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Un ebreo americano nella Berlino di Hitler. Il diario di Abraham Plotkin (1932-1933)

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di Davide Orecchio

Questo racconto è la digestione del diario del sindacalista americano Abraham Plotkin (si veda la scheda alla fine), testimone dei giorni che precedettero la presa del potere dei nazisti in Germania, fino alla notte del 27 febbraio del ’33, quando il Reichstag fu dato alle fiamme.

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Reichstag

ABRAHAM Plotkin alza il sipario. Impugnando la penna e sulla scena di carta che calpesterà, avanza Abraham Plotkin. Mostra il taccuino (di Plotkin) che resoconta l’avventura (di Plotkin) nella terra gestante mostri. Vive e scrive di vivere. Vede e descrive quel che vede, e l’atto del vedere. Il privilegio del diarista. Imprime una data. Il ventidue. Novembre. Mille novecento trentadue. Menziona un luogo, Berlino. Tu somma il luogo alla data e ricaverai l’intenzione di un folle: Abraham l’ebreo Plotkin, Abraham l’americano Plotkin ma ucraino di nascita, Abraham Plotkin il sindacalista viaggia nella Germania gravida di Hitler, s’intrufola nel collasso, nel sisma, nella colata. Dove volano proiettili e coltelli, lui desidera stare. Quando gli altri scappano, lui accorre: nell’inverno del continente e “per apprendere la crisi” – confida alla pagina – la ricetta del gulasch europeo, la pietanza tedesca di povertà, disoccupazione, rimedi, sussidi, quanto basta di Stato sociale, sindacato, socialdemocrazia; quel che non hanno in America: gli yankee Plotkin, i miserabili Plotkin. “Voglio conoscere. Gli strumenti. Per essere forte. Resistere alla depressione. Indossare il carapace. Che mi ripari dai tagli, dalle ferite e dal pus. Voglio portare in America. Il welfare tedesco”. Ma sarà il testimone di una storia diversa. Ma sarà un testimone.

***

Novembre 1932
Viene da San Francisco dove ha perso il lavoro e adesso la stazione dello Zoo, Potsdamer Platz, una mansarda su Banhofstrasse, l’impossibilità del bagno caldo, i telefoni dei sindacalisti, i telefoni dei socialdemocratici, i nazisti sospetti, gli Stahlhelm di Hugenberg, i comunisti sospetti, Plotkin non ama i radicali e indossa la spugnosità del viaggiatore (abito cucito attorno ai pori ed elettrico), lo sguardo permeabile nella catena gerarchica verso la penna, verso la pagina. La ritenzione del diarista immortala l’odore del clima, della neve, delle strade e le carnagioni e gli stemmi della realtà. Non sono consentite perdite. Di realtà. La città subissa (con ciò che appare) Plotkin che ora, nell’hotel Adlon, sceglie un divano, s’addormenta e sogna. Ventitré milioni di tedeschi, nel sogno di Plotkin (arredato dall’eco dell’attualità), sopravvivono grazie agli aiuti di Stato. I fondi solidali. Le risorse del Land. Il sussidio della metropoli. Tre livelli d’aiuto. Prima che inizi la disperazione. «Come fa la Germania a sopportare un carico simile? Qual è il suo segreto?» e al risveglio, in questa città, un viandante assaggia e raffronta e sostiene che Alexanderplatz assomigli a Hell’s Kitchen ed espone «gli ebrei coi loro negozi di seconda mano, i banchi dei pegni, i bordelli, la folla» nell’istantanea del «quartiere che raccoglie la crema degli altri quartieri e la tramuta in feccia».

C’è un ristorante famoso. Si chiama Aschinger. E davanti al suo vetro una ragazza sta in piedi. Vende caramelle. Dieci centesimi a scatola. Indossa abiti estivi e un viso non operaio, disabituato al lavoro. Sviene. Plotkin la raccoglie. Plotkin la porta in un caffè. Le offre un pranzo. Ma la ragazza si spaventa, scappa. «La gente di Alexanderplatz non accetta aiuto da estranei». C’è un locale. E c’è un’altra ragazza. S’avvicina: «Ti va? Fanno due marchi». «No, grazie. Mi va la birra. M’interessa Wedding». «Wedding? Puah! Le donne di Wedding ci stanno per un pezzo di pane!» «Perché fai questa vita?» «Mi piace fare la vita. Prima dormivo in un letto che di giorno dovevo lasciare perché ci dormisse un altro. Risparmiavo su tutto. Ho perso il lavoro. Sono finita sopra una stalla. Non dormirò mai più in una stalla. Preferisco fare la vita. E quando finirà, sarà finita per me. Hai letto Berlin, Alexanderplatz? Sì? Ma guarda un po’, in America leggono Döblin! Hai presente quando dice che il tempo è un macellaio e noi fuggiamo dal suo coltello? Be’, quella sono io. Siamo tutti noi».

I prezzi stupiscono Abraham che può comprare un vestito a dieci dollari, un «buon cappello» con sei marchi e le scarpe più care non gli costeranno più di venti e dalla strada trasloca nel formicaio, sale una scala, percorre un andito, gli aprono una porta, gli offrono un tè nell’abitazione dell’ex menscevico, ex membro del Bund Abramovitch, che chiede: «Perché sei qui?», e Plotkin risponde: «Se succede qualcosa, voglio esserci. Sono stanco di leggere i fatti sui giornali» mentre un piccolo treno che sottrae il tempo allo spazio e somma le ore ai metri recapita Plotkin nella casa del sindacato, nella “patria del socialismo e del movimento operaio, dove tutto è ancora possibile”: rialzarsi, combattere, vincere, governare, riformare, consolidare la democrazia, contenere il nazismo, arginare la monarchia ma il sindacalista (che Plotkin è andato a trovare) dalla sua sedia, dal suo tavolo confessa: «Abbiamo paura della nostra ombra, per non parlare dell’ombra altrui»; ma il sindacalista promette: “Quest’inverno ci sarà agitazione. Forse nascerà un movimento rivoluzionario. Non una rivoluzione. Una rivoluzione in Germania è impossibile. Un movimento rivoluzionario, invece, è possibile. Chi lo guiderà? Chiunque prometterà pane al popolo. Ma stia certo: il nazismo andrà rapidamente in frantumi. Hitler ormai è disperato”.

Coro
– Hitler in frantumi? Il nazismo, rapidamente, disperato? È quello che abbiamo sentito? È quello che hai letto? Seguitiamo. Come seguitano i mesi.

***

Manifesto di propaganda nazista, inverno 1932. "La nostra ultima speranza: Hitler"
Manifesto di propaganda nazista, inverno 1932. “La nostra ultima speranza: Hitler”

Dicembre 1932
Il diarista è il disegno che disegna sé stesso per un’arte circolare dalla coda alla bocca del serpente. L’eiezione. La partecipazione. La rappresentazione. Della realtà. Lo coinvolgono come gesti di una trilogia che ha per titolo “Io, voi, la storia, la mia storia”. Il memorialista civetta col journal intime, conversa col futuro, racconta all’avvenire, ricatta il presente (“quanto mi dai, perché io ti consegni ai posteri?”). E il presente, complottando con la sua coscienza spugnosa, implora Plotkin che ci regali Herschel. Il giovane Herschel. L’ebreo Herschel. Impiegato in bottega. Povero. Risentito. Cresce ruggine tra la vita e Herschel, che chiede: «Anche a New York gettano gli ebrei giù dalla metro in corsa?», e poi sospira: “Noi siamo maledetti. Dall’antisemitismo. Che devasta i nostri negozi. Che ci spinge a chiedere pietà. Ma io non voglio carità. Io pretendo il diritto di vivere. Come giudeo. In questa terra. Con gli stessi diritti degli altri” e Plotkin annuisce, dubita, sottovaluta, incede nel couscous di Unter den Linden tra i volantini dei comunisti, la polizia a cavallo, gli elmetti, pattuglie di nazisti dalle «uniformi gialle sbiadite e i berretti color farina» e s’infila nel Tiergarten dietro al corteo di operai calmi che raggiungono il Reichstag dove all’improvviso “Was ist los? L’istinto della mandria, il fragore, il desiderio di fuga, qualcosa di mai visto, mai ascoltato, la carica della polizia, tuonano come tori, urlano rauchi come indiani”, lo colpiscono, strattonano, “perché quest’assalto? Eravamo pacifici!”, protesta Plotkin mentre il complotto riprende e il presente di nuovo bisbiglia: “Va’ a Wedding. Racconta Wedding” e tra la notte e il diurnale sorge rapido come il bambù un nuovo viaggio di Abraham: nel quartiere dei manovali e dei lumpen, dove sulle targhe di Kösliner Strasse è inciso il nome della fame.

