Home Blog Pagina 260

Radio Kapital: Sergio Bologna

1

banche_e_crisi_COP

 

Banche e crisi ( 2013, Derive Approdi)

dal petrolio al container

Prefazione

di

Sergio Bologna
Quando Marx inizia la collaborazione con la “New York Daily Tribune” è alle prese con la prima stesura di quel nucleo d’idee che sarà sviluppato nei tre libri de “Il Capitale”. E’ un magma incandescente che prende forma pian piano, alimentato più che dalle conoscenze e dalle riflessioni sedimentate negli anni precedenti, dalla realtà di tutti i giorni dell’innovazione capitalistica. Non sappiamo come definire questa coincidenza. Un caso o in realtà non si tratta di coincidenza ma di genesi? Marx si è costruito propri schemi di lettura ma la realtà superava la sua immaginazione e lo aiutava a perfezionare i suoi schemi, a renderli più sofisticati, più calzanti. Mi è sembrato utile, quando scrissi questo saggio qui ripubblicato, capire meglio cosa stava accadendo in quel momento nel mondo, alla metà dell’Ottocento, piuttosto di scavare nell’intimità del processo di pensiero di Marx. Era cominciata la seconda rivoluzione industriale, non era una cosa da nulla, si stava facendo il passo decisivo verso la creazione di un mercato mondiale. Si agiva su due piani: sul piano immateriale, con la moneta, con la finanza, e sul piano fisico, con le infrastrutture, con i mezzi di trasporto.

La forma ‘società per azioni’, le banche d’affari, nascono per realizzare queste infrastrutture fisiche, il Canale di Suez, le reti ferroviarie, i porti. Uno dei principali partner finanziari dei fratelli Péreire, grandi protagonisti degli articoli di Marx per la ”Tribune”, è quel De Ferrari a cui si deve il lascito che ha permesso di costruire il porto moderno di Genova. Uno dei principali partner finanziari di Lesseps, non a caso da lui nominato Vicepresidente della Compagnia del Canale di Suez, è quel barone Revoltella al quale si deve la prima impostazione “logistica” del porto di Trieste. Grazie a lui la prima nave che attraversa il Canale è una nave partita dal porto di Trieste e battezzata non a caso il “Primo”. Nel ricostruire la storia economica di quegli anni ero guidato da un gigante della storiografia, David S. Landes, autore di uno dei più bei libri di storia mai scritti, quel Bankers and Pashas che riacquista oggi grande attualità con il protagonismo finanziario degli emiri del Golfo. Ma non mi bastava conoscere meglio la storia che Marx aveva sotto gli occhi e quindi, con il senno del poi, scoprirne altri aspetti a lui rimasti oscuri o ignoti, avevo bisogno di capire meglio quel che stava sotto i miei occhi. Non era concepibile, e non lo è per me nemmeno oggi, prendere in mano un testo di Marx senza essere immediatamente attratti dalla curiosità di capire ciò che succede intorno a noi in modo da verificare fino a che punto funziona lo schema interpretativo che Marx ci offre. Perché funziona sempre, in maggior o minor misura.

piacentini

L’articolo su petrolio e mercato mondiale per i “Quaderni Piacentini” è parte integrante della lettura di Marx. Era stato preceduto da due altri articoli, sempre sui “Quaderni Piacentini”, riguardanti il Piano Chimico, un episodio non secondario della politica industriale italiana, quando ancora si faceva una politica industriale. Mi sembrava un esempio calzante di applicazione di quel concetto di “rivoluzione dall’alto” che Marx aveva cercato di definire negli scritti di quegli anni, nei Grundrisse e negli articoli per la “Tribune”. Coincidenza volle che nel ’73 scoppia la crisi petrolifera e allora quegli articoli mi appaiono in tutta la loro importanza. Altro che lavoretti per tirar su un po’ di soldi! Sono linee di lettura della realtà che permettono di capirla, di capire cosa ci sta sotto, né più né meno che “Le lotte di classe in Francia”, sono strumenti di una potenza interpretativa che regge benissimo anche oggi e che la ricerca storica successiva ha convalidato. Il fascino di quegli articoli sta anche nel semplice fatto di essere scritti da un tedesco allora non particolarmente famoso, costretto anzi all’esilio, per un giornale americano, come se il pensiero rivoluzionario fosse già in grado di avere un’estensione adeguata al mercato mondiale e i collegamenti tra gruppi e movimenti avessero già un campo d’azione intercontinentale. Le biografie di quelli che furono i primi “rivoluzionari di professione”, proletari come Weitling, sarto di mestiere, o di altri come lui, ci raccontano di uomini che si muovevano, per amore o per forza, da un paese all’altro. E questo orizzonte internazionale bisogna sempre tenerlo presente quando si legge Marx.

Non so quanto valgono oggi questi miei scritti del ‘73/’74, può darsi che siano da buttare nel cestino. Ma quello che sicuramente è ancora valido è il metodo che avevo seguito nell’avvicinarmi a quei temi: per leggere Marx occorre avere una forte tensione politica sul presente. Per leggere Marx occorre avere una forte partecipazione politica nelle lotte del presente, Marx non è roba per contemplativi, mistici e altre categorie affini. O per imbecilli (una quota non irrilevante di “marxisti” appartiene purtroppo a questa categoria). Per leggere Marx non occorre essere marxista, anzi è meglio non esserlo, occorre avere libertà di pensiero, tanta. Non avere pregiudizi, non avere schemi di pensiero predefiniti, non avere ideologie. Lui ti insegna a capire la ratio invisibile che sta dietro alle cose, non ha la pretesa di spiegartele. Ti prende semplicemente per il braccio e ti dice: “Vieni qua. Mettiti qua e alza gli occhi, guarda da questo angolo visuale”. Ti mette semplicemente nel punto giusto di osservazione e ti dice: “Da qui io vedo questo. E tu?” Non è prescrittivo, è maieutico.

altan-2
Io venivo dagli anni 60, dal maggio francese, dalle lotte dei tecnici, dagli scioperi selvaggi alla Fiat, e non avevo intenzione di tirare i remi in barca, volevo creare uno strumento di ricerca che contenesse, come programma, i valori espressi da quei movimenti di massa. Non volevo essere un intellettuale “organico”, ma volevo dimostrare di saper usare gli strumenti di lavoro degli intellettuali, in particolare gli utensili di uno dei mestieri cognitivi più belli e affascinanti, quello dello storico, per poterli usare in maniera diversa. “Militante” la chiamammo allora, Primo Moroni, Bruno Cartosio, Franco Mogni, Giancarlo Buonfino ed io, facendo sorridere di commiserazione gli storici accreditati e ancor più gli aspiranti tali. Così nasce la rivista “Primo Maggio”, il saggio su Marx appare, in forma ridotta, sul numero uno e apre un filone di ricerca che avrebbe fatto strada, quello sulla moneta. Lapo Berti, Andrea Battinelli, Franco Gori, Christian Marazzi, Marcello Messori, Serena Di Gaspare, Mario Zanzani ed altri raccolgono il testimone. Avevamo trent’anni, avessimo saputo che 35/40 anni dopo la finanziarizzazione avrebbe raggiunto il grado di mostruosità di oggi! Ancora una volta la realtà ha superato l’immaginazione. Noi a rivisitare con cautela Bretton Woods e quelli a preparare una bolla che vale undici volte il PIL mondiale! Siamo stati ingenui? Sì, ma alzi la mano chi è stato così “scafato” da capire tutto in anticipo.
Diciamo allora che questa riedizione di vecchi testi serve solo a far capire oggi quanto fossimo ingenui allora? Per questo sfizio valeva la pena mangiarsi i soldi per la stampa? Eh sì, perché non sono affatto convinto che fossimo tanto ingenui e sprovveduti e per dimostrarlo ho voluto inserire due testi scritti oggi. Parlano del presente, di cose che tutti hanno sotto gli occhi e tutti possono giudicare se il modo in cui le interpreto è così superficiale o ingenuo o “ideologico”. Non ho adottato un diverso schema di lettura da quello che mi è servito per lo shock petrolifero, non mi sono messo da un angolo visuale diverso. Certo, non ho alle spalle anni di lotte ma sei lustri di lavoro nel settore, perlomeno posso dire che parlo con un’esperienza personale sul gobbo, mentre di petrolio ne sapevo poco o niente oppure quel poco che mi capitava di sentire alle riunioni del Comitato di lotta dell’ENI o Collettivo della Snam Progetti (tra l’altro, se non ricordo male, fu grazie a questi compagni che potei accedere alla biblioteca aziendale dell’ENI dove trovai molti materiali indispensabili alla stesura del saggio, gli altri li trovai alla biblioteca dell’USIS di Milano). Ho scelto d’inserire questi due saggi, scritti ora, sullo shipping e sui porti perché parlano anch’essi di mercato mondiale (oggi chiamato ‘globalizzazione’), di mezzi di trasporto, di infrastrutture e di banche, parlano dell’ultimo capitolo di quella storia cominciata con i fratelli Péreire e così lucidamente analizzata da Marx. Allora c’era da tagliare l’istmo di Suez, oggi si allarga il canale di Panama, allora il compito di rastrellare capitali presso le corti e le cancellerie d’Europa era svolto da spregiudicati banchieri d’affari, oggi il compito di racimolare soldi presso piccoli risparmiatori e di spennarli con investimenti sbagliati è distribuito tra una miriade di società finanziarie protette dallo Stato. Su questi temi ho chiesto a Gian Enzo Duci, giovane Presidente degli Agenti marittimi genovesi e docente all’Università di Genova, di scrivere qualcosa anche in contraddittorio con le mie opinioni. Lui è uno del mestiere, che sta dentro le cose, un operatore, non un osservatore esterno come, malgrado tutto, sono io. Ma ha sempre dimostrato interesse per quello che scrivo, pronto a rimettere in discussione qualche sua opinione consolidata e io ho imparato parecchio da lui. Lo ringrazio di aver accettato.

