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Un reading dalle poesie di Lorenzo Calogero

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Il Fondo Librario di Poesia Contemporanea di Morlupo RM

in occasione della prima riunione del circolo dei lettori di poesia

presenta lunedì 4 novembre alle 18,00

presso il Centro Libellula un reading

dalle poesie di Lorenzo Calogero

 

INGRESSO LIBERO

A Gabriele

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sedia-sdraiodi Gianni Agostinelli

 

A Gabriele lo hanno licenziato. Sono tre mesi buoni che sta a casa senza fare nulla e considera che è estate. Mi dispiace; per me. Mi dispiace che lo abbiano licenziato perché adesso che Gabriele sta a casa giorno e notte me lo ritrovo sempre affacciato al balcone di fianco al mio quando esco per fumare una sigaretta. O per prendere il sole, e mi tocca girare il culo verso la palestra invece che verso la spiaggia, sennò io a Gabriele finisce che lo guardo in faccia mentre lui sta appoggiato alla ringhiera della sua terrazza e la qual cosa non mi piace proprio. Io quando mi è stata data la notizia che ci pareva a tutti una bella cosa, a me, mio padre e mia madre che infatti siamo andati a dormire sereni quella sera; la ricordo, perché era prima di una partita dell’Italia agli europei che anche se abbiamo pareggiato con la Croazia non ce la facevo proprio ad incazzarmi. Mamma parlava a bassa voce, a papà lo aveva detto in macchina. Lo hanno licenziato? Ho domandato io che mi è arrivata questa notizia come una pacca forte sulla coscia svestita che ho sussultato. Mi sono infilato le infradito che tenevo come tappeto sotto i piedi e mi sono alzato. Ho preso la vaschetta di gelato dal congelatore, pensavo a come delle volte quando non ti aspetti delle sorprese queste poi arrivano. Incredibile ho detto a voce alta, ha dieci anni più di me, ci deve pagare le rate a tanta gente, e Rosanna? La mamma ha detto Vieni seduto e così mi sono dimenticato di prendere i cucchiaini che lei ha fatto il gesto con la testa e con lo sguardo di dire Ci penso io lascia perdere questi cazzo di cucchiaini che qui succedono cose. E infatti ecco che mi ha raccontato la storia per come le era stata venduta. A Gabriele lo hanno licenziato perché era finito il lavoro, ma tutto questo a fine febbraio, mica adesso che siamo a giugno. No ho detto. Sì. La mamma ha continuato il racconto troncando la mia frase che era cominciata con E come.

Ha detto che all’inizio faceva finta che fosse tutto normale. Poi faceva finta di stare in ferie e lì si è insospettita la Rosanna. Alla fine ha ceduto e così che quella è pure incinta l’ha fatta svenire. Addirittura. Zitto che non è finita.

E invece era finita lì, solo che la mamma ha aggiunto un tot di particolari inutili ed un tot di altre supposizioni, ma la sostanza era quella.

Ciòdetto come diceva il professor Sgabrelli, ciòdetto il mio vicino di casa si è sentito come liberato, deduco io, e così adesso sta sempre in terrazza che fuma, beve, mangia, si gratta, controlla il cellulare. Parla poco, fortunatamente, ogni tanto dice Oh, altre voce dice Eh, impreca e quando impreca è buon segno che da dentro la finestra c’è bisogno urgente di lui e deve tornare dentro.

Io con Gabriele all’inizio dell’estate facevamo pure finta di non vederci in terrazza. Io entravo, alla luce del giorno che stava sopra il balcone annunciandomi quasi. Un colpo di tosse tipo. Aspettavo così che magari lui se era lì e puntava lo sguardo verso la mia ipotetica direzione avesse tutto il tempo di girarsi da un’altra parte. Così io uscivo e quando ce lo beccavo, molto spesso, notavo con la coda dell’occhio che aveva capito il mio segnale. Le prime volte però, erano drammatiche. Tipo io entravo in terrazza strizzando gli occhi per il tanto sole che stava sopra il mare e lui era fermo come quei cani che li becchi proprio in mezzo alla strada e non sanno dove buttarsi, però tu non puoi frenare ormai e manco sterzare senza far danni, sicché lo salutavo, e lui mi salutava. Tutto apposto? Ed era sempre tutto apposto, poi strisciava le ciabatte fino a dentro casa.

All’inizio, dopo la sorpresa, il fatto che quando entravo in scena io faceva sì che non ce n’era per nessuno, mi ha dato una certa importanza. Mi bastava un colpo di tosse per farlo cacciare via e rintanare dentro, quel topo gigante. Avete paura del suono del padrone eh? Timore mio. È stata una sorpresa pure questa che mi ha dato nuova stima in me stesso. Rinnovata fiducia come dice il ct.

Poi però, a fine mese, la musica è cambiata. L’Italia l’avevano rimandata a casa con tre gol e, peggio, io tossivo ma lui non se ne andava. Sarà il casino in strada, la televisione, non lo so. Sembrava non sentire. E io mi interrogavo e così mi rigiravo per la terrazza senza incrociare il suo sguardo. Come dicevo prima ho iniziato a prendere il sole sulla nuca più che in faccia perché mi toccava guardare la palestra invece del mare. Facevo dei sospiri profondi e mi mordevo la lingua quando ero in terrazza perché tanto se mi giravo come volevo mettermi avrei trovato lui coi gomiti sulla ringhiera. Alla fine la rabbia è diventata insostenibile, ho detto ora basta a bassa voce e poi ho detto Oh vediamo, a voce alta mentre mi alzavo rumorosamente per mettermi nella posizione che preferivo. Mi sono voltato e Gabriele stava nella sua solita posa coi gomiti poggiati alla ringhiera, la schiena curva, i calzoncini corti, e poi aveva un piede in una ciabatta, un’altra ciabatta a terra ma senza piede dentro perché con il collo del destro si stava grattando il polpaccio sinistro. Quando mi ha sentito far rumore con le sedie si è girato per guardarmi. Oh – ha detto – e pigliate qualcosa per la tosse. E poi è rientrato.

Sono rimasto impietrito sulla sdraio. Ho iniziato a sudare.

Simone

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di Franco Buffoni

Dalle cronache dei giorni scorsi ho appreso che a Roma il 21enne Simone si è ucciso gettandosi dal tetto dell’ex pastificio Pantanella in via Casilina perché omosessuale.

“La vita piena e serena di Simone, i suoi impegni, i suoi sogni, il suo essere grato a tutte le persone, il suo obiettivo di diventare un bravo infermiere per aiutare gli altri…”: sono le parole con cui Don Lorenzo, che lo conosceva bene, inizia l’omelia nella chiesa di San Giustino di viale Alessandrino, accanto alla sua bara insieme a Don Giulio, Don Silvano e padre Gianni. Anche Don Giulio, Don Silvano e padre Gianni conoscevano bene Simone e i suoi famigliari, molto assidui in parrocchia.

Due poesie di Oskar Pastior

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 [Due preziose traduzioni dal tedesco del grande Pastior, ancora poco conosciuto in Italia. Grazie al sito Poetarumsilva che le ha ospitate e, ovviamente, alla traduttrice. a. i.]

Traduzione e nota di Anna Maria Curci

RESA DEI CONTI

La statua della vaghezza si nutre di paradossi salmistrati.
Gli addetti al sipario della parola lo calano sul banchetto della vergogna
nel quale sono beoni a fare da magnaccia.

Personaggi Precari 2013: Bau Seven

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PersonaggiPrecari 300 di Vanni Santoni

Giorgia
Tutto maggio tra pelucchi e smog sotto un sole bianco postnucleare gli occhi arrossati la tosse secca in piazza Indipendenza Giorgia legge.




Samuele
Capisce di essere, per così dire, arrivato, un giorno in cui si scopre a scaldare il caffè in padella per non sbattersi a lavare una tazza.


Alessia
– Perché è rotto? Perché gli amici del babbo sono degli stupidi, stupidi, stupidi pezzi di merda.
– Di cane?
– Ecco, sì, bravo, bravissimo: di uno stupido, stupido, stupido cane.




Laura
Assomiglia pur sempre a una persona davvero molto famosa.

A scuola dell’insignificanza

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rizzante

In chiusura della manifestazione, Portici di Carta- Ottobre nelle librerie , che ha visto coinvolte ben sessantadue librerie torinesi indipendenti, e della settimana dei traduttori  con la presenza, tra gli altri, di Maria Nicola, Antonietta Pastore, Anna Nadotti, Isabella Amico di Meane, Enrico Ganni, giovedì 31 ottobre sarà la volta di Massimo Rizzante per un doppio incontro, come poeta e come traduttore. Su “Scuola di calore” di cui è possibile leggere alcune delle poesie su Nazione Indiana, ha scritto Giuseppe Montesano: “ha il tono inconfondibile dello scrivere quando è in viaggio verso l’essenziale”.

 

Alle 18,30 Presentazione di
Scuola di calore
di Massimo Rizzante
con l’autore Francesco Forlani
letture a cura di Alessandra Terni

 

 

Libreria Il Ponte sulla Dora
VIA PISA 46 10153 TORINO
+39 011 1992 31 77

insignificanzakundera

«Solo dall’alto dell’infinito buonumore puoi osservare sotto di te l’eterna stupidità degli uomini e riderne ».

Alle 21 presentazione di
La festa dell’insignificanza
di Milan Kundera
Massimo Rizzante (traduttore dell’opera)
presenta l’ultimo romanzo di Milan Kundera

Il lavoro, il carcere, la Coca-Cola

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di Dr.Fabio Dito (Stopopg Campania) e Mario Schiavone

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Un’ora di lavoro fra alcune mura delle carceri italiane frutta un compenso: vale meno del costo di due bottigline di cocacola pet da mezzo litro.

Giovanni lavora da parecchi anni negli istituti penitenziari. Per non perdere traccia di quel che fa, scrive alcuni appunti: annota su foglietti ciò che lo colpisce di più. Quei piccoli appunti lo portano ad osservare da vicino quanto accade oggi all’interno delle Carceri e degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari. La contraddizione è così forte che gli viene in mente Freud.

