Home Blog Pagina 266

Dalla vita e dai sogni di Jeanne Cară

2

jeannecara04
di Davide Orecchio

SULLA SCORZA – di un VHS – senza colore come certi fenomeni – del sogno, del ricordo o del passato – appare – Riccardo Schicchi – (seduto sullo sgabello) – serio – la giacca, la camicia, la cravatta – da uomo Facis – presenta – la fanciulla Jeanne Cară –

L’affaire Tortora – Leonardo Sciascia

1

ppagallo
da Archivio Partito radicale
Sciascia Leonardo4 settembre 1986
Processo Tortora: la valle del sonno
di Leonardo Sciascia

SOMMARIO: un’analisi critica della requisitoria del Pubblico Ministero Armando Olivares contro Enzo Tortora nel processo di primo grado presso il tribunale di Napoli. La tesi di Olivares: E’ stato un ingenuo , vittima della politica : diamogli dunque sei anni di reclusione. In quanto al diritto, lasciamolo ancora nella valle del sonno in cui giace.

(Notizie Radicali n· 206 del 4 settembre 1986 – Panorama del 7 settembre 1986)

Leggo la requisitoria del Pubblico ministero Armando Olivares (bel nome da vice regno spagnolo) al processo d’appello contro la Nuova camorra organizzata: la Nco, altra sigla che è venuta ad aggiungersi al lessico già abbastanza intricato delle sigle. E si dice per dire, processo contro la Nco: poiché non si sa bene contro chi si volgano, in prima e seconda istanza, questi processi napoletani, configurandosi piuttosto -a mia impressione- in una specie di autoprocesso all’amministrazione della giustizia, a un suo modo di essere ed affermarsi.

La leggo, la requisitoria del Pubblico ministero, nella sbobinatura che della registrazione ha fatto il Partito radicale: e magari ci sarà qualche errore di trascrizione, qualche parola mal sentita o saltata; ma non è per queste zeppe che la lettura riesce faticosissima, la più faticosa in cui mi sia imbattuto in più che mezzo secolo di esercizio. Le virgole, i punti e virgole, i due punti, gli interrogativi, i trattini, le parentesi, le virgolette che aprono e chiudono le citazioni, mancano del tutto. Ci sono soltanto i punti fermi, che sono tali per modo di dire. E si capisce e giustifica che coloro che hanno sbobinato ne abbiano fatto a meno: non si riesce a capire quando e dove collocarli. Le incertezze e i sobbalzi sintattici dell’oratore; il suo andare e venire dentro gli atti e le cose ascoltate come dentro una gabbia cercando inutilmente un’uscita; il suo afferrare un concetto per la coda restando con la sola coda nella mano: non a un discorso che abbia premessa, svolgimento e conclusione ci si trova di fronte, ma a un franare incontenibile di parole, di materiali di riporto da cui con estrema difficoltà si può disseppellire qualche coccio, ma disparato e di impossibile assemblaggio.

Quando io andavo a scuola, e la scuola appariva già abbastanza malandata (ma davvero c’è stato un tempo in cui andava bene?) si raccontava l’aneddoto di quella commissione di esami in cui, interrogato in storia, il candidato dice ad un certo punto: I galli hanno sceso per le Alpi ; al che il professore di lettere dolcemente osserva: se si potrebbe dire , così suscitando l’indignazione del presidente, che esclama: Dove abbiamo giunto! . Ma ormai non si tratta più di errati ausili dati ai verbi e di sfasamento di modi e tempi, che peraltro concedevano di capire quel che si voleva dire: si tratta, ormai, di non riuscire a trovare nelle parole l’argomento, il concetto, il discorso. Le parole davvero volano; e continuano a volare senza identità -come gli Ufo- quando si tenta di fermarle in scrittura. Magari congiuntivi e condizionali saranno a posto, ma è la sicurezza e chiarezza di quel che si vuole comunicare che vien meno. Questa impressione ho avuto assistendo per una mattinata al maxi-processo di Palermo, quando deponeva Buscetta: e soltanto quel che diceva Buscetta mi era comprensibile. Ma non perché, credo, Buscetta fosse in grado di parlare un italiano migliore, ma perché sapeva quel che voleva o non voleva dire, perché ci aveva pensato su, perché gli era necessaria la misura, l’accortezza, la precisione. Il problema è tutto qui: nel conoscere l’argomento di cui si parla, nel farsene un’opinone, un giudizio: e nel portare avanti quell’opinione, quel giudizio, con quell’esattezza che può essere coronata dal come volevasi dimostrare -che la dimostrazione sia interamente convincente o meno. Si può anche partire -senza accorgersene o accorgendosene- da un anello che non tiene: ma una concatenazione deve pur esserci.
2
E per tornare alla requisitoria del dott. Olivares, eccone uno stralcio, un esempio: Io vorrei mutuare per un momento la mia posizione con quella di coloro che si sono improvvisati giuristi, operatori del diritto o quel che sia, ma che sostanzialmente erano politici, trinciando giudizi in difesa di un dogma sostanzialmente, per poter dire da quel buon politico che sono che Tortora un politico, non lo era affatto, che Tortora un politico non lo è mai stato, forse Tortora sarà stato strumentalizzato dalla politica, probabilmente sarà una vittima della politica, ma invece un politico non si può dire neanche oggi che presiede un partito che ha dei rappresentanti in Parlamento, e ritengo che sia così, sbaglierò, non lo so, ma io così ho visto Tortora fin dal primo momento; e allora perché Tortora sarebbe stato scelto a copertura? perché è un personaggio popolare? Sì, era un personaggio popolare perché in quel momento gestiva una rubrica televisiva popolare, quindi era certamente molto conosciuto, ma certamente un politico non era e certamente non poteva essere scelto a copertura di uno scandalo di Stato.