Mi si può dire che dietro i miei scritti di allora c’era l’offensiva operaia, era quella che mi dava la credibilità. Mi si può dire: “il valore delle tue analisi non era dato dal metodo o dall’ispirazione marxista, bensì da una congiuntura di particolare contestazione del sistema capitalistico. Oggi chi lo contesta? Oggi dove sono le lotte operaie? Oggi dov’è la classe operaia? Proprio tu con i tuoi scritti sul postfordismo ci hai riempito la testa sul tramonto della classe operaia!”
Un momento. Sarà finita la classe operaia come soggetto politico importante, ma non la forza lavoro da cui estrarre qualcosa che avevamo chiamato plusvalore. E poi chi vi dice che la lotta operaia nelle sue forme tradizionali è estinta? Proprio lo sciopero dei portuali di Los Angeles del dicembre 2012, di cui parlo nel secondo dei due scritti, dovrebbe far riflettere, soprattutto per alcune sue modalità non meramente “difensive”. Dalla California l’agitazione nei porti americani si è estesa alla costa orientale ed è andata avanti per mesi. Il 28 marzo di quest’anno sono entrati in sciopero i portuali di Hong Kong ed hanno tenuto duro per un mese, accampandosi davanti ai terminal, così, senza una dirigenza sindacale, senza un comitato di lotta formalmente costituito. E se qualcuno avesse la pazienza di seguire le riviste di settore dei trasporti che informano settimanalmente o giornalmente su quanto succede nel mondo, si accorgerebbe che la conflittualità nei porti, negli aeroporti, sulle autostrade, sui traghetti, nelle piattaforme logistiche, è molto elevata, senza confronti con gli altri settori industriali o commerciali. In questo filone s’inseriscono anche i due scioperi generali, ben riusciti, indetti dai Cobas nei magazzini e nelle piattaforme della logistica in Italia nei primi mesi di quest’anno 2013. Non si tratta soltanto di “segnali” ma di una condizione strutturale propria di un settore dove lo sciopero, ancora, per ragioni tecnico-organizzative, può “far male” e dove la forza lavoro ha ancora un potere d’interdizione quasi intatto. Non è fantascienza dire che uno sciopero dei trasporti e della logistica bene congegnato, anche con poche forze, può mettere in ginocchio un paese nel giro di un paio di giorni.
Trasporti e logistica non li ho scoperti adesso o quando, espulso dall’Università, mi sono messo a fare il consulente. Erano già un tema all’ordine del giorno della rivista “Primo Maggio”, che nel 1978 pubblica un articolo sulla storia del container e nello stesso anno un intero Dossier sulle lotte nel settore dei trasporti di merce. Un secondo Dossier della rivista sarà dedicato alla moneta. Finanza e trasporti, i due filoni del discorso di Marx negli articoli per la ‘Tribune’, ci hanno dettato l’agenda.
Non c’è molto altro da dire. Spero con queste righe di aver dimostrato che i saggi qui pubblicati, benché i loro titoli possano far pensare il contrario, non sono scollegati tra loro, anzi, per certi versi sono interdipendenti. Il che non li rende migliori ma almeno fa capire benissimo l’autore da che parte sta. “Dalla parte del torto”, direbbe Piergiorgio Bellocchio, che con Grazia Cerchi ha fondato e diretto i “Quaderni Piacentini”, una splendida rivista, dove l’intellettualità italiana ha avuto, per un ventennio, modo di riscattarsi.

Albert Camus, une valse à trois temps. Milosz, Micromega e Berardinelli (secondo tempo)

12

-1

di Francesco Forlani

(la prima parte è qui )

Guardo la copertina e penso come abbiano fatto a pubblicarla senza incorrere nella censura dei non fumatori. A Sartre la sigaretta l’avevano tolta da un manifesto, in Francia, qualche tempo fa e a Camus sarà di certo successa la stessa cosa, in questi anni.  Et pourtant, ceci n’est pas une pipe, questo non è una pipa, per dirla con Magritte. Quanta intolleranza degli ex fumatori nei nostri confronti, simile a quella degli ex intellettuali di sinistra verso quelli che si ostinano a definirsi, ancora e malgrado tutto, tali!

Quando ho avuto notizia del numero 6 di Micromega, intitolato L’intellettuale e l’impegno, mi sono subito immaginato il fuoco di fila che avrebbe suscitato, l’impazienza compiaciuta con cui i soliti franchi tiratori, ex fumatori, si sarebbero sfregati le mani prima di imbracciare la penna e sistemare il mirino ad altezza bocca. Ne ero certo perchè la mia generazione, ovvero quella degli anni ottanta, nel suo autodafè linguistico, la prima parola che ha eliminato è stata proprio quella: impegno. Alla parola intellettuale ci avevano pensato quelli prima, molto prima.
A tal proposito vorrei riprendere un passaggio di un post scritto qualche tempo fa proprio su Nazione Indiana a proposito dell’incontro tra Albert Camus e Dino Buzzati.

L’unico ad aver colto l’anima di Albert Camus in una fulminante quanto appropriata descrizione è stato Dino Buzzati, quando raccontando (in Cronache terrestri) l’incontro con lo scrittore francese, lo descrive così:
“Grazie a Dio non aveva una testa da intellettuale, ma da sportivo, chiaro, da uomo del popolo, solido, ironico, con bonomia, in un certo senso un viso da garagista.”

che nella traduzione francese diventa:

“Grâce à Dieu, n’était pas celui d’un intellectuel pourri, mais plutôt celui d’un sportif, clair, populaire, solide, ironique et plein de bonhomie, peut-être: une tête de garagiste”

Cherchez l’erreur

Mi soffermo su un particolare, un dettaglio assolutamente non trascurabile. L’italiano intellettuale viene tradotto con intellectuel pourri (marcio), e mai come in questo caso il traduttore ha centrato in pieno il significato. Perché il significato che la parola intellettuale ha in italiano è proprio quello. Dire intellettuale a qualcuno, in Italia, equivale a dire ladro, anzi peggio, perché almeno un ladro se le sporca le mani! In Francia la parola intellectuel incute rispetto, trasmette un valore, e forse da un dettaglio del genere si possono spiegare tante cose sulla differenza tra noi e loro, sul fatto, per esempio che lì, Riforma e Rivoluzione ci sono state mentre da noi soltanto Controriforma e Restaurazione. Tanto per dire.

Questa premessa mi sembra necessaria per capire come e perché l’attenzione rivolta da una delle storiche riviste della sinistra italiana all’affaire non può che essere salutata con entusiasmo e insieme preoccupazione. Entusiasmo perché nella Novlingua contemporanea del nostro paese di queste parole non ne esiste nemmeno più la traccia, figurarsi allora le pratiche che le due sottintendono, intellettuale e impegno. O forse esistono e nessuno lo sa?

E preoccupazione perché in realtà sembra che quelle due parole si siano tramutate e fissate nella loro forma plurale: intellettuali e impegni, tantissimi tra un convegno e l’altro, un festival e un assegno di ricerca spesso scoperto. Preoccupazione perchè si ha come l’impressione che non solo ci si debba rivendicare come intellettuali ma che addirittura si debba ricordare l’impegno come se si potesse essere tali senza “onorare il debito” l’in – pegno che l’etimologia ricorda. In francese non cambia molto la cosa. Engagé significa mis en gage, dato in pegno appunto au mont-de-piété e qui vi risparmio la traduzione. L’impegno allora è un debito verso qualcuno, qualcosa e un altro motivo per cui vale la pena procurarsi questo numero è nell’identificazione di quel chi, di quel cosa, che di volta in volta ognuno degli interventi prova a mettere in chiaro.

Ho chiesto allora a Micromega l’autorizzazione a rendere disponibile l’editoriale di Paolo Flores d’Arcais  (dal link è possibile scaricare il pdf ) per i nostri lettori.  Editoriale che pur non condividendone alcuni passaggi mi è apparso illuminante. Nei commenti spero possa nascere una discussione, un dibattito, (ah il dibattito, surtout pas,  tradotto, per carità)  e insieme l’occasione anche  per me di spiegare perché abbia letto con grande interesse gli interventi  di Stuart Hall, La nascita della New Left, (magnificamente tradotto da Jamila Mascat), quello di Gianni Vattimo, di Carlo Freccero , Il creativo, intellettuale del futuro, Ermanno Rea L’intellettuale cittadino, Camilleri e Adriano Prosperi, Intellettuali o clown. Quest’ultimo lo cito anche perché, facendo di recente una ricerca proprio su Albert Camus di cui esiste un bel dossier con inediti dell‘intellettuale e un’intervista a sua figlia Catherine, a cura di Andrea Bianchi, sono incappato in una nota che Hannah Arendt scrisse proprio a proposito di Sartre e Camus.

S’intitola, L’esistenzialismo spiegato agli Americani (mia la traduzione dal francese)

(Nel 1946, Hannah Arendt (1906-1975) offre ai lettori del settimanale The Nationn la presentazione di una filosofia che fa furore oltre oceano: l’esistenzialismo francese. )

[] I filosofi diventano giornalisti, drammaturghi, romanzieri. Non si tratta di universitari, ma saltimbanchi che vivono negli alberghi e trascorrono il loro tempo nei caffè,  conducendo una vita a tal punto pubblica da rinunciare a qualsiasi privacy. [] Se la Resistenza non ha provocato la  rivoluzione in Europa, sembra avere innescato, almeno in Francia, una vera e propria ribellione intellettuale, il cui sottomettersi alle regole della società moderna è stato uno degli aspetti più tristi di quel triste spettacolo che ha offerto l’Europa tra le due guerre. [

per poi concludere, poco dopo, scrivendo:

Pour Camus, l’amour est une tentative maladroite et désespérée de briser l’isolement de l’individu. […] 

Per Camus, l’amore è un tentativo maldestro e disperato di infrangere l’isolamento dell’individuo.

 

 

 

 

Emergenza, raptus e delitto passionale

102

> Tavola rotonda sulla costruzione mediatica del femminicidio in Italia <

Domenica 22 settembre ore 10.30 presso la Sala Berti del Nuovo Cinema Nosadella a Bologna si svolgerà, nell’ambito del festival internazionale di cinema lesbico Some Prefer Cake, la tavola rotonda “Emergenza, raptus e delitto passionale” sulla questione, oggi più che mai attuale, della rappresentazione e costruzione mediatica del femminicidio sui media italiani.

Alla tavola rotonda, organizzata da Fuoricampo e Comunicattive, parteciperanno Elisa Coco di Comunicattive, Anna Pramstrahler e Cristina Karadole della Casa delle donne per non subire violenza di Bologna, curatrici del blog Femicidio, Barbara Spinelli dei Giuristi Democratici, Barbara Romagnoli della rete nazionale delle giornaliste unite libere autonome Gi.U.Li.A., Enrica Tullio e Chiara Rossini di Un altro genere di comunicazione e le attiviste del collettivo femminista e lesbico Quelle che non ci stanno.

Indypendentemente: Remy Gastambide

2

Su Repubblica di oggi, Vittorio Zucconi intitola il suo articolo: Vietnam, ultima missione, i reduci americani a caccia dei figli perduti. A quarantanni di distanza dagli accordi di pace di Parigi del 17 gennaio 1973 che di fatto posero fine all’intervento americano, va detto. Remy Gastambide, che presenteremo a Torino il 26 settembre prossimo, ha un’altra storia da raccontarci. effeffe

remy

Gli amerasiatici del Vietnam
Bui Doi- Polvere di Vita
di Remy Gastambide
traduzione di Chiara Lasagni

Mi chiamo Rémy Gastambide. Sono nato in Vietnam, durante la guerra, da una relazione tra un soldato afroamericano e una donna vietnamita, entrambi a me sconosciuti. Gli Amerasiatici sono i figli illegittimi nati durante la guerra americana in Vietnam (1965-1975). Chiamati dai Vietnamiti “bambini misti” (Con Lai) o, più comunemente, “polvere di vita” (Bui Doi)*, e dimenticati dai loro padri americani (se questi non erano già morti…),conducono un’esistenza assai dura, come paria della società vietnamita. Le loro madri vietnamite, per coloro che ne hanno ancora una, sovente si vergognano nei confronti dei propri compatrioti, capita che siano prese per “ragazze facili” o per ex-prostitute.
Gli illegittimi che hanno avuto la sfortuna di nascere neri soffrono ancora di più. Così come i loro padri di colore nelle forze armate statunitensi, essi sono vittime dell’odio razziale. Tutti sperano un giorno di poter andare negli Stati Uniti e di raggiungere quel padre da loro idealizzato: un sogno utopico di una vita migliore in questo paese che è stato così crudele nei confronti dei loro antenati d’Africa. Ma il paese dei sogni può diventare per loro un vero incubo.

remy bassa 2

Sono ritornato in Vietnam per la prima volta nel 1991. Ho potuto constatare il discredito di cui questi bambini, divenuti giovani adulti, sono fatti oggetto. Sento l’amarezza, la rabbia di questa indicibile angoscia. E capisco la loro “vergogna di vivere”. Ho voluto condurre questo saggio di ritratti fotografici nel quadro di uno spirito di compassione. Questo lavoro rappresenta la mia lotta contro l’oblio e il dolore; mi aiuta nella ricerca delle mie radici. Io mi sento il portavoce di questi Amerasiatici che mi vedono come “uno di loro”.
Noi Amerasiatici apparteniamo alla storia di questa guerra a causa della quale noi siamo nati. Noi siamo i veri perdenti di una guerra che né gli Americani né i Vietnamiti sono riusciti a vincere. Noi siamo divenuti una razza dentro la razza vietnamita, un gruppo etnico distinto ma senza coesione, un prolungamento di quel famoso melting-pot americano disperso nel sud-est asiatico.