Editor e autori (non il solito pippone)

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(L’intrepido Lucio Angelini ha letto Publisher di Alice Di Stefano, editor con cui in passato ha avuto contatti professionali. Ecco la recensione – JR)

Basta con gli autori! che siano gli editor d’ora in poi a firmare i libri! – Flavio Santi in Diamo tutto il potere agli editor

di Lucio Angelini

A) Lette le prime 50 pagine di “Publisher“, il libro in cui Alice Di Stefano racconta suo marito Elido Fazi. Riassumo: Alice, già abituata a frequenti (quanto astrusi) cambi di partner (il solito barista, chauffer o al massimo skipper) viene invitata niente popò di meno che da Elido Fazi, editore conosciuto allo Strega, a raggiungerlo in India. Lei gli fa presente di non potersi permettere il biglietto e lui le manda un SMS con l’indirizzo dell’agenzia in cui ritirarlo aggratis. Alice esegue “in puro Cenerentola style” e i due scorrazzano per l’India (nell’incipit finanche in un atollo delle Maldive). In linea di massima fanno cose normalissime, a parte una cacata di Elido in un vaso prezioso in una suggestiva dimora-albergo (quando scappa, scappa!). Alice scopre piccoli episodi di tirchieria di Elido con i ragazzi dei tuc tuc (magari dopo aver pagato conti per migliaia di dollari in hotel e ristoranti per turisti), ma è soddisfatta delle scopate con lui (fra cui una nel deserto, tra rumorosi ventilatori a pale). Che dire? Alice non è Chatwin, forse nemmeno Francesca Pascale, ma vi informerò sul senso del libro nelle puntate successive, ammesso che lo trovi.

B) Terminato a fatica “Publisher”, il libro in cui Alice Di Stefano cerca di trasformare il marito editore in un personaggio romanzesco di grande spessore (in effetti nelle ultime pagine si ammette che un po’ di pancetta post-matrimoniale a Elido è spuntata), ricostruendone infanzia marchigiana, adolescenza, giovinezza, maturità e incipiente senescenza con fin troppi dettagli (solo quelli dei cibi ingurgitati dalla coppia occupano un buon quinto del libro). Accanto al ritratto di Elido, vengono tratteggiate anche le figure di vari personaggi di contorno, tra cui quelle degli amici del cuore di Elido. Particolarmente detestabile e tediosa risulta, fra tutte, la figura di Valentino Zeichen. Alice non scrive male, ma come editor si è lasciata sfuggire un “gli” al posto di “le” (pag. 94) (“lui gli [ad Alice] aveva detto”), l’espressione “ricerca di cineserie” nel corso di un viaggio in Giappone (p.137) e altre imprecisioni.

Spesso si ha la sensazione di essere capitati nelle “Pagine promozionali e celebrative” di Wikipedia, da cui cito:

Esempio di pagina promozionale o celebrativa
“Sigismondo Barillacqua della Verdesca (Castiglion della Pescaia, 25 dicembre 1985) è un cuoco di Canicattì. Dopo il diploma in ragioneria si iscrive alla facoltà di biologia marina dell’università di Reykjavík, senza terminare gli studi. Sposato con la signora Marinella Fontanabuona de Rimboldi, fra le sue passioni vi sono il curling e la lippa. Da bambino sognava di diventare astronauta, ma ora il suo più grande desiderio è quello di fare lo scrittore di manuali di elettrotecnica.”
Cosa c’è di sbagliato in questo testo?
Ovviamente nulla di personale contro l’esimio signor Barillacqua, ma è evidente che questa pagina non può rivestire alcun particolare interesse né utilità per un’enciclopedia come Wikipedia. Il tono di per sé è formalmente corretto e non presenta promozioni evidenti, ma è l’esistenza della voce stessa a essere promozionale: non indicando alcuna attività degna di nota svolta dal personaggio e non specificando perciò per quale motivo egli dovrebbe avere una voce tutta per sé.”

In PUBLISHER vengono rievocati eventi editoriali come la pubblicazione del seminale “Cento colpi di spazzola”:

“Con la scelta di pubblicare il diario di una sedicenne in cerca di sé (.) il Publisher aveva fatto bingo. Grazie a quel romanzetto cochon e a distanza di poco tempo dalla sua fondazione. la casa editrice aveva spiccato il volo scalando ogni classifica e vendendo più di un milione di copie nel giro di pochissimi mesi. In quel turbinio di emozioni difficile da gestire, l’ormai Publisher a pieno titolo aveva perso la testa e persino suo figlio, Thomas, aveva un po’ sbandato con la bella pensata di innamorarsi di Melissa”

e naturalmente il lancio dei noti romanzetti seriali sui vampiri.

È nel corso di una convention della GD (Grande Distribuzione) a Portofino che Alice, ormai promossa dal fido Elido editor-in-chief della Fazi, prende la parola. A tal proposito la Di Stefano non manca di ricordare che

“per accedere alla grande distribuzione occorre avere libri che vendono davvero. non per niente, gli unici autori invitati a Portofino sono tutti ex cantanti datisi all’autobiografia, attori, attrici, giornalisti TV, comici i cui brevi interventi durante la cena costituiscono degli sketch fenomenali e tuttavia pericolosi, visto che se sbagli una parola ti sei giocato tutto, altro che RAI. “

Quell’anno a presentare il frutto delle loro fatiche c’erano niente popò di meno che Geppi Cucciari e Nada. e per la parvenue Alice, quella mattina, era stato un po’ “come entrare a Cartoonia.”

Publisher e editor, nel romanzo, non tubano soltanto, ma litigano anche. Per esempio a p. 136 lui le dice:

“Tesoro, smettila di parlare a vanvera e dedicati all’unica cosa che sai fare”. Seguono propedeutici strofinamenti sui divanetti e scopata finale.
Epperò: “dopo quasi un anno di rapporti pluriquotidiani, triplette, terzetti e scambi di coppia, lui, già a settembre, le dice: ‘Ormai anche il sesso tra noi non va’.”

Come viaggiatori, sono mossi più che altro dalla ricerca di ristoranti e alberghi in cui spendere tantissimo ottenendo pochissimo.
Il capitolo più divertente è “Io sono Keats”, dove non è chi non convenga con Alice:

“Fazi si sente John Keats, artista visionario di cui dice di aver capito quasi tutto e di cui si reputa l’assoluta, perfetta incarnazione. In realtà, i due in comune hanno solo le umili origini. “

Ma l’autrice non si perita di trovargli un’attenuante:

“La passione per i versi era nata durante l’università, per contrasto con la facoltà scientifica prescelta e per riscattare forse il suo passato a Quintodecimo. Nei paeselli, da sempre, i versi rappresentano il simbolo di una vita agiata, trascorsa a non far niente, sempre seduti, al massimo con una penna in mano, esprimendo in solitudine il cosiddetto animo nobile. Comporre rime nel silenzio di una stanza anziché raccogliere pomodori sotto il sole era considerato il vertice cui aspirare fin da piccoli per evitare una vita altrimenti monotona e fastidiosa. Per un ragazzo cresciuto vicino all’orto, tra i grugniti dei maiali e le grida dei vicini, la poesia era la cosa più distante e perciò la più difficile da ottenere (dopo i soldi).” (169-170)

A pag. 184 c’è forse il passo che meglio tradisce le segrete molle comportamentali della Di Stefano:

“Alice da piccola giocava a Barbie reginetta del ballo in cui, per aspirare a diventare tale, bisognava mettere insieme vestito, fidanzato, anello e distintivo del circolo (il più difficile da ottenere, per ovvie ragioni di lobby) prima di poter tentare la fortuna ai dadi, fare centro ed essere incoronata unica e assoluta REGINETTA DEL BALLO. “,

cui fa eco, a pag. 240:

“All’università. era in una situazione che dire difficile era poco. Anche la scorciatoia suggerita da qualcuno, che le aveva consigliato di cedere alle avance dei professori per fare carriera più velocemente, non aveva un granché funzionato: pur avendola perseguita, e a volte anche con gusto, non si era mai ritrovata in cattedra per questo, smuovendo l’amore gli oceani ma non evidentemente la burocrazia.”

A pag. 294, dopo aver rivangato le trascorse pratiche amorose (per lo più con un “pubblico di manovali, facchini, idraulici, imbianchini, skipper e persino un pornodivo, icona a livello internazionale”), aggiunge:

“Da tempo, infatti, a torto o a ragione, Alice sosteneva di essere ‘la più grande filosofa del mondo’ nonché l’unica, infallibile ‘dea dell’amore’.

Gli ultimi due capitoli raccontano, appunto, la capitolazione di Elido di fronte a tanta dea [“Come ti chiedo in sposa”] e il ménage vero e proprio [“Fazi marito perfetto”].

P.S. Riguardo al senso complessivo del libro… be’, posso dire che esso è chiaro almeno per Elido: dopo il libro di Cesarina Vighy, madre di Alice, e quello di Melissa, morosa del figlio di Fazi, un libro della moglie ci stava.

Poiché ero l’albero più occidentale del giardino. Di fragilità e potenza, opera di Federico Gori

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federico_gori_02 di Francesca Matteoni

foto 1 di Martino Margheri

foto 2/3 di Bärbel Reinhard

 

L’albero che si stacca dalla terra è un albero morto. Nessuna fioritura dai suoi rami, nessuna acqua trattenuta nelle sue radici. Maestoso nel suo irrigidirsi e sfaldarsi fino al nulla. Davvero nulla? L’albero che non sente più la sete accenna il volo su una materia minerale che si imprime dei suoi rami, foglie, elementi vegetali che mutano al variare della luce e delle stagioni. Impronte, residui di sostanza viva, lente memorie. La memoria, come il tempo, non è mai intera. Si frange in noi, capaci di abitarne solo piccoli pezzi, reinventati nella prospettiva che cambia con l’esperienza o seguendo improvvise epifanie in cui il passato ci chiede di riconoscerlo presente. Si confondono l’effimero e il duraturo: la morte del gigante arboreo è la sua fragilità che nutre il paesaggio naturale a cui si riconsegna. La sua sospensione è la distanza necessaria affinché parli – non più abbeverato, sgorghi nella consapevolezza di chi osserva. Siano comprese le sue tracce.
Non un albero, ma un fiore appassito è il protagonista di una poesia che scrissi con tutto il fervore dei miei otto anni. Un fiore ha un passaggio breve nell’esistenza, lo dimentichiamo in fretta quando muore, lo gettiamo. Allora questo mi sembrò un difetto imperdonabile della vista, per cui si cercano le cose belle, ma di rado le apprezziamo fino in fondo – quando ci lasciano e, come tutto, liberamente muoiono. Era proprio, nella mia visione di bambina, la fine con la sua povertà, il suo ingrigirsi e avvizzirsi a dover sollecitare l’amore più intenso. Sentivo che solo così la bellezza è completa. Che la perdita è una parte struggente dello scoprirsi grati.