Che nome ha la fame? Forse quello di Herr Gehrig la cui complessione mostra il disoccupato, quattro figli, la moglie, un pasto al giorno, patate, crauti, la domenica carne: una libbra in cinque. Nella strada del maggio di sangue le persone si dileguano dal corpo. Che nome ha la fame? Qual è il suo menu? Zuppa di lenticchie, minestra di latte, acqua e farina, novanta inquilini, solo cinque occupati, i numeri civici un calcolo per fossori, intonaci e porte già una necrosi, la mummificazione della classe operaia, macchie ipostatiche sul lavoro, un lutto ipocrita e falso, dalla bocca dei futuri cadaveri l’alito dei mestieri avariati e “questa è la stanza dove viviamo, mangiamo, dormiamo e spesso moriamo. Questa è la latrina per l’uso di nove famiglie. Questa è la stalla dove mungiamo le mucche e al di sopra del fieno e delle feci vivono i nonni, i nipoti, le madri di Wedding. Queste sono le cantine che abitano gli Ausgeschlossen, topi senza sussidio”. Questa è l’acqua marcia di Wedding dove soprannuotano muratori, meccanici, carpentieri, operai qualificati e “perché. Non possono. Essere messi. A costruire. Abitazioni decenti. Essere nutriti. Mentre lavorano?”, si chiede Plotkin che più tardi scopre dal medico Loewenstein di aver testimoniato solo l’ulcera di un cancro nascosto: “La povertà li ha sfiniti. Non hanno più forze. Negli ospedali non si riprendono. Prima della crisi avevano un’altra salute”.

Questa sera. Il palazzo enorme per giochi e adunate. Cresce sulla pietra e sul vetro. Incide il quartiere di Schöneberg. Una torta edile. Sul tavolo della conurbazione un dolce inscalfibile. Un anfiteatro per le arringhe dell’odio. Questa sera. Lo Sportpalast apre le porte ai nazisti. Un pubblico nazionalsocialista entra a migliaia, ad ascoltare Goebbels. Entra anche Plotkin, curioso e spugnoso. Siede in platea. Sulla tavolozza della vita berlinese: ragazze in uniforme, uomini in divisa, «la scena politica tedesca premia il business delle uniformi», le bandiere, il canto, il saluto teso, gli stendardi ma Goebbels lo delude e, deluso, Plotkin si conforta: “Avevo sentito dire che era bravo. Sì, Goebbels è bravo. Sa dare spettacolo. Ma il suo discorso. Non aveva un inizio. E non aveva una fine. Ha solo detto che c’è una tregua in Germania. E i nazisti mantengono la parola data. È tutta qui la minaccia? Cercavo una balena. Ho trovato un lattarino” ed esce prima che l’assembramento s’auguri la buona notte e a distanza di altre ore e altri metri (forse prima, forse dopo) il sindacalista Schultz rassicura Abraham il diarista Plotkin: “Noi socialdemocratici. Noi del sindacato. Abbiamo fiducia. Ci siamo liberati di von Papen. Ci stiamo per sbarazzare di Hitler. Schleicher lo seguirà. Infine avremo il campo libero”.

Coro
– Hanno fiducia? Si sono liberati? Si stanno per? È quello che abbiamo sentito? È quello che hai letto? Seguitiamo. Come seguitano i mesi.

***

Macht¸bernahme Hitlers
30 gennaio 1933. Hitler si affaccia dal palazzo della Cancelleria (foto di Robert Sennecke, fonte: Bundesarchiv, Wikipedia, http://commons.wikimedia.org/)

Gennaio 1933
Uccidono il giovane Wagnitz. Walter dell’Hitlerjugend Wagnitz. Sul pallottoliere di Berlino: la polizia promette, a chi segnali il killer, cinquecento marchi. Sul pallottoliere di Berlino: sbarcano duecento – cinquanta – mila – disoccupati in più. Sulla scena palustre, brandeburghese, antisemita una donna apostrofa Plotkin: «Io non parlo con gli ebrei». Nel teatro xenofobo di regole e binari un poliziotto acciuffa Plotkin: “Come mai mi fermate? Perché sono americano? Perché sono giudeo?” Qualcuno ride tra la divisa e i mostrini. “Non hai il biglietto. Per questo ti fermiamo”.

E, questa sera, nello strudel di ferro, calcestruzzo e cristallo, nell’arena dello Sportpalast, di nuovo i nazisti, nuovamente Goebbels. Il testimone che si testimonia (Plotkin) racconta «spalti gremiti» – così «siedo in alto» – «entra un gruppo vestito di nero» – entra il lutto e nella coreografia si fa avanti «la madre di Wagnitz» – «tutti si alzano» – e «offrono il saluto nazista». Poi tocca a Goebbels che ha la «voce potente» e «trema» e «si contorce». “La tregua è finita. Riprende la lotta. I socialdemocratici hanno tradito la Germania”, ringhia il gerarca cui basta una menzione di Hitler perché la platea si scuota e applauda mentre Goebbels promette: “Noi siamo come i romani. Che combatterono. Anno dopo anno. Finché non distrussero Cartagine”, e il ducetto si chiede e risponde: “Chi è il colpevole della morte di Wagnitz? Gli ebrei”, e la platea spruzza anatemi. Sugli ebrei. Esce Plotkin, dal teatro dell’odio. Pensa Plotkin, al Ku Klux Klan. E spera: che il nazismo si sgonfi come i razzisti del sud. I nazi hanno perso mordente, ragiona Plotkin. I nazi si scaldano giusto aggredendo gli ebrei, considera Plotkin.

Ma sboccia una tolleranza diversa. Berlino consente gli oltraggi ai portatori di svastiche. Entra la provocazione. Non c’è serratura. Non c’è cancello. L’autorità indossa il mantello che rende invisibili; nella maschera del comandare, obbedisce; aiuta, agevola, osserva. Plotkin cade dalla sedia e annota: “I nazisti dimostreranno a Bülowplatz, dov’è la Karl-Liebknecht-Haus, dov’è la sede dei comunisti, la polizia ha dato il permesso, tutta la città ne parla, è una follia, scorrerà sangue nel quartiere operaio, nasceranno cortei non autorizzati a Neukölln, Wedding, Pankow, Charlottenburg, Lichtenberg, Schöneberg e marceranno sulla piazza dei comunisti, invasa dai nazisti”. Nei caffè gli uomini e le donne non discutono d’altro. La città si apre, sfiancata, rammollita come un’ostrica e il sindacalista Plettl tra una birra e un valzer di Strauss nel salone dell’Imperator, seduto comodo «sul bordo del vulcano» ammette: «La polizia è impazzita, oppure sta cambiando tutto».

Quel giorno. Il ventidue. Gennaio. Del trentatré. Plotkin non entra a Bülowplatz. Non ci riesce. Nessuno ci riesce. “Sedicimila nazisti. Sedicimila poliziotti a proteggerli. Le mitragliatrici sui tetti. I cortei di protesta: dispersi. La fermata della metro: chiusa”. Uno scudo recinta la presa del potere e Plotkin rincula sulla Alte Alenxanderstrasse nella dimostrazione di risulta, che gli toglie la facoltà d’essere «un individuo autonomo». “La folla mi porta. Canta l’Internazionale. Bestemmia. Mostra il dito ai gendarmi. A piedi o a cavallo, coi fucili a tracolla, sui camion Tanz, le mitragliatrici sul retro: sono i gendarmi. La folla si muove, mi muove. Crepita un fucile e la folla si ferma, mi ferma. Non sono più padrone del mio camminare. E non sono un vigliacco”.