* “Polvere di vita”: malgrado l’aspetto poetico di questa metafora, il suo impiego nel linguaggio parlato traduce il disprezzo e l’esclusione.

locandina  bassa remy

Su “Scuola di calore”

4

di Giuseppe Montesano

Fa caldo, e in un Paese abituate alla menzogna come a un cilicio, fa sempre più caldo di quanto dicano i rassicuranti telegiornali, e nel caldo sto leggendo libri di poesia chiedendomi se la poesia serva. Sfoglio, leggo, sonnecchio, sosto, mi sveglio, rileggo Scuola di calore di Massimo Rizzante, 108 pagine pubblicate da effigie, e mi rispondo che no, la poesia non è utile, è indispensabile.

I desideri e le masse. Una riflessione sul presente

0

[Invito alla lettura di un saggio importante di Guido Mazzoni, che è apparso oggi sul sito “Le parole e le cose”.]

I desideri e le masse.

*

Verso una letteratura generale? Riflessioni a margine del progetto Ex.it.

11

[Premetto che queste riflessioni nascono da un’adesione e una partecipazione all’incontro e al volume di cui si parla.]

di Andrea Inglese

Queste note non hanno come scopo di definire i contorni di un progetto ampio e ambizioso, come quello ideato da Marco Giovenale, Mariangela Guatteri, Giulio Marzaioli e Michele Zaffarano. Tale progetto ha un nome, Ex.it, e ha già preso consistenza attraverso tre giornate di incontri ad Albinea (12–14 aprile 2013) e un libro di 249 pagine, che raccoglie i “materiali” grafici, fotografici e testuali dei 33 autori coinvolti.

Il gusto pieno della vita

4

di Helena Janeczek

Domenica novembrina da queste parti. Una piccola risata cattiva non può far male

Due bambini belli e biondi, un cane di razza, una grande automobile, un tailleur con camicetta. Solo un dettaglio rivela che lo spot è molto vintage. Un cellulare preistorico pende dal collo della Donna Perfetta cui, estatico, l’intervistatore chiede di raccontare una giornata tipo.

Considerazioni calcistiche in margine ad avvenimenti storici recenti

4

Di Giorgio Mascitelli

Guardando una partita di calcio Italia Francia al televisore una dozzina di anni fa, un amico mi disse che bastava osservare la composizione delle due nazionali per capire come la società francese fosse aperta e cosmopolita e quella italiana chiusa e un po’ razzista. La squadra transalpina era infatti composta da giocatori di origine maghrebina, senegalese e antillana, mentre la nostra squadra presentava i soliti nomi e facce da italioti. Certo Balotelli era ancora un bambino e sui giornali progressisti ( italiani) si amava sottolineare questo aspetto melting pot dei giocatori francesi. Gli risposi, invece, che nella squadra francese vedevo il riflesso di una storia imperiale e colonialista che a casa nostra era esistita in maniera soltanto marginale. Lui forse ci rimase un po’ male, ma era chiaro che avevamo entrambi ragione, come accade talvolta quando si ha a che fare con questo ignorante mondo che non ha studiato Aristotele e non conosce il principio di non contraddizione.
Se si guardava, infatti, alla cosa da un punto di vista sincronico, era indubbio che la presenza di così tanti giocatori di origine straniera fosse una testimonianza indiretta di una maggiore integrazione; se si guardava, invece, con una prospettiva storica, era altrettanto indubbio che questa integrazione non era che un sottoprodotto positivo, e forse transitorio, di una lunga catena di violenze e sopraffazioni.
Questo episodio mi è tornato in mente in questi giorni in cui assistiamo ai preparativi dell’ennesima guerra umanitaria in Siria perché la prospettiva dei sostenitori dell’intervento militare è esclusivamente quella del presente: essi dicono che c’è un dittatore che sta usando i gas contro il proprio popolo e bisogna intervenire. Chi è contrario, invece, lo è perché adotta una prospettiva storica o meglio riesce a essere contrario solo perché adotta una prospettiva storica.
Non alludo con questo nemmeno alla memoria lunga del colonialismo, ma a quella degli ultimi quindici anni. Se il parlamento inglese ha bocciato le velleità interventiste del suo primo ministro, lo ha fatto ( anche se, immagino, non saranno mancate ragioni più tangibili) perché ha ricordato le false prove delle armi di distruzione di massa usate per invadere l’Iraq e il discredito che derivò al governo e al paese dalla scoperta di tale bugia. Viceversa, quando il segretario di stato Kerry afferma che l’intervento militare è un obbligo morale, può sostenere una tesi del genere solo rinunciando a qualsiasi forma di memoria storica.
Infatti, da quando le espressioni ‘bombe intelligenti’ e ‘guerra umanitaria’ sono diventate di uso comune, cioè dall’epoca della prima guerra nel Golfo, si può notare che gli Stati Uniti e i loro alleati di turno hanno puntualmente raggiunto gli obiettivi politici e militari delle varie guerre, rovesciando i vari dittatori, senza migliorare le condizioni umanitarie delle popolazioni e anzi in un paio di casi peggiorandole drasticamente.
Sembra che l’occidente, da quando è diventato umanitario, sappia usare solo il bastone. Sembra, cioè, che non abbia più capacità politico-diplomatiche per prevenire i conflitti e non abbia alcun interesse alla ricostruzione dei paesi, che avrebbe salvato.
Una spiegazione di questa circostanza può essere rintracciata nelle progressiva crisi delle capacità statunitense di fare egemonia ossia nel fatto che “nonostante gli Stati Uniti rimangano di gran lunga lo stato più potente al mondo, il loro rapporto con il resto del mondo può essere oggi meglio descritto come un rapporto di ‘dominio privo di egemonia’ “ (Arrighi). Quando una potenza imperiale perde le capacità di egemonia tende a sostituirle con forme di dominazione pura e semplice, con modalità aggressive che ricordano quelle di un imperialismo classico volto però a mantenere il primato. La spiegazione di questo fatto ha naturalmente a che fare con l’economia, ma quello che voglio sottolineare qui è che una simile analisi implica un ricorso alla storia e alla sua prospettiva.
Oggi nelle università statunitensi d’èlite, che costituiscono la punta di diamante della cultura e della scienza occidentali e che hanno mezzi economici superiori al bilancio per l’istruzione di interi stati nazionali, la storia come forma di sapere è alquanto discreditata. E’ troppo lontana dal modello delle scienze dure ossia fisico-matematiche, che sono le uniche in grado di fornire una conoscenza certa e spendibile sul piano pratico. Siccome ci è stato insegnato a suo tempo che i nessi tra sapere e potere sono molti e spesso sotterranei, nessuno si offenderà se sospetto che il discredito di cui gode la storia non sia dettato solo da pure ragioni epistemologiche, ma dal fastidio per l’osservazione del mondo da una prospettiva storica, perché essa è spesso fonte di dubbi imbarazzanti per chi oggi domina il mondo.
Quanto al mio amico, non so se abbia cambiato idea, perché l’arbitro fischiò l’inizio della partita e non riparlammo più della cosa. Per la cronaca vinsero i francesi due a uno.

Albert Camus, une valse à trois temps. Milosz, Micromega e Berardinelli (primo tempo)

8
Il 16 dicembre del 1980 fu inaugurato davanti ai cantieri di Danzica il monumento ai caduti durante le proteste del 1970: tre altissime croci, alla base le parole del salmo “Il Signore benedice il Suo popolo, il Signore dona la libertà al Suo popolo” e di una poesia di Miłosz
Danzica. Monumento ai caduti durante le proteste del 1970:  una poesia di Miłosz

“Tu che hai offeso l’uomo semplice
ridendo sguaiatamente sulla sua sventura
con intorno una corte di buffoni
per confondere bene e male

(…)

non sentirti al sicuro. Il poeta ricorda.
puoi ucciderlo – ne nascerà un altro.
Saranno messi a verbale atti e parole”.

Czeslaw Milosz (1911-2004)

 

#

dans un premier temps

Questo valse à trois temps comincia con un testo di Milosz che ho a lungo inseguito e finalmente trovato in rete e tradotto in questi giorni. Il secondo passo sarà una lettura ragionata del nuovo numero di Micromega consacrato all’intellettuale Albert Camus. Il terzo, assai critico, lo dedicherò alla stroncatura che ne ha fatto Alfonso Berardinelli sul Foglio, qualche giorno fa. effeffe

Albert Camus e Il coraggio di dire delle cose elementari

di

Czeslaw Milosz

traduzione di Francesco Forlani

“Mi darò come compito quello di spiegare perché coloro che, come me, vengono dall’Europa dell’Est provano verso Albert Camus così tanta gratitudine. Era vicino a noi più di quasi tutti gli scrittori francesi contemporanei. Il fatto è che il parallelo storico non è un fattore trascurabile. Ora si sa, gli intellettuali francesi degli anni 1940 e 1950, in gran parte erano affascinati dalla storia. […] Aspiravano a una sorta di saturazione personale attraverso la storicità, noi altri ne eravamo saturi fino al midollo. […] Tutti i discorsi sulla storia sentiti in Francia ci sembravano sospetti, perché vi si invocava un’immagine, un’idea, e non quella realtà che abbiamo conosciuto nelle sue forme più crudeli, nazismo e stalinismo. Io non so cosa proteggesse Albert Camus da una moda diffusa tra gli intellettuali parigini, tanto conformisti.

Erano forse le spiagge dell’Africa, le sue origini popolari che lo preservavano dalla “cattiva coscienza” borghese? In ogni caso, trattava gli idoli del momento, con una diffidenza di cui pagava il prezzo, perché gli intellettuali non perdonano una tale mancanza di rispetto per speculazioni post-hegeliane .

Camus non sghignazzava. La moda è in quello scherno, ormai tradizionale, diretto contro le buone maniere delle classi irrigidite nella loro stretta morale […] Per quanto mi riguarda, il sogghigno mi ha sempre infastidito . […] Al contrario, avevamo bisogno di entusiasmo e slancio […] Camus non scherniva, il che lo rendeva estremamente vulnerabile agli attacchi applauditi da un pubblico ben addestrato . […] È per questo motivo che sono sempre stato dalla parte di Camus.