Mi apparve dunque come una specie di miracoloso fenomeno empatico leggere pochi anni dopo, tra le fiabe di Hans Christian Andersen, la storia di un fiore e di un bambino. A raccontarla è un angelo che, mentre conduce un bambino in paradiso, sosta tra le macerie di una casa lungamente abbandonata per salvare un fiore di campo, che non valeva più nulla e per questo era stato gettato. Nella casa era vissuto un altro bambino così malato da non poter mai uscire, la cui primavera si era tutta concentrata in quel fiore piantato in un vaso, poiché aveva le radici. Ogni anno rinasceva, facendo brillare la stanza e l’immaginazione del suo ospite. Il bambino era morto volgendosi al fiore.

L’angelo della fiaba sa tutte queste cose perché lui stesso è stato quel bambino: da un altrove ignoto ricorda e torna. Io, con la mia fede infantile e assoluta, ero certa che ci fosse una ricompensa per l’aver cura di ciò che è fragile e la ricompensa infatti venne, mantenendo una sorta di promessa, e fu il dolore. Bel guadagno, direte. Ma non giudicate troppo in fretta le parole, ripetetele come si affonda un seme nel terreno. Il dolore di morire per la prima volta: crescere. Seppellire i fiori dell’infanzia nella mia persona. Per coglierli ora devo imparare a scandire una memoria dopo l’altra. Nelle vene dei polsi percorrere gli steli ondulati, perché sboccino in un tempo diverso con la loro meraviglia minuscola, così facile da lacerare, da votare all’oblio dell’età adulta. La ricerca continua di quei fiori diventa la ricerca della felicità, l’ostinazione del bene niente affatto ingenuo: si affida ai desideri come al loro rovescio, si spinge verticale sulla vita – ne è responsabile – proietta un’ombra che la ripara. Si tende tra il sottosuolo e il cielo – si allunga, mette su strati di corteccia, si schianta impercettibilmente ad ogni cerchio, allarga le sue fronde. La pianta è quieta e paziente. Forse è, come nei versi di Margherita Guidacci, un albero esposto agli ultimi raggi solari che immergono il mondo nel crepuscolo.

Poiché ero l’albero più occidentale del giardino
Per ultimo mi scuotevo di dosso la fredda rugiada.
Nebbia e noia via dai miei rami lentamente strisciavano
E nessuno al mio risveglio applaudiva,
Ché i miei compagni erano da tempo gloriosi nella luce.

Ma la sera su me emigravano gli uccelli
Che l’ombra sgomentava da ogni altro verde asilo;
Lungo e dolce da me s’alzava il canto;
Avidi gli occhi degli uomini mi fissavano, mentre
Ero avvolto dal sole nell’amoroso addio
E brillavo come una torcia sul mondo spento.

_MG_2787a01 Ecco, la potenza dell’albero è la sua attesa. Il suo sfolgorare più vivido perché a lungo ha conosciuto l’oscurità e di nuovo sta per entrare nel buio notturno. In questo albero che si accende in procinto di sparire noi possiamo meglio distinguere l’umano, la soglia mortale che ne determina il valore. L’amore con cui la pianta si congeda dal giorno dei vivi viene da tutte le esistenze che in lei si sono assopite; dalle ombre che non hanno mai smesso di dialogare in noi, di solcarci, inciderci, non più con le loro vite concluse, ma con la nostra. Così tanto l’albero ha scosso la sua chioma nell’aria che infine, morto, si è alzato in un sogno tangibile a dispetto della gravità. Così tanto possiamo porre lo sguardo nel ricordo e nell’immaginazione da far sì che il tempo dismetta il suo inganno più antico, che ci vuole gradualmente separati in uno scorrere lineare, e riveli invece come il coraggio si sovrapponga alla sofferenza, come siano forti le frasi interiori di chi amiamo, non importa da dove provengono, da quale regione, corpo consumato in una fotografia.

Facciamo di nuovo attenzione all’opera, alle scritture impresse sul rame, in basso, dove stiamo. L’albero è scomparso, spezzato. Le linee che lo spezzano non sono i confini della morte, ma le ferite della nostra speranza, la gora dell’acqua che mai abbiamo cessato di versare, perché tornassero lo stelo e la corolla. Ogni lastra ha una sua altezza, reca un frammento simile agli altri eppure unico: ha una data, un nome, un gesto. La curva di una foglia è lo scodinzolio di un cane o la schiena del gatto, calati nel cimitero domestico di un orto. Questo intreccio di rami e germogli sono le dita di un compagno che prematuramente abbiamo dovuto ascoltare oltre il silenzio – abbiamo appreso a tenere con noi, mentre lo perdevamo. Un’amica. Un genitore. Un fratello. Dobbiamo fare fatica, ora, per guardarli. Non sono più come li volevamo. L’acqua che ci unisce ha l’amarezza del pianto, ma ogni lacrima ci alleggerisce, ci rende più umili, malleabili. Ogni lacrima scava la nostra natura fino al paese dove nessuno è dimenticato. Riemerge. Esile, ma tenace, voce di un coro. Per ognuno di noi ha un invito, una commovente fiducia, un timbro ineguagliato. Dice: non temere, gioisci. Anche se non ritorno, io resto. Accoglimi.

 

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Il testo è tratto dal catalogo dell’opera Di fragilità e potenza di Federico Gori (Gli Ori, 2013).

L’installazione, esposta sotto una quercia sospesa a Palazzo Strozzi nella primavera 2013 e ora in collocazione definitiva presso la sede di Vannucci Piante (Pistoia).

Ricerca di Poesia: Elio Pagliarani

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Il mondo orizzontale from Frenesi Gates on Vimeo.

A spiaggia non ci sono colori
da “La ballata di Rudi” (1995)”

A spiaggia non ci sono colori
la luce quando è intensa uguaglia
la sua assenza
perciò ogni presenza è smemorata e senza trauma
acquisita solitudine
Le parole hanno la sorte dei colori
disteso
sulla sabbia parla un altro
sulla sabbia supino con le mani
dietro la testa le parole vanno in alto
chi le insegue più
bocconi con le mani sotto il mento
le parole scendono rare
chi le collega più
sembra meglio ascoltare
in due
il tuo corpo e tu
ma il suono senza intervento è magma è mare
non ha senso ascoltare
Il mare è discreto il sole
non fa rumore
il mondo orizzontale è senza qualità
La sostanza
è sostanza indifferente
precede
la qualità disuguaglianza.

Testo – Elio Pagliarani

Video di Agnese Trocchi


Musica – Massimiliano Sacchi: Massimiliano Sacchi, elettronica; 
Cristiano Della Monica, percussioni; 
Lorenzo Niego, Didjeridoo; Francesco Banchini, clarinetto

Registrato a CasaCuma studio

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Gli orfani (appunti per un fantasy no-gender)

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di Davide Nota

 con illustrazioni di Diana Roman 

“Tutto ciò che sogniamo e che forse si realizza in un’altra dimensione è la sola strada frequentabile per tornare a noi stessi spolpati dell’irreale realtà. Ma quanto più sincera è una lettera menzognera rispetto a tutto ciò che un uomo è condizionato ad essere? Così ho deciso di erigere anch’io una galera da cui tentare l’evasione. Scaverò la mia minuscola finestra per indagare un cielo che all’aria aperta mi è impossibile vedere.”

 

Standard del fantasy re-innervati di ebbrezza creaturale e di resistenza alle definizioni di genere (sessuale o narrativo) fondano il canovaccio di 5 racconti inediti, post-apocalittici e anti-cattolici, misto di narrativa pop e tensione a una nuova spiritualità. Potete leggerli cliccando qui.

La storia di tuta la mia vita da quando io rigordo ch’ero un bambino

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di Tommaso Bordonaro

(Navarra Editore riporta in libreria “La Spartenza”, autobiografia di Tommaso Bordonaro narrata con un linguaggio che mescola dialetto siciliano, lingua inglese e italiana e nel quale l’autore capovolge in punto di forza e invenzione di lessico e metrica il semianalfabetismo delle sue radici. Rispetto alla prima edizione Einaudi nel 1991, che seguì di un anno il riconoscimento all’opera del Premio Pieve Santo Stefano, la nuova – sempre curata da Santo Lombino – è arricchita da alcuni materiali inediti, tra i quali una prefazione di Goffredo Fofi. A seguire un estratto. Le prime pagine del libro.)

Oh, honey it was paradise

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Lou Reed non è vero che Berlin è il tuo album migliore

Lou Reed non è vero che la droga aiuta a scrivere canzoni

Lou Reed non è vero che la droga aiuta ad ascoltare canzoni

Lou Reed non è vero che oltre alle canzoni scrivevi poesie

Lou Reed non è vero che Metal Machine Music non è un album da ascoltare sotto l’ombrellone

Lou Reed non è vero che la storia del rock si confonde con l’eternità del rumore

Lou Reed non è vero che sapevi essere triste come una rete metallica

Lou Reed non è vero che avevi una voce anomala e ammaliante

Lou Reed non è vero che hai nutrito le nostre più adolescenti malinconie

Lou Reed non è vero che sei morto

Ricerca di Poesia : Iosif Brodskij

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A URANIA

a I.K.

