiscono gli intrighi effimeri e la cospirazione goliardica. La politica affatica e il lavoro è fatica. Qualsiasi lavoro, dixit Imatz, un attore così miope da non poter calcare le scene senza provocare effetti indesiderati di comicità, non è altro che schiavitù. E gli schiavi, secondo l’amico Teymour, che ha lasciato l’Egitto per andare in Europa alla ricerca di un titolo di studio ed è tornato senza, del resto non sono mai innocenti, perché contribuiscono alla propagazione di quell’ “immensa truffa universale” che è la società moderna del lavoro. Meglio allora disobbedire, civilmente o incivilmente, ma sempre con indolenza.
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Dal lavoro si tengono alla larga anche i Fainéants dans la vallée fertile (1948). Hafez, il vecchio patriarca dà l’esempio al resto del clan, alzandosi soltanto raramente dal letto. Mentre Serag, suo nipote, si è messo in testa di cercare un lavoro, la famiglia insiste in ogni modo affinché lasci perdere, perché il lavoro di uno sarebbe la vergogna di tutti. Qui come altrove il rifiuto del lavoro, che non vuol essere solo apologia dell’ozio, rivendica il “droit à la paresse” − eco al pamphlet omonimo del genero di Marx, Paul Lafargue, − per contrastare l’imperativo borghese dell’operosità. Nell’inerzia delle loro vite modeste, condotte senza far niente, i fannulloni di Cossery, agitatori pigri e rivoltosi oziosi, cercano una strategia per sottrarsi agli ingranaggi della compravendita capitalista. Gohar, il professore-filosofo di Mendiants et orgueilleux (1951), si accontenta di poco − un giaciglio fatto di vecchi giornali e un po’ d’hashish sotto i denti − perché sa che nessuno al mondo potrà mai privarlo di quello che non ha. Nulla, oltre al proprio sarcasmo insolente. L’otium, a cui Gohar sceglie di votare la sua mite esistenza, respinge gli affanni tremendi del negotium svelandone le aberrazioni crudeli e inumane. L’inerzia fa più dell’attività; il sonno batte la veglia, perché nel sogno consente di guardare il mondo altrimenti.
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Mai in piedi prima di mezzogiorno, al pari dei suoi personaggi, Cossery optò per una vita parca e inoperosa. Orare, laborare e militare esulavano dai compiti della sua regula. Assai poco prolisso − sette romanzi e una raccolta di racconti completati in quasi ottant’anni tra il 1931 e il 2008, e una media dichiarata di due frasi a settimana, ma senza ripensamenti né cancellature − alla scrittura prediligeva il passeggio, nei giardini del Luxembourg o tra le terrazze dei cafés del 6ème arrondissement, dove a volte sedeva per interi pomeriggi, ovviamente senza far niente. Ai camerieri − abituati eppure ancora sempre stupiti alla vista di questo dandy enigmatico dai modi frugali − che gli domandavano se non si annoiasse a starsene con le mani in mano, rispondeva laconico: “Non mi annoio mai in compagnia di me stesso”. In realtà la noia − di un’esistenza flemmatica e solitaria (nonostante un matrimonio di sette anni con l’attrice Monique Chaumette, le sue numerose amicizie e le sue immancabili accompagnatrici) − di tanto in tanto lo assaliva. Non avendo altre risorse – “Scrivere è l’unica cosa che so fare” – si dedicava alla scrittura. Però per buttare giù qualche pagina a volte gli occorrevano mesi; questione di trovare le parole giuste, diceva, in polemica con un’industria editoriale avida di parole qualsiasi.

Negli appunti annotati nei quaderni sparsi, in cui si rifugiava quando era a corto d’ispirazione, ritorna di frequente una domanda sulla memoria (“Qui se souviendra d’Albert Cossery?”) che testimonia di un desiderio insistente di lasciar traccia senza tramandare nulla. Del resto possedeva poco o niente. Nella sua stanza in affitto all’hotel La Lousiane, 60 rue de Seine (la chambre 78, che oggi è diventata una suite) dove ha soggiornato per quasi sessant’anni dal 1951, Cossery conservava, insieme ad alcuni libri e pochi vestiti, una statuetta di Giacometti e un quadro di Pomerand, che alla fine si trovò costretto a rivendere per avere di che vivere. Come Karl Radek, il rivoluzionario polacco segretario del Comintern poi liquidato dalle purghe staliniane, che − si narra – nel congedarsi dai ricevimenti aveva spesso l’abitudine di confondere i soprabiti, infilandosene uno a caso tra quelli che gli sembravano più caldi e più signorili, Cossery durante le soirées parigine coltivava un atteggiamento altrettanto bolscevico. A pranzo e a cena, al café de Flore o da Lipp, nelle migliori brasseries del boulevard Saint Germain, senza mai pagare il conto, provava e riusciva sempre a farsi invitare dalle sue facoltose compagnie. Sfoggiava un’eleganza aristocratica nelle occasioni mondane, con Camus, Miller, Genet e l’anticonformista di destra Roger Nimier, prendendo in prestito i suoi migliori abiti dai suoi migliori conoscenti.

Dopo le frequentazioni giovanili del milieu trotskista-surrealista cairota animato dalla rivista Art et Liberté negli anni Trenta, Cossery si tenne sempre a distanza dai fasti altisonanti della politica con la P maiuscola (il PCF o l’apparato gaullista) e si mantenne fedele all’universo subalterno delle creature letterarie che metteva in scena nei suoi romanzi. Impermeabile alle seduzioni dell’impegno politico quanto alla gloria del successo letterario, la penna di Cossery preferiva la satira alla denuncia, la caricatura alla dottrina, prendendosela con la Ragion di Stato che ha spesso torto, desacralizzando istituzioni e progresso, destituendo giustizia e santità. Gli restavano a disposizione solo l’arte di arrangiarsi, il gusto della ribellione nonchalante e quel riso amaro di cui si diceva all’inizio, che vale come unica arma della sovversione esercitata quotidianamente contro il potere e i suoi abusi.

Così ne La violence et la dérision (1964), per sbarazzarsi del governatore della città ridotta a un “covo di imbecilli e canaglie che si danno da fare per farla prosperare”, un gruppo di giovani rivoluzionari sprovveduti decide di mettere in moto un’agguerrita lotta di classe e di ridicolaggine. Prima costringono le forze dell’ordine, impegnate in una spietata caccia ai mendicanti per ottemperare agli ordini del regime, ad accanirsi contro clochard-fantoccio, truccati e esposti per strada al solo scopo di trarre in inganno e umiliare i garanti dell’ordine pubblico. Poi lanciano un’inattesa campagna di propaganda a colpi di manifesti ossequiosi che celebrano i meriti e le virtù del dittatore con toni così tanto lusinghieri e inverosimili da suscitare il riso di tutti. E il riso non è certo una via di scampo, piuttosto il segno che non ce n’è nessuna. Non si tratta di un atto liberatorio, infatti, ma solo di un momento rivelatore: la derisione opera in Cossery come il pathos nelle tragedie di Eschilo, come viatico della conoscenza e della coscienza. Ridere è per comprendere.

Quando morì, nel 2008, Cossery non poteva più ridere come si deve (né parlare) già da alcuni anni a causa di un’operazione alla laringe. L’artrosi oltretutto aveva contribuito a diradare il ritmo già assai disteso della sua scrittura. Il pensiero della fine, accolta con una pacata disposizione d’animo, l’accompagnava serenamente nelle sue promenades rituali, insieme al foulard immancabile nel taschino.
Come Chehata, il falegname de La maison de la mort certaine (1944), che insieme agli altri inquilini dell’edificio fatiscente dove alloggia vive nell’attesa che la gigantesca crepa che li sovrasta ceda da un momento all’altro e il palazzo frani sulle loro teste, Cossery sapeva che il male viene per nuocere, ma alcuni mali, quelli più grandi, hanno la capacità di nuocere meglio di altri, una volta per tutte. Chehata confida con impazienza in quest’unica sciagura imminente − il fracasso del palazzo − che incombe sull’avvenire di tutti i condomini: “Da quando so che finirà per crollare, non ho più paura. Prima ero perseguitato da mille disgrazie, ora invece ce n’è una sola. È meno dura da sopportare. Una sola disgrazia, una di quelle formidabili, e poi soltanto la morte!”. Cossery, con altrettanta impazienza, in silenzio – “ça ne me gêne pas du tout : je ne suis plus obligé de répondre aux imbeciles” – aspettava di concedersi al sonno più lungo. E la leggenda vuole che sia morto nel sonno, sorridendo.

 

 

PS. In Italiano sono stati pubblicati La violenza e il riso (Barbès, 2009); Mendicanti e orgogliosi (E/O, 2009); Gli uomini dimenticati da Dio (Rizzoli, 2008); Ambizione nel deserto (Spartaco, 2006). Si consiglia di leggerli tutti, pigramente, in omaggio all’autore.

Aspettando Superman

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Copertina F.Santi(ancora indecisi sul libro da regalare a Natale? Senza ombra di dubbio Aspettando Superman di Flavio Santi, pubblicato da Gaffi.  Una – come scritto nel sottotitolo – “storia non convenzionale dei supereroi”. Saggio colto e pop, divertente e profondo. Di seguito l’autore ci regala un capitolo e noi qui lo ringraziamo di cuore. G.B.)

I soliti noti: il supereroe italiano

di Flavio Santi

Forse il supereroismo era una specie di tossina, come uno steroide, che obbligava il corpo a pagare un prezzo punitivo.

Jonathan Lethem

Il fatto che una recente indagine riferisca che si preferiscono i personaggi del pacioso Carosello a quelli di Hollywood la dice lunga sul bisogno di eroi nell’immaginario italico. Figuriamoci di supereroi.

Lo canta molto bene Zucchero Sugar Fornaciari: «Non credo ai supermen».