Quel che mi stupisce degli intellettuali francesi è questa loro fede nelle idee generali : basta, credono loro, che un uomo si chiuda a chiave nella sua cameretta e pensi a rigor di logica, per giungere a una comprensione assoluta di ogni cosa, per esempio dei conflitti che si verificano in Ghana, Ungheria, Polonia o in Russia. I risultati mi hanno quasi sempre fatto ridere [ … ] ho imparato, e non senza difficoltà, che è rischioso pronunciarsi sugli affari interni di un paese di cui non si parla la lingua […] Mi sorprendevano la facilità e la cosiddetta competenza con cui si discuteva della Cina a Parigi […]

albert-camus2

Avevo l’impressione che Camus appartenesse a una razza ben diversa da quella dei grandi specialisti con scienza infusa che tagliano corto sui problemi del Texas o dell’Indonesia , come se si trattasse di piccoli comuni di periferia. Questo tratto distintivo di Camus, considerato a Parigi come un difetto, lo si motivava con una mancanza di esercizio filosofico . […]

Questo ci porta dritti alla questione algerina. Io non approvavo del tutto la posizione che aveva preso a riguardo. […] La posizione di Camus mi ricordava certi strappi interiori che in tanti da noi avevano provato prima dell’ultima guerra . [ L’evocazione dei massacri di popolazioni polacche ad opera dei distaccamenti ucraini armati dai tedeschi ] Anche nel peggiore dei casi, e da entrambe le parti , esseri umani erano disperati dall’intensità dell’odio […] l’imbroglio (in italiano nel testo) etnico dell’Europa orientale mi è servito a capire le difficoltà di Camus .

Lo stile e i temi di Camus. Per quanto riguarda la sua opera letteraria , confesso che non ho mai amato il suo stile . [Note sul carattere concreto della lingua polacca e la sua tendenza a “un lirismo inquietante”] Ma già al primo contatto, l’opera di Camus aveva per me qualcosa di familiare. […] Camus era affascinato da Dostoevskij, l’erede delle sette della cristianità orientale. E proprio come Dostoevskij, ha avuto il coraggio di affrontare temi di “cattivo gusto”. […] La peste è il miglior libro sulle attitudini che si possono avere verso la piaga totalitaria dei tempi moderni. Ma in prima istanza è una meditazione sul dolore degli innocenti. […] “Lui si prende gioco del dolore delle persone innocenti.” Chi? Jéhovah, il cattivo demiurgo dei manichei […]
In gioventù, presso l’Università di Algeri, Camus ha presentato una tesi di laurea su Sant’Agostino e mi chiedo se tutto il suo lavoro non fosse, in fondo, teologico. Volentieri interpreterei La caduta come un trattato sulla Grazia ( assente), la cui chiave sarebbe in questa frase : “Le colombe aspettano lassù, aspettano tutto l’anno. Volteggiano sopra la terra, guardano, vorrebbero scendere . […] Ma non c’è nulla tranne mare e canali […] ” Credo anche che l’attaccamento commovente di Camus alla memoria di Simone Weil , che lui chiamava ” l’unico grande spirito del nostro tempo ” sorga dal fervore albigese dell’eretica .
Czeslaw_Milosz_1998_by_Kubik
La vergogna dell’impotenza. Non era facile per me accettare l’Occidente. […] Mi dicevo, dopo la guerra: “Probabilmente non hanno imparato nulla, […] ricominciano il loro stupido gioco, come se non fosse successo niente.” […] Solo uomini come Albert Camus pesavano sull’ago della bilancia , perché si percepiva in loro un vero e proprio dolore . Nessuno di noi che siamo sopravvissuti alla vergogna dell’ impotenza non ha potuto affrancarsi da quel senso di colpa espresso da un personaggio di Camus : ” Ah ! chi avrebbe mai pensato che il crimine non fosse tanto quello di uccidere quanto quello di non morire per mano propria! ”

Scopro solo ora cosa permettesse allo scrittore Camus di accogliere la sfida dell’epoca dei forni crematori e dei campi di concentramento. Aveva il coraggio di dire cose elementari .

Camus era uno di quegli intellettuali occidentali, poco numerosi, che mi hanno teso la mano quando ho lasciato la Polonia stalinista , nel 1951 , mentre altri mi evitavano come la peste […] Abbastanza triste per un povero diavolo come me […] venire presentato dalla stampa come un panciuto borghese in fuga dalla sua patria socialista. Non mi sono stati risparmiati complimenti di questo tipo […] A destra, nessun linguaggio comune; a sinistra, un grosso equivoco, perché le mie idee politiche erano in anticipo di qualche anno su quella che sarebbe diventata moneta corrente dopo il 1956 .

In una tale situazione tanto scomoda, l’ amicizia riscalda e dà quel minimo di rassicurazione, senza cui ci si esporrebbe da soli a tentazioni nichiliste . Mai gli intellettuali hegeliani capiranno quali conseguenze hanno potuto avere i loro cavilli in termini di rapporti umani , e quale abisso scavavano tra di essi e gli abitanti dell’Est europeo, conoscitori di Marx o meno . La filosofia è una cosa molto carnale : raffredda gli occhi o, come in Camus, introduce nell’uomo la cordialità di un fratello. […]

(Milosz «L’interlocuteur fraternel» in Preuves. Une revue européenne à Paris, n° 110, avril 1960, et Julliard, 1989, p. 385. Repris dans Philosophie Magazine, pp.139-141)

Egitto o morte – Il desiderio e la strategia

3

di Marco Alloni

I.

Adesso bisogna decidere da che parte stare. La politologia – penso all’ultimo encomiabile numero di Limes dedicato all’Egitto, ma anche ai vari saggi proposti sull’argomento – spiega il passato.
Ma il futuro lo decide la forza.
E il presente è guerra.

Bisogna decidere da che parte stare. In tutti i sensi. Se stare con una colpa o con l’altra. Se stare con un crimine o con l’altro. Se stare con questi o stare con quelli. Entrambi cattivi.
Perché i buoni non hanno più voce in capitolo. E forse si sono solo illusi, in questi primi due anni e mezzo di rovente primavera, di averla avuta.

Chi sono i buoni? Nella tragica e meravigliosa favola intitolata Rivoluzione egiziana i buoni sono il popolo egiziano. Non importa di quale schieramento, di quale ideologia, di quale partito. Non importa nemmeno di quale fede o orientamento politico. Sono il paradosso di una Storia coniugata grazie a essi e votati all’absentia dalla cronaca.
Ci sono, e c’erano, i buoni islamisti. Ci sono, e c’erano, i buoni laici. E che ci piaccia o no ci sono, e c’erano, i buoni fulul. E persino i buoni militari. E persino i buoni poliziotti.
In questa favola – Rivoluzione egiziana, atto primo secondo e terzo – che si proponeva di cambiare la Storia, esistono infatti due trame e forse addirittura due narratori diversi: da una parte la trama del Desiderio, dall’altra la trama della Strategia.

Casertatitudini: Lucio Saviani

0
Bolero- opera di Gerardo Del Prete
Bolero- opera di Gerardo Del Prete

Piccola Telemachia
di

Lucio Saviani

Erano anni di partenze, quelli, per me. Partenze senza distacco, senza saluti, partenze fatte in fretta, di corsa, con il ritorno già stampato. Un viaggio quotidiano. Mattiniero, quasi sempre in piedi e quasi sempre con lo stesso compagno, e allo stesso posto, come fosse prenotato. Un treno con due soli vagoni, quello delle 7.40 per Napoli, ferro e legno. Le sedute erano rigide, di legno, quelle della ex terza classe, ormai inesistente.

Gli anni ‘80 per me si aprirono con un nuovo viaggio, e una idea nuova di viaggio, di partenze e di ritorni. Un viaggio a Venezia, in occasione del primo Carnevale, nel gennaio del 1980. Vidi tutti gli spettacoli in programma: Perlini, Marceau, De Simone, Scabia, Remondi, Caporossi; addirittura partecipai alle performance di Ed Moch, Lindsay Kemp, Dario Fo. Da quella volta, con altri tempi e ragioni, diventai pendolare con Venezia, al punto che le mie partenze diventarono dei ritorni a Venezia, e viceversa. Ogni volta che ricordo quel primo viaggio ritorno a una pagina di Guy de Pourtalès: “Ogni creatura che, di giorno in giorno, sente in sé affievolirsi l’ardore di un amore che per molto tempo è stato lo scopo della sua vita, chiama in suo soccorso la morte. Ma questa raramente viene, quando è invocata. Bisogna dunque vivere, e anche sopravvivere. Il ferito si rialza, medica come può la sua piaga e fugge. “Viaggiate”, gli dice qualcuno; ed egli parte con la sua ombra. Lo s’incontrerà poi, forse, mesi ed anni più tardi, guarito. Apparentemente guarito, perché in fondo nessuno si rimette mai completamente dalle ferite di un amore deluso. Osservando bene ci si accorge che non è più lo stesso individuo: benché sia sempre lui, con gli stessi occhi, con lo stesso sorriso, con lo stesso modo di stringere la mano…”. Al ritorno da quel viaggio, durato così poco, sentii di essere tornato diverso, in modo irrevocabile, e trovai diversa anche la mia città.
Era, tra gli anni ‘70 e ‘80, una Caserta aperta, quella che io ho frequentato e che sentivo sempre un po’ di passaggio, con quei binari della stazione solo paralleli al marciapiedi e mai perpendicolari, come ogni inizio e ogni fine. Una città molto informata, curiosa, raggiunta da fatti e persone di cui parlava il telegiornale. E da cui si partiva per raggiungerli, quei fatti (Bologna, Castelporziano, Roma…), viaggi poi non tanto lunghi, ma era pur sempre un’epoca pre-fax, anni di gettoni telefonici, passaggi, ciclostili, aperture a cui facevano sempre da controcanto le saracinesche di via Mazzini abbassate al passaggio di ogni corteo.

Hotel Crowne Plaza San Nicola La Strada (Caserta)
Hotel Crowne Plaza San Nicola La Strada (Caserta)

Credo che l’imago urbis della Caserta di quegli anni sia costituita da due aspetti intimamente connessi e che si spiegano a vicenda: il senso vissuto di un ‘altrove’ e l’esperienza di un luogo abitato da un fermento artistico intenso, quasi febbrile.

Il luogo in cui sia fa l’esperienza dell’arte è sempre “altrove” rispetto alla dimensione della vita ordinaria: può essere un cinema, un teatro, una galleria, un museo. Eppure può essere anche la stanza dove leggiamo un libro o sfogliamo il catalogo di una mostra. E’ il luogo la cui soglia di accesso si dà nel segno del paradosso: una dimensione segnata dalla sensibilità individuale, dal mutamento dei canoni stilistici, delle mode, ma nella quale viene postulato come condiviso l’universo dei sentimenti, delle emozioni e delle sensazioni. Quasi che proprio il sentire, ovvero quanto vi è di più privato e incomunicabile, fosse regolato da leggi.