Tutto ha un limite, compresa la tristezza.
S’impiglia lo sguardo alla finestra, come alla palizzata
la foglia. Puoi versare acqua, scuotere chiavi.
Solitudine è l’uomo al quadrato. Il dromedario
così fiuta, ingobbendosi, il binario.
Si scosta il vuoto, come una portiera.
E cos’è poi lo spazio, in generale, io
dico? Assenza di corpo in ogni punto.
Per questo Urania è più vecchia di Clio.
Di giorno, e al lume di lumini ciechi,
vedi che non nasconde nulla: cerchi
di guardare il globo, e guardi una nuca.
Eccoli, i boschi pieni di mirtillo,
fiumi dove si pesca a mano lo storione,
una città che non ti annovera più
nell’elenco del telefono. E a sud
anzi a sud-ovest, ecco montagne brune,
e vagano nel càrice cavalli, prževali,
si fanno gialli i visi. Poi, più in là, corvette
navigano e si fa azzurro lo spazio,
come una biancheria con i merletti.

Iosif Brodskij, Poesie, Adelphi, Milano 1986 (traduzione di Giovanni Buttafava)

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s e n t i r e , v e d e r e

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di Giusi Drago
pelle di elefante

(Giusi Drago è già apparsa in Nazione Indiana, qui;
questa è una delle sue ultime scritture, a.s.
)

 

 

 

pochi i verbi per dire, delle cose che senti,
il fiato speciale, il tessuto

di tutte le cose che senti, i mutamenti

Lo stato terrorista 2

2

di Antonio Sparzani
0593 - ECHOS
Qui la prima puntata.
Notizia bomba di questi giorni sembra essere lo spionaggio USA sulle comunicazioni di tutti, in particolare dei governanti dei paesi loro cosiddetti ― per amore o per forza ― alleati, che quindi devono, di fronte alla pubblicazione inattesa delle notizie, mostrarsi indignati, la Bundeskanzlerin in prima linea, ben s’intende, come sempre. Eppure, verrebbe da dire, la cosa si sapeva da tempo, almeno dalla prima uscita di Snowden, e probabilmente da prima, guarda caso che perfino i nostri servizi (che nome ben scelto!) sembra dessero manforte.

Quando sento questo la mia prima reazione è quella cinica che prende ormai quasi tutti, ovvero le persone disincantate, quelle senza più incanto di niente, quelle per le quali tutto è oramai noto e scontato. Ma subito dopo mi prende invece un senso di scandalo, di vergogna, di dolore acerbo per l’appartenenza ad un paese inossidabilmente alleato di questa banda di cialtroni e arroganti delinquenti che costituiscono senza eccezione l’elite governante degli Stati Uniti d’America, casa bianca, pentagono, NSA e CIA.
Personalmente sono stato un anno negli USA, con una loro borsa di studio nei lontani anni ’70, trent’anni prima delle torri gemelle, ai tempi di Nixon e del Vietnam. La borsa durava 21 mesi, ma dopo 12 mesi ho deciso irrevocabilmente di troncare e di tornare in Italia: avevo visto abbastanza, non volevo perdere un giorno di più della mia vita in una terra così abbandonata da qualsiasi senso di umanità. In Italia (io sono tornato a settembre 1972) era presidente della repubblica Giovanni Leone e capo del governo Giulio Andreotti: delle meraviglie, al confronto, non ho dubbi.
Da allora la situazione umana degli Stati Uniti è andata continuamente peggiorando. Ridotti, a prezzo di violenze inaudite, ai minimi termini i legittimi abitanti nativi di quelle terre, esaurite, e soffocate nel sangue, le lotte operaie dei primi decenni del secolo, spentesi, dopo l’intervento della Guardia Nazionale che uccise quattro studenti alla Kent State University, Ohio, 1970, le pallide, ma foriere di speranze lotte studentesche, la molto determinata follia capitalista, in questa particolarmente virulenta varietà, ha preso senz’altro il sopravvento e procede a vele spiegate.
Adesso c’è il datagate, perché gli sciocchi si sono lasciati sfuggire un pesce non così piccolo che ha cominciato a raccontare cose. Ma, mi chiedo io, i governi alleati, oltre a scandalizzarsi, a protestare, a minacciare, cosa possono realmente fare? Come possono/possiamo controllare se davvero quelli smettono di intercettare, con quale sofisticata tecnica? Io non lo so. Sappiamo tutti bene che fidarsi della parola di un presidente, Obama poi peggio (ascoltatevi Noam Chomsky sull’argomento) di altri, è impensabile: dire la verità è fuori della mentalità statunitense, è una cosa che non esiste: se proprio occorre dire qualcosa, va detto esattamente quello che conviene. Magica parola conviene, parola che asciuga e protegge tante situazioni, parola che contiene un bel misto di giustificatoria leggerezza e di ammiccante complicità: stai attento, caro, non ti conviene! Lo sa bene l’Elettra di Sofocle quando si rivolge alla madre Clitennestra: « . . . so che faccio cose inopportune e a me non convenienti . . .» (Sof., El., 617-18).
I nostri ineffabili omologhi dicono che sotto il mare corrono 26 reti e nessuno è in grado di escludere che l’Italia sia stata oggetto di spionaggio ― il nostro paese è al centro del traffico tra 4 continenti. Ma non abbiamo elementi, così Emma Bonino, per sapere che i nostri siano stati intercettati. Come dire, certo che sì ma non ce ne siamo neppure accorti. Enrico Letta dice: «Non sono concepibili zone d’ombra tra alleati, quali siamo e intendiamo continuare ad essere
Ho qualche conseguenza da trarre da tutto questo: la prima e la più banale è che la tecnologia, che forse in sé non è né buona né cattiva, in mano ai cattivi è sempre cattiva.

La seconda, altrettanto ovvia, è che i trattati internazionali, le convenzioni unanimemente approvate, anche tra alleati, valgono finché valgono, cioè finché, ecco di nuovo il verbo fondamentale, convengono. Quando non convengono più, si rompono, senza tanti complimenti e nessuno può farci niente, salvo dichiarare guerra o, ammesso che ne abbia il potere, imporre ritorsioni commerciali.

La terza, connessa con la seconda, è che la legge fondamentale, quella che decide in ultimissima istanza, è sempre quella della forza, come tra i primati e tra gli animali in generale. Nulla di stupefacente, ma non facciamoci illusioni bizzarre.

La Cicciona

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di Romano A. Fiocchi

 

Guy de Maupassant, La Cicciona, traduzione e cura di Stefano Lanuzza, Stampa Alternativa – Nuovi Equilibri, 2013.

Il 6 luglio di centoventi anni fa moriva Guy de Maupassant. Moriva pazzo, causa la sifilide contratta da giovane, forse ereditata dal padre, forse trasmessagli dalle assidue frequentazioni di prostitute. Stampa Alternativa l’ha celebrato con un volumetto che non poteva uscire se non per i suoi tipi: La Cicciona, titolo originale Boule de suif, letteralmente Palla di sego, Palla di grasso, o anche Pallina, come suggerisce nella postfazione Stefano Lanuzza. È un libretto curioso, di cento pagine, con un opulento nudo di Renoir protagonista della copertina. Curioso e che incuriosisce a prima vista. Provate a leggerlo in metropolitana, su un tram o su un autobus e vi accorgerete di quante persone (soprattutto donne) notano il nudo in copertina, sbirciano il titolo e vi osservano cercando di carpire il contenuto. La Cicciona, specie in una società dove l’anoressia è la normalità, fa il suo effetto.

Lo farebbe ancora di più se si sapesse che la Cicciona è una prostituta e che tra i compagni di viaggio con cui sta fuggendo da Rouen, occupata dalle truppe prussiane, è il personaggio che più catalizza la benevolenza del lettore. Sì, una prostituta è meglio del conte de Bréville e signora, dell’industriale Carré-Lamadon e signora, del commerciante Loiseau e signora, ma anche del “rivoluzionario” Cornudet, idealista solo in apparenza, e delle due suore, pronte ad aiutare soldati contagiati dal vaiolo ma incapaci di riconoscere il bene in una prostituta. L’idea di rappresentare in pochi elementi caratteriali l’archetipo della borghesia francese dell’epoca (e non solo) è un’idea vincente, tanto che oltre all’adattamento cinematografico del 1945 di Christian-Jaque con una Micheline Presle affascinante e niente affatto boule de suif  – alcune sequenze si possono vedere qui qui -, personaggi e microcosmo psicologico del racconto tornano in uno dei più celebri film dell’epopea western: Ombre rosse di John Ford del 1939  – per chi non l’ha mai visto, o avendo una certa età ne ha un improvviso richiamo nostalgico, il lungometraggio completo in lingua originale è visionabile qui qui –.  Ombre rosse è a sua volta tratto dal racconto La diligenza per Lordsburg dello scrittore americano Ernest Haycox, che si rifà al racconto di Maupassant. Il finale del film è ovviamente adattato al pubblico dei western: la prostituta Dallas si riscatta andandosene a vivere con il bello e onesto fuorilegge – equivalente eroico di Cornudet – impersonato da John Wayne. Il perbenismo americano non avrebbe accettato una prostituta con il volto rigato dalle lacrime dell’umiliante irriconoscenza. Immagine invece, quest’ultima, che vela il personaggio di tenerezza sino a farlo più bello di quello che è.

Veniamo ora agli aspetti più letterari. La Cicciona è un racconto breve ma potente, scritto da un Maupassant di appena trent’anni. Pubblicato nel 1880 in un’antologia che rappresenta il manifesto del naturalismo (con racconti di Zola, Huysmans, Céard, Hennique, Alexis), riesce a coniugare la straordinaria capacità di osservazione con l’evocazione di sentimenti (e risentimenti) attraverso un linguaggio distaccato e realista, quasi anticipasse di settant’anni l’école du regard di Robbe-Grillet. Racconto simbolo, racconto considerato perfetto da Zola, “capolavoro destinato a durare” da Flaubert, La Cicciona è in sostanza un libro di denuncia: da un lato dell’assurdità della guerra, dall’altro della meschinità degli uomini ricchi o arricchiti, che pur essendo di condizioni sociali diverse si sentono – come scrive Maupassant – “affratellati dal denaro, membri della grande massoneria degli abbienti”.