È tipico dei popoli a sangue caldo, dei paesi mediterranei in cui prevalgono canicola e accidia avere degli eroi spesso a regime minimo, in furbesco stand-by, pigramente cialtroni e astutamente imbonitori.

Prendete uno dei nostri eroi per eccellenza, il prode Giuseppe Garibaldi: è l’esempio perfetto. Lui che aveva la «divina stupidità dell’eroe» secondo il poeta inglese Alfred Tennyson. Lui che fu un abile promotore (e manipolatore) della propria immagine, arrivando a paragonarsi a Gesù Cristo. Lui che incarnava al meglio un certo spirito esibizionistico e cialtronesco (un ministro francese disse che sembrava «un vecchio comico», e Karl Marx – non un monarchico quindi – vide nel personaggio una certa dose di «deplorevole imbecillità»). Lui che fu forte con i deboli e debole con i forti (quell’Obbedisco del dispaccio da Bezzecca, di cui tanto si va fieri, è un atto di grande conformismo, ammettiamolo). Ma sopratutto lui che alla fine abbracciò il compromesso: voleva l’Italia repubblicana e la servì monarchica su un piatto d’argento (che è come dire voglio bianco ma ottengo nero). Dire che da quel gesto al fascismo il passo è breve forse è fare ardita fantapolitica, eppure qualche elemento di protofascismo si nasconde: nel 1849 Garibaldi venne eletto all’Assemblea romana con dei brogli, aiutato illegalmente dai suoi garibaldini; nel 1862 Garibaldi organizzò bande armate di cittadini sul modello degli antichi fasci romani; arrivò a dire che «A volte bisogna forzare la libertà del popolo per il bene futuro»; un ex commilitone gli scrisse: «Non sei l’uomo che credevo, ti sei posto sopra il Parlamento, oltraggiando i deputati che non la pensano come te; sopra il Paese, guidandolo secondo i tuoi desideri»; i seguaci lo chiamavano «Il Duce». Non è poi un mistero che Mussolini si sentisse una specie di secondo Garibaldi. Se fin da subito l’Italia fosse nata – come doveva del resto – repubblicana e mazziniana, chissà… Che i Savoia fossero dei re travicelli lo si sapeva, e gli italiani lo scopriranno amaramente all’indomani della Marcia su Roma. Ma nei frangenti decisivi Garibaldi fu più travicello di loro. Insomma, l’intuizione di Piero Gobetti di un «Risorgimento senza eroi» è plasticamente vera.

E andando ancora più indietro nel tempo che dire di Pietro Micca? In sostanza un incapace assurto ai più inaspettati onori civili, insignito di fulgide statue bronzee. Nel pieno rispetto della famigerata legge di Peter che vuole che in una gerarchia ogni membro raggiunge il proprio livello di incompetenza. Nella gerarchia degli eroi italiani essere un non-eroe è il culmine della carriera… (questo spiega molte cose dell’attuale decadenza del nostro Paese). Per chi non si ricordasse la sua storia esemplare, nella notte tra il 29 e il 30 agosto 1706 Torino è sotto assedio da parte dei francesi, le forze nemiche riescono a entrare in una galleria sotterranea della Cittadella, uccidono le sentinelle e cercano di sfondare una delle porte che conduce all’interno. Pietro Micca è di guardia a una delle porte insieme a un commilitone. I due soldati sentono dei colpi di arma da fuoco e capiscono di non poter resistere a lungo, così decidono di far scoppiare un barilotto da 20 chili, posto in un anfratto della galleria, per provocare il crollo della stessa e bloccare il passaggio alle truppe nemiche. Non potendo utilizzare una miccia lunga perché avrebbe impiegato troppo tempo per far esplodere la polvere da sparo, Micca decide di usare una miccia corta, conscio del rischio che correva. Allontana quindi il compagno con una frase che sarebbe passata alla storia: «Alzati, che sei più lungo d’una giornata senza pane», e senza esitare dà fuoco alla miccia, cercando poi di mettersi in salvo correndo lungo la scala che porta al cunicolo sottostante. Viene travolto dall’esplosione e il suo corpo scaraventato a una decina di metri di distanza. Muore da eroe. Sicuri? A quanto pare no: semplicemente Passepartout, questo il suo nome di battaglia, aveva calcolato male la lunghezza della miccia. (E ci pensate com’è beffardo il destino? Nel suo stesso cognome portava la causa della propria morte: Micca è una “miccia” più breve, senza la “i”!) A essere asini in matematica si rimediano onori eterni… Oppure, secondo la spassosissima versione di Umberto Eco nell’Intervista con Pietro Micca, qualcuno ai piani alti aveva risparmiato sulla qualità della polvere da sparo e della miccia: «tanto chi ci rimétte le pénne è il Micca Piètro […] Perché léi crède che l’erôe sia una profesione col diplôma? Guardi che con lo stato in cui erano le polveri e la lunghéssa delle micie chiunque sarébbe môrto da erôe lo stésso, sa?».

E il brigante calabrese Giuseppe Musolino, il re dell’Aspromonte? Attivo alla fine dell’Ottocento, commette una serie di omicidi, si dà alla latitanza, viene infine catturato nelle Marche in modo rocambolesco: fuggendo inciampa nel filo di ferro di un filare di viti. «Quello che non poté un esercito, poté un filo» commenta in stretto dialetto calabrese. Il processo, celebrato nel 1902, è un evento mediatico, seguito dalla stampa italiana e internazionale. Musolino pronuncia una celebre autodifesa: «Se mi assolveste, il popolo sarà contento della mia libertà. Se mi condannaste, fareste una seconda ingiustizia come pigliare un altro Cristo e metterlo nel tempio». Viene condannato all’ergastolo, per poi essere trasferito gli ultimi anni di vita nel manicomio di Reggio Calabria. Ma chi è stato davvero? Un ribelle vendicatore dei poveri del sud alla Ernani, il portabandiera anarchico delle lotte presocialiste, oppure uno spaccone di paese, un paranoide sbandato e irresponsabile? Achille Beltrame lo dipinse in una delle sue famose tavole della Domenica del Corriere. Giovanni Pascoli, ammirato, gli dedicò una poesia incompiuta:

O fragor d’acqua che scorre

buia, e che gemea ai piedi di un errante

piccolo e solo, mentre per forre

silenziose, sotto rupi infrante,

lungo gli abissi

saliva ai monti, a dare pace, oppure

l’oblio della notte eterna!

E che dire del film del 1950 con il grande Amedeo Nazzari nei panni del brigante e Silvana Mangano in quelli della bella fidanzata Mara? Ne esce fuori il ritratto romantico di un eroe contadino, puro e semplice.

Ancora oggi in Calabria non hanno dubbi: «lu briganti Giuseppi Musulinu» è un eroe, un autentico mito. Peppinu non si discute, ’ndi capimmu?

Siamo nei paraggi del cosiddetto «eroismo delinquente» alla Corrado Brando, il protagonista della tragedia di D’Annunzio Più che l’amore. La pièce messa in scena nel 1906 con il celebre Ermete Zacconi fu un autentico fiasco: racconta di Corrado Brando, un «Ulisside», una specie di superuomo esploratore che desidera tornare in Africa, e pur di farlo arriva a uccidere. Questo sembra il destino incancellabile dei nostri eroi: macchiarsi, prima o poi, di qualche colpa che ne oscura il profilo.

Per trovare degli eroi senza macchia non resta che rivolgersi alle pagine del nostro «padre degli eroi» per citare la famosa biografia di Giovanni Arpino e Roberto Antonetto, Emilio Salgari: Sandokan, Yanez de Gomera, il Corsaro nero, Capitan Tempesta, Testa di pietra ecc.

Certo, ogni tanto qualcuno in carne e ossa appare: prendete il mitico asso dell’aria, l’«asso degli assi» Francesco Baracca (famoso perché la sua insegna sulla carlinga dell’aereo, il cavallino rampante, diventerà il simbolo della Ferrari). Un intrepido pilota, morto a soli trent’anni, un autentico cavaliere, con una precisa etica: «è all’apparecchio che io miro» era solito dire «non all’uomo». Dopo aver abbattuto un aereo, poteva capitare che atterrasse per sincerarsi che il nemico fosse sano e salvo e congratularsi con lui per il bel combattimento. La sua specialità era la caccia: la tattica preferita l’attacco dall’alto, sfruttando la propria eccezionale abilità nella manovra dell’aereo e delle armi di bordo. Nella sua folgorante carriera abbatte trentaquattro aerei nemici, l’ultimo della serie il 15 giugno 1918. Il 19 giugno esce al tramonto con altri due aerei della squadriglia per un’azione di mitragliamento a volo radente sul Montello, ma a un certo punto il suo Spad precipita in fiamme. L’equipaggio di un biposto austriaco sostenne di averlo abbattuto, mentre gli italiani dissero che era caduto vittima di un colpo sparato da terra da un ignoto fante. A quasi cento anni dalla sua morte, le circostanze della fine del più grande pilota da caccia italiano della Prima guerra mondiale sono ancora avvolte nel mistero.

A ognuno il suo: da Musolino a Mussolini.

Benito Mussolini si pone come gaglioffo supereroe, mima espressioni da Arsène Lupin, non perde occasione per celebrare la propria prestanza fisica, mascella e petto all’infuori. Postura che già nell’antichità caratterizzava l’uomo superiore («incedeva maestosamente col capo indietro e il petto in fuori» dice il greco Luciano di un tiranno) e che, in epoche più recenti, ricorda Superman.

Vedere per credere.

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 Del resto Mussolini era un assiduo consumatore di romanzi popolari, come testimonia l’amante e biografa Margherita Sarfatti all’inizio del suo Dux:

Una copia dei Miserabili in pessima edizione italiana, stampata fitta su due colonne, unta e slabbrata, portò Jean Valjean, Cosetta e Monsignor Vescovo a vivere nella cascina di Doria, tra le figure familiari di quest’infanzia. Occhi grandi sbarrati, il bambino ascoltava i loro casi letti ad alta voce nella stalla.