Un’esperienza che è soggettiva, basata sul gusto, e intersoggettiva, ossia che mette capo a un giudizio. Insomma, che genere di “esperienza” facciamo quando, varcata quella soglia imprevista, incontriamo un’opera d’arte? Le opere d’arte sono cose tra le cose, stanno davanti agli occhi. Eppure, con il loro venire al mondo, non solo il mondo non è più lo stesso, ma cambia anche la nostra percezione del mondo. Lo shock di cui parla Benjamin, oppure lo Stoss, l’urto, di cui parla Heidegger caratterizzano l’esperienza artistica in un senso costitutivo e non puramente occasionale. L’arte è esperienza di verità ed è vera esperienza in quanto una vera esperienza, come diceva Hegel, è sempre negativa, ossia modifica realmente colui che la fa (proprio come il viaggio di cui parlava Guy de Pourtalès). In fondo, l’incontro con un’opera d’arte è come incontrare una persona con un’altra visione del mondo, come può accadere in viaggio.
299895_10150384137542071_2021893324_n

L’ “esperienza” stessa è percorso, cammino, attraversamento, fin dalla sua radice: “andare‑verso (un dove) provenendo-da (un dove)”, come per la metafora. Metafora dell’ex-per-ientia è il viaggio, l’andare verso, l’attraversare le cose. Ma è possibile parlare di viaggio senza andata e ritorno? Il ritorno è sempre, in un certo senso, previsto ma non prefigurato, prevedibile ma non certo: è qui il senso del partire assimilato al morire. Ma poi, c’è un ritorno anche se si ritorna non nel luogo della partenza: nel frattempo può essere cambiato, così come può essere cambiato chi ha viaggiato (di nuovo, come nel viaggio raccontato da Pourtalès). Il partire ha anche a che fare con il dividere, il distribuire, il fare le parti. Partitura è un termine che deriva da “partire”. Noi sappiamo che partire è sempre un po’… “dividere”. Ossia ripartire, distribuire, fare le parti. La partitura è, come la partizione, una divisione, una spartizione: il viaggio è, in origine, “viaticum”, la provvista ripartita al pellegrino. Un cammino problematico in cui si cerca di “saltare la propria ombra”, come accade al cammino filosofico: il paradossale passo con cui di continuo essa attraversa il mondo, ma solo nel senso di trapassarlo, attraversandolo e continuando ad abitarlo.

Dunque, il senso dell’altrove e il fermentare dell’esperienza d’arte. Tutte in questo senso racchiuderei le esperienze del periodo che stiamo ricordando. In ordine sparso: la rassegna “Passaggio a Sud Ovest”, curata da Beppe Bartolucci nel 1979, in occasione della quale si confrontarono, tra analitico-concettuale e nuova spettacolarità, a Caserta le maggiori esperienze del teatro d’avanguardia italiano, (Lucariello e il giro in motocicletta intorno alla Peschiera Grande, Cividin e Taroni alla Castelluccia, Lotus Seven 2000 del Teatro Studio, Barberio Corsetti in una danza solitaria tra fiori colorati su un prato del Parco Reale); “Cambiacanale!” e “E tutti risero…” entrambe curate da Gino Ventriglia e Bruno Tramontano; i numeri della rivista “Drive In” che raccoglieva interventi di artisti, poeti, critici, che sarebbero stati poi molto attivi negli anni ‘80. Ma il fermento riguardò anche le associazioni culturali, e toccò anche me, con l’associazione “Il villaggio globale”, che fondai nel 1981 insieme a Gino Ventriglia e a Gianfranco Salvatore, con la rivista “Caserta Live” fondata nel 1989, seguita un paio di anni dopo da “Politeia”, fondata con Rino Cipriano e Giovanni Santamaria, alla quale si avvicinarono anche alcuni giovanissimi narratori (per primo Francesco Forlani, grazie al quale furono introdotti Antonio Pascale e Francesco Piccolo) che si sarebbero affermati verso la fine degli anni ’90; ma questi sarebbero stati per me gli anni del passaggio dal pendolare con Napoli e Venezia, al pendolare con Roma e Praga, fino al mio ‘accasarmi’ sia a Roma che a Praga.

Il lento lavoro dell’addomesticamento dell’ignoto, del “fare casa” è il lavoro del discorso filosofico, che all’irruzione dell’estraneo, dello strano, dello straniero, fa seguire una inedita familiarità, un “sentirsi a casa”. Proprio perché familiarizza con l’inedito, lo accoglie e lo ascolta, la filosofia nasce dalla meraviglia e vive poi del sentirsi fuori luogo nel mondo dell’ovvio e dell’abituale.

Un addomesticarsi, dunque, che esclude e allontana ogni dominio. E con il dominio allontana ogni possesso. Proprio perché discorso di amicizia e di amore (per la verità: sua croce e irraggiungibile oggetto sempre da desiderare) la filosofia è cura della distanza. Distanza necessaria ad ogni rapporto. Paradossale movimento del ridurre la distanza avendo cura che non si esaurisca, il discorso filosofico è un camminare (ancora il viaggio) alla presenza di ciò che sia ama e che, proprio per questo, manca. Filosofia è dunque anche telemachìa, un lottare da lontano ma anche un combattere la distanza, mettendo a distanza. E’ qui anche il senso originario di “speculazione”. Lo speculor, il guardare nello speculum in modo da poter guardare dietro le spalle e vedere a distanza. Ma un vedere che serva al “fare”, utile proprio come lo speculator, la vedetta che avvista il nemico lontano, quando è ancora assente. Aver cura della distanza significa dunque aver cura di non colmare i vuoti. Va salvaguardata la mancanza, che è il senso vissuto di un’assenza che è paradossalmente resa presente. La verità non è oggetto della filosofia, quanto sua origine sempre ritornante, sui suoi passi, sulle sue tracce. La verità, come la nostra finitezza, non è che incipienza continua.
Me lo ricordano ogni volta, durante le mie piccole, private telemachìe in cui ritorno a Caserta, dal finestrino del treno i cimiteri che sempre annunciano la vicinanza della vita, l’arrivo a una stazione.

Nota
di
effeffe

Il narrat di Lucio inaugura una serie di testi che da diverse latitudini portino a Caserta; di qui il titolo che ho scelto. Narrat come omaggio allo scrittore Volodine che a proposito di uno dei suoi più libri, Des anges mineurs, e della forma letteraria da lui immaginata, scrive: J’appelle narrats des textes post-exotiques à cent pour cent, j’appelle narrats des instantanés romanesques qui fixent une situation, des émotions, un conflit vibrant entre mémoire et réalité, entre imaginaire et souvenir. C’est une séquence poétique à partir de quoi toute rêverie est possible, pour les interprètes de l’action comme pour les lecteurs.
Caserta è un nome che sa di esotico e quel profumo lo sentiamo anche noi che ci siamo nati perfino quando un amico di Torino o di Bari ti dice juvecaserta, reggiadicaserta, casertavecchia, casertacaserta. Non so perché ciò accada ma di certo succede, capita, più o meno volontariamente, più o meno ufficialmente come in questo passaggio in area cinematografica che ai più non sarà di certo sfuggito.

ps
L’immagine di copertina è di Gerardo Del Prete. Autodidatta, la sua attività si è sviluppata continua, dalle prime esposizioni negli anni ’70 fino ad oggi.Solo per citare i principali eventi, le personali alla sala “Bella Otero” di Caserta (1987), al centro d’arte di Cassino (1989), alla sede ONU ed al CERN di Ginevra (1989), alla Feltrinelli di Caserta (“Contaminazioni”, 2010).
A proposito di Volodine invece, segnalo le belle traduzioni che sono state fatte da Andrea Raos e Andrea Inglese proprio qui su Nazione Indiana.

Come vivere felici da poveri in canna

1

di Pino Tripodi

La moglie mia si lamentava assai per la continua penuria e per la mancanza di mezzi atti a frequentare la società intesa come parrucchieri d’alto bordo, cinema di prima visione, eleganti bar, negozi all’ultima moda, ristoranti marchiati slow food e teatri ma sui teatri faceva volentieri eccezione perché il teatro  non è strettamente necessario se non per mostare l’ultimo collier prodotto apposta per me dal gioielliere di fiducia così diceva la moglie che ai teatri si addormentava sovente le poche volte che lì si portava conducendo anche me per pagare il biglietto di entrambi.

Satura – Parodie

0

di Daniele Ventre

1.

Gli ominidi del paleolirico
si estinsero per consunzione
estetica e rarefazione
dell’antico ossigeno onirico.

Scuola di musica

2

di Raimondo Iemma

manray-kiki

Play me Old King Cole
that I may join with you (…)

Genesis

 

La ragazza ha una nuca di cigno. Vende biglietti per i concerti del Conservatorio, che si tengono il primo venerdì del mese, o il sabato pomeriggio, l’estate. È necessario arrivare in anticipo, avverte, altrimenti non faranno entrare, i musicisti attaccano all’ora esatta indicata sul programma, poi si volta per rispondere al telefono che suona.

 

Violenza di genere e genere di violenza: Aldo Masullo

3

 

 

misstic

 

Una società senza senso del limite

di

Aldo Masullo

articolo pubblicato su IL MATTINO – 13 Agosto 2013

Come in un libro di qualche anno fa osservava Massimo Recalcati, rigoroso psicanalista d’ispirazione lacaniana, «la consapevolezza che nessun sapere può rispondere esaustivamente al mistero della vita, e che niente è tutto, proprio questo è ciò che rende possibile la vita» in altri termini, dove manca la consapevolezza che non tutto ciò che vorremmo è possibile, si produce la morte. Suprema intuizione dell’antica sapienza greca fu porre al centro della condotta umana il metron, la «misura», la coscienza del limite e considerare invece come ubris, suprema «violenza», il tentativo di rompere il limite.

La «misura» non è una qualsiasi qualità di cose ma una umana consapevolezza derivante da ragionata esperienza, tanto profonda da trasformarsi in un sentimento spontaneo che segna il carattere stesso degli uomini e qualifica l’altezza della civiltà a cui essi appartengono. Si parla infatti di «senso della misura». Il nolano Giordano Bruno nella tempestosa aurora della modernità affrontò la morte sul rogo e testimoniò che, essendo la realtà infinita, nessun momento di essa può arrogarsi di essere l’assoluto centro e considerare ogni altro momento come subalterna periferia. Ogni momento è centro. La modernità e la faticosa e spesso contrastata maturazione di questa idea del mondo, che peraltro il Cristianesimo evangelico sia pure nei termini di un mondo altro dal nostro, aveva assunta come l’unica possibile base salvifica dell’umanità.

misstic3

 

Lungo questa drammatica storia si è venuto chiarendo che l’invalicabile limite, dinanzi al quale il «senso della misura» esercita la sua funzione decisiva nella vita degli uomini è, per ognuno di noi l’esistenza di ogni altro essere umano. E poiché noi non riusciamo a concepire la nostra esistenza se non come libertà, non possiamo non assumere come nostro invalicabile limite la libertà di ogni altro. Perseguitare o addirittura uccidere la donna che non si sente, o non si sente più, di dividere con noi la sua intimità, così come oltraggiare fino a indurlo disperato al suicidio un giovane essere umano orientato sessualmente in modo diverso dal nostro, è compiere la ubris, la estrema violenza. Si nega all’altro essere umano la sua esistenza che, sia pure nei suoi invalicabili limiti o è libertà o è nulla, pura e semplice morte. È come gridargli con stupida ferocia: tu sei nulla (sottinteso: io sono tutto). Il che suona forsennata stupidità.