C’è dell’altro. Tutto il libretto è attraversato da una sottile incessante ironia che non risparmia neppure i disturbi respiratori dell’albergatore: “I suoi polmoni, sibilando, esprimevano l’intera gamma dell’asma: dalle note gravi e profonde fino alle note acute dei galli giovani che provano a cantare”. Ma anche i nomi: dallo stesso albergatore, signor Follenvie ossia pazzo-nella-vita, al buffo Loiseau, in francese letteralmente “l’uccello”, ai nomi degli eroici e briganteschi reparti francesi che battono in ritirata: I Vendicatori della Disfatta, I Cittadini della Tomba, Gli Amici della Morte. È proprio da questi ultimi che prende inizio l’invettiva di Maupassant contro la guerra, contro le ambizioni di Badinguet – nomignolo di Napoleone III – e le vanaglorie del nuovo impero. Le prime dodici pagine sono una sorta di ouverture storica costruita con l’occhio acuto e sarcastico di un cronista di guerra (del resto Maupassant vi partecipò in prima persona). Sfilano allora i componenti di un’armata allo sbando che non dà affidamento neppure in chi la comanda: vecchi commercianti di stoffe e di granaglie, ex commercianti di grasso o di sapone a cui è stato conferito il grado di ufficiali solo per il loro denaro. Da questa moltitudine di personaggi sbiaditi, la patriottica Cicciona emerge come una delle poche figure vere e sincere.

Sono passati centotrentatré anni dall’impietosa fotografia scattata da Maupassant, eppure le cose non sono cambiate, così in Francia come in Italia e nel resto del mondo occidentale. Ecco perché se Ombre rosse resta soltanto una bella fiaba western, La Cicciona continua ad esercitare il suo fascino con la sua potente dose di attualità. Mettete un pulmino al posto della grande carrozza trainata da sei cavalli diretta a Dieppe, collocatela in una diversa zona di guerra al posto della Francia post Sedan, e vi renderete conto di quanto il racconto sia fresco e contemporaneo.

Stefano Lanuzza presenta un’ottima traduzione corredata di note particolareggiate e aggiornate (ad esempio il nomignolo Badinguet utilizzato anche per Sarkozy), talvolta persino eccessive (come le note esplicative sul mito di Tantalo e sull’alea iacta di Cesare).

Veste tipografica sempre originale, come è tipico delle edizioni Stampa Alternativa. Attenzione, nonostante tutto della Cicciona ci si può anche innamorare.

Note Movie : Lo sconosciuto del lago

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di Sophie Brunodet

L'inconnu_du_lac

Tutto ciò che conta è ciò che c’è

e tutto ciò che c’è  lo si mostra.

Di loro sappiamo i nomi:  Franck (Pierre de Ladonchamps), Michel  (Christophe Paou), Henri  (Patrick D’Assumcao), e conosciamo il posto che prendono sulla spiaggia accanto agli altri abitué , ma ignoriamo ogni altra informazione sul loro conto. Sappiamo solamente di una routine quotidiana sulle sponde di un lago isolato, incorniciato in un bosco, raggiungibile in automobile. Le macchine sono più o meno sempre le stesse e sempre parcheggiate con la stessa geometria al pari degli asciugamani stesi sul lido. Dal caldo del pieno giorno estivo all’imbrunire del tramonto, giorno dopo giorno, assistiamo all’andirivieni attraverso la boscaglia della popolazione single e gay di una non meglio precisata località francese. Sappiamo che ognuno arriva alla spiaggia da solo e che viene accolto dal muto, attento ed esplicito occhieggiare di chi lo ha preceduto. Sappiamo il rumore che fanno i passi sui sentieri e quello dei rami spezzati quando qualcuno si apparta per imboscarsi; il suono dello scivolare dell’acqua sui corpi che nuotano; il sibilo del vento tra le foglie; i gemiti di godimento degli uomini. Scopriamo corpi maschili senza veli né segreti né giudizi. Corpi nudi e amplessi omosessuali si susseguono talvolta di sfuggita tra le fronde, talaltra esplicitamente e in primo piano.

Non che non si fossero mai filmati erezioni, masturbazioni, penetrazioni anali, sesso orale ed eiaculazioni, ma è davvero raro trovarne così tante, così sincere e smaliziate in un film da festival. Non ci sono gusto della trasgressione, accuse o moralismi nel film di Alain Guiraudie Lo sconosciuto del lago, presentato questa primavera alla 66ª edizione del Festival di Cannes e vincitore del premio alla regia Un Certain Regard e della Queer Palm (premio inaugurato nel 2010 dedicato alle pellicole più artisticamente meritevoli e impegnate sulle questioni di genere). Per quanto sia a Cannes durante la proiezione del film sia in Italia nelle varie recensioni scritte si sia messo in moto il tormentone dello scandalo, con pubblico indignato che abbandona la sala o commenti che riducono il film a lungo-porno-metraggio-gay, in realtà Lo sconosciuto del lago è molto di più: è un genuino e coraggioso sguardo su un mondo relazionale e una dimensione del desiderio e della corporeità tutt’altro che marginali.

Va in scena il desiderio

La pellicola di Alain Guiraudie non è un hard, non è un film gay per gay, non mira allo scandalo. Certo, racconta del crusing all’aperto (incontri tra persone in cerca di avventure sessuali occasionali non a pagamento), i personaggi coinvolti negli incontri sessuali sono tutti omosessuali e il sesso è abbondante e tutto a scena aperta, ma la pellicola non si riduce a una grande abbuffata di sesso. Il film ruota piuttosto attorno al tema del desiderio incarnato. Il desiderio che anima, scuote e vive nella carne e nelle vene di chiunque è il vero protagonista.
Franck è un ragazzo semplice, timido e anche romantico, non per questo primo di voglie da sfogare. È un abitudinario del lago e del bosco e non ci mette molto tempo a notare e a perdere la testa per il bello nuovo arrivato, Michel, ovviamente già accompagnato, ma per niente avaro di sguardi languidi verso gli altri della spiaggia, in particolare proprio verso Franck. Franck è gentile e sensibile, volentieri saluta e scambia quattro chiacchiere quotidianamente con Henri, corpulento etero separato, che ha anche avuto una estemporanea esperienza omo in passato, ma che al momento è niente affatto interessato al sesso. Allo stesso tempo, Franck non perde d’occhio il bel Michel e, seppure scopre segreti violenti e terribili sul suo conto, in ogni caso non resiste all’attrazione per lui e alla possibilità di consumarla alacremente. In effetti, non sono né la paura né la morale a farlo dubitare, a un certo punto, del suo rapporto con quell’uomo, piuttosto è la mancanza del passaggio a un livello successivo della relazione, quello in cui si cena e ci si addormenta assieme, che lo porterà a nutrire dei dubbi sulla prosecuzione dell’avventura con Michel.

Insomma, eccitazione e avventura da un lato, dilemmi sentimentali quotidiani dall’altro, questo film è un bello spaccato sulla sensualità, sull’eros, sulla follia, sul romanticismo, sui dubbi e sulle contraddizioni che, per quanto ambientato in un ambiente specifico – quello degli incontri occasionali tra gay – , in realtà parla di tutti. Sfido chiunque ad affermare di non sapere niente delle  fantasiose traiettorie dell’eros. Non c’è bisogno di dirlo ad alta voce: questo ruolo se l’è assunto magistralmente il film per tutti, dando corpo, parola e immagine proprio a ciò che generalmente non si dice né si mostra, ma si vive. E si vive molto più spesso di quanto il senso comune o la politica siano disposti ad ammettere. Che se ne sia consapevoli o meno, che lo si riconosca o no, tutti siamo presi nelle maglie di un desiderio sanguigno, un desiderio che fa vibrare la carne dal profondo, un desiderio sempre vivificato e rilanciato proprio dalla sua proibizione, dalla sua condanna e dai pericoli che lo minacciano.
Si potrebbe dire che Lo sconosciuto del lago è un archetipo che sta per tutte le forme del desiderio condannato e vietato, ma che resiste alla sua soppressione, trovando sempre una via per manifestarsi al di là di ogni repressione, controllo o pericolo. Nel film di Guiraudie sono il sesso occasionale, all’aperto, non sempre protetto, e la passione amorosa, irrazionale, cieca, sorda e travolgente, ciò che, seppur ufficialmente castigato, trova in riva al lago il suo ambiente e nella pellicola cinematografica la sua rappresentazione. Nella vita di tutti i giorni questo circuito erotico di proibizione e di pericolo si presenta nelle più svariate occasioni e forme: come un’invincibile infatuazione per una persona socialmente malvista, per una irraggiungibile, per una già impegnata, dello stesso sesso, di molto più giovane o più vecchia.  Oppure la ritroviamo nel brivido di una notte finita a letto con uno sconosciuto della discoteca, di un rapporto sessuale consumato col proprio partner sugli scogli all’alba, nel petting fatto nel bagno del treno regionale a mezzogiorno, nei giochi erotici e fantasiosi vissuti segretamente nell’intimità della propria stanza, nei preservativi che talvolta, malgrado le buone intenzioni, rimangono intonsi nella confezione, nelle chattate spinte sui siti internet per single ecc.

Qualunque via abbia percorso la traiettoria del nostro desiderio, il punto è che nessuno può dirsi, con buona pace di pudici, bigotti e moralisti di tutti i luoghi e di tutti i tempi, estraneo alle dinamiche della carne, del desiderio, del mistero.
Con il suo film, dunque, Guiradie dà rappresentazione a qualcosa che riguarda la vita di chiunque e che troppo spesso viene taciuto e negato: mette in scena la fascinazione, anche romantica, del pericolo e mostra non solo corpi, ma anche pratiche dei corpi da sempre velate perché giudicate scandalose e perverse, o svelate in cotesti dichiaratamente scandalosi, di tratti di hard o di night club.