La passione è così forte che ne scrive anche uno: L’amante del cardinale. Claudia Particella, pubblicato a puntate sul giornale socialista Il Popolo nel 1910. È la torbida storia d’amore tra il principe-vescovo Emanuele Madruzzo e la cortigiana Claudia Particella, nella Trento controriformista del Seicento. Ecco, immaginate se lui avesse continuato a scrivere romanzi d’appendice e Hitler a dipingere acquarelli… Magari l’uno avrebbe potuto anche illustrare i libri dell’altro…

Mussolini è a tal punto imbevuto di cultura popolare che queste sue parole sembrano anticipare la comparsa dei moderni supereroi: «Solo il mito dà a un popolo la forza e l’energia di forgiare il proprio destino». Una frase del genere sarebbe perfetta per commentare Superman. Oppure una formula come «Molti nemici molto onore» è il perfetto presupposto per il supervillain che contrasta il supereroe. Proprio così si pone Mussolini: un supereroe mitico, esito ultimo dell’immaginario popolare, che combatte acerrimi nemici per il bene degli italiani.

Nella raccolta Man and cartoons lo scrittore americano Jonathan Lethem ci dà il ritratto impietoso di un supereroe fallito, Super Goat Man (vale a dire Super Uomo Capra):

Non solo era invecchiato, ma si era anche rimpicciolito: forse non arrivava nemmeno al metro e cinquanta. Era come al solito a piedi scalzi, e portava un pigiama di mussolina bianca, con i bordini viola. Sulle ginocchia i pantaloni del pigiama erano macchiati di fango. Mentre entrava nella stanza, sgusciando in mezzo a noi che stavamo lì coi cocktail in mano, capii rapidamente il motivo delle macchie: il suo passo esitante cedette, e per un attimo cadde a quattro zampe. Lì, a terra, si scrollò quasi come un cane bagnato. Poi si rialzò sulle gambe da paralitico.

Super Goat Man come i nostri supereroi rigorosamente made in Italy: nel 1968 esce Vip. Mio fratello superuomo di Bruno Bozzetto, film d’animazione che racconta della stirpe supereroica dei Vip. A un certo punto Baffovip, ingannato dalla scritta “Supermarket”, sposa una commessa, per niente super; dall’unione nascono Supervip, supereroe muscoloso e invulnerabile, e Minivip. Minivip però ha un corpicino fragile, vulnerabilissimo, occhiali da nerd e due piccole ali insignificanti che lo sollevano al massimo a mezzo metro da terra. Ma Minivip, per quanto fantozziano (Fantozzi nasce lo stesso anno, non a caso), riesce a sventare il folle piano di Happy Betty, proprietaria della catena di supermercati HB, che vorrebbe trasformare i clienti in automi, e conquista anche l’amore di Nervustrella. Interessante notare come il personaggio di Supervip – di cui in effetti sfugge l’utilità nella logica complessiva del film – sia stato voluto dai produttori americani: in origine l’unico personaggio doveva essere Minivip. Ma per gli americani un supereroe loser è inaccettabile.

Nel 1969 è la volta di Paperinik: forse non tutti sanno che si tratta di un personaggio italiano, e diversamente non poteva essere, vista la nostra idea di un eroe sempre un po’ indolente e incapace. La figura di Paperino è ideale.

E che dire di Superciuk di Alan Ford? In un paese di evasori fiscali un panzone che come arma segreta ha l’alito di un pessimo barbera, ruba ai poveri per dare ai ricchi è perfetto. Siamo nel 1971.

E Rat-Man? Solo noi italiani potevamo pensare a un ratto come supereroe. Non solo: Rat-Man risulta tra i personaggi più amati dal pubblico dei fumetti. Nato nel 1989, è la negazione totale del supereroe, brutto, sgorbio e senza poteri. Ma tanto simpatico.

E per venire ai nostri oggi, fateci caso: Silvio Berlusconi sembra Clark Kent. Berlusconi è il Clark Kent della Brianza. Vedere per credere.

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Berlusconi è l’uomo di titanio che sfida i mostri del comunismo. Si pone come una sentinella. Come un supereroe. (Ricordate i Fantastici Quattro che nel primo episodio devono battere i russi nella conquista dello spazio? O Iron Man che opera in piena guerra del Vietnam? Berlusconi fa lo stesso, soltanto con qualche decennio di ritardo…) Il «ghe pensi mi» è la versione brianzola della fuga nella cabina di Clark Kent.

Anche Berlusconi è un supereroe. È il «superleader» per usare la formula di Federico Boni. Eugenio Scalfari precisa: «quel corpo trasuda energia, ottimismo, capacità taumaturgiche, muscolatura mentale, umori, buona fortuna, sicurezza».

Del supereroe possiede alcune caratteristiche. Intanto il costume: spesso sfoggia una mantella, che gli era valso il titolo di «Cavaliere mascarato» da parte di “Striscia la notizia”. Altro elemento imprescindibile sono i vari copricapi, dalla bandana al colbacco, a seconda degli scenari operativi; la villa di Arcore è il suo quartier generale; il biscione di Mediaset il suo iconogramma inconfondibile; Letta il suo fido sidekick; stuoli di donne lo adorano; possiede superpoteri – di tipo economico e mediatico, dici niente. Inoltre, fedele alla linea supereroica classica, propone «soluzioni impossibili per problemi insolubili»: si va dall’abolizione dell’Imu e di balzelli vari alla creazione di milioni di posti di lavoro, passando per ponti di Messina e mirabolanti interventi mai visti (all’Aquila ne sanno qualcosa).

Con i precedenti supereroici che abbiamo visto (Minivip, Paperinik, Superciuk, Rat-Man), non stupiamoci del successo di Berlusconi.

Ma Berlusconi non è il solo. Tra le fila dei nostri supereroi ruspanti come non annoverare Roberto Calderoli? Che del gesto del supereroe per eccellenza si è appropriato. Il momento è solenne: il 15 febbraio 2006 durante un’intervista televisiva al Tg1 il politico mostra una maglietta raffigurante una caricatura di Maometto. Il gesto, da supereroe nell’ottica dell’allora ministro delle Riforme, suscita aspre reazioni, soprattutto in Libia, con la protesta davanti al Consolato di Bengasi. Calderoli si deve dimettere – la sua carriera da supereroe dura proprio poco.

Anche qua, la migliore dimostrazione è visiva.

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Ed ecco cosa dice Maurizio Crozza di Mario Monti in uno dei suoi seguitissimi sketch a Ballarò: «Un anno fa sembrava un supereroe, adesso quando passa c’è gente che finge di parlare al telefono».

Come ricorda George Bernard Shaw «il bisogno del Superuomo è […] un bisogno politico». Il vero politico dovrebbe essere davvero una sorta di supereroe – della moralità, della giustizia, della sobrietà. Purtroppo a noi italiani, visti i precedenti, toccano più che altro dei Super Uomini Capra.

E non va certo meglio se ci spostiamo nella vicina Spagna. Anche i cugini iberici rimangono decisamente ai nostri livelli quanto a gestione cialtronesca degli eroi. L’esempio più clamoroso è quello di Rodrigo Díaz de Vivar, il celeberrimo Cid Campeador (1043-1099), l’eroe nazionale dell’identità castigliana e della Reconquista: ebbene il Campione (questo significa Campeador) altri non era che un sanguinario masnadiere. Nella battaglia di Golpejera vince con il sotterfugio, violando gli accordi. Ad Alcocer massacra la popolazione inerme. Entrando a Valencia il 15 giugno 1094 si appropria di tutti i beni gestendoli a suo uso e consumo. Uccide gli uomini più giovani, per evitare che si riorganizzino. Non rispetta gli accordi presi per la resa della città, così tortura il qadi Ibn Jahhaf – a cui aveva promesso, fra l’altro, di lasciare il governo della città – per farsi dire dove si trova il tesoro di re al-Qadir. Poi lo uccide in un modo che sconvolge anche i suoi più stretti collaboratori: Ibn Jahhaf viene sepolto fino alle ascelle in un fossato e bruciato vivo. Il celebre teologo Alvaro Pelagio lo accusa di essere senza scrupoli e di pensare solo ai propri interessi.

Simbolo ambiguo, fu ammirato anche dal Generalissimo Franco, che sostenne il film del 1961 di Anthony Mann con Charlton Heston nei panni dell’eroe.

«Non è un crociato, né un valoroso cavaliere. È un bandito», così la studiosa Lucy Hughes-Hallett.

Su “Di questo mondo”

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di Tommaso Di Dio

Daniela Attanasio, Di questo mondo, Nino Aragno Editore, 2013.

Il quinto libro di Daniela Attanasio si offre ai suoi lettori con la forza di un’opera matura e al contempo coinvolta in una ricerca ancora da scrivere.

Nelle liriche della prima parte, così come nei racconti per sequenze poetiche della seconda, la poetessa romana ha raggiunto una naturalezza espressiva così aperta e scabra che le sue pagine si offrono non solo come bilancio di una lunga attività di scrittrice, ma anche come scaglie di una saggezza umana tutta da vivere nel tempo che resta fuori dal breve orizzonte della lettura.

Il Quadrato nero di Max Frisch

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(Mi trovavo in questi giorni a riflettere su alcune considerazioni di Quadrato nero, un libro che raccoglie due lezioni del tardo Max Frisch, un anno fa tradotto in italiano da Gaffi, e ho pensato che la cosa migliore – per render merito alla pubblicazione nonché come omaggio a un autore che è stato per me tanto importante – sia riprendere alcuni passi salienti del volume. A.B.)

