[Ricevo da Luigi Weber, dell’Università di Bologna, la lettera aperta che Mario Sechi, dell’università di Bari, ha indirizzato al suo Rettore. Pur non condividendo le analisi di Sechi in diversi punti, mi pare che la crisi di fondo che sta attraversando l’università, in Italia come all’estero, meriti ampio dibattito. La lettera aperta di Sechi vi contribuisce]
Magnifico Rettore,
mi rivolgo a lei, e allo stesso tempo a tutta la comunità accademica barese, per richiamare l’attenzione su un aspetto solitamente trascurato della crisi di sistema in cui l’Università italiana versa da ormai molti anni. Le politiche di austerità e di “spending review” messe in atto dagli ultimi Governi, miranti a correggere alcune disfunzioni e persino patologie dell’autonomia universitaria, e soprattutto a contenere un incremento di spesa per il personale che era in crescita non controllata e non programmata, hanno finito per enfatizzare il problema dei bilanci e delle disponibilità di risorse, indispensabili per garantire la tenuta dell’offerta didattica e della gestione complessiva dell’Università azienda. L’allarme è fondato, poiché non è chiaro, o quanto meno non appare chiarito, il disegno strategico del legislatore e del Governo sul destino dell’intero sistema universitario italiano. Si vuol andare verso un ridimensionamento, o verso una riclassificazione gerarchica di compiti delle diverse sedi, o verso una più completa e anarchica aziendalizzazione, secondo il modello anglo-americano?
Ma io credo che, al di là di queste emergenze, che colpiscono oggi più le grandi e medie Università che le piccole, più le Università pubbliche che quelle private, più le Università storiche che quelle di fresca istituzione, più quelle non-telematiche che quelle telematiche, si debba riconoscere un indicatore allarmante della situazione di crisi attuale nella campagna di delegittimazione e denigrazione sistematica del ruolo di sociale e pubblica utilità dei professori universitari. Sia nella stampa e nei media, sia nel linguaggio della politica, e direi nella cultura politica spicciola dei nostri tempi, corre e si alimenta quotidianamente una rappresentazione delle comunità accademiche come caste arroccate nella difesa di loro presunti privilegi, appesantite da un’anzianità anagrafica eccessiva, sostanzialmente improduttive, meritevoli di un occhiuto controllo di legittimità su ogni atto o funzione che essi svolgano, nello svolgimento dei doveri ordinari (la ricerca e la didattica), e soprattutto nelle funzioni di selezione e di riproduzione dello stesso ceto accademico: concorsi, abilitazioni e quant’altro. In questa campagna di denigrazione non a caso è tornata in voga, in senso spregiativo, dall’alto e dal basso, la definizione di “baroni”: parola anacronistica, come ognuno di noi sa, priva totalmente di senso nell’Università attuale, o quanto meno da reinterpretare in modi nuovi e differentissimi dal passato, posto che le posizioni di potere accademico oggi, quando sussistano, non sussistono senza una capacità di attrazione di consistenti risorse finanziarie, e dunque senza una prossimità a centri di potere o di finanziamento esterni.
Lamentando questa aggressione (spesso ideologicamente motivata nella cultura di destra), che ha trovato un’eco a mio parere poco controllata alcuni giorni fa in un’inaudita esternazione del Ministro Carrozza alla radio di Confindustria (“Se i professori fossero onesti e generosi…”), non intendo riferirmi alle contestazioni di responsabilità e di errori, e tanto meno alla denuncia di abusi e di scandali, quando documentati. I professori universitari come comunità sono in parte corresponsabili degli errori gravi, compiuti in passato da legislatori poco competenti e talvolta temerari, e alcuni di loro sono stati riconosciuti responsabili in proprio di abusi e di scorrettezze anche gravi. Da tutti questi addebiti, soprattutto dall’accusa di aver condiviso per inerzia o per calcolo scelte politiche rivelatesi dannose se non distruttive, non ci si può facilmente discolpare, occorrerà riflettere e rielaborare una storia che sta alle nostre spalle, e che ancora pesa e peserà a lungo.