Io avrei immaginato, supposto, che un’operazione del genere fosse stata fatta per Negri, per esempio, perché politico Negri lo era sul serio a fine rivoluzionario, avrei potuto pure trovare degli inquirenti sempre politicizzati fino al collo perché indubbiamente ci voleva acquiescenza di costoro per poter organizzare una copertura di questo genere, e allora in questo caso, sfruttando il fatto così come lo definisce Pandico avrebbe azzardato una copertura, ma nei confronti di Negri, non nei confronti di un Tortora che non c’entra assolutamente nulla e che io ricordo esclusivamente come il simpatico conduttore di una trasmissione televisiva, Portobello, che gestì un mercatino, un pappagallo, quel che sia, ma comunque niente altro che quello. Ripeto: Tortora io l’ho considerato non un politico, e tuttora ritengo che sia stato una vittima della politica, ma non certamente un politico; mi perdonerà, ma è quello che io penso, che io ritengo, probabilmente sbaglierò, ma il mio pensiero è esclusivamente questo .

Quel che il dottor Olivares (la cui prosa mi sono permesso di depurare di qualche ripetizione e di aiutare con qualche segno di interpunzione) vuol dire, è questo: che non è vero che »pentiti e magistrati abbiano scelto Tortora -personaggio popolare sì, ma non politico- per far dimenticare il caso Cirillo. Quel che invece non avrebbe voluto dire, e che invece dice, e in un senso che si può dire univoco, è che Tortora è vittima della politica. In qual senso si può dire vittima della politica se non nel fatto che il suo diventare politico, il suo candidarsi ed essere eletto nelle liste di un partito politico, l’assunzione del suo caso a problema politico della giustizia in Italia, ha provocato l’irritazione e l’accanimento nei suoi riguardi, prescindendo dai termini di diritto che soli si sarebbero dovuti usare per giudicarlo? Voce dal sen sfuggita…

Non si capisce perché Tortora, di fronte al diritto, di fronte alle leggi che devono giudicarlo, nella valutazione delle prove e degli indizi di colpevolezza, sia una vittima della politica . Ma il dottor Olivares insiste fino alla fine in questa sua idea fissa. In conclusione, un buon ragazzo, prima, non si sa come, forse ricattato, coinvolto nel traffico della droga: poi rovinato dalla politica. E’ stato un ingenuo : diamogli dunque sei anni di reclusione. In quanto al diritto, lasciamolo ancora nella valle del sonno in cui giace.

Apocalisse per principianti

5

FOTO.Nicolas-Dickner

di Gianni Biondillo

Nicolas Dickner,  Apocalisse per principianti, Keller editore, 2012, traduzione di Silvia Turato, 226 pag.

Di romanzi che raccontano il superamento della personale linea d’ombra, con protagonisti adolescenti, maschi, occidentali, inquieti e piccolo borghesi, che vivono in una profonda provincia di qualunque parte del mondo, ne abbiamo letti fin troppi, la maggior parte prevedibili e noiosi. Non me ne era mai capitato però uno così scatenato, divertente e a tratti stralunato e surreale come questo di Nicolas Dickner, autore canadese francofono.