Lettera alla lettera di Mario Sechi

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Gentile Lettera al Rettore di Mario Sechi,
quando ti ho letta per un attimo ho pensato a quei generali della Grande Guerra che, in nome della loro alta concezione dell’onore, rifiutavano di chinarsi nelle trincee, si ergevano dritti e alteri, forti del loro grado, e finivano ahimè accoppati dai proiettili.
Non nego, Gentile Lettera, che di questi tempi volgari e confusi, in questa “società sciapa e infelice” (1), distinguersi per dignità e compostezza non è cosa da poco. È che nel tuo stile – perdonami – un poco ampolloso e prolisso, io, semplice Lettera alla Lettera, Lettera derivata, dipendente atipica, Lettera disagiata, sento echeggiare una fumosità che fa, tuo malgrado, il gioco di un “disegno strategico” oramai ben chiaro: lo smantellamento di una università pubblica e libera. Apparentemente in nome del risparmio del denaro pubblico, nella sostanza come negazione del diritto allo studio per tutti (tutti quelli che vogliono e meritano, certo), per salvare il salvabile, ovvero: salvare alcuni pochi eletti e lasciar affossare i molti disgraziati. Io sospetto che questa distruzione non sia il frutto di un piano, ma del panico delle nostre classi ‘dirigenti’. Economisti, professoroni, esperti – ma anche svariati avventori di bar – non fanno che ripeterci che non c’è bisogno di laureati, che si spende troppo nell’istruzione, che l’Italia deve investire in camerieri e gondole (2), non nella formazione dei suoi giovani e nello sviluppo delle sue idee. Cara Lettera, non sarà il caso di dire molto, molto chiaramente che l’Italia ha la percentuale minore di laureati in Europa? (3) Che spendiamo meno di tutti gli altri Stati europei per l’istruzione? Che per rapporto numero di studenti per docente siamo tra gli ultimi? Che il denaro pubblico sovvenziona scuole e università private? (4) Come si fa a dire che il problema dell’università italiana sono i (presunti) troppi laureati o le (presunte) troppe università? Non il nepotismo, non la corruzione, non la burocrazia, non la mancanza di strutture, non l’indifferenza, non il cinismo? Gentile Lettera, qui c’è in gioco molto più della “onorabilità”. Sta affondando una conquista aurea del passato recente: la mobilità sociale. Insieme al progetto di una società democratica.
Tu mi dirai che esagero, cara Lettera. Intuisco che il tuo estensore ha alle spalle decenni di Senati Accademici, Consigli di Facoltà, Consigli di Dipartimento, Progetti e Sessioni di questo e quello, e così via, che ne avrà viste, insomma, delle belle, che sarà ormai convinto che anche se molte cose cambiano nulla cambia mai veramente, e ci si può affidare a Rettori e Ministri con tranquillità, sapendo che nessuno vuole veramente buttare alle ortiche il diritto alla conoscenza.
Io invece, Lettera di terza classe, insieme a tante compagne lettere scritte negli ultimi anni (5), ti confesso che faccio fatica a fidarmi, per via di tutte le cose che ho visto da quaggiù: ho visto facoltà dove gli studenti sono chiamati “i nostri clienti” e promossi in massa in quanto tali, ho visto inviti a limitare il carico di studio per ciascun insegnamento a “300 pagine”, ho visto ricercatori segati perché pubblicavano o osavano fare concorsi senza il benestare del professore di ‘appartenenza’, ho visto precari lavorare gratis dodici ore al giorno nell’illusione di essere riconosciuti come lavoratori veri (!), ho visto biblioteche far bruciare – BRUCIARE – i libri e le pubblicazioni di candidati a concorsi perché all’impresa di facchinaggio scadeva il contratto di servizio esternalizzato e aveva bisogno di recuperare le proprie casse e i bibliotecari non sapevano dove mettere “tutta quella roba”.
(Tra l’altro, Lettera, come fai a dirmi che i “baroni” non esistono più? Certo, non essendoci più trippa per gatti, pardon, risorse economiche, i tipici potenti narcisisti e intrallazzatori si sono ridimensionati. Ma il baronato, le sue logiche e i suoi effetti, in verità si è istituzionalizzato, è diventato ufficiale: cosa altro sono i contratti di insegnamento “a titolo gratuito”? (6) O le sanzioni disciplinari per chi osa protestare? (7))
Tutte cose tipiche, certo; sulla bocca dell’ultimo dei forcaioli come del primo attore di Striscia la notizia. Diciamocelo: molti italiani, compresi tanti laureati scottati dalle logiche accademiche, preferirebbero far marcire l’università che mantenere in vita le pratiche che l’hanno animata finora.
Dovrò aggiungere, allora, che ho visto, incontrato, conosciuto tanta gente in gamba, studiosi dedicati e sottopagati, ho visto dei puri, degli insegnanti amatissimi, degli studenti appassionati, progetti e convegni che all’estero se li sognano, la possibilità di far realizzare ragazzi e ragazze provenienti dai ceti sociali più umili, e, infine, quel misto di competenza, trasversalità e unicità che fa la fortuna dei tanti colleghi che decidono di andarsene dall’Italia.
Il problema è quello che vediamo tutti e due, tu, Lettera professorale, e io, Lettera precaria: che la classe dirigente di questo paese sta distruggendo il meglio delle università, senza intaccare i suoi malcostumi. Uno dei dei quali consiste nella mancata assunzione di responsabilità da parte di chi ha il potere, piccolo o grande che sia. Uno dei quali consiste nella mancata trasparenza nel reclutamento (o la mancanza totale di esso). Uno dei quali consiste nel disprezzo verso gli studenti. Uno dei quali consiste nel pensare per corporazioni e gerarchie, e non per qualità delle idee, della didattica, dei progetti e dei prodotti di ricerca. Uno dei quali consiste nel tacere, tacere a oltranza, il fatto che le università vanno avanti grazie al lavoro sottopagato e irregolare di un vasto numero di precari (non esistono anagrafi, ma alcuni dicono che siano all’incirca il doppio degli incardinati) (8). Uno dei quali consiste nell’ignorare che gran parte dell’università è fatta di insegnamento, una attività così screditata e passé, che persino tu, Lettera, preferisci parlare di “comunità di studiosi e studenti”, e ovunque, dalla Camera dei deputati al talk-show televisivo, si gloria l’immenso valore della ricerca – mentre la si va depauperando – e si tace quello della docenza. Ma, Lettera, non voglio parlare della cibernetica o dei bosoni, con cui né io né tu abbiamo famigliarità, ma che cos’è la ricerca umanistica se non condivisione delle conoscenze, trasmissione, partecipazione e trasformazione dei saperi?
Lettera, dici di non avere voce, ma hai molte parole. Una in più ne servirebbe, a me pare, ed è basta. Che a farla vibrare insieme nelle facoltà produrrebbe tavoli di discussione trasversali, informazione agli studenti, assemblee aperte, blocchi e scioperi, consapevolezza che in un paese piccolo, antico, popoloso e con poche risorse primarie come il nostro occorrono più laureati, più sinergia, più reti, più pensiero. Produrrebbe, forse – sempre che non sia già troppo tardi per andarcene nelle trincee – resistenza.

Sinceramente,

Lettera di Renata Morresi

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Note

1) Società sciapa e infelice

2) Camerieri e gondole, le fantastiche ricette di Luigi Zingales: http://www.youtube.com/watch?v=tHpIgkw4ZwU

3) Laureati in Europa

4) Quanto spendiamo. Per chi ha pazienza, qui le tabelle OCSE su università e istruzione.

5) Tante compagne lettere, come questa.

6) A titolo gratuito.

7) Sanzioni a chi protesta.

8) Quanti sono i precari all’incirca (al minuto 2:00):  http://www.youtube.com/watch?v=rlVPcVR-_lk

Qui un recente sondaggio on-line per contare quanti sono i precari all’università:

http://www.ricercarsi.it/

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Lo spirito dei miei padri si innalza nella pioggia

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Patricio-Pron

di Gianni Biondillo

Patricio Pron, Lo spirito dei miei padri si innalza nella pioggia, Guanda, 2013, 197 pagine, traduzione di Roberta Bovaia

 

L’io narrante è quello di un giovane scrittore argentino che è – e non è (magia del romanzesco) – Patricio Pron. Intellettuale transfuga, con alle spalle otto anni fuori dal suo paese, in Europa, immerso in un quotidiano annebbiato da alcol e droghe. Un modo forse di vivere il momento, come a scrollarsi di dosso un passato, personale e storico, che non si vuole a tutti i costi ricordare. Però il passato torna, inevitabilmente. Il padre del protagonista è ricoverato in ospedale, in fin di vita. Allo scrittore tocca tornare in Argentina,  al capezzale del genitore.

Ottundere la memoria, sembra dirci l’autore di Lo spirito dei miei padri si innalza nella pioggia, non significa davvero dimenticarla. Il rimosso, freudianamente, torna sempre a farci visita, spesso nei modi più inaspettati. Il giovane scrittore, nei suoi giorni argentini, riscopre nella biblioteca paterna, un dossier di articoli di quotidiani che raccontano una squallida storia di cronaca nera. Perché il padre giornalista era interessato a questa vicenda?

La scrittura del romanzo è ossessionata dalla vertigine dell’elenco. Pron elenca e descrive sogni, articoli di giornale, titoli di libri, nomi di scrittori, avvenimenti minuti, fotografie, ricordi, medicinali. A tratti questa tecnica narrativa appare fin troppo stucchevole e compiaciuta, ma è anche il modo che ha l’autore per cercare di fissare, anche solo con un accenno, la realtà alla oggettività delle cose.