Non ha tempo per il rendiconto notturno. Esprime appena un pensiero dalla penna alla carta al rileggersi («i nazisti» – «controllano» – «Berlino») che il giornale annuncia il nuovo governo con Hugenberg, von Papen e con Hitler. Plotkin chiama l’amico, che ride: “Non avranno il coraggio di resuscitare von Papen, l’uomo più odiato in Germania”. Plotkin chiama un altro amico, che consiglia: “Lascia perdere i giornali”. Plotkin chiama il corrispondente del Chicago Tribune, Herbert Kline, che annuncia: “Preparati. Tutto è possibile”. Dov’è finito l’argine della SPD? In quale polvere si sgretola il cemento operaio?, si chiede Plotkin. In un parco, di fronte a ventimila uomini, Franz Künstler getta un urlo socialdemocratico: “Il Fronte di Ferro ha già salvato la repubblica. E la salverà ancora. I nazisti non passeranno. I monarchici non passeranno”. Ma su Margrafenstrasse i nazisti, in effetti, passano, e Plotkin li vede, e Plotkin li annota: con le fiaccole, nella festa, con lo strepito disciplinato della porcilaia in casacca, vanno al Kaiserhof Hotel dove Hitler, adesso cancelliere, alloggia. Eppure con due capriole che traducono i giorni (poco prima, poco dopo, poco importa) il sindacalista Bading, il socialista Bading rassicura l’uomo che vive e scrive di vivere: “Hitler non risolverà la disoccupazione. Hitler aggraverà. La disoccupazione. E quando i tedeschi l’avranno capito, inizierà il suo declino”.

Coro
– Hitler aggraverà il proprio declino? Hitler non risolverà i tedeschi? È quello che abbiamo sentito? È quello che hai letto? Seguitiamo. Come seguitano i mesi.

***

Reichstag

Febbraio 1933
L’elenco delle proibizioni è il ricettario della cattiva cucina. Istruzioni del veleno e il disgusto, sul diario di Plotkin. Una gastronomia carnivora, cannibale per i morti accoltellati, sparati, il saccheggio della Karl-Liebknecht-Haus, il divieto di stampa comunista, la censura della stampa socialista e comizi, cortei, discorsi pubblici: sono proscritti. Il decreto sulla stampa tedesca, il decreto sulla stampa estera, la marea edittale, la marea violenta. Finisce lo studio dello Stato sociale. Cambia l’abito del viaggio di Plotkin. I fatti derubano Plotkin che adesso arretrando, un po’ sbandato, percettore di allarmi, assordato dalla minaccia ultrasonica, troppo storica, visita il comitato centrale dei cittadini ebrei. Se li aspettava già dileguati nell’oggetto duro presente; invece li trova che stanno tranquilli: “Doveva accadere, prima o poi, che Hitler andasse al governo. Non potrà danneggiarci, con mezzi ufficiali, più di quanto non abbia già fatto con mezzi ufficiosi. Anzi è meglio. Che la fiamma di Hitler. Si consumi. Il prima possibile”.

Coro
– La fiamma di Hitler non potrà governarci, non potrà bruciarci: è questo che dicono? L’hanno detto davvero?

Otto Wels mette le briglie al discorso al Lustgarten; non vuole innescare lame e fucili sull’SPD che presiede, ma dice che il Fronte di Ferro “è vivo, è pronto”, ma dice: “Berlino resta rossa”. Poi Hartig il sindacalista conforta l’alieno Plotkin e spaesato: “Abbiamo vissuto altre crisi così. È vero, questa sembra più seria. Ma non oseranno la monarchia. Dia tempo al tempo. Presto Hitler sguainerà la spada. Presto Hugenberg impugnerà la spada. Si uccideranno tra loro”. Plotkin, però, non sembra convincersi e dall’insonnia cava bruciori, domande gastralgiche che in una foresta rivolge poi a Plettl, il sindacalista: “Se Hitler farà questo, come reagirete? Se Hitler farà quest’altro, cosa risponderete?” Nel bosco Plettl è calmo e sorride, e spiega: “Abbiamo valutato. Tutti gli scenari, ogni possibilità. Siamo preparati. In caso di emergenza. La grande macchina del sindacato. Saprà reagire. Entro un’ora. L’intera organizzazione. In ogni parte della Germania. Reagirà. Ma non si preoccupi, non ci sarà una dittatura. Hindenburg non lo consente”.

Coro
– L’ingenuità di Plettl svetta sulle conifere, sradica persino l’edera. Tra due settimane il Reichstag brucerà. Tre mesi e mezzo e il sindacato terminerà. Tre mesi e mezzo e arrestano Plettl, il candido. Tra quattro mesi svapora l’SPD. Da questo bosco prende il volo una miopia che impedisce al sé di riconoscere l’altro e sé stesso in relazione con l’altro. Ogni previsione sarà sconfessata. Ogni speranza, delusa. Ogni gesto non agito sarà rimpianto.

Nella riunione di un consiglio di fabbrica il delegato sindacale Shtupe (testimoniato da Plotkin, l’uomo che racconta alla carta) s’alza, prende la parola ed esige che: il movimento operaio – appoggi la creazione – di un fronte antifascista – tra comunisti e socialisti. Ragiona sereno, ma l’uditorio si agita. “È tempo di riunire tutti i gruppi. Per la guerra inevitabile. Tra fascismo e lavoratori”. Poi parla il sindacalista Lehman, il dirigente: “Di quale fronte dici? Se uniamo i tedeschi per la Germania, si può fare. Ma unirli in nome di una filosofia estranea, non importa quanto seducente, è impossibile. Ci telefoni, la direzione comunista, e uniremo il fronte. Per la Germania, non per la Russia. Ma tu pensi che la socialdemocrazia tedesca, che viene dal Quarantotto, che ha sconfitto Bismarck ed è sopravvissuta al terrore post bellico, accetti le condizioni dei comunisti? Davvero lo pensi? È assurdo auspicarlo. È umiliante”.

Coro
– Questo ha detto: assurdo e umiliante.

La mattina del quindici Plotkin scrive d’aver capito: «La Germania è sull’orlo di una dittatura. Di che genere? Quale il tiranno? Non è chiaro. Ma che stia arrivando è una dura, fredda realtà». “Alle prossime elezioni. Del cinque marzo. I tedeschi. Terrorizzati. Non opporranno resistenza. All’ascesa di Hitler. Resta solo da comprendere l’esito. Monarchia o fascismo?” L’inverno, le marce, le strade di pietra, la mandria dei berlinesi erbivori (senza casa, senza stufa né luce – per questo all’aperto); i provvedimenti che il potere, vestito da realtà, prende contro il dominato, nell’abito della realtà; l’attesa, la considerazione di ipotesi sul corso degli eventi, la ruminazione di un esilio. Da questo mucchio selvaggio (una pasta di cemento) risulta una mano, poi l’altra mano e il volto di Plotkin: sporco, infangato dalla democrazia che crolla, apre la bocca e respira nella torta funebre, nel dolce scaduto dello Sportpalast la notte del ventisette per “l’ultima – assemblea – socialdemocratica”.

«C’è qualcosa nell’aria», considera Plotkin. «Troppa polizia», annota. «Fuori e dentro lo Sportpalast». Apriamo la scatola del passato, ascoltiamo la voce, leggiamo la storia: sale sul palco il Coro socialista. «Cinquecento persone intonano canzoni di rivolta che ti mettono voglia di sfidare e osare. Sono grato del loro canto» e l’uditorio s’alza in piedi, stringe i pugni e urla “libertà”. L’ultima ora. Di libertà. Hanno preso il soprabito, e sono usciti, per la sfida al vento dei fucili. Per gridare. Un’ultima volta. “Libertà”. Friedich Stampfer, giornalista socialdemocratico, vuole parlare. Ma un poliziotto, un funzionario, si fa avanti e gesticola. È l’ingresso in scena della proibizione. Stampfer esita. Il poliziotto pronuncia: “Aufgelöst”. La proibizione. L’assemblea è sciolta. L’uditorio grida: “Polizia assassina”. Si leva una voce: “Berlin bleibt rot” (è rosso il colore prediletto degli illusi) ma già tutti escono nel clima delle uniformi e del ferro, nel controllo poliziesco e notturno.