Se tutto ciò segnala la diffusa mancanza di «senso del limite», dunque l’incapacità della società attuale di farlo nascere nella mente degli individui allora si può parlare di un incombente totalitarismo della stupidità. Si comprende perché, dinanzi al decreto legge del governo italiano contro la violenza di genere, qualche criminologa come Francesca Garbarino avverta: «La detenzione non basta perché gli autori di questo tipo di violenza non riconoscono di aver compiuto un reato, si sentono vittima, disconoscono la realtà». A costoro, avrebbe detto Giambattista Vico, manca il «pudore», cioè la vergogna per il crimine compiuto.

Ugualmente si comprende perché Nichi Vendola, dinanzi alla tragedia dei giovanissimi suicidi, schiacciati dall’ostilità sociale per la loro sessualità diversa, condanni «una intera classe dirigente per aver consentito che l’odio per la diversità diventasse lessico ordinario della contesa politica». L’asprezza delle leggi è necessaria come un tardivo «pronto intervento» ma essa varrà veramente come condanna storica di una società stupida ben più che come efficace deterrente. In questa dolorosa vicenda della nostra società viene allo scoperto certamente la mancanza sempre più diffusa del «senso del limite», e quindi del sentimento di responsabilità dinanzi all’esistenza di ogni altro essere umano. Si esibisce però anche in tutta la sua patologica deformità culturale la corrente idea del sesso.

misstic2Il sesso è la fondamentale potenza della «intimità», di quel luogo ideale in cui gli esseri umani pervengono a sperimentare la verità come reciproca illimitata fede tra compagni di elezione, e dunque la verità come dono della libertà nella mobilità del tempo. Ma nella stupida cultura tuttora diffusa il sesso è ancora ridotto all’appropriazione, da parte di un essere umano, di ciò che è l’inappropriabile stesso, ossia del corpo vivente e pensante di un altro essere umano. Il cammino dinanzi a noi è ancora molto difficile e molto lungo.

 

Su Fabio Teti. Poesia come discorso inceppato

9

di Andrea Inglese

È difficile, se non impossibile, dire di cosa parlino i testi di Fabio Teti. Essi fanno dell’oscurità, la proprio figura naturale: sono enunciati che costantemente eludono sia il concetto che la narrazione. Forniscono elementi di un discorso che costantemente smarrisce, s’inceppa, salta di livello.

La prova del cuoco: Ivan Ruccione

4

chf

 

 

Stiamo attraversando il cortile. Stefano ha in braccio un’intera forma di Parmigiano Reggiano che ha scaricato dal furgone di un fornitore e sta soffrendo come una bestia perché, oltre alla fatica dei cinquanta chili che sta trasportando, io ho arrotolato lo straccio su se stesso e, con abili e decisi movimenti di polso, glielo schiocco ripetutamente sul suo grosso culone flaccido.
“Su, lavora bestiaccia!” urlo, standogli alle calcagna.
“Smettila, per l’amor di dio, smettila che se mi cade mi spacco i piedi!” frigna, paonazzo.
“Giustappunto per l’amor di dio voglio farti capire quale sia stato il significato de la Passione!” e lo colpisco ancora e ancora e ancora e ancora.
Giunti in cucina, Stefano sbatte la forma sul tavolo e si piega in due per riprendere fiato, poi allarga quei cotechini di braccia per sgranchirsi la schiena, e la giacca si alza scoprendo la panza che cade sulla cintura. Ha il viso imperlato di sudore e atteggiato a una smorfia di strazio.
“Lo sai che anche oggi pomeriggio te ne stai qui, vero?” dico arrotolando il torcione in segno di minaccia, dopo aver bagnato la punta nel cuoci pasta.
Non risponde, tracanna acqua da una bottiglia da mezzo litro. Il gozzo si muove spaventosamente manco fosse un tacchino.
“Che devo fare…?” chiede ansimando.
“Chef!” urlo.
“Sì?” risponde senza levare gli occhi da un ricettario.
“Dobbiamo fare le sarde in saor per domani, giusto?”
“Certamente”
“Le dispiace se faccio tagliare le cipolle a Stefano?”
“Mi dispiace? DEVE” dice, sbattendo la mano sul ricettario.
“E pulire le sarde?”
“DEVE” dice, e sbatte di nuovo la mano sul ricettario come se avesse la faccia di Stefano lì sotto.
“Bene, cicciopasticcio, mentre io vado al mare e lo chef va a scopare,” e ‘scopare’ lo dico sottovoce, “ tu hai trovato il modo di trascorrere questo bel pomeriggio di sole e gnocca facendo qualcosa di utile”
“Sinceramente anch’io sognerei di andare al mare, qualche volta…” dice, innervosito.
“QUESTO è il tuo sogno, non ricordi?”
Torno dalla cella del pesce che Stefano si è messo già all’opera per sbucciare e tagliare a filangé cinque chili di cipolle. Appoggio la cassa di polistirolo sul piano della plonge e chiedo: “sai pulire le sardine?”.
“Sì…”, mormora.
Lo osservo, appoggiandomi al lavandino. Mi fa una tenerezza immensa. Tornano alla mia memoria le stesse giornate, trascorse alla stessa maniera. Dalla mattina alla sera dentro queste pareti, in cui il sapore del sangue di bestie morte e di cento altri cuochi agonizzanti è tanto amaro che dalla bocca non riesce ad andarsene, come se nelle gengive ci fossero piantati rafani anziché denti. Dalla mattina alla sera senza vedere la luce del sole, senza avere il tempo di fumare una sigaretta. Senza il tempo per abbracciare una volta in più mia moglie. Senza il tempo per dare la buonanotte a mia figlia. Come se fosse l’ultima. Prima che fosse l’ultima.
Sulle guance di Stefano corrono due lacrime.
No, le cipolle non c’entrano.

(secondo frammento di un discorso che diventerà un bel libro. effeffe)

Dodici poesie

11

di Stefano Colangelo

 

scritta in treno al posto di un primo saturnale

nelle parentesi ci trovi tutto
il fratello morto da ragazzo, il figlio con lo stesso nome
la voce fatta a pezzi dal cellulare
il braccio che non vuole l'appoggio
il piede che striscia nella fuga del pavimento

Storia di una guarigione

0

monte-nudodi Riccardo Ielmini

Il sant’uomo, ci dissero, era ospite dei benedettini, all’Eremo, sul pendio meridionale del Monte Nudo. L’avevano ospitato anche se nessuno dei pezzi grossi della Chiesa si era pronunciato, nemmeno in via provvisoria, sulle sue visioni, o sulle guarigioni, o quello che era. Il sant’uomo, ci dissero, era lassù, bazzicava nei boschi di qui e di là dal versante svizzero; questo ci dissero, se volevamo vederlo, o toccarlo, o pregare con lui. Dissero questo a noi tre, che non tornavamo su, a Verbate, dal 1979, quando il buen retiro di famiglia era la villa liberty di nonno Karl, affacciata sul lago Maggiore. Allora, nel ’79, io e mio fratello non avevamo ancora vent’anni. Quando tornammo, sulle tracce del sant’uomo, era il settembre ’96. Eravamo tornati, noi tre irriconoscibili, dopo la telefonata di mio padre.

 

«Ciao Francesco», aveva detto la voce, riempiendo il mio attico spencolato su Milano. «Sono papà».

«Ciao. Cosa vuoi?». Mi misi a sedere, accesi l’abat-jour e guardai l’orologio alla parete, in fondo alla camera da letto. Le tre. Fuori c’era vento. Mi alzai, cordless in mano, e andai alla finestra: sotto di me, la metropoli sconfinata e silente.

«Ho bisogno di te. Domani mattina, verso le nove».

«Sai che ore sono?».

«Allora, domani mattina. Vieni a casa, non in ufficio». Non lo sentivo da un paio d’anni – l’ultima volta per il funerale di mamma. Quella voce non mi era mancata. Non stava iniziando una riappacificazione in stile hollywoodiano, dissi a me stesso. Niente alleluja da figliol prodigo. Le rogne fra noi erano corse troppo a fondo per tornare indietro con un colpo di cancellino sulla lavagna. Io avevo ferito le sue ambizioni su di me, quando, nel 1982, ero scappato in Germania inseguendo i miei sogni di gloria. Che colpo per lui, quando mi aveva visto in televisione ancheggiare come un cretino sui pezzi dance che avevo piazzato in classifica fra il 1983 e il 1985. E io, proprio come il cretino che ancheggiava in tv, avevo azzerato l’adorazione nei suoi confronti quando mio padre aveva fatto correre la voce che per lui ero un paio di foto sbiadite dal passato, e basta. Al telefono la voce pareva incupita. La mia era un calco della sua, e a questa fedeltà genetica dovevo il mio successo nello showbiz. Avevo cantato, con questa sua voce, refrain ambigui con eloquenti mugolii femminili di sottofondo, su basi elettroniche campionate dal mio produttore. E il gioco era fatto. Nel giro di tre anni ero riuscito a vendere tre milioni e mezzo di dischi: ero diventato il «dance master italian hammer» – i deejay giocavano a storpiare in inglese il mio cognome, Martelli, un’altra cosa che dovevo a mio padre. Avevo messo da parte una piccola fortuna, e poi investito quasi tutto in immobili – un albergo in società a Formentera, e una decina di appartamenti qua e là per quell’Europa. Ammirai ancora Milano per un pugno di secondi. Poi feci il numero e lo richiamai. Sì, adesso sembravo il figliol prodigo.

«Papà. Francesco».

«Cosa c’è».

«Perché mi hai chiamato?».

«Sono malato» replicò.

«Cos’hai».

«Vieni domani, alle nove. A casa».

Ero tornato a Milano nel ’93, per mettere in piedi un’agenzia di moda. Belle ragazze magrissime e furbe per la stagione delle sfilate. Io e lui non ci eravamo né incontrati, né cercati. Due Martelli dispersi in due milioni di persone, come in quella vecchia canzone che mia madre fischiettava piantando rose nel giardino della villa, su, al Nord.

 

Passai a prenderlo e lo trovai pronto, con una borsa bianca. Si alzò. Mi strinse la mano come fossimo due vecchi soci in un affare andato così così. Era invecchiato male. Chissà invece come dovevo apparirgli io, sotto la maschera da forever young che ci ostinavamo a coltivare, io e i vecchi colleghi-one-shot, con le nostre stupide battute sulle pollastrelle da camerino.

«Andiamo» disse.

Il vento aveva accampato una lunga sequenza di nuvole grigie che ci scortarono lungo l’autostrada A8. Mi disse che dovevamo andare a Verbate, e non mi azzardai a chiedere perché. Fu quando uscimmo dall’autostrada, per costeggiare la piana del lago di Varese, che mi raccontò delle sue intenzioni.

«C’è un uomo, dalle nostre parti». Aveva sempre detto nostre per indicare Verbate, a due passi dalla Svizzera, anche se noi eravamo di Milano. Ripeteva che erano le nostre parti da quando, nel 1943, i Martelli erano sfollati per scampare ai bombardamenti. «C’è un uomo. L’ho visto in televisione. Guarisce la gente, fa miracoli, vede cose. Voglio parlare con lui».

Ascoltai guardando dove le nuvole si scontravano con il sipario delle Alpi, e sembrava finire il mondo. Uno che guarisce e vede cose: un santone, pensai. Andiamo da un santone, accidenti.