La naturalità del sesso

Ecco dunque il senso della Queer Palm vinta a Cannes da Lo sconosciuto del lago. Guiraudie ritrae, con una regia fine, pulita e diretta, senza filtri e ricami, la spontaneità del sesso, intrecciandola abilmente con la sensibilità e le fantasticherie romantiche proprie di chiunque sia preso nella spirale dell’innamoramento. Ciò di cui parla il regista francese sono una sessualità e un desiderio universali, niente affatto scandalosi o perversi, anzi: disinibiti perché naturali. E tale naturalità ricorre ampiamente in tutto il film, simbolizzata dalla esclusiva ambientazione bucolica data al film, quasi si trattasse di un eden terrestre situato da qualche parte in Francia; dal susseguirsi fisiologico di mezzogiorni e di tramonti in una quotidiana ciclicità temporale; dalla assenza di una colonna sonora, che rende lo spettatore partecipe alla scena, immergendolo nell’acqua del lago per una nuotata o facendolo rotolare dietro ai cespugli insieme ai protagonisti avvinghiati; dall’accostamento degli orgasmi delle coppie al cielo visto attraverso le foglie stando sdraiati al suolo; dalla schietta e smaliziata nudità dei corpi. In questo senso, proprio per quel che riguarda l’accostamento della natura e del sesso, l’opera di Guiraudie non è certo né una novità né un unicum.

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Solo per fare un esempio attualissimo si pensi alle immagini di Gian Paolo Barbieri, prestigioso fotografo milanese attualmente in mostra presso Photology con gli scatti censurati la scorsa primavera in occasione dell’esposizione a Palazzo Broggi di Milano del suo ultimo lavoro: Dark memories. Come già ha fatto Mapplethorpe – che con il suo fotografare gli organi sessuali delle piante, i fiori, naturalizza il sesso – , Barbieri ritrae fiori e corpi nella loro nuda materialità, nella loro naturale sensualità, nella loro spontanea eroticità allo stesso modo del regista francese con il suo sesso al lago. Non c’è traccia di volgarità, di squallore, di vergogna, di scandalo, di convenzione nella fisicità ripresa da questi artisti. Essi colgono e ci restituiscono la semplice, esuberante e disinibita espressività naturale dei corpi e dei sentimenti, mostrando ciò che generalmente si nega o si tiene nascosto come se si trattasse di peccato.

Meno noir e più queer.

Se tale è la portata comunicativa dell’impronta registica di Guiraudie, non altrettanto valida è la sceneggiatura del film. Come a dire che la trama e i suoi sviluppi non sono assolutamente all’altezza dell’atmosfera così abilmente intessuta dal regista con la scelta dei personaggi, delle inquadrature e dei suoni in presa diretta. Lo sconosciuto del lago si tinge di noir in maniera grottesca. La suspence fa sorridere e la surprise nasce e muore col primo assassinio. Quel che segue è banale e il finale ha un che di splatter decisamente deludente. Inoltre, per quanto sia apprezzabile la scelta di non contrapporre manichealmente eterosessualità e omosessualità come realtà opposte e rivali, allo stesso tempo, però, sarebbe stato interessante se se tutta la riflessione sul desiderio e sulla fisicità si fosse maggiormente tinta di queer. In effetti, se per un verso gli unici rappresentanti dell’eterosessualità, ovvero Henri e l’ispettore chiamato a indagare sull’omicidio – non considerando l’uomo che si aggira nel bosco in cerca di donne, senza alcuna speranza di trovarle – , siano personaggi disinvolti in quell’ambiente a loro poco usuale, che si limitano a esprimere un po’ di sconcerto per la promiscuità del lago, senza alcuna accusa, condanna o disagio particolari, riconoscendo così la legittimità del luogo e delle sue dinamiche; per un altro verso, il film non si emancipa pienamente dalla logica identitaria che vuole gruppi di appartenenza, accomunati da determinate caratteristiche, separati e contrapposti ad altri, logica ampiamente messa all’indice dalle queer theory . Mi riferisco alla scelta di rappresentare un ambiente puramente omosessuale, collocato sull’altra sponda del lago rispetto a quella frequentata dalle famiglie etero; al legame tra prestanza fisica e carica sessuale: l’unico sessualmente non attivo è l’unico flaccido della spiaggia, Henri – a dire il vero, anche il voyerista onanista è corpulento, ma il suo ruolo è quello dello sfigato, ovvero di essere colui che desidera gli altri piuttosto che di essere oggetto desiderato, di essere quello che soddisfa gli altri piuttosto che di essere soddisfatto – . Così facendo, Guiraudie riproduce e mantiene dei confini tutt’altro che naturali e necessari in una pellicola che in realtà vuole parlare e mostrare qualcosa di propriamente e universalmente umano, e non di qualcuno solamente.
Un film da vedere dunque – anche se forse non da rivedere – con spirito curioso, libero e sereno. Un film che andava fatto e che si potrebbe rifare anche meglio.

 

L’Italia e la sua ignoranza senza grida ( note in margine al rapporto PIAAC 2013)

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Di Giorgio Mascitelli

Nei primi giorni di ottobre sono stati resi noti i risultati dell’indagine PIAAC promossa dall’OCSE in 24 paesi sul grado di competenze linguistiche (literacy) e matematiche (numeracy) degli adulti compresi tra i 16 e i 65 anni. Si tratta di un’indagine che mi sembra significativa e seria a differenza di altre pure salite agli onori della cronaca, ma chiaramente costruite ad hoc per dimostrare certe tesi,  per la trasparenza metodologica, per lo sforzo di avere un campione statistico abbastanza ampio e per la scelta abbastanza oggettiva delle informazioni da ricercare.

Proprio in ragione di questa serietà, vorrei lasciare da parte tutto il tormentone mediatico sull’Italia ultima in classifica, sul fatto che facciamo schifo, che nessuno investirebbe da noi, che gli svedesi sono molto meglio di noi: diciamo che può essere tutto vero, ma non capisco a che cosa serva ripeterlo per di più con toni isterici come quelli usati generalmente dalla stampa. Tra l’altro il dato nuovo di questa ricerca non è la posizione dell’Italia, che era tale anche nelle indagini precedenti, ma che il divario con la media internazionale è diminuito. Non è però un effetto di una politica attuale, ma di un elemento demografico: statisticamente escono dal campione le classi scolarizzate negli anni precedenti alla scolarità di massa, che in Italia a livello di scuole superiori data dagli anni settanta. In realtà anche su questo piano c’è un elemento negativo e cioè, che le classi di età più giovani non migliorano rispetto a quelle immediatamente precedenti. In altri termini le generazioni nate negli anni sessanta, settanta e ottanta registrano un costante miglioramento rispetto a quelle immediatamente precedenti e tale tendenza si arresta con le generazioni degli anni novanta.

Molti dei dati naturalmente rientrano nelle attese: per esempio i laureati hanno generalmente i risultati migliori ( ma in Italia essi sono il 12% del campione, mentre la media internazionale è del 29%) e non vi sono sostanziali differenze tra i sessi. Vi sono alcuni dati invece più interessanti e cioè che l’Italia ha il record di lavoratori sottoqualificati, ossia di lavoratori che occupano una posizione più alta del loro titolo di studi, e che l’Italia è il paese con il più alto numero di lavoratori che nel loro lavoro non hanno particolare bisogno di quelle competenze di literacy e numeracy, indagate dall’indagine.

Questi dati sembrano indicare un paese in ritardo storico, che per un certo periodo è riuscito a colmare la distanza con i paesi più avanzati e ora sembra fermarsi. Questo succede perché la struttura economica e sociale non offre quelle occasioni di crescita successiva alla scuola che sono necessarie a mantenere e sviluppare le conoscenze acquisite negli studi. In definitiva questi dati sono il sintomo e nel contempo una delle cause della progressiva collocazione al ribasso del nostro paese nella divisione internazionale del lavoro.

Se, come ricordano gli autori del rapporto italiano ( del quale è curatrice per l’Isfol Gabriella Di Francesco e scaricabile al sito www.isfol.it/primo-piano/i-dati-dellindagine-isfol-piaac), i fattori di riuscita individuale sono in ordine di rilievo il livello di studi individuali, quelli della famiglia di origine e infine i fattori relativi al lavoro e alle attività svolte, oltre all’età, possiamo dedurre l’immagine di un paese  che sconta un ritardo nello sviluppo di una piena scolarità e ha un apparato economico piuttosto tradizionale, in cui il lavoro serve meno di frequente da stimolo per mantenere attive e sviluppare le competenze acquisite. In questo senso è indicativo il fatto che solo il 58% degli intervistati abbia accettato di svolgere le prove con il computer a fronte di una media internazionale del 77%. Un dato apparentemente strano spiega a mio avviso ancora meglio questa dinamica: i risultati divisi per macroregioni ( Nord Ovest, Nord Est, Centro, Sud, Isole) presentano la solita divaricazione di ogni statistica tra regioni povere e ricche, o forse sarebbe meglio dire più e meno povere, con il Centronord in posizioni migliori, salvo il Nordovest.

Il Nordovest è caratterizzato da una curiosa schizofrenia: i laureati del Nordovest sono i migliori d’Italia nella literacy prossimi alla rispettiva media internazionale, mentre coloro che occupano il segmento basso, scuola dell’obbligo e meno, sono sulle stesse posizioni del Sud, molto lontani dalla media internazionale. Questa divergenza è un chiaro riflesso della duplicità del mondo produttivo, dove esistono realtà urbane in cui si concentra quel poco di economia della conoscenza che c’è, e una provincia magari anche ricca, perlomeno negli anni passati, ma concentrata esclusivamente su attività poco avanzate. E’ quel mondo, alquanto dominante in Italia a dispetto delle sue autorappresentazioni, che ha fatto dire a un suo esponente politico, qualche anno fa,  che con la cultura non si mangia.