Plotkin adesso si lascia trasportare da un’ora. Può essere una carrozza, o anche un tassì: un’ora. Può avere le ruote, i pedali oppure i binari: un’ora di tempo e Plotkin si ferma da Aschinger a bere un caffè e riflette e riposa. Dall’intenzione del viaggio non ricavo nulla. Dalla fatica, dalle interviste per apprendere, scaturiscono inezie. Tutti questi sindacalisti erano morenti. Questa socialdemocrazia aveva il male incurabile. Non c’è di che esportare, né importare. Non c’è. Sono stanco. Sono. Solo. Adesso: qualcuno entra nel locale e grida: “Brucia!”. Cos’è che brucia? Ancora e di nuovo, nel ciclo continuo del cammino e del resoconto, Plotkin è costretto a testimoniare il cappotto, la sciarpa, la strada. Esce. S’arrampica su Charlottenstrasse, verso un chiarore. Anche la folla, che lo circonda e accompagna, vede vampate. Un fuoco nel cielo. Una morte che vive. I bagliori come spermatozoi che fecondano il domani di cenere. Oggi brilla, domani sarà carbone e la domanda (di Plotkin) ritorna: “Cos’è che brucia?” Poi la risposta (di Plotkin): “Accidenti, è il Reichstag che brucia”.

Coro
– Salutate Plotkin. Per via delle fiamme noi ci fermiamo. Sopravviviamo, finendola qui.

***

SCHEDA

Plotkin 1892-1988
Plotkin 1892-1988

Abraham Plotkin visse a Berlino tra l’inverno del 1932 e la primavera del 1933. Il suo diario (An American in Hitler’s Berlin. Abraham Plotkin’s Diary, 1932-33, a cura di Catherine Collomp e Bruno Groppo, University of Illinois Press, Urbana and Chicago, 2009) è una testimonianza preziosa dei mesi cruciali che precedettero la presa del potere nazista.

Malati di posterità, siamo abituati a considerare l’ascesa di Hitler un fatto inevitabile in quanto accaduto. L’attitudine ha una sua logica, non lo nego. Ma i contemporanei – come ci mostra Plotkin con le sue pagine, i suoi ragionamenti, le sue valutazioni e congetture politiche – usavano una logica diversa, ipotizzavano scenari che non avrebbero dato esiti, eppure altrettanto verosimili, se non probabili, del cupo avverarsi del totalitarismo. In quei mesi, in Germania, tutto era a tal punto possibile che un sindacalista americano, ed ebreo, sceglieva di trasferirsi a Berlino per imparare le tutele dello Stato sociale, le protezioni assicurate ai disoccupati (aiuti inesistenti negli Stati Uniti), e decideva di apprenderle sui banchi di scuola dell’organizzazione dei lavoratori più evoluta del mondo: il sindacato tedesco.

Il volume pubblicato nel 2009 raccoglie una parte dei diari di Plotkin, conservati integralmente presso il Kheel Center for Labor-Management Documentation and Archives, Martin P. Catherwood Library, Cornell University, Ithaca. Plotkin frequentò molte personalità della classe dirigente socialdemocratica e sindacale berlinese, testimoniandone la caduta, la debolezza, la miopia. Nella primavera del 1933 tornò negli Stati Uniti, dove lanciò l’allarme sulla distruzione del movimento operaio tedesco. Riprese quindi la sua attività di dirigente nel sindacato tessile nordamericano.

I brani riportati tra virgolette “ … ” sono di mia invenzione, o rielaborazioni di passi di Plotkin. I brani riportati tra virgolette « … » sono citazioni di Plotkin.

LINK:
http://weimar.facinghistory.org/
http://www.press.uillinois.edu/books/catalog/53eqm8tc9780252033612.html

[Melanie Shell-Weiss ha ricostruito un altro episodio: users.wfu.edu/caron/ssrs/shellweiss.doc. Vent’anni dopo, all’inizio degli anni Cinquanta, troviamo Plotkin a Miami, Florida, dove assieme a un altro sindacalista, Robert Gladnick, sgomina una sedicente agenzia per l’impiego, la Caribe Employment Agency, in realtà un’organizzazione che trafficava donne e uomini da Porto Rico schiavizzandoli nell’industria tessile e agricola della Florida. Le operaie, segregate in una camera d’albergo, venivano scortate con le armi al lavoro in fabbrica. Plotkin e Gladnick ne salvarono molte e riuscirono a far chiudere l’agenzia.]

(Una versione più breve del racconto è stata pubblicata sul Manifesto il 4 agosto 2013)

Juggernauti

1

di Mauro Baldrati

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Oltre le metropoli. Un tempo le grandi città divennero megalopoli, inglobando periferie e campagne, portando la popolazione a milioni, o decine di milioni di persone. Ora le megalopoli si sono fuse in entità sterminate dette “ecumenopoli”. Non più decine, ma centinaia di milioni di abitanti stratificati nelle under-city, dove tutto è ammesso e tutto si distrugge, oppure protetti nelle enclaves fortificate, nell’illusione di sfuggire all’orrore tecno-sociale che tutto ricopre.

Come i corpi le cose

19

di Pasquale Vitagliano

oppenheim le déjeuner en fourrure 1936

 

Ogni mattina al caffè,
mi chiedo se esista
il colore concreto,
non dico il giallo, o il giallo
di questo pacchetto di tè,
e neppure tutti gialli che ho visto.

Questi sono i gialli particolari
di cui mi parla l’occhio.

Il male veniva dal mare (Marino Magliani intervista Giuseppe Conte)

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MM Il mare. Dalla Liguria dei costoni rivolti all’opaco, è lì ma è più dei turisti che tuo. Troppo facile. Il mare non si risolve mica così, con una battuta. Alla fine quelli come me non ci si mettono neanche, manca il coraggio. Provo a dirmi: sei stato mozzo sul Corsica Ferry, qualche mese… Ma il mare? Non è andarci noi, esplorarlo, è farlo emergere. Era questa la sfida, Giuseppe Conte, dopo aver scritto Il terzo ufficiale con i vascelli carichi di schiavi e dolore, e La Casa delle onde, l’aria inzuppata che hanno respirato Shelley e Byron? Era Il male veniva dal mare (NdR: Longanesi, 2013), il romanzo al quale lavoravi da anni per chiudere la  grande trilogia del mare?