Dell’io narrante in fondo, del suo passato delle sue angosce o speranze, non sappiamo nulla. Lui è solo una voce (al punto che non conosceremo il suo nome per buona parte del libro): è il testimone che, grazie ad un fortuito incontro, ci fa conoscere la vera protagonista del romanzo, Hope Randall, ultimo rampollo di una famiglia di visionari che da generazioni – nonno, bisnonno e fin che memoria ricordi – riceve visioni apocalittiche e date certe della fine del mondo. Solo che il mondo non finisce mai, e di generazione in generazione, ogni componente della famiglia, fallito l’incarico, finisce male o ammattito.

L’ultima della serie è la madre di Hope, che convinta dell’imminenza della fine – siamo nei tardi ’80 – trascina la figlia a Rivière-du-Loup, un paese qualunque del Quebec, per prepararsi alla fine dei giorni, riempiendo la casa di generi alimentari d’ogni sorta: conserve, lattine, riso e pacchi di noodles giapponesi. Hope sopporta la follia della madre con maturità, consapevole che tanto, prima o poi, lei stessa sarà destinata a trovare la sua illuminazione apocalittica.

Apocalisse per principianti ha una lingua svelta, colma di citazioni pop, ironica e innocente allo stesso tempo, capace di narrare le turbe di un adolescente che vive il suo primo autentico innamoramento per una ragazza fuori da ogni schema. Romanzo di formazione che si trasforma all’improvviso in una avventura picaresca che dal cuore di una cittadina si muoverà in giro per il mondo. In attesa che tutto finisca. Forse.

 

(pubblicato su Cooperazione, n° 5, del 29 gennaio 2013)

I poeti appartati: Ilaria Seclì

10

Cis03-02

Inediti
di
Ilaria Seclì
immagini di Philippe Schlienger

Ecco la perla senza nome

Ecco la perla senza nome
il giglio il grano
venuti al piano dal monte
al monte torneranno.
Ecco il verde, l’azzurro di Creta
Leuca fulgida
scintillano bianco e vento
al mare torneranno.
Dalla scogliera parole e ossa
vengono all’interno
riempiono il cuore degli uomini
i grembiuli delle donne
i capelli vorticano
fanno di sabbia pensieri e opere
alla pietra torneranno.
Incanta questa luce
è sulla bocca di tutti
si riferisce il sortilegio
bocche accecate, stordite
alla luce tornerà la luce
quando il vento non avrà parole
più splendida del diamante brillerà.
Verde e rosso monastero di Athos
verde e rossa cava idruntina
sublime conca di Epidauro
nidi di cicogne su vecchi pali nei villaggi
verde eterno, rosso dei millenni
alla terra tornerà la terra
alla terra torneranno.
Idrusa lava le ottocento chiome
l’acqua è fresca non giunge voce
al mare torneranno le chiome sciolte
le teche resteranno vuote.
Ecco il blu della moschea
di celesti spezie vibrano i sensi.
Mille volte tanto al cielo tornerà
nessuna voce scheggerà la sua bellezza
nessun giubilo ne guasterà il riposo
Ombra di uomo sull’uomo detta amore.

Profezia

Finiremo giocandoci a palla il mondo
e quel resto che fu d’inciampo
Rideremo di nomi e venti
mari e boschi di cui fummo prigionieri
quando avremo l’universo nel palmo
distanze e continenti su cinque punte di mano
ogni bimbo canterà la verità del mondo
e sarà creduta la sua versione delle cose

Ritorno

Dice la corteccia che ogni crepa è santa
il vento più forte accarezza le foglie una ad una
punti celesti fanno denso il cielo
lo gonfiano fino all’occhio
è bianco il lembo che lo taglia
suoni di conchiglia da macchine e case aperte
radio e voci di vite fa.
Soffia luce la pietra anche di notte
mentre il falco vola sul medioevo di Cerrate
dove siamo stati, dove torneremo.
Non si inseguono numeri o torpedoni qui
al di là della vittoria è l’applauso dello sconfitto
c’è un campo di grano e cielo per ogni creatura
e ogni notte, la luna.

Espanse parentele

Ecco dov’è che vinci
atto che forze non tracimano
né luce. Se alito di morti mischi
all’impronta di passanti
ne fai toppa, pupilla di due mondi
lì di qua a spiare, e qui da loro
canto che scoperchi addita casa
statua più calda di una voce,
quello che nascondi brilla espanse
parentele che mai anello ha stretto
al dito né nome imbalsamato

Nivea

Nel palmo semi cardinali
fili sfarinati al soffio
non un colore turba la scena
di colomba e piuma
bolla scucita al tempo
assoluta miniatura
cosa che sei estranea e sciolta
vuoto essere, stata a piombo
dall’inizio non mossa.
Pane che diventa
già è, nel globo piccolo sosta
nel cosmo di latta eccola
prova che è vera,
viene, umana al mondo.