In generale mi sembra che questa indagine confermi che il capitale culturale ereditato, per dirla alla Bourdieu, ha un ruolo importante nelle formazione di una persona e che accanto a esso giochi un ruolo quello che si potrebbe chiamare il capitale culturale sociale, ossia l’insieme di occasioni di formazione che una società offre: ovviamente quanto più è significativo questo secondo tipo di capitale tanto meno conta il primo.  Le politiche che dovrebbero favorire questo sviluppo naturalmente passano per un rafforzamento dell’istruzione pubblica e per l’incentivazione di un’economia della conoscenza, che non significa soltanto settori all’avanguardia tecnologica, ma anche interventi consapevoli in settori come turismo, alimentare ecc. Se dico che nutro fiducia nelle capacità delle nostre classi dirigenti economiche e politiche di avviare tali percorsi, è solo perché penso che un momento di ilarità tra cose tanto cupe dia un po’ di riposo al lettore.

Quand’anche esistesse una classe dirigente più capace, non sarebbe molto semplice avviare  politiche del genere perché il taglio della spesa pubblica e il clima di conflittualità sociale che ne nasce rende quasi impossibile un intervento sistematico e stabile nel tempo. Che poi questo taglio sia imposto da quelle organizzazioni internazionali del capitalismo, delle quali fa parte a pieno titolo l’OCSE, che da un lato indicano i mali e dall’altro contribuiscono a togliere i mezzi per curarli, è l’effetto ironico di un posizionamento politico-mediatico del quale, temo, non avremo molto tempo né voglia di ridere nel futuro.

Gisèle Freund, un’intervista

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di Danilo De Marco

(il testo e le fotografie che seguono sono tratte dal volume Noi che siamo così poveri nel dire, Forum Editrice, che sarà presentato il 25 ottobre a Udine: per i dettagli si veda sotto)

001-Gisele-Freund501-copyLa prima volta che chiamai al telefono Gisèle Freund, mi rispose una voce di donna dalla tonalità bassa e rauca: «Mi dispiace, ma Madame Freund non è in casa, è in viaggio e non saprei proprio quando sarà di ritorno. Provi più avanti: magari fra un paio di mesi». La stessa voce bassa e rauca mi rispose due mesi dopo. «Madame Freund è in viaggio, provi fra due mesi». Allora, con discreta insistenza, spiegando il motivo della mia possibile visita, domandai quando e come poter parlare con lei. Qualche attimo di silenzio, poi la voce disse: «È fortunato, Madame Freund è rientrata proprio ora». Stupore: la voce che mi si presentava come Gisèle Freund, era la stessa di prima, bassa e rauca. Gisèle Freund si era fatta passare per la donna delle pulizie. Mi accordò un appuntamento a casa sua dicendomi: «Le posso concedere solo una mezz’oretta, sono molto molto occupata».

Il giorno fissato per l’appuntamento arrivai a casa sua puntualissimo, anzi un po’ in anticipo. Non volevo perdere un solo minuto di quell’incontro. Mi aprì un uomo alto, sulla quarantina, che poi scoprii essere Hans Joachim Neyer, direttore del museo d’arte contemporanea di Berlino.

Gisèle Freund era seduta ad un tavolo, selezionava fotografie e prendeva appunti: «Vede – mi disse ancora prima di salutare – sto preparando una mostra e ho molte cose da mettere in ordine». Poi senza lasciarmi quasi pronunciare una sola parola iniziò lei a tempestarmi di domande sul tipo di lavoro che svolgo, sul tipo di reportage che faccio, come me la cavo economicamente… Bene, mi sono detto, mentre Gisèle parlava, parlava… Il nostro incontro, e fu il primo di altri, durò sei ore.

D. Mi piacerebbe scavare nella sua memoria, ricordare con lei gli avvenimenti che in qualche modo le sono rimasti attaccati durante l’arco di tutta la sua lunga vita. Partire da quel suo primo viaggio, il primo di una lunga serie, impostole in quel giorno del 1933, quando da Francoforte salì su quel treno che l’avrebbe portata in Francia…

 R. Non potrò mai scordare quella notte del maggio del 1933: ogni particolare è impresso nella mia memoria e in tutto il fare che seguì poi nella mia vita. Stavo fuggendo e in fretta e furia dalla Germania dove dilagava il terrore. In quel giorno tutto era avvenuto rapidamente. La mattina incontrai un impiegato del comune che conoscevo appena. Mi venne vicino e sottovoce mi disse: «Parta subito. Questa notte vi arresteranno tutti».

Probabilmente conosceva l’esistenza di quel giornale a cui collaboravo e che stampavamo clandestinamente con il gruppo studentesco a cui appartenevo. Stava per uscire il numero sul quale denunciavamo il terrore in cui vivevano i professori dell’Università, e poi la storia della nostra compagna Anne. Due settimane dopo il suo arresto il suo corpo era stato consegnato ai genitori chiuso in una bara. Si era rifiutata sicuramente di parlare, di fare i nostri nomi. Io avevo fatto delle fotografie ai nostri compagni che erano stati picchiati ferocemente dai nazisti e il capo del nostro gruppo, Karl, mi disse che dovevo partire immediatamente e portare con me quelle foto per denunciare quello che stava accadendo in Germania.

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D. Fu facile uscire dalla Germania con quel materiale fotografico?

 R. Quando arrivai alla stazione ferroviaria ero terrorizzata. Ma sapevo che non dovevo darlo a vedere. Sarebbe stata la fine. In più avevo con me quelle pellicole e le SS controllavano ogni vagone, ogni persona. Perquisivano tutti. Entrarono nello scompartimento, presero il mio passaporto, mi guardarono e uno di loro mi domandò: «Lei è ebrea?». Ebbi il coraggio dell’incoscienza e la prontezza di rispondere energicamente e offesa: «Gisèle le sembra un nome ebreo?». Lo fissavo dritto negli occhi mentre il mio cuore impazziva… mi restituì il passaporto e richiuse la porta dietro di sé. Sapevo che la strada era ancora lunga fino alla frontiera e mentre questa si avvicinava pensavo al mio carico di pellicole: avevo una paura folle. Andai allora alla toilette e svuotai la macchina fotografica gettando più pellicole nel water. Il rullino più importante lo nascosi su di me. Alla frontiera guardarono dappertutto.

Aprirono la camera fotografica e quando stavano per perquisirmi, un attimo di esitazione e l’SS, richiamato dagli altri che camminavano lungo il corridoio del treno, uscì dallo scompartimento. Il treno stava ripartendo. Ebbi proprio una fortuna sfacciata. Ho imparato allora che nella vita, piccoli avvenimenti inaspettati che vanno per il verso giusto, interrompono o segnano tutto un destino. Se il treno avesse sostato ancora qualche minuto… Il treno invece si mosse – quante volte ho ringraziato quel macchinista di cui non ho mai visto il volto – e passammo la frontiera lentamente. Nello scompartimento c’era solo un altro viaggiatore che rimase silenzioso tutto il tempo. Accovacciato in un angolo, semicoperto da un pastrano e con un grande berretto. Sembrava non respirasse neppure. Quando passammo la frontiera mi guardò per la prima volta e sorrise. Questi, mi sono detta, sono i tratti di un volto che non dimenticherò mai.

Arrivai a Parigi alla Gare du Nord. Ero come svuotata ma felice. Non immaginavo certo che tutti i miei compagni erano già stati arrestati.

D. Parigi quindi: un mondo ancora libero dalle atrocità naziste, la possibilità di studiare e di vivere la giovinezza…

R. Sì. Ma non fu né facile né senza sofferenze. Mi iscrissi alla Sorbona per seguire i corsi di sociologia… ma a soldi era durissima. I miei genitori mi mandavano qualcosa per vie traverse. Quando e come potevano. Non bastava per sopravvivere. Mi appassionai alla letteratura. In quell’epoca a Parigi accadeva una cosa straordinaria; la coesistenza di scrittori così brillanti e di diverse generazioni tutti assieme. Cercai contatti con il mondo letterario e grazie al filosofo Bernard Groethuysen, che mi fu presentato dalla sua compagna Alix Guillain, mi fu possibile entrare in quel giro e frequentare quell’ambiente. Iniziai così ad incontrare Andrè Gide, Andrè Malraux, Paul Valéry, Henry Michaux. Nel frattempo ci fu l’incontro a Rue de L’Odeon con Adrienne Monnier e Sylvia Beach. È proprio frequentando le loro due librerie che conobbi molti dei miei futuri modelli. Poi a Montparnasse: alla Coupole e alla Rotonde feci conoscenza con i surrealisti che facevano gruppo attorno a Breton.

Ma intanto continuava la mia piccola vita. Alla Sorbona intanto avevo deciso che la mia tesi doveva essere sulla storia della fotografia del XIX secolo. Fotografando mi ero posta un mucchio di domande: e avevo capito che bisognava prima di tutto imparare a guardare per vedere. È così che incominciai a mettere in relazione fotografia e società dell’epoca. Ed ecco che frequentando le varie biblioteche, alla Nazionale feci l’incontro decisivo per tutti quelli che furono poi i miei futuri studi: Walter Benjamin.

D. E la fotografia? Era possibile guadagnarsi da vivere con quell’arte ritenuta ancora per molti di poca importanza sia giornalisticamente che artisticamente?

R. Giravo sempre accompagnata dalla mia macchina fotografica e dalla mia insaziabile curiosità. Fotografando mi si aprivano mondi che non conoscevo. Tutto era nuovo e affascinante per me. Ma certamente non potevo guadagnare a sufficienza per vivere: tutt’altro. Una sera, una di quelle sere autunnali dove la pioggia non smette mai, così frequente a Parigi, mentre stavo attraversando il Pont des Arts, vidi degli uomini che stavano trascinando a riva un grosso fagotto. Mi avvicinai e capii che quel fagotto non era altro che una ragazza annegata.