GC La Liguria ha due mari. Uno è quello dei turisti o peggio ancora dei bagnanti. Un mare qualunque, scialbo come la sagoma di un ombrellone, addomesticato, sempre un po’ freddo, totalmente insignificante. Poi ha un altro mare. È quello delle navi, della Repubblica di Genova, dei capitani di Porto Maurizio che partivano da qui per varcare Capo Horn, il mare grandioso e solitario che sta dirimpetto alle scogliere dei Balzi Rossi, che fronteggia le Alpi sino a Savona e poi il verde degli Appennini, che rende tutto verticale e fa di tutto una visione e un miraggio, un mare d’avventura e di metafisca, un mare interiore e terribile, che a noi non resta che guardare, contemplare, seguire nel suo movimento incessante. Io ho cominciato a capire il mare quando sono tornato in Liguria dagli anni passati nelle metropoli del Nord, a Milano soprattutto, e poi anche a Torino. Quando ero un adolescente, non me ne fregava niente del mare, come della campagna. I miei orizzonti erano esclusivamente urbani. Via Cascione a Porto Maurizio (allora era davvero una via viva) era la mia Oxford Street, il mio Boulevard Saint-Germain. Mi vedevo e sognavo in città. I miei parenti materni sono forse gli unici liguri che risiedendo in Liguria da più di quattro secoli non abbiano conservato un pezzo di terra. Poi, i terreni comperati da mio padre a Diano Arentino e a Baiardo e che ho ereditato li ho tutti venduti: ho commesso il sacrilegio di vendere gli alberi. Ma era fatale che prevalesse lo sradicamento. Io amo vincere la forza di gravità, avere radici verso l’alto. Il mare, come gli alberi e i fiori, li ho scoperti tornando. Allora mi aggiravo tra le ville di Sanremo a cogliere gli estremi sussulti di una vegetazione in splendore. Gli agapanti, gli acanti. Solo dei corrotti possono pensare che sono fiori e nomi preziosi, da bandire. Sono fiori comuni, democratici, selvatici alle volte, basta avere occhi selvatici per vederli. E poi pian piano la mia attenzione si è rivolta al mare. Mare padre, per il Montale di “Mediterraneo”. Mare madre, per chi pensa in francese. Mare delle origini, mare della vita. Nei miei romanzi , il mare c’è subito, penso al diario della mareggiata che corre lungo tutta la vicenda raccontata in Equinozio d’autunno ambientata a Baiardo. Una Baiardo che poteva anche essere in Irlanda, per me andava bene lo stesso. Ma certo nei miei ultimi romanzi il mare diventa davvero protagonista, non so se si tratta di una trilogia, caro Marino, ma tu hai colto bene il filo che passa dal Terzo ufficiale a La casa delle onde a questo Il male veniva dal mare. Un mare di libertà e di schiavitù (l’edizione greca del Terzo ufficiale ha intitolato: Schiavi della libertà), un mare scuola di vita, un mare rigurgitante di visioni e di miti, diventa il mare amato da Shelley e Byron, il mare dell’utopia e della bellezza. E infine questo mare, in Il male veniva dal mare, quello di oggi e di un futuro vicino, sempre più avvelenato, infestato da isole di plastica, teatro di morte e di distruzione. Il mare è il filo conduttore. Quello reale e quello fantastico, delle mitologie e delle visioni , che non può essere ucciso dalla avidità e dalla violenza dell’uomo. Il mio è un libro riparatorio. Un libro di resistenza. Senza moralismi e senza soluzioni pronte. Il mare è simbolo della stessa profondità, complessità, tempestosità dell’anima umana. Per chi crede che esista una corrente di energia spirituale che chiamiamo anima, e che esiste un fruitore di questa energia che chiamiamo essere umano.

 

MM È un mare che ci ha osservato, ci ha spiato (con le sue meduse, la grande invenzione del romanzo), e noi nel frattempo l’abbiamo sporcato. Una delle cose importanti di questo romanzo è stata quella di legare felicemente l’invenzione al grido di dolore oceanico: parlo tra l’altro dell’isola della spazzatura, la Great Pacific Garbage Patch.

GC Le meduse sono esseri misteriosi e bellissimi. Primordiali, dovevano essere sul pianeta alle origini dei tempi e della vita. Ci sono stupende immagini di meduse che flottano e pulsano in una sequenza enigmatica di The tree of life di Terence Malick. Io mi sono letteralmente innamorato delle meduse. Tutti le odiano sulle spiagge. Come se fossero loro ad attaccare l’uomo, e non l’uomo a sbattere contro di loro nello spazio che appartiene a loro. Mi sono innamorato della loro leggerezza, trasparenza, luminosità, capacità di pulsare e di danzare. Sono stato anche colpito dalla rapidità del loro degrado, un mutamento repentino dalla bellezza all’orrore è quello che capita a loro quando vengono catturate e gettate sulla sabbia; da creature splendide diventano orribili ectoplasmi. Come la Medusa della mitologia greca, ragazza dai capelli bellissimi che una maledizione degli dèi trasforma in mostruosi serpenti. Nel romanzo, le meduse portano notizie dalle profondità. Non solo dai fondali feriti dallo sversamento dei rifiuti tossici, ma anche dalle profondità dello spirito della vita. La vita è venuta dal mare. Se il mare muore, siamo tutti fottuti. E gli uomini, presi in un gorgo di corruzione, incoscienza, miseria spirituale, non se ne rendono conto. Allora una specie più evoluta di quella degli umani viene a ricordarci tutto. A farci pagare tutto. Certo, i due simboli chiave del romanzo sono le meduse e la meganave Sirena. La meganave che trasporta sedicimila anime e chissà quante migliaia di fusti di sostanza tossiche nel suo interno. Un Leviatano, una balena bianca senza nessun Capitano Achab, una che gli uomini stessi si sono costruiti, dopo avere cacciato e ucciso tutti i cetacei dal pianeta. La scoperta che nel Pacifico, ma ormai anche nell’Atlantico, esistono isole di rifiuti plastici, isole inabitabili e di morte, su cui si immolano a milioni uccelli di mare e pesci, grandi ormai come una parte degli stessi Stati Uniti, è stata capitale per la storia immaginata da questo romanzo. Che sembra un romanzo fantastico, forse lo è, ma contiene credo una dose di realtà superiore a quella ristretta di certi romanzi sedicenti realistici.

 

MM Siamo nel terzo decennio del secolo XXI, a Nizza, sulla spiaggia, un barbone, a poca distanza di tempo, s’imbatte in due cadaveri. Due giovani donne di colore, bellissime e mutilate. A Cavallero, un commissario che annega la sua malinconia ingozzando salumi e formaggi, toccano le indagini. A Nyamé, un giovane giornalista tocca scriverne sul suo giornale. Il mare luccica e ribolle come popolato da distese di famelici piraña. È luce di meduse. Si muovono non distante da una grossa nave, la più grande della storia marina, che ha gettato l’ancora nella Baia degli Angeli.

GC Sì,  il romanzo contiene molti fatti, privilegia movimento e avventura, è una mia scelta precisa, antinovecentesca, meno ingenua di quello che i miei avversari credono (non si ricordano mai che a ventisette anni ho pubblicato  un libro, La metafora barocca, che oggi è in tutte le biblioteche europee e americane, e che da allora la mia consapevolezza del manufatto letterario è particolarmente acuta, ma forse è per questo che i miei avversari mi attaccano, perché “rompo” come ebbe a scrivere una volta Aldo Nove (in fondo il più simpatico tra quelli che mi detestano). Mi interessano poi le trame come disegni del destino e i personaggi come grumi di movimenti dell’anima. Poi ai miei personaggi dò anche corpo, linguaggio idiolettico, coscienza etica, rilievo simbolico, un gran lavoro, insomma. Anche questa volta. Quattro anni, non so quanti rifacimenti, quante parti sacrificate, lavoro sempre come un Don Chisciotte, quello di Unamuno e Turgenev, l’incarnazione di un idealismo utopico, che avevo da ragazzo e ho mantenuto. A 16 anni sognavo di cambiare la letteratura italiana. A 67 continuo in questo sogno del cazzo, che non vale niente. Ma io sono fatto così. E, almeno in Francia e in America, qualcuno crede che dopo L’Oceano e il Ragazzo (1983) la poesia italiana un po’ è cambiata. Col romanzo ci provo ancora. Con romanzi “fuori schema e fuori legge”, come ha scritto di Il male veniva dal mare Sette del Corriere della Sera. Mi piace essere un fuorilegge. Aspetto che gli sceriffi della legalità romanzesca vengano a catturarmi. Se ce la fanno.

 

MM Racconta qualcosa dei personaggi, dei libri che amano.

GC Marlon, il senzatetto che sempre più lettori considerano centrale nel romanzo, legge soltanto due libri, Le metamorfosi di Ovidio e Foglie d’erba di Whitman. Una colossale enciclopedia di mitologie antiche e eterne e una colossale celebrazione della istantaneità della vita e dell’universo. Dice più volte che non ha bisogno di altro. Il commissario Cavallero, di origini piemontesi, legge Jean Giono. Mark Breton, il direttore del giornale dove lavora Nyamé legge Borges e ne tiene un poster in redazione. Il suo vice Zeno legge una scrittore immaginario, autore di un romanzo sulla crisi di impotenza creativa di un trentenne e un  quarantenne che si chiama Franco Andrea Corti.  Questo nome dovrebbe dire a qualcuno che l’autore è immaginario ma che forse rispecchia un autore reale, forse due.