Cosmoteca

per i giorni venturi di nebbia conservata
come scarpe ai piedi di chi è stato vivo
può essere pupilla non ancora fissa
scritte di muri affacciati sui binari
nenie a bocca chiusa dondolio di braccia
per le rogge che c’erano e non ci sono più
tutto ‘sto viale era un canale e lavandaie
prime memorie di latino e rose
rombo che corri da stanza a balcone, cuore,
primo cuore, alito di menta e primavera
sentito e non visto cartacee ore
visi di Bisanzio, litanie, candeggina
teste di cavallo tra lenzuola bianche
bianco vecchio sulla curva buia
giugno al mare con l’asino e la tenda
estinta cosmoteca mia bimba che eri
sorella e figlia bianco sassolino
macro e matto altare nato dalla prole
ci fosse un ballatoio per memorie esterne
finestre, tabernacoli a ore, portargli arance
recuperare il nome, occhi, il rombo del motore
aspettami aspettami lo spazio senza previsione
ricordo porta bene, porta bene, bene
ma nessuno dice di saperne niente

COVER

U černého orla

Da qui scorre la Moldava
pioggia che non bagna
le finestre a coppie
di latte appena sporco
o verde di bistrot.
Penzolano burattini a pochi euro
fatti a mano gatti e gufi
rispondono ai silenzi dell’impero
i funerali dell’età del gioco
non hanno ammutolito
le risa dei passanti.
All’isola di Kampa
mulino e giocoliere
si passano l’acqua divertiti
fino a che si fa il deserto attorno
fumi e vapori gonfiano le altezze
dal Cavallo Nero al Topo Grasso
dai Due Soli all’Aquila D’Oro
ore macabre di Venceslao
danze cineree e statue di dubbia fissità
coprono mute l’aria eppure cantano
spezzano il cielo con metalli rossi
ne fanno tavolo da gioco e da bagordo
fino alle prime luci e pane caldo
passi di donna col suo scialle.
Tramestio pudico e svelto alza l’aria,
tutti in corsa verso un chiodo,
ritornare muti, ritornare imbalsamati
per lo sguardo dei passanti
ritornare statue, burattini.

***

Piccolo treno in bilico sul mare
nella tua stanza ogni cosa è mite
alba di giugno, benigna luce.
Cielo aperto, voli di santo
mentre va il respiro al cerchio
ed è lontano il mondo, se rondini
fanno festa tra rovine di carta.

***

Tornano. Prime ore di domenica
Quando l’aria ha spazi per gli uccelli
gli alberi sono alberi, le voci voci
Fluide avanzano da un eterno esserci
attraversano muri di città
portano stornelli, antiche melodie.
Sgretolano il terzo millennio
e dalle crepe e sfondi campestri
ecco l’azzurro di festa,
di prima comunione
che squarcia cortili bianchissimi,
e bianche scarpe avanzano
su tappeti di bucato e sugo.
Richiami e voci spiaggiate
cedono al dominio delle sieste.
Là ogni forza si arrende, nessun rimedio
blindato, spioncino o altra sicurezza
ha impedito l’ingresso al fantasma

Di vero in vero

la distanza di vero in vero resta
nulla è più certo dice il mondo
ferri del mestiere salvadanaio insonne
occhi di bambino suo bersaglio
occluse metriche, vizi dell’erranza,
o deserto che infiori a un passo
o deserto che infiori a un passo
guarire di pelle alla mano, torna
s’ostina il palmo ostacola la pioggia
s’ostina bassa questa lontananza

***

Voleva essere stagione
cosa ciclica, foglia all’acqua,
becco puntuto sul tronco
impronte di neve
al cimitero di confine
tramestio di zampette
su vizzi prati di ottobre
animate celle di clausura
canti riaccesi
porticato di pietra grigia
melagrana, battuto legno
umido legno,
pioggia e catrame di Dublino,
verde che cola ombroso, 1852,
suono delle cose vegetali
cose che curano i rifugi
senza turbamento,
pioggia e neve
colora ciò che deve
sbianca ciò che deve
cura, cielo del nord, cielo
pioggia e sole,
neve e vento
ricama l’aria il verso
risponde l’altro
tra raggi sfrigolanti
tra chiome animate
che burlano di ombre e oro
striscianti creature, l’intanto
che scende chiude si fa pozzo
poi annotta come il bosco
intero nella sua parola