Il problema che io pongo si riferisce invece all’attacco al valore sociale del capitale umano che i professori universitari rappresentano per la comunità nazionale, al valore dei saperi e delle competenze che essi incarnano. La professoressa Carrozza, prima di assumere la responsabilità del Ministero, ha più volte avanzato la proposta di una “rottamazione” dei docenti universitari, con un drastico abbassamento della età pensionabile ai 65 anni (era fissata ai 75, come tuttora per i magistrati, fino a pochi anni fa). All’idea della rottamazione corrisponde anche, ne sono certo, una sua visione culturale del ruolo delle Università, che per quanto discutibile ritengo ovviamente legittima. Ma l’idea di ridare slancio a un sistema ingessato, non reinvestendo selettivamente nel reclutamento, non pilotando un processo di transizione e riequilibrando un sistema fortemente squilibrato sul piano territoriale e all’interno di ogni suo polo, ma tagliando, decapitando, distruggendo l’organico di fatto delle Università, e distruggendo in questo modo saperi consolidati, spesso innovativi, che non hanno magari potuto essere trasmessi e rinnovati in un adeguato reclutamento di scuola, implica con tutta evidenza una sottovalutazione completa dell’aspetto istituzionale, culturale e anche politico, della questione. Se aderiamo all’idea secondo la quale la ricerca va valutata in termini di produttività immediata (magari affidandosi a un’Agenzia indipendente australiana o finlandese, o anche all’ANVUR), se aderiamo all’idea che i professori universitari siano non più che una “categoria” come tante di lavoratori privilegiati, da “mandare in pensione” al più presto, per fare spazio alla libera espressione e competizione, cioè al mercato della creatività scientifica, se aderiamo all’idea che la docenza universitaria sia una funzione volatile da attribuirsi in base a valutazioni in itinere, magari con abbondanza di contratti precari il cui peso sulla partita di spesa fissa nei bilanci sia assai ridotto, se infine riteniamo che si possa intervenire su queste materie con la logica della lotta alla disoccupazione giovanile, contrapponendo (come fa il Ministro) le giuste aspettative dei ricercatori precari e la resistenza dei vecchi ordinari, aggrappati alla proprie poltrone (qui siamo veramente alla farsa), allora credo che siamo sulla strada di nuovi e più gravi e forse irreparabili errori.
Ma concludendo, con la consapevolezza della complessità delle questioni appena accennate, vorrei rimettere fiduciosamente nelle Sue mani il compito, che sono certo saprà svolgere con rigore durante il Suo mandato, di vigilare – e non sempre ciò è accaduto in passato – sulla onorabilità e sulla dignità della nostra comunità di studiosi e di studenti, vale a dire sulla missione fondamentale del nostro lavoro quotidiano, scoraggiando l’uso di linguaggi e di argomenti di polemica fortemente lesivi e ingiuriosi, sia negli organi di governo di Ateneo sia nelle relazioni interne con sindacati e associazioni studentesche. Per trovare un florilegio di ingiurie e di gratuite derisioni nei confronti dei professori esperti di assalti alla diligenza, riportate e talvolta amplificate dai giornali, è sufficiente sfogliare con pazienza sul nostro sito la rassegna stampa degli ultimi anni.
E’ a tutti noto che, assorbite dai Sindacati generalisti le problematiche specifiche di autotutela delle vecchie associazioni di categoria, i professori universitari, forse unici nel panorama delle professioni e dei ruoli istituzionalmente rilevanti del nostro paese (magistratura, informazione, sanità, ecc.), sono praticamente privi di qualunque voce di rappresentanza, salvo la flebile voce del CUN e la voce non sempre intonata del Ministro.
La ringrazio vivamente per l’ascolto, e Le rinnovo gli auguri più sentiti per l’impegno assunto alla guida della nostra Università.
















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