Quanto alle mie letture , sinora le recensioni uscite hanno parlato di influenze di Borges,Verne, Conrad, Melville, Stevenson, Neihardt, Jack London, Philip Dick, Victor Hugo, Mario Soldati, Italo Calvino, Cormack McCarthy, Murakami.

 

MM Ci parli di cosa hai fatto per ripulire la costa da mafie, cemento, corruzione?

GC Non certo tutto quello che basta. Ci vorrebbe una pulizia ben più radicale. Una tabula rasa. Non sono per i compromessi, in questa fase storica, ma per la lotta frontale, anche durissima. Ho soltanto scritto editoriali per il quotidiano di Genova. Senza paura e parlando chiaro, da uomo libero e da libero scrittore. Ma mafie cemento e corruzione sono ancora lì. Certe volte penso che scrivere sia poco. Ma poi mi dico che è tantissimo. Almeno per me. Che ho sempre vissuto per scrivere. Qualunque cosa, ma scrivere, che per me è come respirare e nutrirmi. Scrivere. Contrapporre la propria scrittura alle brutture e alle barbarie della società. Farne intravedere una migliore. Lascia che i miei avversari (spesso sono linguaioli che davanti a qualunque potere se la fanno ampiamente sotto) ridano. Io rido più di loro. E sono in buona compagnia.

Frammenti e notifiche di un discorso amoroso

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Come cambiano attesa e trame d’amore su Facebook

di Ornella Tajani

Il punto di partenza dei Frammenti di Roland Barthes è l’estrema solitudine in cui affonda il discorso amoroso: ignorato o ridicolizzato dalle varie discipline, è tuttavia parlato da migliaia di soggetti e dunque necessita di una affermazione. Era il 1977: oggi, che si militi nel partito degli apocalittici o in quello degli integrati, non si può ignorare che una buona parte di questi frammenti navighi ormai nel virtuale.

TELP.1

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Perec_Telp di Romano A. Fiocchi

 

Georges Perec, Tentativo di esaurimento di un luogo parigino. TELP.1, a cura di Alberto Lecaldano, Voland, 2011.

Telp è l’acronimo di Tentative d’épuisement d’un lieu parisien. Telp è un piccola perla letteraria. Telp è un talismano per gli amanti di Perec. Ma ci sono due cose da fare prima di acquistarlo e di leggerlo. Non perché sia un libro difficile (“libretto”, ad essere precisi: appena 63 pagine, di cui 6 di postfazione e 14 di immagini), ma perché è un libro altrimenti incomprensibile. Insomma, ci vuole la chiave giusta. Con la chiave giusta, quella che può sembra un’elencazione ossessiva e apparentemente insulsa di oggetti, persone, azioni si fa magia. La magia di Georges Perec.

Due cose da fare a priori, dicevo. La prima, leggersi le 500 pagine di La vie mode d’emploi, vera e propria “opera mondo” che oltre a racchiudere 107 storie (non per nulla Perec utilizzò il sottotitolo romans, al plurale, in luogo di roman), un indice dei nomi di 50 pagine, un elenco di riferimenti cronologici veri ed inventati che vanno dal 1833 sino al 1975, è un grandioso tentativo di trasformare in un puzzle la storia di tutto uno stabile parigino con i suoi inquilini, e indirettamente l’intera storia dell’umanità.

La seconda cosa da fare, complementare oppure anche semplicemente alternativa qualora il potenziale lettore di La vie mode d’emploi avesse l’impressione di dover affrontare un Ulysses francese, è guardarsi i video dell’intervista che Viviane Forrester fece a Georges Perec il 22 marzo 1976. I video sono messi a disposizione dall’INA, l’ente nazionale francese incaricato di archiviare le documentazioni audiovisive. Il primo lo trovate qui. Non so di chi sia la regia. Perec appare in cima a una scalinata (oggi scomparsa) nel quartiere Belleville di Parigi, osserva le “cose” della sua città, compresa la vecchia porta in legno di quello che fu il negozio di sua madre, deportata in un campo di concentramento nel 1943 e mai più tornata (il padre era morto in guerra tre anni prima). Perec è un affabulatore straordinario. La Forrester, giornalista e scrittrice, scomparsa a ottantotto anni nell’aprile scorso, sembra affascinata dalle sue parole, dai gesti, da quello strano modo di reggere la sigaretta tra il medio e l’anulare (in Telp, pag. 21, Perec noterà per la prima volta un passante con la sua stessa abitudine). Perec, nel corso dell’intervista, arriverà a spiegare il progetto grandioso di La vie mode d’emploi, mostrando disegni, schizzi e schemi relativi all’andamento della narrazione: il movimento a “elle”, come il cavallo degli scacchi, con cui la voce narrante salta da un appartamento all’altro. Non occorre conoscere bene la lingua francese, basta ascoltare la sua voce, seguire la sua gestualità, e Perec vi darà la chiave per Telp.

E ora veniamo a Telp. La suggestione comincia dalla copertina grazie a una fotografia scattata nel 1974 dall’amico Pierre Getzler: Perec chino sulla penna a un tavolino del Café de la Mairie, sigaretta nella sinistra, tazza di caffè o tè da cui spunta il cucchiaino. Resterà lì, in place Saint-Sulpice, per tre giorni consecutivi, spostandosi ora al Bar tabacchi Saint-Sulpice, ora al caffè Fontaine Saint-Sulpice, ora sedendosi su qualche panchina della piazza. Perec cambia il punto di osservazione, osserva ed elenca ciò che vede: animali, persone, atteggiamenti, azioni, mezzi di trasporto, variazioni atmosferiche, luci, ombre. Talvolta cerca di catalogarli, di dare un ordine all’apparente casualità. Elenca “quello che generalmente non si nota, quello che non si osserva, quello che non ha importanza: quello che succede quando non succede nulla, se non lo scorrere del tempo, delle persone, delle auto e delle nuvole”.

Alberto Lecaldano cura la postfazione (chiamata semplicemente Appendice) fornendo quelle informazioni indispensabili e contagiando il lettore con il suo entusiasmo. Nel risvolto di copertina, le immagini eleganti (a colori) e utili di alcuni oggetti ormai scomparsi che Perec cita nel testo, come la Due-cavalli verde mela, vecchio modello Citroën, evocazioni apparentemente prive di nostalgia che ritorneranno in Je me souviens, 1978. Anche il progetto grafico, curato dallo stesso Lecaldano, è in perfetta sintonia con il testo. Onore dunque, ancora una volta, al vecchio diavolo di estrazione bulgakoviana, Voland, che a trent’anni dalla morte di questo straordinario scrittore francese ci regala, per soli 12 euro, un autentico gioiellino letterario.

Forever Seamus

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Due poesie di Seamus Heaney tradotte da Franco Buffoni

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Antaeus

         When I lie on the ground
I rise flushed as a rose in the morning.
In fights I arrange a fall on the ring
         To rub myself with sand

         That is operative
As an elixir. I cannot be weaned
Off the earth’s long contour, her river-veins.
        Down here in my cave

L’elaborazione del lutto (11 prose brevi)

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di Jacopo Ramonda

 

L’ELABORAZIONE DEL LUTTO (uno)

 

Quando finalmente riconosciamo di doverci delle spiegazioni, è – con ogni probabilità – già troppo tardi. Ci sediamo a parlare, ai due lati del tavolo, come schieramenti avversari. Le attenuanti che ognuno di noi riconosce a se stesso si trasformano negli artigli con cui ci feriamo a vicenda, in modo involontario.