Alfabeta2+Argo a Parigi: presentazione+performance

0

A Parigi, venerdì 21 giugno 2013, dalle ore 19.00

presso la libreria Marcovaldo (61, rue Charlot, 75003)

nell’ambito di Letti di Notte, la notte bianca della letteratura

 Per un uso performativo delle riviste. Alfabeta2+Argo: Presentazione, smontaggio e performance

Presenteranno le riviste: Andrea Inglese, redattore di “Alfabeta2” mensile d’intervento culturale, Filippo Furri e Tommaso Gragnato, redattori di “Argo” rivista d’esplorazione.

“Non solo nei musei c’è la merda” (Roberto Bolaño)

5

Bolaño-1

Bolaño nelle catacombe
di
Alberto Magnet
Traduzione di Jaime Riera Rehren

Qualche settimana fa sono andato a vedermi la mostra sull’opera di Roberto Bolaño – decimo anniversario della morte – al Centro di Cultura Contemporanea di Barcellona. Lo spazio della mostra consiste di una sala con due ali di grandi dimensioni dove potrebbe dispiegarsi una mostra sull’arte delle grandi dinastie egizie. Anche se lo spazio si trova al piano terreno, entrando si ha l’impressione di essere scesi sotto il livello del suolo, e coni e bastoncelli stentano ad abituarsi alla penombra regnante. L’enorme sala – per via della scarsa illuminazione e di una colonna sonora avvolgente che fa pensare a fatidici e sgradevoli lamenti provenienti dalle viscere della terra, e che a tratti sembra riprodurre in sordina le preghiere di fedeli atterriti nelle profondità di una catacomba – predispone il visitatore a sprofondare in un inquietante stato d’animo. Un misto di tensione e allerta che certo non contribuisce a un’esperienza rilassata. Per fortuna in quello spazio di più di mille metri quadrati non c’erano in quel momento che venticinque persone.

Se riesce a superare l’impatto di un simile allestimento, concepito da chi non ha mai letto Bolaño ma ha frequentato assiduamente le discoteche o ha sofferto di orrendi incubi lisergici, gli occhi del visitatore si posano su una targa di metacrilato dove si può leggere una frase del Manifesto Infrarealista del 1976, probabilmente uscita dalla penna dello stesso Bolaño: “Non solo nei musei c’è la merda”. Sembra che lo spirito dello stesso Bolaño si sia piazzato all’ingresso della mostra per avvertirci di ciò che troveremo all’interno.

D’altronde non a caso faccio riferimento alle dinastie dell’antico Egitto, giacché persino chi non ha mai visitato una mostra di questo genere ha la sensazione di trovarsi in un ambiente che invita ad addentrarsi in un passato remoto, con scaffali allineati lungo i muri che racchiudono oggetti che potrebbero essere collezioni di antichissimi gioielli, suppellettili liturgiche, reperti rinvenuti in qualche tomba reale sepolta sotto secoli di sabbia, esposti in una luce meschina che sembra ammonire: Si guarda ma non si legge. In realtà questi dettagli potrebbero anche apparire secondari nel commentare una mostra, tuttavia per chi soffre di un qualche problema alla schiena (il 60% circa della popolazione mondiale), l’altezza a cui sono collocati gli scaffali costituisce una vera sfida. La scelta di esporre il materiale in questo modo è frutto della malsana idea che concepisce i manoscritti di Bolaño come oggetti-feticcio, esposti per essere guardati o ammirati, ma certamente non per essere letti. La calligrafia dello scrittore, minuta e fitta, non si presta alla lettura da una distanza superiore ai quaranta centimetri, il che obbliga l’occasionale lettore ad adottare un’umile e dolorosa inclinazione a novanta gradi.