Questo è il romanzo di un giovane uomo che cerca il padre che sta per perdere, il quale cercava, prima della malattia, di ricostruire la vita di un uomo, il quale a sua volta era fratello di una ragazza desaparecida negli anni del regime militare. I legami con le persona, insomma, sono così profondi che non possono spezzarsi mai per davvero e gli insegnamenti di una lotta per la democrazia non possono e non devono essere dimenticati, pena, appunto, l’ottenebramento della volontà. La droga della quotidianità.

 

(precedentemente pubblicato su Cooperazione, n° 25 del 18 giugno 2013)

IL SANTO NATALE (autismi mitografici 3)

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di Giacomo Sartori

chaissac_visagedansune croix_1956_60x46_eafb63af4dPurtroppo ogni anno a un certo punto incombe il Natale. Uno si illude fino all’ultimo di essersi liberato dalla reiterazione di quella nefasta tragedia collettiva (ma anche intima), si illude di scamparla, e invece lui si avvicina, puntuale come la morte. Prima vengono il freddo e le giornate corte, e lo scoramento che accompagna i gelidi pomeriggi senza luce, e come mazzata finale si preannuncia l’incubo del Natale. Ce se ne accorge dalle antiecologiche luminarie nelle strade, dalle congestioni automobilistiche, dal pigia-pigia sui marciapiedi, da una frenesia consumistica più isterica di quella abituale, più scaltra, da certe minacciose telefonate dei parenti. Oddio, ci risiamo, ci si dice, rendendosi conto che l’esperienza dell’anno precedente e di quelli prima ancora non è servita a niente. L’uomo non è un animale logico, e quando vuole essere logico è ancora peggio, combina genocidi e altri disastri.

Com’è noto a Natale si festeggia lo scippo della memoria di un tipetto davvero in gamba, una sorta di rasta sveglio e pieno di buone idee (uno di quelli che per ogni cosa ti tira fuori la formula spiazzante), capace di divertenti numeri paranormali (senza peraltro ostentazione alcuna), da parte della più temibile associazione a delinquere della storia dell’umanità, la chiesa cattolica. Come tutti sanno nel corso di quasi duemila anni, nel nome di quel povero cristo finito crocifisso la chiesa cattolica si è adoperata in tutti i modi per fiancheggiare i potenti e per arricchirsi alleandosi con essi. Il tutto dando lezioni di morale a destra e a manca e punendo con pene orribili, spesso anche una morte atroce per combustione lenta, chi resisteva ai suoi precetti. Ora i potenti sono i mercanti di merci e di capitali, e allora la chiesa cattolica ha avvallato la trasformazione dell’antica festività pagana in una fiera mondiale del consumismo e dell’antiecologia. Proprio come in passato è andata a braccetto con i tiranni più spietati e i nazisti, avvallando altri misfatti.

La propaganda della chiesa cattolica e l’aggressivo marketing dei predoni finanziari si sono alleati per proporre annualmente un demenziale rito di purificazione delle coscienze. Presentato come un’apoteosi di pace e di armonia, un’oasi di concordia e benevolenza, di sereno gaudio merceologico, di giocondo godimento culinario. E invece è proprio a Natale, lasciando stare il parossismo consumistico (in barba alla più acuta crisi economica), che nelle famiglie le tensioni e le nevrosi e i livori si ingigantiscono e toccano il culmine. La spirale di odio lievita di solito nella fase dei preparativi, per poi imballarsi nella nevrastenia delle ore immediatamente precedenti, e sbocciare nel colmo degli ingozzamenti (di questo si tratta, evacuato ormai ogni afflato spirituale) veri e propri. Quasi sempre l’epilogo è rappresentato da cazziatoni, litigi, regolamenti di conti verbali, passaggi all’atto (qualche volta si arriva all’omicidio). È proprio il corto circuito tra l’interessata rappresentazione imposta dai poteri religiosi e finanziari (a suon di renne posticce, botticelliani angioletti e telefoni dell’ultima generazione), alla quale molti ingenui abboccano, e la violenza della sordida realtà, ad esacerbare gli attriti, a rendere ancora più esplosive le cerimonie culinarie e gli spacchettamenti. Quante parolacce, quanti insulti, quante maledizioni, quante ceramiche frantumate, quante digestioni interrotte, quanti irreparabili strappi, quanti traumi infantili. Tutto finisce però in omertà. Ed è proprio sfruttando l’omertosa complicità delle famiglie che la propaganda clericale e commerciale hanno ogni anno la meglio. Fino a quando dovremo subire questa impostura?

L’ultimo Natale che ho passato in famiglia è convogliato in un acre litigio con mia sorella. O meglio, lei litigava da sola, io ascoltavo interdetto. Alla fine sono stato scacciato dalla sede – ipocritamente addobbata con vischi e candeline – della cerimonia: la sua abitazione. Indicando con un indice tremante la porta d’ingresso (anch’essa bardata di vischi e palle luccicanti), mia sorella mi ha urlato che non mi voleva mai più vedere. Io e mia moglie abbiamo affrontato la notte proprio mentre le campane annunciavano la fatidica mezzanotte, come due ladri presi in flagrante, come due reietti Il tutto perché avevo osato interrompere una delle interminabili allocuzioni di suo marito per dire che secondo me capiva pochetto della psicologia delle persone. La languida tristezza che provavo (al fondo cova in me un’indole sentimentale) mi impediva di apprezzare la mia immensa fortuna: adesso finalmente ero libero. Avevo voltato pagina, ora ero immune da ogni lusinga natalizia. Avrei potuto campare anche cinquecento anni, mai più avrei subito un Natale in famiglia.

Ogni anno i miei parenti tornano all’attacco, si inventano nuovi argomenti, nuovi allettamenti, nuove scuse. Promesse di piatti succulenti e vini prelibati (manco a farlo apposta proprio quelli che preferisco), poco eleganti allusioni a fastosi regali, a arcadiche atmosfere. Ogni anno mi sento un asino (di un presepio?) al quale si sventoli una grossa carota davanti al naso. Ma intendiamoci, piovono anche accuse di egoismo e disumanità, poco velati ricatti morali, surrettizie minacce. Il bastone che accompagna sempre l’arancione radice dell’ombrellifera, utilissimo per ricordare come stanno davvero le cose. Si direbbe che con la scusa del Natale ogni arma, ogni colpo basso, siano permessi, come in certe selvagge forme di lotta corpo a corpo. Io lascio che dicano e minaccino. Tutto pur di non ritrovarmi davanti quell’affastellamento di inani merci sotto un derelitto cadavere di Abies alba (mozzato senza pietà per il sollazzo dei cosiddetti cristiani), in quel disgustoso odore di cera fusa e carni arrostite e nauseanti torte al cioccolato, quei sorrisi di farisea benevolenza, quei calici di irrequieti liquidi fermenati innalzati in brindisi alla doppiezza. Tutto pur di non ripetere la nefasta dipartita nella notte al suono delle campane cattoliche. Andiamo, andiamo!, taglio corto.

Certo poi si pone ogni anno il problema di cosa fare, scartata a priori l’impercorribile ipotesi famiglia. Purtroppo con l’approssimarsi del Natale gli amici diventano irreperibili: tutti occupati con parentele pregresse o in fieri, ex-mogli, ex-figli, ex cognati, futuri generi, o anche mai nominate prozie, nipoti, seconde cugine. Pure i più selvatici, i più impresentabile, quelli che a stento riescono a tenersi quieti cinque minuti, a Natale tirano fuori una mamma o una sorella dalla quale recarsi. Da non crederci. Uno può anche chiamare tutti i numeri dell’agenda, non troverà nessuno disponibile a farsi due spaghetti o due passi. E i cinema abbassano le serrande. All’estero nessuno ci crederebbe, ma la notte di Natale in Italia chiudono bottega anche i cinematografi. Proprio la serata nella quale potrebbero lavorare di più, accogliendo tutti i saggi come me, tutti i cinema, dico tutti, sono sbarrati. Non parliamo poi delle librerie, delle biblioteche, dei bar, degli altri tipi di locali pubblici. Di colpo non ci sono più locali pubblici: quei pochi aperti sono assoldati al festeggiamento annuale della buona coscienza. E anche le strade, con le loro minacciose luminarie, le finestre leziosamente decorate, gli osceni scorci di psicopatia natalizia che vi si intravedono, sono precluse. Resterebbe forse la televisione, se uno avesse la televisione. O la catalessi del sonno, se uno avesse sonno. E allora non resta che sedersi al tavolo della cucina, e rileggere qualcosa di Seneca. O anche, se si ha voglia di ridere, qualche tirata di Thomas Bernhard.

(l’immagine:  Gaston Chaissac, “Visage dans une croix”, vernice “Ripolin” su vimini e cartone, 60×46 cm, 1956)

Come un paesaggio. Pensieri e pratiche tra lavoro e non lavoro

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Welders- Berkley Lib

di Sandra Burchi e Teresa Di Martino

Il testo riportato qui di si seguito è l’introduzione al libro collettaneo Come un paesaggio. Pensieri e pratiche tra lavoro e non lavoro, Iacobelli Editore 2013.  Le curatrici ed altre studiose  ne discuteranno questa sera, mercoledì 18 dicembre dalle 18.30 alle 21.00 in un incontro organizzato da Agorà del lavoro-Primum Vivere presso la Sala Vitman, Acquario Civico di Milano viale G. Gadio 2 – MM2 Lanza

Sui temi del lavoro negli ultimi anni si sono dette molte cose. E’ stato normale a un certo punto sentire il bisogno di fare un po’ d’ordine, portando nel desiderio di ordine teorico la memoria di quel “mettere in ordine” femminile che serve a rendere vivibile uno spazio. Cosa possiamo prendere e tenere fra i tanti discorsi che si sono prodotti sul lavoro negli anni, cosa ha preso la forza di segnalarsi come punto di riferimento e di orientamento? Pensare la questione del lavoro – come esperienza del lavoro, secondo la pratica femminista del partire da sé e del personale che è politico – è diventato gesto di distribuzione dentro uno spazio, uno spazio che è fatto dei suoi tanti strati temporali, come un paesaggio. La Giornata di studi della redazione Iaph Italia – tenutasi il 21 marzo 2012 nella Sala del Parlamento Europeo a Roma e intitolata “Lavoro o no? Crisi dell’Europa e nuovi paradigmi della cittadinanza”, – è stata una prima occasione di composizione e ricognizione.
Questo volume prende le sue mosse da lì.