Cara controcultura

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di Silvia Contariniimages-1

Chi si interessi ai movimenti degli anni 1960-1970, con o senza rimpianti, per personale coinvolgimento o meno, condividerà forse le reazioni contrastanti che ho avuto scoprendo il catalogo Controcultura in Italia. Libri giornali, fotografie, documenti (con relativi prezzi), pubblicato nel 2012 dallo studio bibliografico l’Arengario: http://www.arengario.it/homepage/_hp-pdf/catalogo-controcultura.pdf

Passata la curiosità e la piacevole scoperta di materiali che non conoscevo (copertine di Re Nudo o di Ombre rosse, testi di volantini, slogan), alcuni dei quali di un’inventività straordinaria; passata l’emozione, suscitata per esempio da foto di Tano D’Amico che riportano con forza nell’Italia di quegli anni; passata anche – con più difficoltà – l’irritazione di veder messo in vendita il tutto a caro prezzo, sono rimasta in sospeso su un paio di questioni. Perché così commercializzati, questi sono cimeli, articoli da collezionista, da musei, da biblioteche, ossia attestazioni frammentarie e parziali di un passato considerato chiuso; in sostanza, la controcultura (femminismo, pacifismo, antimilitarismo, antiautoritarismo, lotta di classe, movimenti giovanili, internazionalismo, etc.), diventa materia per amatori, conservatori, ricercatori di vari campi e discipline, e sarà (probabilmente già lo è) esposta, scandagliata, commentata, annotata. Quando e come si storicizza la vita? Quanta distanza e quali strumenti ci vogliono per ricontestualizzare e interpretare correttamente il vissuto? Non è troppo presto per mettere sotto teca il ’77? Per farne preziose anticaglie? Si è esaurito del tutto lo spirito della controcultura? E poi, che ha senso ha (ossia che senso si produce a) mettere insieme i cortei femministi e le P38, gli indiani metropolitani e Lenin, i prigionieri di Rebibbia in rivolta e la rivista freak Il minestrone? Che certo appartengono allo stesso periodo (purtroppo passato alla storia solo come anni di piombo), e certo rientrano nell’area dei “contro”, ma per il resto poco altro hanno in comune.

Altre considerazioni riguardano i prezzi, esorbitanti ai miei occhi, forse normali per esperti conoscitori. Mi sono chiesta se il tariffario sia giustificato da una forte domanda istituzionale o accademica, o se gli acquirenti potenziali non siano piuttosto nostalgici “ex”, oggi danarosi abbastanza per comprarsi un vecchio numero di Lotta Continua a 40 euro o un numero di Re Nudo a 250. A meno che non siano di moda, accanto alla planetaria icona del Che, anche insensate  massime, tipo quelle di A/Traverso  (“Il desiderio giu­dica la storia. Ma chi giudica il desiderio?”) o più minacciose scritte (“Pagherete caro, pagherete tutto”). Facciamo anche l’ipotesi che le tracce fisiche della controcultura stiano diventando un bene prezioso perché gli allora protagonisti, il più spesso giovani effimeri precari pendolari, erano poco “conservatori” per indole, necessità, ideali; rari sarebbero gli originali rimasti in circolazione, e c’è chi, come gli antiquari dell’Arengario, ne ha capito il valore. Valore economico, certo, ma anche valore storico, culturale, testimoniale e affettivo. Nonostante le remore, ho trovato questo catalogo straripante di vitalità ed è stato un piacere scorrerlo.

[PS catalogo esaurito, consultabile online; lo stesso editore-antiquario ha pubblicato altri volumi del genere]

La farcitura

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di Orso Tosco

Brocca, teiera e pioggia (d.o.)
Brocca, teiera e pioggia (d.o.)

Crolla la pioggia e il vento fa un suono di topi e ferro.

L’acqua che scende si raccoglie nel centro del tetto, tagliato da una crepa. Andrà tutto bene: il tetto è solido, il cielo continuerà a cadere e Mr. Brody non mi troverà.

Una tassa sulla proprietà? . . . Noooooooooooo!

3

di Antonio Sparzani

Karl Marx«O padrone non lo fare
siamo in pochi ma a lottare
e per farla scomparire
la maledetta proprietà
».
[Giovanna Marini, “Se ci avessi cento figli”, 1966]

Volevo ben dire che in questo paese ci fosse permesso di tenere una tassa sulla proprietà. Vi rendete conto? Ho detto una tassa sulla proprietà, che è sacra e inviolabile: non saremo per caso pazzi, o, per dire, tutti kommunistacci e kommunistacce senza ritegno e rispetto per le cose sacre. Adesso l’ordine è stato ristabilito, alleluja.

Cine-Costa (in 12 sequenze)

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Immagine 086  [Questo pezzo è tratto dall’ultimo prezioso numero del “verri” (n° 52, giugno 2013) TUTTO dedicato a Corrado Costa.]

di Andrea Inglese

 

1. Abbiamo sì letto Sanguineti, e molto, e anche Porta, persino Villa, e Niccolai, Spatola, & gli altri,  ma ben poco Costa, non abbastanza letto, che poco se ne trovava in giro, e quindi Costa ci raggiunge con un misurato ritardo, quando tutto sembra risaputo, e invece di Costa (e della vita inventata) ci rimane tutto da sapere, ossia da leggere, per rileggerlo nuovamente in futuro, perché è laggiù, fra un po’ di tempo, che Corrado Costa, incidente di canone, gradito sinistro, ci aspetta.

LA LUNA E I CALANCHI

2

Un anno di azioni paesologiche ad Aliano –

Festival ideato e curato da Franco Arminio – 

 

“Una cerimonia dei sensi contro l’autismo corale. La paesologia festeggia un paese e i suoi abitanti, festeggia i cardi, i lampioni, i muri nuovi e quelli antichi. […] Abbiamo bisogno di partire da un posto preciso. Fare comunità, anche se comunità provvisorie.”

 

Il programma

Giovedì 29 agosto

Ore 13.00: Cerimonia dei sensi

Ore 15.00: Auditorium dei Calanchi
Aspettando la Luna e i calanchi
Un video di Francesca Catarci

Ore 15,30: Auditorium dei Calanchi
I bambini e i calanchi
a cura di Maria Delorenzo

Ore 16.00: calanchi
Movimenti, Canti, suoni, letture e narrazioni nel paesaggio inoperoso
Valerio Apice, Samanta Balzani, Egidia Bruno, Joe Capalbo, Lucia Citterio, Camillo Ciorciarlo, Pietro Colaiacovo, Nicola D’Imperio, Claudia Fofi, Teresa Lardino, Cristiana Liguori, Luigi Marra, Antonio Petrocelli, Gloria Pomardi, Caterina Pontrandolfo, Pino Quartullo, Mariolina Venezia e altri

I muri di K. (2/2)

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di Giacomo Sartori

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Qui a K.

si contano più di cento sintagmi

per onorare le pietre

esili o massicce

ialine o grigie di sole

Di che morte morire

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cavalligiulio due righe indignate di Gianni Biondillo

 

Per la ‘ndrangheta Giulio Cavalli – come dice  Luigi Bonaventura, pentito della cosca Vrenna-Bonaventura – è uno scassaminchia. Quindi deve essere fatto fuori. Magari con una morte umiliante, giusto per sputtanarlo.

Si può ascoltare la sua confessione qui.

Oggi, in una seconda intervista a Fanpage, Bonaventura dice, tra le altre cose, che “dietro i piani di per mettere a tacere per sempre Giulio Cavalli  c’è anche una parte di politica collusa e ambienti istituzionali, nel senso che le azioni erano fortemente volute anche da qualche politico, nello specifico lombardo.”

Voglio dire due brevi cose:

1) Il silenzio “ufficiale” attorno a queste dichiarazioni è semplicemente vergognoso.

2) Non lasciamolo solo.

 

Abbraccio Giulio come si abbraccia un fratello. Stretto stretto.

Inedite

3

di Daniele Ventre

1

Eppure nella caverna si nascondeva un tesoro
fra il sogno d’una ragione e il senso d’una misura,
l’eco di un canto di fate, la fiaba d’una natura
dischiusa all’ordine antico d’una leggenda inverata:
la pietra filosofale che piombo ti muta d’oro.

Mi riconosci

5

mi_riconosci  di Gianni Biondillo

Andrea Bajani, Mi riconosci, Feltrinelli editore, 143 pag.