 

Arrivammo a Verbate in tarda mattinata. Mio padre aspettò che parcheggiassi l’auto, poi mi disse che avremmo alloggiato al Sempione, l’unico albergo di Verbate – una costruzione fredda che aveva sempre fatto piccolo cabotaggio: sciatti rappresentanti senza fortuna, coppie di ambulanti, comitive di donne attempate in viaggio con una federazione sindacale. Non ci aveva mai dormito nessuno di famiglia: un tempo, prima che tornassero definitivamente a Colonia, c’era la villa del nonno, che ci accoglieva con la solita battuta sulle «zimmer a pagamento». Nella hall dell’hotel ci aspettava Giovanni, mio fratello. Fu una sorpresa, vederlo. Si era trasferito a Zurigo, dove faceva il cardiochirurgo. Invidiabile carriera, la sua, con i suoi viaggi newyorkesi alla fine degli anni Ottanta, i suoi master, le sue pubblicazioni e le sue due mogli – la seconda era una ragazzina dieci anni più giovane di lui, un’ossuta modella belga passata anche per la mia agenzia. Giovanni aveva la faccia tirata a lucido ed era stretto in un completo grigionero che lo rendeva glaciale più della stretta di mano che mi diede dopo aver abbracciato mio padre.

 

«Papà ha un carcinoma ai polmoni. Grave» disse quando restammo soli, al bar della hall.

«Non sapevo nulla» risposi imbarazzato, sorseggiando il mio Martini.

«Gliel’hanno diagnosticato un paio di mesi fa. Hanno escluso la lobectomia. Ha già fatto un ciclo completo di radioterapia. Se i risultati non sono buoni, dovrà fare la chemio». Parlava come se fossi il parente di uno dei suoi pazienti, o come fossimo due sconosciuti che si trovano a parlare per forza di causa maggiore, in un posto, e in un momento in cui non vorrebbero trovarsi. «Il cuore invece è sano. È forte. Il cuore di un toro. Perciò soffrirà molto a lungo». La frase galleggiò in mezzo alle note jazz che arrivavano dallo stereo acceso. Giovanni, prima che ciascuno prendesse la propria strada, era stato la mia stella cometa: il primo ad uscire in barca a vela, il primo a provare i deltaplani lanciandosi giù dal Monte Nudo, il primo ad attraversare a nuoto il lago nelle furenti estati di Verbate.

«Sai perché siamo qui?» gli chiesi.

«Per il santone» rispose sorridendo.

«E cosa credi che faremo?».

«Quello che vuole papà. Gli accordi sono che facciamo così, poi lui si fa visitare da un mio collega, a Zurigo. E decidiamo il da farsi».

«E cosa faremo, in concreto?».

«Cerchiamo il sant’uomo, lo troviamo, papà ci parla o non so cosa. Poi ce ne torniamo tutti dove siamo venuti. E papà si fa curare, se è possibile».

Mi diedero una camera con le finestre affacciate sul lago. Oltre la strada, l’imbarcadero. Rimasi tutto il pomeriggio a guardare i traghetti che si succedevano con il loro inimmaginabile carico di vita.

 

Dunque il sant’uomo era su, al Monte Nudo. Bella montagna, pensai, per andare a fare l’eremita, o quello che era: un panettone di boschi di robinie e castagni, e poi, all’improvviso, ai millecinquecento di quota, un cucuzzolo, una prateria battuta dai venti e dal sole. Impiegammo un quarto d’ora dall’albergo, a bordo del fuoristrada di Giovanni, per arrivare dove finivano le carrabili, e cominciava la vecchia mulattiera per l’Eremo. L’aria era umida, e l’erba gonfia di rugiada e vapore, e, camminando sulla mulattiera, si scivolava sui ciottoli che lastricavano il fondo. Ci fermammo un paio di volte a riprendere fiato. Giovanni controllava mio padre: nel silenzio del bosco potevamo sentire distintamente il respiro corto di un uomo vecchio, di un uomo malato. Pensai alla stagione eroica dei miei quattordici anni, quando mio padre stava per diventare un pezzo grosso della società del nonno – cave, sabbia, e tutto il resto della baracca – e ciò nonostante trovava tempo per arrampicarsi con noi su cime alpine con nomi altisonanti. Mi chiesi perché le cose non erano rimaste così immeritatamente brillanti. Conclusi in due secondi che se era andata così, noi eravamo colpevoli. Forse eravamo stati troppo distratti e irriconoscenti quando nostra madre ci portava sotto le sfilate di ex voto nella chiese e un qualche dio aveva permesso che sperperassimo le nostre fortune.

All’improvviso arrivò una ragazza, scalpicciando sul fondo della mulattiera, di corsa. Ci passò accanto, facendo un rapido cenno con la testa. Indossava grandi occhiali scuri, e mentre ascendeva, leggera, lasciò nell’aria un profumo di frutta. Restammo a guardarla, come da bambini si guarda una farfalla che entra in casa e poi esce, e sparisce nel blu. Quando la ragazza fu oltre la curva del sentiero, e si confuse con le piante e i cespugli, sorridemmo, noi tre, come non facevamo da secoli.

 

Ci volle poco meno di un’ora per arrivare all’Eremo – un rudere rimesso a nuovo dal lavoro muscolare e paziente dei benedettini. Il bosco  diradò, e si aprì una piana con una roccia bianca: e sopra, l’Eremo. Come ci vide arrivare, un uomo ci venne incontro. «Il santo non c’è» disse guardandoci come uno scolaro disorientato.

«E dov’è?» chiese Giovanni. Mio padre si sedette su un masso.

«Dicono che è più su ancora, nei boschi».

«E quando torna?».

«Il padre superiore dice che non si sa mai a che ora».

«Cosa facciamo?» chiesi.

«Andiamo a cercarlo» rispose mio padre, inaspettatamente risoluto.

«Papà, resti qui. Vai dentro, chiedi ospitalità nell’Eremo» intervenne Giovanni. Mio padre cercò di prendere fiato, poi fece un cenno con la testa come per dire che sì, era ragionevole.

«Com’è?» chiesi a due donne sedute sulla pietra assieme all’uomo.

«Il sant’uomo? Alto. Un uomo alto, con i baffi, e gli occhi azzurri. Ha il cielo, ha il cielo benedetto in quegli occhi» disse una, infervorandosi come nostra madre, quando ci portava alle memorabili sfilate di ex voto.

«Lui vede, vede qualcosa. Qui, dove preghiamo» disse l’altra, accennando al boschetto sulla destra. Non sembravano facce da creduloni. Nella loro eleganza misurata sembravano usciti da un romanzo di Jane Austen.

«Cosa? Cosa vede?» chiese Giovanni.

«Lui vede. Vede una donna, una donna celeste» rispose la prima donna.

«La Madonna. È la Madonna» interruppe l’uomo con fervore.

«Il vescovo non ha ancora confermato» ribatté lei pragmaticamente.

«Comunque vede qualcosa, e qualcuno è guarito» si stizzì l’uomo.

«Sì, sì» disse lei. L’altra donna aveva seguito la conversazione guardando verso mio padre, seduto sul masso a riprendere fiato.

«Papà. Resti qui» disse di nuovo Giovanni. Mio padre si alzò, ed entrò nell’Eremo. Noi costeggiammo il muro, e riprendemmo a camminare. La mulattiera si arrestava: da lì ci sarebbe stato solo il sentiero.

 

L’estate del ’77 – pensai – l’ultima volta che siamo passato di qui, io e Giovanni, sotto una tempesta tracimata nera dalle Alpi. L’acqua ci era scivolata incontro, infangandoci le caviglie, erodendo il fondo del sentiero, con le radici degli alberi sospese a mezz’aria. Io e lui come cavalieri nella bufera, e il cielo sferzato da saracche furenti. E ricordai anche che, fradici ed estatici, ci eravamo messi a gridare versi di vecchie canzoni nel vuoto davanti a noi, verso il lussureggiante arcobaleno che aveva tagliato la valle, alla fine della burrasca. Te lo ricordi, Giovanni, il ’77? – avrei dovuto chiedergli. Invece dissi: «Dove sarà l’uomo?».

«Non lo so. Da qualche parte» rispose lui.

«Sì, ma se ha tagliato fuori sentiero, sarà difficile trovarlo».

«No, avrà seguito il sentiero. Tutti seguono il sentiero» continuò Giovanni. Procedeva senza girarsi: adoravo ancora seguirlo, la fantastica figura di spalle che mi apriva il mondo. Mi voltai per vedere in basso: ormai eravamo fuori tiro per tutti e per tutto. In alto il cielo era diventato grigio.

«Sta facendo brutto. Forse pioverà» dissi.

«Sssst» comandò Giovanni facendomi un cenno con la mano. Si piegò sulle ginocchia come un capitano di brigata partigiana, dove il sentiero, con un gomito, seguiva le gobbe del pendio. «Hai sentito?» aggiunse sottovoce.

«No» risposi. Aria fredda risalì dal canalone alla nostra destra.

«Sssst» intimò, di nuovo. Si sentiva un rumore confuso – di rotolamento, di foglie e sterpi. Un rumore in avvicinamento.

Poi, dall’ultima striscia di bosco che ci sovrastava, sul pendio alla nostra sinistra, qualcosa piombò su di noi.

 

Giovanni si accorse per primo. Balzammo via appena in tempo. Una massa scura si piantò sul sentiero. Era un grosso animale.

«Un cinghiale!» esclamai. Restammo fermi, ad osservarlo per qualche secondo.

«È vivo» disse mio fratello. «È ferito» aggiunse. C’era una freddezza nel modo in cui diceva quello che diceva: come gli auguri per Natale e Pasqua per mantenere le promesse a nostra madre.

«Gli hanno sparato. Guarda la zampa» aggiunse. Presi l’iniziativa e mi chinai sul corpo del cinghiale: il sangue sgorgava dalla ferita e colava sul sentiero. Quindi mi piegai sulle ginocchia, per ascoltare il respiro. Era una bestia che incrociava il mio cammino, come quella volta, attraversando la Foresta Nera, durante il tour promozionale del 1984, quando la mia faccia riempiva le fanzine: io e il mio produttore avevamo quasi travolto un cervo balzato fuori dalla macchia. L’auto si era fermata ad un palmo dal suo manto, e avevamo avuto il tempo di ammirare le maestose corna. La bestia ci aveva fissato per qualche secondo e avevo desiderato toccarla. Ora perlustravo il cinghiale che si dibatteva, e provai lo stesso desiderio. Fu a quel punto, quando stavo per chiedere a mio fratello cosa avremmo fatto, che lui comparve, sbucando di corsa, dal gomito del sentiero.

 

Un’apparizione. Non ridimensionerò l’impressione che mi fece, il sant’uomo. Un uomo alto, biondo: una specie di vichingo, con lunghi baffi che gli marcavano la faccia, un camicione a scacchi rossi e neri, i pantaloni di velluto al ginocchio, le calze di lana grossa, e gli scarponi vecchia scuola. Un’apparizione che correva scomposta sul sentiero.

«Ehi!» gridò, avanzando balzelloni. Io mi alzai, staccandomi dall’animale ferito, e capii subito che era lui: lui era il sant’uomo. C’erano le indicazioni dei vecchi, giù all’Eremo, ma io lo intuii lì, quando smise di correre, dondolando la lunga smagrita figura e arrotolando le maniche della camicia: mi sembrò un grande bambino, qualcuno che poteva assomigliare all’idea che avevo di un sant’uomo. Non un vegliardo gonfio della sua nomea. No: un grande bambino biondo, con gambe magre e piedi lunghi.