Bentornato a casa, Fred Stein

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di Helena Janeczek
Fred_Stein,_Paris_ca._1937_for_wikipedia

Imacon Color Scanner

Einstein aveva voluto fargli un favore. Capiva quanto valesse il proprio volto per il portfolio di un giovane connazionale, però odiava farsi fotografare. Così decise di concedergli dieci minuti. Fred Stein arrivò a Princeton e anziché mettersi subito a scattare, fece come sempre: cominciò a dialogare con l’illustre soggetto passando da argomenti seri al piacere di raccontarsi barzellette. Dopo due ore e vari richiami al tempo scaduto (“Che resti!” rispose Einstein alla sua segretaria) i due ebrei tedeschi in esilio si salutarono.

Ettore Majorana selon Etienne Klein

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Oggi pomeriggio alle 18h30 al Circolo dei lettori di Torino, Via Giambattista Bogino 9, presentazione del libro di Etienne Klein En cherchant Majorana, le physicien absolu, éditions Les Equateurs / Flammarion. Insieme all’autore, ne discuteranno Piero Galeotti, professore di fisica sperimentale all’Università di Torino, e ricercatore in astrofisica, e Antonio Sparzani, fisico e autore di Relatività, quante storie – un percorso scientifico-letterario tra relativo e assoluto. L’incontro sarà moderato da Francesco Forlani.

Il lycée Jean Giono di Torino, in collaborazione con Il Circolo dei Lettori, l’Alliance française de Turin e l’associazione Indypendentemente, hanno il piacere d’invitarla all’incontro con Etienne Klein, directeur de recherches au CEA. Dirige il Laboratoire de recherche sur les sciences de la matière du CEA (LARSIM) e ha partecipato a importanti progetti presso il CERN. Membro de l’Académie des technologies, ha pubblicato : Discours sur l’origine de l’Univers (2010) ; Galilée et les Indiens (2007) ; Il était sept fois la révolution. Albert Einstein et les autres (2005) ; Petit Voyage dans le monde des quanta (2004) ; Les Tactiques de Chronos (2003). Molti suoi libri sono tradotti in Italiano.

Sei poesie

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di Italo Testa

Da: i camminatori, Valigie rosse, Livorno, 2013 (Premio Ciampi Valigie Rosse 2013, sezione italiana).

copertina_camminatori

camminano
rasenti ai muri
sugli autobus
si siedono tra i primi
non parlano
tenendosi le mani
si voltano
di scatto a un tratto
ti guardano
gli occhi grigi
campeggiano
poi scartano di lato
si alzano
serrando i pugni
e scendono

**

nel traffico
procedono sicuri
gli ostacoli
li scansano veloci
ma vigili
le mani lungo i fianchi
si muovono
senza guardarsi intorno
e puntano
sempre in avanti
come aghi orientati
misurano
magnetici le strade

**

nelle stazioni
transitano
dentro e fuori
in perpetuo
andirivieni
mischiandosi
alle folle in attesa
assaltano
a frotte i treni
che arrivano
lungo i binari
e subito
a capofitto
lanciandosi
nei corridoi
ripartono

**

avanti e indietro
camminano
per gli scomparti
assidui
per tutto il tragitto
se urtano
gli altri passeggeri
non dicono nulla
non fanno cenno
si voltano
dall’altra parte
e proseguono
poi all’arrivo
fulminei
guadagnano le porte
e scendono

**

ho provato a spiarli
avanzano
ininterrottamente
sui limiti
dei caseggiati
non fermano
la loro marcia
abbattono
le protezioni
scavalcano
i cancelli le reti
e entrano
dentro i cantieri
s’aggirano
come cani randagi
famelici
nelle zone interstiziali

**

nelle notti chiare
si vedono
uscire dai vagoni
che giacciono
abbandonati
ai depositi
delle stazioni
s’inoltrano
lungo i binari
e spariscono
in lontananza
s’avvistano
poi dai treni in corsa
compaiono
nella visuale
e in un attimo
come animali bradi
svaniscono

(Per chi fosse interessato, una prima presentazione del volume, con interventi critici di Biagio Cepollaro, Paolo Giovannetti e Paolo Zublena,  si terrà domani alle ore 21 presso la Libreria Popolare di via Tadino, a Milano.)

Camera poesia

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Centro culturale La camera verde
(Roma, via Giovanni Miani 20)

CAMERA POESIA

I edizione: dicembre 2013

A cura di
Giulio Marzaioli

Nei giorni 18, 19, 21, 28 dicembre 2013, ore 19:00

 

PROGRAMMA :

Mercoledì 18 dicembre 2013

 

Le poesie di Simona Menicocci, Renata Morresi e Fabio Teti

 

h. 19:00 Presentazione dei libri
Posture Delay
di
Simona Menicocci 

 

La signora W
di
Renata Morresi

 

b t w b h
frasi per la redistribuzione del sensibile
di
Fabio Teti

 

(Collana Calliope)

 

§

 

Giovedì 19 dicembre 2013

 

Criteri e altre curvature, la poesia di Marco Giovenale

 

h. 19:00 Presentazione del volume

 

Tagli / Tmesi
[una bibliografia]
di
Marco Giovenale

 

(Collana Elzeviri)

 

e della cartella d’artista

 

Syn Sybilles
di
Marco Giovenale

 

§

 

Sabato 21 dicembre 2013

 

h. 19:00 presentazione del libro

 

Specchio d’imperfezione – Corona
di
Luigi Severi

 

(Collana Metra)

 

§

 

Sabato 28 dicembre 2013

 

h. 19:00 presentazione del libro

 

Perduta comodità del mondo
di
Nanni Cagnone

 

(Collana Metra)

 

§

 

Centro culturale LA CAMERA VERDE
direttore
Giovanni Andrea Semerano
via G. Miani 20 – 00154 Roma
tel. 3405263877
 www.lacameraverde.com

Parlando di ebook a Milano martedì 17: Qui Siria

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Martedì 17 dicembre 2013 alle ore 17 a Milano a Le Biciclette presentazione dell’ebook Qui Siria – Clandestina a Damasco edito da Quintadicopertina.

Con l’autrice Antonella Appiano e la moderazione di Marta Ottaviani.

Qui Siria è un testo che unisce la narrazione in prima persona con la dimensione digitale e le sue possibilità di dare profondità al testo. E’ nato un testo ricco di ipertestualità e immagini, con mappe toccabili, cronologie, schede di approfondimento, gallerie fotografiche, indici analitici, glossari, tutti connessi con la narrazione viva della rivolta siriana. Questa presentazione è un’occasione per poter parlare di entrambi gli aspetti dell’ebook.

Per chi vuole c’è anche un particolare aperitivo al gusto di ebook (in realtà l’aperitivo ha un gusto da aperitivo, ma assieme avrete anche l’ebook di Qui Siria).

promo-quisiria-500

 

Processo

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di Davide Orecchio

Processo

Tra il rantolo e il sangue c’è la tesi che muore. Seppellisci la sintesi in un cimitero di feti a Firenze. La tesi resta in coma due giorni, poi muore. Crema la tesi. Arresta l’antitesi. La giovane selvaggia sgraziata. Accusala: hai ucciso la tesi. Senza tetto né legge le cola il no dai capelli, dalle labbra le sorge, vibra nelle corde vocali. Dice sono innocente. Dice difendo me stessa. Sugli scranni maggiori il giudice e la giuria del popolo nostro. Poco sotto il procuratore e il pubblico del popolo nostro. Nell’orgia di legno s’alza l’antitesi: la tesi voleva cambiare, io sono quel che è, quel che resta e vuole restare.

15 dicembre 1969 : Giuseppe Pinelli

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di Antonio Sparzani

Il 15 dicembre 1969, quarantaquattro anni fa, Giuseppe Pinelli moriva precipitando da una finestra nel cortile della questura di Milano, illegalmente trattenuto senza mandato, in merito alla bomba scoppiata tre giorni prima alla Banca dell’Agricoltura di piazza Fontana, a Milano.
Innocente.

Rocco Scotellaro: così vicino così lontano! ( a sessant’anni dalla morte del poeta lucano)

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page1-181px-Scotellaro.pdfDi Nicola Fanizza

Nei confronti di Rocco Scotellaro – morto di infarto, ad appena trent’anni, il 15 dicembre 1953 a Portici (Napoli) – ho sempre avvertito una prossimità distanziante. Una vicinanza dovuta al fatto che nella sua storia di intellettuale contadino ho ritrovato gli stessi accidenti che hanno costellato la mia adolescenza. Tuttavia, mentre Scotellaro si è trovato nella condizione di poter rappresentare la civiltà contadina nel suo crepuscolo – cogliendone anche i prodromi della sua imminente decomposizione –, a me, invece, il caso ha voluto che fossi testimone della sua definitiva dissoluzione.

Di fatto, nell’Italia Meridionale degli inizi degli anni Sessanta, la professione del contadino diventò una vera e propria condizione infernale. I braccianti venivano denigrati e il loro sex appeal era vicino allo zero assoluto. Le ragazze preferivano gli impiegati, i marittimi, gli operai e giammai i figli dei contadini che erano oggetto di disprezzo. Tutto ciò lo coglievo nei racconti dei mie fratelli più grandi, i quali a volte mi parlavano delle loro disavventure sentimentali. Il dileggio del mondo rurale diventò una scheggia che si conficcò nelle mie carni quando iniziai a frequentare la scuola media. I miei compagni di classe stigmatizzavano il lavoro manuale in generale e, in particolare, il lavoro del contadino. Da qui il patèma che investiva il mio animo ogni qualvolta mio padre mi portava in campagna a lavorare. Il ritorno a casa per me era un dramma: quando, al crepuscolo, il nostro carro trainato dalla mula entrava nelle strade del mio Paese, mi coprivo con un sacco per evitare che i miei compagni di classe scoprissero che ero figlio di contadini.