 

Che Mi riconosci sia la storia del legame fra Andrea Bajani, l’autore del romanzo, e Antonio Tabucchi non renderebbe in sé interessante la lettura del libro. Non è tanto l’aspetto testimoniale, il mémoire intellettuale che attira il lettore. Mi riconosci è, su tutto, un lungo discorso attorno a temi e concetti che innervano il senso stesso dell’esistenza: amicizia, vita, morte. Temi, cioè che farebbero tremare le vene ai polsi ad ogni scrittore che si rispetti.

Quindi è la lettura metaforica del libro che rende giustizia a questo breve ma densissimo libro di Bajani. I due attori protagonisti diventano perciò metafore, e il loro rapporto particolare, grazie alla capacità che ha l’arte di trasfigurare, universale.

Andrea e Antonio. Un’amicizia nata grazie alle corrispondenze d’amorosi sensi, grazie al rispetto nato sulle pagine scritte e lette l’uno dall’altro. La storia insomma della generosità di uno scrittore affermato anche oltre confine che, curioso, scopre un suo fratello e/o figlio di penna, il giovane Andrea. Che qui ci racconta come incontrò per la prima volta Antonio. E come lo vide per l’ultima.

Mi riconosci non è neanche un romanzo, ad essere precisi. Il passo è quello del monologo teatrale.  La voce è quella attonita dell’autore che cerca, frugando nella memoria, il suo disperato modo di elaborare il lutto, di superare la perdita. Antonio (Tabucchi, ma tutti gli Antonio che abbiamo conosciuto nella vita) verrà consumato da una malattia senza scampo. Non c’è pace, non c’è soluzione, non c’è giustizia, nel ricordo di Andrea. Solo, proustianamente, il desiderio di eternare le cose che non durano, di impartire con l’unica arma a disposizione dello scrittore uno scacco alla morte.

La lingua di Bajani è levigata e precisa, anche nelle sue parti più allegoriche, ma per assurdo sono proprio le pagine bianche, quelle che dividono di continuo i brevi capitoli del libro, ad abbacinare. Come a dirci che non tutto, mai, si può dire per davvero di fronte al ricordo di un dolore, di fronte alla perdita di un amico.

 

(pubblicato su Cooperazione, numero 16 del 16 aprile 2013)

Rosa Barba, The Mute Veracity of Matter

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 di Rinaldo Censi

Si esce dalla mostra The Mute Veracity of Matter piuttosto elettrizzati. E’ la seconda mostra personale di Rosa Barba, leggiamo sul foglio che l’accompagna. Lo spazio è quello della galleria Gió Marconi, a Milano, anche se l’artista siciliana residente a Berlino ha ormai esposto nei maggiori musei mondiali, raggiungendo una meritata fama. Ci siamo appena lasciati alle spalle il brusio dei proiettori, gli eccentrici, le pellicole, tutto un armamentario analogico, meccanico, utilizzato per sfornare immagini mobili. Abbiamo percorso gli spazi in uno stato di stupore, affascinati e infine conquistati. A pochi passi, un ragazzo giapponese prendeva fotografie con il suo ipad, e, mentre ci dirigevamo verso l’uscita, ci siamo detti che tra quel tablet e gli oggetti qui esposti si è creato un vero abisso che non è solo tecnologico, ma quasi antropologico. Perché un ipad non possiede una camma e lì, all’interno dei magnifici spazi della galleria, ogni cosa sembra invece prodursi e dispiegarsi grazie a questo minuscolo elemento “eccentrico”. Una camma? Sì, un pezzo meccanico in metallo che permette di trasformare un moto rotatorio uniforme in rettilineo. Inserito su un asse, sviluppa una serie di “cinematismi” – tra questi ovviamente quello del motore a scoppio, ma varrebbe la pena segnalare anche i movimenti cronografici delle macchine da cucire, dei proiettori cinematografici, delle locomotive, degli orologi, o delle trivelle petrolifere. La “cinematica” è materia che giunge al suo apogeo verso la fine dell’ottocento, grazie alle riflessioni di Franz Reuleaux (il suo Theoretische Kinematik esce nel 1875, in Germania: una sorta di teoria generale delle macchine).

Nel 1930 Ralph Steiner aveva filmato questo movimento meccanico in un piccolo film intitolato Mechanical Principles, all’interno di un’esposizione tenutasi presso il Science Museum di New York. Si pensa un po’ a quel film, davanti alle sculture e ai proiettori esposti da Rosa Barba. E viene da chiedersi da dove giunga quest’attrazione per l’apparato cinematografico, i suoi elementi: proiettore, schermo, pellicola, meccanismo di scorrimento, che ella indaga, mostra, dispiega nelle sue opere. Senza dimenticare il tempo, la coscienza, la sua percezione: problemi che hanno interessato filosofi come Kant, Bergson, Mach, fino ad Einstein e al famoso secondo principio della termodinamica. Ecco un altro elemento che giunge a complicare la lettura di questi elementi celibi che si dispiegano all’interno dello spazio del white cube. C’è il futuro che ritroviamo in The Contemplative or the Speculative (2013), un Lichtspiel, un feltro nero su cui è ritagliato un testo che sembra fuoriuscito da Ballard, dal sapore sci-fi, illuminato da un proiettore che ne ri-proietta il testo sulla parete. Ma il tempo è soprattutto colto nella sua ripetizione (il che non esclude minuscole differenze). Si vedano Color Clocks: Vertical Lean Occasionally Consistently Away from Viewpoints (2012), tre sculture che aprono la mostra nella loro dimensione cinematica, rintracciabile anche in Footnotes (2013), o nei due proiettori posti uno di fronte all’altro separati da uno schermo, a formare Color Studies (2013), una variazione cromatica ottenuta attraverso la proiezione in loop di una striscia di tre pezzi di pellicola composta dai tre colori primari, la cui immagine proiettata dona una serie di variazioni monocrome su un doppio quadrato sfasato, in cui i colori a volte combaciano oppure si alternano, creando una specie di plasticismo luminoso musicale e mobile (qualcosa su cui aveva già riflettuto Piet Mondrian, si veda il suo “Il neoplasticismo (la nuova plastica) e la sua realizzazione nella musica”, pubblicato nel 1922 sulle pagine di De Stjil).

Scorrimento, ripetizione, circolarità, entropia: le opere di Rosa Barba sembrano muoversi lungo queste coordinate. Il film Time as Perspective (2012), l’ultima opera esposta, solitaria, sembra contenerle tutte. Ed è come se tutto il resto della mostra non potesse che chiudersi lì. In questo film (proiettato con un maestoso proiettore 35mm) si susseguono inquadrature di gigantesche trivelle riprese in un sito nel deserto del Texas. Filmate prima ad altezza d’uomo, schiacciate dal teleobiettivo, e poi circoscritte con riprese aeree in elicottero, queste macchine svolgono il loro movimento con fredda precisione: riproducono – in abisso – i movimenti cinematici mostrati nella galleria. Proiettato in loop, ripetuto, il film sembra disfarsi sotto i nostri occhi a causa del continuo scorrimento della pellicola, rigata, graffiata. Una delle didascalie riporta: «The signs remain beyond the movement of time. And they flow». Strati di tempo sono fissati su un fragile nastro in cellulosa: muta veracità della materia, le rigature sono il segno, la prova di questo tempo profondo.

Cinema vuol dire “movimento”, e le opere qui esposte ne sono una felice riflessione. Meccanismi di trascinamento, cinematismo? queste bielle, queste sculture sono legate indissolubilmente all’età delle Macchine. Rappresentano meccanismi che hanno servito industrie, di cui il cinema è parte. Ma qui girano a vuoto. Innescano movimenti celibi, ripetuti fino allo sfinimento. Il loro movimento rettilineo non va da nessuna parte. Queste macchine mostrano semplicemente il loro corpo (il corpo del cinema). Non producono nulla se non un tempo paradossale in grado di sregolare il nostro. Lezione di cinema: noi ne siamo semplicemente i destinatari, gli spettatori.

(Pubblicato originariamente su il Manifesto)

Contemporary Italian Poetry

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Ho curato una piccola antologia di poesia italiana contemporanea per la rivista Free Verse.

Enjoy.