«Ehi» ripeté. I baffi folti sapevano di antico vezzo.

«È ferito» dissi, per giustificare d’essere accovacciato vicino alla bestia.

«Sono stati i bracconieri. L’ho visto scivolare giù per il pendio» disse l’uomo. Sembrò quasi non accorgersi di Giovanni. Gli passò di fianco, con il suo passo baldanzoso, si chinò sul cinghiale e sembrò sussurrargli qualcosa. «Piove, fra poco» aggiunse. «Portiamolo al riparo. Bisogna togliere il proiettile». Era piegato sotto il peso dello zaino. Ci fu un attimo di silenzio, con il vento che soffiava più forte e le prime gocce d’acqua battenti.

«Bisogna sollevarlo, piano. Non possiamo trascinarlo. Dove lo portiamo?» chiese Giovanni.

«Di qui» e fece segno dalla parte da cui eravamo venuti. Oltre i castagni c’era una parete rocciosa, e uno squarcio la attraversava. Si alzò sulle ginocchia. Al suo cenno eravamo pronti.

 

Nella caverna eravamo finalmente all’asciutto. L’uomo doveva esserci già stato.

«Accendiamo il fuoco» disse, e si avvicinò ad un mucchio di sassi disposti in cerchio. Prese della legna. Filò dritto in fondo alla caverna e tornò con un contenitore di plastica. Aprì e versò del liquido che fece incendiare rapidamente i ceppi. Caldo e luce riempirono la cavità.

«Siete venuti a cercarmi» disse, mentre si chinava sul cinghiale.

«Sì» rispose Giovanni. Fuori pioveva e tuonava forte.

«L’ultimo temporale prima dell’autunno» sentenziò l’uomo. «Adesso c’è da salvare lui» disse indicando la bestia. Lo guardai meglio, illuminato dalla luce del fuoco. Poteva avere cinquant’anni.

«Cosa vuoi fare?» chiesi.

«Gli togliamo il piombo che ha nel fianco, e poi si vedrà».

«Io sono un medico» intervenne Giovanni.

«Bene, dottore. Aiutami» disse, ed estrasse un lungo coltello dallo zaino. Fu rapido: scaldò la lama sul fuoco e incise la pelle dell’animale – noi l’avevamo afferrato per le zampe e le tenevamo ferme, ogni volta che fremevano agli affondi del ferro bollente. Sembrava di essere in un film con John Wayne. Poi toccò mio fratello, che prese del filo che l’uomo aveva pescato in una tasca della camicia, e ricucì la ferita – e fu la prima, fu l’unica volta che ebbi il privilegio di vedere all’opera le sue mani da milioni all’anno: veloci, precise, sicure.

 

«Cosa volete che faccia?» chiese l’uomo, quando tutto si era concluso – piombo estratto, ferita suturata, cinghiale avvolto in un plaid a scacchi gialloverdi: un lavoro da dio.

«È per nostro padre» dissi. «È malato e ha letto di te: che guarisci le persone, che vedi qualcosa. È così, no?»

«Vedo qualcosa» ripeté lui, sorridendo, e sedendosi vicino al fuoco. Estrasse una pipa dallo zaino, e accese il tabacco con un legnetto arroventato. Spirali di fumo carezzarono la volta della grotta. Ogni gesto che compiva ridicolizzava la futilità delle nostre vite.

«E tu non puoi curarlo, dottore?» chiese a Giovanni.

«Ci sono cose che non si possono curare» rispose mio fratello.

«Lo so» disse, esalando fumo denso dalla bocca. «Io sto morendo» aggiunse. L’animale, sdraiato su un fianco, emise un leggero fischio che si esaurì, come aria che esce dal foro di un copertone. «Sto morendo. Un anno fa, mi hanno detto che c’era solo da aspettare. Così ho preso armi e bagagli e sono salito quassù» raccontò. Il fuoco balbettava e l’uomo aggiunse un ceppo nodoso. «Una notte di agosto mi sono svegliato all’improvviso» continuò «e c’era una luce, più giù, nel cuore del bosco, a due passi dall’Eremo. C’era luce, e mi sono avvicinato. E ho visto qualcosa. L’ho vista, credo: era bellissima. La Bellissima. Non diceva niente, non ha mai detto niente, nemmeno le volte successive». Si lisciò i lunghi baffi. «È vero, dottore» riprese volgendosi a Giovanni. «Non si può curare, non tutto. Non si può curare, eppure si guarisce». Ancora oggi mi capita di pensare a quelle parole, e al fatto che pensai subito che non si potesse non credere, al grande bambino, anche fossero state balle colossali, tutte le dicerie su di lui. «Avrei voluto essere geloso di quella luce, della Bellissima» continuò. «Tenermela per me. Ma ho finito per parlarne con i padri dell’Eremo. Così è arrivato qualcuno, e poi altri ancora. È stato così per mesi. Poi qualcuno ha detto che avevo fatto qualcosa per lui. Che era guarito, o cose simili». Aspirò ancora, come stesse parlando di qualcosa che lo riguardava appena.

«Chi è la bellissima?» chiese mio fratello.

«Una donna. Bellissima. Ho smesso di sentirmi morto».

«La Madonna?» incalzò Giovanni. A me già non serviva sapere altro. Era la Bellissima, come la chiamava il grande bambino. Mio fratello, invece, faceva così anche quando nostra madre ci portava ad accendere candele sotto i cuori argentati degli ex-voto. Lui non credeva ad una virgola delle spiegazioni di nostra madre.

«Non lo so. Dico solo che è bellissima». Guardava le volute di fumo. «E vostro padre?» chiese.

«All’Eremo. Non ce la faceva» risposi.

«Io non posso vederlo, oggi, né domani. Devo portare questo cinghiale nel bosco, su, alle tane». Gettò lo zaino e si distese, appoggiandovi la testa.

«Sì, capisco» disse Giovanni, guardandomi. Ci fu silenzio per un paio di minuti. Io continuai a fissare il respiro corto del cinghiale.

«Sta per spiovere. Uscirà il sole» riprese lui.

«Ci prepariamo» disse mio fratello.

«Guarirà?» chiesi. Io agli ex-voto avevo sempre voluto credere.

«Se passerà la notte» rispose lui.

«Allora addio» tagliò corto Giovanni.

«Non dite di avermi incontrato» disse lui. Misi lo zaino sulle spalle, e mi avviai. Giovanni mi precedeva. Prima di uscire, accarezzai il cinghiale. Feci un cenno con la mano all’uomo, ma lui aveva chiuso gli occhi, e dondolava una gamba, canticchiando.

 

Il sentiero era diventato un pantano. L’aria era satura di vapore, e di gocce come spilli che piovevano dagli alberi. Giovanni ed io puntavamo energicamente i talloni nel fango.

«Non diciamo niente a papà» disse.

«No».

«È un uomo che muore» aggiunse.

«Sì» confermai, ma non sapevo se stesse parlando di nostro padre, o del sant’uomo.

«Chissà come si chiama» disse lui, alludendo forse all’uomo, forse alla Bellissima, cui entrambi stavamo segretamente pensando. Ma in quel momento comparve il sole, e tutto tornò semplice e chiaro.

 

Credo che mio padre avesse capito, quando ci vide sbucare dal sentiero. Mi guardò come lo avevo visto fare quando ero quasi affogato nel lago, l’estate del ’71, cadendo dal mio optimist. Io non avevo fatto piagnistei e lui mi aveva guardato come per sollevarmi da un peso. Fece lo stesso quando lo trovammo seduto dove l’avevamo lasciato. «Scendiamo» disse lui, mettendosi davanti al gruppo. Scivolavamo sui ciottoli della mulattiera, ancora bagnati. Non si parlò del sant’uomo. Mai più l’avremmo fatto. Ad un certo punto, eccola, la ragazza. La sentimmo arrivare alle nostre spalle: saltellava sui ciottoli, leggera, illuminata dal sole. Ci fermammo a bordo del sentiero.

«Buongiorno» disse con voce brillante.

«Buongiorno» rispose mio padre.

Forse era lei che il sant’uomo aveva visto, chissà; o qualcuno del genere, doveva essere – pensai. Rimasi fermo a guardarla scendere, leggera come aria pulita. «Francesco». Era la voce di mio padre. «Andiamo» aggiunse.

«Sì» risposi. Poi feci due balzi, battendo con la mano sulla spalla di Giovanni, e mi misi in testa al gruppo.

 

In certi pomeriggi, quando Milano sale al mio attico con i suoi rumori feroci, allora penso al sant’uomo. O a quello che è rimasto di lui, dell’aura sacra che lo aveva avvolto per qualche tempo. Ho provato a seguire la sua vicenda, da lontano, spulciando in riviste che non avrei mai pensato di sfogliare. Forse volevo sapere cosa ne era stato dell’animale, se era valsa qualcosa tutta quell’acqua presa, e la lama nella carne, e il piombo buttato fuori dalla ferita, e il fuoco preistorico. Ho messo via una decina di articoli – il sant’uomo? tutta infatuazione popolare: visioni e guarigioni e tutto il resto, con tanto di testimoni, e sopralluoghi. Così dicevano i giornali. Un imbroglione. Eppure io l’avevo visto, il grande bambino che correva balzelloni. Ad un certo punto, poi, ho smesso di cercare notizie su di lui. Ho cominciato a coltivare la speranza che il cinghiale fosse ricomparso nei boschi, e che il sant’uomo se ne fosse andato, da qualche parte, con la Bellissima. Andato, puff!, sparito. È questo che ho immaginato, senza parlarne con nessuno, fino a quando mio padre è morto, l’anno scorso. Allora, quando siamo rimasti soli nella camera mortuaria dell’ospedale, ho ricordato a Giovanni di quella volta sul Monte Nudo. Giovanni mi ha guardato. Sembrava volesse dirmi: non fare il sentimentalone, alla tua età. Così ci siamo messi a ridere, lì, nella camera mortuaria, con il corpo di mio padre davanti a noi, composto, elegante, severo, e abbiamo pensato a quanto tempo era passato, e mio fratello era convinto che fosse successo tutto nel ’98, e io a dirgli, a insistere – no, ti sbagli, era il ’96, papà è rimasto vivo altri dieci anni, dieci anni esatti sono trascorsi da quando abbiamo diviso la grotta con il sant’uomo. Giovanni non mi ha dato ragione, come faceva con nostra madre; ha guardato in alto, e poi ha fatto un cenno, come per dire che era stato quel che era stato, e basta, che l’importante era che fosse accaduto. Poi ha aggiunto che saremmo dovuti tornare, lassù – magari ci si mette d’accordo, una di queste volte. Una delle sue balle. Ho detto di sì, come ho sempre fatto con tutto ciò che mio fratello mi ha proposto negli anni, anche se sapevo che non saremmo mai saliti sul Nudo. Ho detto di sì, come se avessi bisogno di sperare di rivedere qualcosa, o qualcuno. Quando penso tutte queste cose, in certi pomeriggi, e guardo in basso Milano, e lontane, nella foschia chiarissima, eccole, le Alpi celesti e verdi di boschi, allora avvicino la poltrona alle vetrate accese dal sole, mi siedo, allungo le gambe, incrocio le braccia dietro alla testa e respiro, respiro, respiro.