Questa vicinanza non può essere disgiunta, tuttavia, da una buona dose di diffidenza nei confronti dei poeti, che mi porto dietro sin da quando frequentavo il Liceo. Allora non riuscivo a giustificare l’entusiasmo con cui la maggior parte dei nostri rimatori nel 1914/1915 si era schierata a favore dell’entrata dell’Italia in guerra. Di fatto siamo entrati in guerra anche grazie alla follia dei poeti, alla loro tenerezza aggressiva e, insieme, priva di tormenti. In seguito ho capito le motivazioni che stanno a fondamento di quella esiziale determinazione: essa, infatti, diventa intellegibile solo se si tiene nel debito conto l’inflessione irrazionalistica che caratterizzava la temperie culturale dell’Italia giolittiana. All’inizio del secolo si affermarono i crepuscolari che univano al misticismo dell’anima «nordica» il nazionalismo – e a volte anche il pacifismo – dell’anima «latina»; e, in seguito, i futuristi, i nuovi poeti incendiari, pronti a lanciarsi nelle fiamme della guerra per mettersi alla prova. La guerra fu vissuta sia dagli uni che dagli altri come un rito di iniziazione: la vertigine che essi avrebbero provato di fronte alla morte appariva loro come un viatico verso l’estasi mistica.

Anche Scotellaro – come avremo modo di vedere in seguito – sperimentò la trance estatica nel corso della sua breve esistenza. Era nato a Tricarico (Matera) nel 1923. Di umili origini – suo padre era un calzolaio – a dodici anni si trasferì in collegio per portare a compimento gli studi classici. Dopo il liceo, frequentò la facoltà di Giurisprudenza presso l’Università di Roma ma non conseguì la laurea. Nel 1943 si iscrisse al PSI, fu protagonista del movimento che portò all’occupazione delle terre e nel 1946 fu eletto sindaco socialista della sua città natale. Mantenne tale carica fino al 1950, quando fu arrestato con l’accusa di irregolarità amministrative. Rimase in carcere quasi due mesi fino a quando le autorità giudiziarie presero atto della sua totale innocenza. Nello stesso anno, grazie all’intervento di Carlo Levi, ottenne un impiego presso l’Istituto agrario di Portici, diretto dal meridionalista Manlio Rossi Doria. Quest’ultimi furono i suoi mentori.

Allo stesso modo di Rossi Doria, Scotellaro è un dimenticato. Ha avuto forse degli eredi un meridionalista come Salvemini? Hanno forse avuto degli eredi tutti gli altri meridionalisti della prima metà del secolo scorso da Guido Dorso a Umberto Zanotti-Bianco, da Piero Delfino Pesce a  Vincenzo Calace, fino a Tommaso Fiore? Scotellaro ha condiviso il destino di un’intera generazione di intellettuali che per lo più erano di formazione positivistica. Erano dei tecnici: Calace era un ingegnere; Rossi Doria era un agronomo; Salvemini, attraverso la mediazione del geografo Arcangelo Ghisleri, si richiamava a Carlo Cattaneo, fondatore della rivista «Il politecnico». Non hanno avuto eredi, poiché non erano degli accademici o per altri motivi che mi sfuggono.

Eppure tale dimenticanza stride con quello che Carlo Levi dice nella sua Prefazione al volume di Scotellaro L’uva puttanella (1954). Qui parla della difficoltà dei contadini nell’accettare la morte di Scotellaro: «Alcuni vanno dicendo che Rocco è stato rapito e portato in America; […]. altri lo attendono vivo da un giorno all’altro. Non c’è casa di contadini a Tricarico dove il ritratto di Rocco non sia appeso al muro accanto alle immagini dei Santi».

Levi non è stato un buon profeta! Oggi, a sessant’anni di distanza dalla sua morte, si sono dimenticati di lui persino a Tricarico. Due anni fa, l’amministrazione comunale ha autorizzato la costruzione di una gigantesca cappella privata che oscura la tomba di Scotellaro. Il monumento funebre, che si affaccia sulla valle del fiume Basento, fu costruito nel 1957 su proposta di Carlo Levi e fu finanziato da Adriano Olivetti. Il ricordo di Scotellaro si configura ormai come un’ombra che va rimossa, il suo fantasma può sopravvivere solo nel museo Lanfranchi di Matera. Qui, nel grande dipinto Lucania 61 di Carlo Levi, appare con il volto da bambino cresciuto. Dal rosso dei suoi capelli – il colore della sua fede politica – sembra irradiarsi una luce che rende meno opachi gli incarnati dei contadini.

Non è mia intenzione ricostruire il dibattito che ebbe luogo sulla sua opera nel Convegno di Matera del febbraio 1995, che vide la partecipazione di Carlo Levi, Franco Fortini, Rainero Panzieri, Tommaso Fiore, Carlo Muscetta, Mario Alicata, ecc. Si tratta di un dibattito datato e, comunque, non rientra nel perimetro di questo breve articolo. Non intendo neppure rappresentare Scotellaro come un santino proletario allo stesso modo in cui gli autori di destra rappresentano Padre Pio. Né, infine, intendo parlare di Scotellaro per farne l’occasione per un viaggio estetizzante fra le macerie della civiltà contadina.

Ciò che qui, invece, mi preme sottolineare è che Scotellaro merita di essere ricordato per due motivi: la sua produzione poetica e la sua inchiesta sul mondo rurale.  Questo non vuol dire, tuttavia, precludersi la via per individuare gli aspetti poco convincenti della sua opera.

Ritengo che sia opportuno individuare nella sua produzione poetica non tanto i soliti temi che rimandano alla mitica civiltà contadina – il «romanticismo rurale» o il «vittimismo», legato alla metafora dell’uva puttanella (acini piccoli) –, quanto quelle parole che Scotellaro scrive con il sangue. Pongo in questo senso all’attenzione del lettore i primi versi della poesia, Passaggio alla città: «Ho perduto la schiavitù contadina, / non mi farò più un bicchiere contento, / ho perduto la mia libertà».

Per me questi versi sono stati per molto tempo un vero rompicapo. I miei voli pindarici mi spingevano stabilire ardite analogie e tuttavia non sortivo alcun risultato. Solo in seguito ho capito che il termine «libertà» non rimandava in origine alle istanze più personali e individualistiche, ma a ciò che legava ciascun individuo agli altri, al legame con gli altri, all’obbligo nei confronti degli altri. Il poeta lucano poteva dire di aver perso la propria libertà proprio perché la identificava con ciò che lo legava agli altri individui. Il rito del bere il vino assieme ai suoi contadini aveva ormai perso la sua capacita di addomesticare la distanza con l’altro da sé. Scotellaro, infatti, era disperato proprio perché coglieva nelle pratiche rituali del mondo contadino l’insinuarsi del germe dell’utilitarismo e dell’individualismo borghese, che sortiva una prossimità che diventava sempre più distanziante.

D’altra parte proprio questa distanza diventa il viatico delle sue estasi: la vertigine che egli avvertiva quando sperimentava la lontananza dai suoi contadini, infatti, lo spingeva nei cieli in cui «sbocciavano le stelle d’Oriente».

Il tema della distanza è anche presente nel volume Contadini del Sud, pubblicato nel 1954, in cui sono state raccolte le cinque storie di vita che Scotellaro aveva scritto negli ultimi mesi della sua vita. A partire dal 1950, stringe un rapporto di fraterna amicizia con Rossi Doria, un ex comunista che in seguito aveva aderito al PdA per poi approdare al PSI, il quale lo aveva invitato a diffidare dei politici del Sud che egli prese a definire con l’epiteto di «pidocchi». Nel secondo dopoguerra i politici meridionali, sfruttando l’intervento pubblico, rafforzavano la loro funzione di gestione del potere per conto della borghesia agraria. Un ruolo questo che tutt’oggi continua anche se con modalità diverse. Gli eredi di quegli intellettuali squillo, a partire dagli inizi degli anni ottanta, continueranno a svolgere la stessa finzione nella gestione dei fondi europei, dei  piani regolatori e degli appalti non più per conto del patriziato cittadino, ma della nuova borghesia di origine criminale.

Dopo la sconfitta del 1948, Scotellaro decide di continuare la lotta, anche se in modo diverso rispetto al passato, tracciando una strada che in seguito verrà percorsa da Danilo Montaldi in Autobiografie della leggera, da Gianni Bosio in Il trattore di Acquanegra e da Pietro Marcenaro in Riprendere tempo.

Il suo merito consiste nell’aver introdotto nella ricerca sociologica e antropologica il metodo biografico. Tutto ciò dava luogo a una inedita forma di scrittura, oscillante fra la ricerca sociologica e la letteratura. Per di più la presenza fra le sue carte di un’annotazione inerente al famoso passo de Il Principe di Machiavelli – «cosí come coloro che disegnano e’ paesi si pongano bassi nel piano a considerare la natura de’ monti e de’ luoghi alti, e per considerare quella de’ bassi si pongano alto sopra monti, similmente, a conoscere bene la natura de’ populi, bisogna essere principe, et a conoscere bene quella de’ principi, bisogna essere populare» –, sta a indicare l’importanza che egli attribuiva alla questione della distanza nel rapporto fra osservatore e osservato.