Ricorderò sempre le sue scarpe nere con il tacco altissimo, da cui scendeva l’acqua. Avevo con me la macchina fotografica e scattai. Me ne ritornai tristemente verso casa pensando a quella bella ragazza. Il giorno dopo un amico, che per pagarsi gli studi scriveva brevi articoli di cronaca, mi chiese le foto dicendomi: «Può darsi che il mio direttore le pubblichi». La sera ritornò tutto contento e mi diede un biglietto da dieci franchi dicendomi: «Il direttore ha detto che la foto è piuttosto brutta, ma la storia della bella annegata gli interessa».

Per me era un avvenimento: era la prima volta che guadagnavo del denaro con la fotografia. A dire il vero poi, nel tempo, l’immagine di quella ragazza riemerse così spesso nella mia memoria! Forse a causa di un senso di colpa per quella morte che mi aveva fatto guadagnare i primi soldi. Così iniziai veramente a fotografare: giravo per le vie dei quartieri facendo ritratti al calzolaio, alla figlia della lavandaia. Ricordo le foto che scattai al venditore di vini: la moglie infuriata e disgustata gettò via tutte le foto. Era in ogni caso difficile guadagnarsi il pane con il ritratto fotografico, e per di più come alcuni di noi giovani fotografi lo concepivano: realista. Per farsi pagare bisognava ritoccare tutte le imperfezioni, abbellire il modello, insomma. Ho sempre pensato che noi abbiamo un’idea psicologica di noi stessi e restiamo sempre delusi quando poi ci vediamo in fotografia: io stessa non mi sopporto. Fu così che mi avvicinai alle foto-reportage. Per me era l’unico modo per guadagnare qualcosa.

D. Il reportage appunto. Lei ha sempre sollevato il problema etico della fotografia.

R. È passato ormai molto tempo da quando discussi di questo con Cartier- Bresson. La realtà e la sua comprensione sono differenti per ogni persona e per ciascun giornale. Quando Cartier-Bresson ritornò dalla Cina, molti anni fa, tutti i giornali utilizzarono le sue foto contro la Cina. Proprio quello che lui non voleva. Quando nel ’36 fui mandata in Inghilterra dal direttore di «Life», dovevo fotografare le regioni in crisi del nord di quel Paese: operai disoccupati, villaggi fatiscenti, miseria. Nello stesso periodo ci fu il caso di Wally Simpson. Il re Edoardo di Inghilterra era innamorato di questa americana divorziata. Scoppiò lo scandalo. L’Inghilterra ancora vittoriana non poteva ammettere che si facesse di Mrs. Simpson una regina. Il re abdicò. Tutta l’America sisentì offesa. «Life» pubblicò il mio reportage con il titolo «Ciò che un inglese intende per Paese in crisi». Tra le mie foto di miseria e disperazione avevano inserito una doppia pagina con una foto della regina in abito bianco, circondata da ogni ben di Dio, i nipoti sulle ginocchia. La brutalità del contrasto rendeva sufficientemente. Mrs. Simpson da buona americana era vendicata, in barba al problema di milioni di poveri e del loro dramma.

Comprendemmo allora che non potevamo farci nulla, che lavoravamo per i giornali e che i giornali e i loro direttori avevano il potere di trasformare a loro piacimento il significato del nostro lavoro. È così che vedendo le nostre foto pubblicate sui giornali, alle volte ci capitava quasi di non riconoscerle. La verità è quella dell’impaginazione, della didascalia, delle forbici. Sceglierne una esattamente all’opposto di un’altra per indirizzare il lettore… mi è successo più di una volta.

Con un gesto furtivo ma ben visibile, estraggo la mia macchina fotografica dalla borsa, sapendo bene che Madame Freund non ama farsi fotografare. «Ma cosa fa. Ah la là non vorrà mica fotografarmi? Ho orrore di essere fotografata. E poi sono stanca e non mi sono neppure pettinata».

.  .  .

D. Ma ritorniamo per un momento ad un nome che prima le è quasi scivolato sommessamente sulle labbra. Il suo professore Walter Benjamin.

 R. All’epoca parlavamo di politica. Era quello che gli interessava maggiormente. Del lavoro che stava facendo su Baudelaire non diceva nulla. Tutto rimase solo a livello di note e appunti e fu completamente stupefatto quando a sua insaputa vennero pubblicate quelle note. Gli furono rubate. Un vero scandalo. Era molto preoccupato della sua situazione economica. Non aveva denaro. Alle volte neppure per mangiare. Incontrò Gide e altri scrittori del tempo che fece conoscere in Germania. Ma nessuno lo aiutò: mai. Quella gente là non si rendeva conto cosa significasse essere senza denaro, senza patria. Che cosa significasse essere un rifugiato politico. Non lo comprendevano proprio. E poi si allontanarono da lui anche perché il suo francese non era proprio così perfetto. Una situazione quasi disperata. Aveva solo un vestito: io lo vidi sempre con quello. Sempre più lucido, più malandato. Quando non aveva i soldi per mangiare rimaneva giorni interi a letto. Nessuno pubblicava i suoi articoli. Insomma a Parigi aveva pochissimi amici e nessun aiuto. Aveva una sola e misera entrata. E anche quella pagata a caro prezzo. Era l’altro tedesco, il suo amico, come si chiamava, mi aiuti… il mio professore di Francoforte…

D. Adorno?

R. Sì, è proprio lui. Adorno dirigeva assieme a Horkheimer l’Istituto per la ricerca sociale di New York e gli faceva inviare del denaro in cambio dei suoi articoli. Ma un giorno anche Adorno iniziò a criticare certi suoi pensieri. Ero presente quando Benjamin ricevette per lettera le critiche che gli muoveva: divenne rosso come un pomodoro. Mise delle settimane per rispondergli, ma finì con il cedere e accettare il taglio della parola. Era l’unica possibilità per sopravvivere.

Ho sempre pensato che Benjamin fosse comunista solo nella testa. Credo che fosse più una sorta di filosofo-scienziato. Quando mi leggeva i versi di Brecht, diceva: «Vedete, ha già un piede fuori dal Partito comunista. Uno che pensa non può gettarsi ciecamente nella gola del lupo». Infatti quando andò a Mosca non accettarono nulla di quello che aveva scritto. Ripartì completamente deluso e demoralizzato. Fu un’esperienza su cui ritornò più volte. Non poteva, non riusciva ad accettare.

D. Ma quel suicidio proprio nel momento in cui poteva salvarsi…

R. Benjamin aveva paura di tutto. Si spostava sempre con una capsula di cianuro in bocca. Erano momenti difficili. Si trasferì nel paese dove viveva sua sorella, vicino al confine italiano, e scoppiò la guerra. Fu immediatamente arrestato con molti altri tedeschi. Per i francesi untedesco era un tedesco; non importava se antifascista o meno. Io allora avevo già la nazionalità francese. Mi diedi molto da fare per riuscire a liberare Benjamin e gli altri intellettuali antifascisti. Quando uscì di prigione subito si preparò per partire. Fu invitato mille volte in Israele, ma rifiutò di andarci. Non negò mai di essere ebreo, ma affermò sempre con vigore di non essere religioso. E poi il sionismo: non voleva proprio averne a che fare.

In quel tempo furono dette e scritte cose ignominiose su di lui per questi rifiuti. Ma Monsieur le professeur fu sempre un uomo sano e sincero. Si sarebbe salvato se fosse partito per Israele. Invece rifiutò. Fu arrestato di nuovo e poi si suicidò.

.  .  .

D. Ma allora non è più possibile sognare e, attraverso il sogno, uscire dall’incubo? E la fotografia può aiutare in questo?

R. Io ho sempre avuto i piedi ben piantati sulla terra e, probabilmente per questo, sono riuscita ad arrivare agli ottant’anni e a fare molte cose. Certo il sogno ci è necessario, senza sogno è come vivere tutto il tempo con gli occhi spalancati come sono stata costretta a fare nella mia gioventù. Sì, bisogna necessariamente uscire da quell’incubo e sognare un mondo nuovo e migliore. Ma non bisogna dimenticare. La fotografia aveva e ha ancora il compito di sostenere la memoria. La fotografia è memoria.

Da qualche tempo non fotografo più, è troppo faticoso per me, proprio ora che stavo per diventare una fotografa celebre… ho mille idee per la testa, tante cose da fare. Oggi siamo assediati dalle immagini, ci fidiamo ciecamente e stupidamente delle immagini. Quanto lavoro ancora da fare: la fotografia, nuove tecnologie, sarà tutta un’altra cosa… e speriamo non diventi ancella della superficialità e del potere. Ma ho parlato e parlato. Lo sa come mi chiamava Monsieur le professeur all’epoca? ‘La piccola chiacchierona’. Monsieur le professeur mi amò molto, ma per me era il professore e poi mai mi sarebbe venuta l’idea… Trent’anni dopo rimasi molto colpita da un suo testo dove diceva di aver avuto molta simpatia e tenerezza per me.

«Ma è già molto tardi e non abbiamo pranzato. Viene con noi qui sotto al ristorante cinese?».

«Mi piacerebbe molto restare ancora con lei…», ma Gisèle mi interrompe e incalza: «Non mi dica che non vuole!».

«No, no anzi», aggiungo.

«So bene che è a corto di denaro come lo sono stati tutti i fotografi almeno una volta nella vita. È per questo che la invito».

E così pranzando in un piccolo ristorante cinese a Rue Daguerre, tra cibi laccati e tè profumato ricominciamo a parlare. O meglio Gisèle continua a raccontare. Il Messico: Siqueiros, Tina Modotti, Evita Peròn…

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[1989]

 

 

 

 

 

 

 

 

 

(“Noi che siamo così poveri nel dire”, che raccoglie vari scritti – e relative foto – di De Marco, sarà l’occasione venerdì 25 ottobre alle 19.30 presso la Comunità Nove nel parco di Sant’Osvaldo in via Pozzuolo 330 a Udine per un incontro con Federico Pirone, Paolo Medeossi e Danilo De Marco; le letture di Massimo Somaglino e Aida Talliente accompagnati da una videoproiezione curata da Andrea Trangoni, le voci e le musiche di Cristina Mauro, Stefano Montello, Daniele D’Agaro, David Cei, Mirko Cisilino Renzo Stefanutti e altri ancora…)