Si tratta di un modo nuovo di fare ricerca che, valorizzando la soggettività degli intervistati presi in osservazione, dava la possibilità di addomesticare – entro certi limiti – la distanza fra l’osservatore e l’osservato in modo che entrambi fossero coinvolti in un comune processo di trasformazione della realtà.

Ciò nondimeno, benché Scotellaro sia consapevole della distanza che intercorre fra il ricercatore sociale e il soggetto sociale preso in osservazione, spesso sposta significativamente la sua presenza verso l’osservato e sporca in termini irrimediabili la relazione dialettica che pur aveva avviato in modo originale: ossia il lettore non riesce mai a decidere fin dove parla il contadino e fin dove è Scotellaro che parla.

Concludo queste brevi note con due versi in cui Scotellaro si rivolge alla gioventù del Sud: «Venga il mattino per i giovani del 1953 / e sulle bocche arse rispunti il sorriso». E se fosse il 2013?

Roma e Treia nei Sogni di Dolores Prato (II)

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di Elena Frontaloni

La realtà che puntualmente nega il proprio abbraccio nel quotidiano è Roma, la città in Voce fuori coro amata e torturata dal moderno; la realtà che puntualmente nega il proprio abbraccio nel passato, e un compimento nel presente (non vi si ritorna, quando vi si ritorna si rimane delusi), è Treia. Così Dolores Prato trasforma la scrittura in una sorta di vendetta sul destino

Roma e Treia nei Sogni di Dolores Prato (I)

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di Elena Frontaloni

Parto da Nabokov, dalle Lezioni di letteratura: “Non dimentichiamo che l’opera d’arte è sempre la creazione di un mondo nuovo”; e ancora: “l’arte dello scrivere è un’attività assai futile se non comporta anzitutto l’arte di vedere il mondo come potenzialità narrativa”. Il problema individuato da Nabokov era se ci si potesse aspettare o no, da un romanzo, e in generale dall’opera di un vero autore, informazioni affidabili su un luogo o un periodo storico, e la risposta era sostanzialmente negativa, o almeno negativa in prima battuta: da buoni lettori, infatti, occorrerebbe anzitutto osservare da vicino questo nuovo mondo creato dal grande autore, se lo ha creato, poi chinarvisi sopra, vederne la miracolosa unità sotto le metamorfosi, le ricostruzioni, le effrazioni e rifrazioni derivate dall’atto del narrare. Solo dopo, dice Nabokov, sarebbe il caso andare ad analizzare i legami con altri mondi e settori della conoscenza.

Mi sembra un approccio adeguato ai testi di Dolores Prato: pochi autori, infatti, hanno voluto vedere più di lei il mondo, e la propria vicenda nel mondo, come autentica “potenzialità narrativa”

Francis Ponge – Da “Cognizione del periodo che annuncia la primavera”

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(Le righe che seguono sono tratte dalla prima traduzione integrale di questo testo in Italia, a cura di Michele Zaffarano e di prossima pubblicazione per la neonata casa editrice Benway, di cui è redattore insieme a Marco Giovenale, Mariangela Guàtteri e Giulio Marzaioli. L’ambizione progettuale alla base di questa casa editrice è di portare alla conoscenza del pubblico italiano autori, come Francis Ponge appunto, ben conosciuti e apprezzati in madrepatria ma del tutto trascurati in Italia.
Una prima presentazione del volume, coordinata da Luigi Magno e con interventi critici di Jacqueline Risset, si terrà domani alle 17.00 presso la sala Capizucchi del Centro di Studi italo-francesi, a Roma in via Campitelli 3.)

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INIZIO DELLA POESIA DEL PERIODO CHE ANNUNCIA LA PRIMAVERA.

Qui, dove l’uomo, riportato alle sue giuste proporzioni, …
Come un paiolo abbandonato, in un angolo del paesaggio, una città, una grande capitale non fa più rumore d’un paiolo in mezzo ai rifiuti.
Di fortezze volanti, ne possono passare a nugoli. Di loro resterà solo uno sbuffo d’aria. La natura, con gli uomini, è impassibile, e voi, a lamentarvi, siete solo ridicoli (Lamartine, Vigny, Hugo).
Per portarsi a casa soldi e fama, adesso, questa cosa, la stanno ancora dicendo tutti (i «Giusti», i… questo e quello).
Fortuna, però, che lei è impassibile! Meglio così!
Anche certi uomini diventano impassibili, perché ce l’hanno dentro al cuore.
D’altronde, in Francia, siete ancora voi la natura: industrializzata, commercializzata; giardini, patii, campi coltivati, fabbriche di legname. Eppure la libertà e il vento e gli uccelli ci sgambettano in mezzo, ci ballano dentro comodi;
Salta fuori da tutti i pori (da tutti i rubinetti), la libertà.

Les Fleurys, 8 aprile 1950.

Ad averci attirato nel P.C. erano state per prima cosa la rivolta contro le condizioni riservate alla vita degli uomini, la preferenza per la virtù e la smania del dedicarsi a una causa sufficientemente grandiosa. E poi c’era il disgusto per i sordidi riguardi dei socialisti (S.F.I.O.),1 per i loro belati umanitari, per la loro verbosità, per i loro compromessi,
La sensazione che alle prevaricazioni del capitalismo si dovessero opporre metodi energici e insieme flessibili, realisti, senza illusioni. Cose che trovavamo, o credevamo di trovare nei bolscevichi. Gente emancipata e seria, ecco come ci sembrava (emancipata e con la barba corta) (quella di Lenin).
I mezzi dell’arte… (in vista della perfezione).
Abbiamo pensato che la critica marxista potesse fornire la chiave per spiegare la storia passata e presente.
Nelle sezioni e nei singoli iscritti al partito, abbiamo trovato esempi meravigliosi di virtù, di dedizione, di entusiasmo e di capacità di lavorare, di efficienza, di disinteresse, di emancipazione. Anche la freddezza e la critica impietosa ci attiravano. E anche i sacrifici richiesti al gusto e ai sentimenti, perfino all’intelligenza di ciascuno. Trovavamo parecchio seducente il fatto di criticare a posteriori le conclusioni a cui l’intelligenza e i nostri propri «testi» arrivavano. Ci sembrava che fosse un po’ come la critica dei testi che faceva il Temps. Era solo una delle prospettive dell’artista che siamo (L’artista non rifiuta nessuna prospettiva critica).
Poi però ci siamo accorti di parecchie cose: che questa critica ad hominem (critica economistica) non era meglio della critica psicologica, che generava una presunzione grottesca e criminale, che allontanava l’istinto e l’intelligenza dal cuore.
Uccideva, il desiderio, lo slancio.
2° Creava una presunzione che inaridiva, un rigorismo ridicolo e mortale.

Les Fleurys, 8 aprile 1950.

Non cercheremo niente di «significativo» (da dire) sulla nostra epoca (verrà comunque da sé; come potrebbe essere altrimenti, ne siamo fin troppo impregnati).
Cercheremo (al contrario) quello che non sembra significativo, quello che non rientra nei suoi simboli (nella sua simbolica): quello che appartiene al tempo seriale (o all’eternità).
Dobbiamo ridire la «muta natura che ci attornia in schiere profonde»2, che ci riprende alle spalle, che ci ammantella, che ci copre la testa e ci incravatta, dobbiamo ridire aprile (oppure ottobre).
Ed eccomi tornato ai sentimenti che mi hanno fatto scrivere Ad litem,
meno la disperazione. Tutto questo, tutte queste forme prese dalla natura muta, è tutto terribile e insieme assurdo, scoraggiante, e però vive, si abbellisce, continua. E allora: tanto meglio (e tanto peggio); il problema non è questo.

È qui, oh solitudine ingombra di muti elementi fissi tutti al proprio posto senza sguardo, paralitici, è qui, dove tutto un paesaggio mi incravatta e mi prolunga le spalle a destra e a sinistra, dove per esprimersi c’è solo la mia voce (dove non mi devo troppo difendere da animali pericolosi), è qui che sento la mia ragion d’essere.
Il Paesaggio ∞3 grandi nodi colorati di bistro, rattrappiti e paralitici (infermi) sotto i rabbrunamenti bluastri, sotto i voluminosi pensieri provenienti da ovest.

Les Fleurys, 8 aprile 1950.

Le arti e le lettere si concepiscono, nascono e vivono solo grazie all’illusione della comunicazione e della simpatia. Tutto questo (questa illusione (questo giglio)) è solo vegetazione e fioritura, lo si può concepire solamente nella pace (cfr. Lucrezio, quinto canto).
La simpatia e la comunicazione si «trovano» solo nell’amore e nella festa, nel rapimento, nell’illusione stessa che permette alla vita di continuare (il coito).
Non nella critica o nel giudizio (nella guerra, ideologica o materiale, nel terrore)
Quindi, legittimamente, POSSIAMO comunicare soltanto il rapimento, per il resto non facciamo che uccidere. Soltanto il rapimento si comunica. E comunque, comunicare collera e giudizi non appartiene al nostro gusto…
Adesso, supponendo di perdere questa illusione (e di arrivare al suicidio), l’unica forma legittima di suicidio che rimane è la devozione (gioiosa), l’amore, la conquista della parola, la lode. E questo chiude il cerchio e riporta alla parola, alla sua arte: alle lettere.

[estratto – tit. orig.: Nioque de l’avant-printemps, 1983]

Note
1. La Sezione Francese dell’Internazionale Operaia (S.F.I.O.) è il partito politico che nel 1905 riunificò le forze socialiste francesi, disperse in diverse formazioni concorrenti. Nel 1969, confluirà nel nuovo Parti Socialista.
2 Questa citazione è tratta da un testo dello stesso Ponge, intitolato Ad litem e raccolto in Proêmes (1948). Lo stesso testo viene citato subito dopo.
3. [N.d.A.] Sostituire la “oh” lirica con il simbolo aritmetico dell’infinito ∞ (l’8 messo orizzontale).