Viene esposta anche una quantità di fotografie, che hanno la particolarità di mostrare lo scrittore nella fase della sua vita che comincia in Catalogna nel 1977 e finisce con la morte. Si possono vedere solo poche immagini dei periodi precedenti, quello messicano e quello cileno. Anche i manoscritti e i diari esposti appartengono soprattutto alla sua vita catalana. Si potrà dire che è stato il periodo più importante dal punto di vista della produzione letteraria, ma l’insieme degli oggetti in mostra offre a mio avviso una visione assai parziale di una vita che è andata ben al di là della realtà di Barcellona, Girona o Blanes. Come se una mano oscura avesse imposto dei limiti alla possibilità di mostrare un Bolaño più completo, di aprirsi a un’interpretazione più poetica e meno commerciale della sua opera, al suo tenero e intimo sguardo sul mondo. Una prospettiva aperta alle diverse fasi della sua vita avrebbe dovuto includere necessariamente, per esempio, l’importante periodo finale, trascorso insieme a Carmen Pérez de Vega, la donna che lo accompagnò fino all’ultimo giorno. In questo senso aleggia sulla mostra del Centro di Cultura Contemporanea di Barcellona l’ombra di una censura. Invece di una mostra sulla vita e l’opera di Roberto Bolaño, dall’infanzia infrarealista fino alla maturità dell’autore dei Detective selvaggi e di 2666, con l’enorme carica di vitalità che la contraddistingue, il visitatore trova una celebrazione della vita e dell’opera di san Roberto Bolaño.

In effetti, se la misera illuminazione di quella sala fosse sostituita da moccoli di candela, nulla cambierebbe. L’orrendo suono avvolgente suggerisce la grave agonia di un organo che trasmette subliminalmente l’idea che ci troviamo di fronte a oggetti sacri normalmente occulti ai semplici mortali, fissati, imbalsamati per sempre in tetre nicchie, come quell’insolita collezione di occhiali tristi e spersonalizzati al fondo di una piccola teca.
Tutto ciò rimane immensamente lontano dall’autentico universo di Bolaño, la cui principale virtù è stata e continua a essere quella di gettare luce sulla vita e su un panorama delle lettere ispaniche – e universali – che a volte a lui sembrava un “deserto di noia”. La vita di Bolaño è contrassegnata dalla volontà di aprirsi al mondo e di rompere i confini accostando la poesia a un’esperienza vitale le cui radici appartenevano all’esilio, una vita che, appunto, metteva radici, profonde o fugaci, dovunque lui si trovasse. La precarietà a cui fu quasi permanentemente costretto, non fu mai pretesto per fuggire dal mondo e cercare un rifugio nel buio che domina l’inquietante spazio dove sono finiti i suoi manoscritti. L’ottimismo che sottostà alla forza con cui Bolaño affrontò i passaggi più difficili della sua esistenza e lo aiutò ad attraversare i “deserti di noia”, è un ottimismo gaio, nutrito dal permanente scambio con la luminosità di ogni cosa, di ogni amicizia, di ogni esperienza. Chiunque può rendersene conto se, schiena permettendo, riesce a leggere gli scritti esposti, scoprendone il valore intrinseco che ad ogni riga smentisce la meschinità oscura che li accoglie.

Uscendo dalla mostra, il visitatore torna a vedere la targa sulla spazzatura e i musei, e la contraddizione si fa evidente. Sospetto che a Bolaño sarebbe costata una grande fatica autorizzare una mostra su ciò che lui stesso rifiutava di definire “la sua opera”, ma se per qualche motivo ci fosse stato costretto, avrebbe imposto un cambiamento fondamentale: accendere le luci e aprire le porte per far entrare il sole di mezzogiorno, la luce e l’aria, elementi che cospirano contro l’oscurantismo del culto.

Alberto Magnet è cileno e vive a Barcellona, è nato nel 1953, lo stesso anno di Bolano. Vive in catalogna dagli anni successivi al golpe. Scrittore e traduttore, collabora con diverse testate giornalistiche online.

(OT)

0

di Giulio Marzaioli


scripta sua spongia linguave delere iussos
Svetonio, DE VITA CAESARUM, IV, CALIGULA – 20

un altro lavoro (è un lavoro di altri) preparato di coloranti (lavorare il fluido con petrolio) è un lavoro di altri lavare le cisterne (lavare con petrolio le cisterne) aggiungere petrolio ai coloranti (fluido altrimenti detto inchiostro)

(le cisterne sulla petroliera) sarebbe fuori tema (controllare il gas inerte) in coperta tracciare una linea (diciamo “di prosciugamento”) sotto coperta si gioca su campi di infiammabilità (il rischio è che gli idrocarburi vadano a miscelarsi ad aria)

questo è lavoro lavoro (in tema di scrittura) preludio a composto detto “inchiostro” (noi scriviamo che loro lavano le cisterne) in tema di scrittura le cisterne le lavano loro (lavaggio con petrolio che chiamiamo “oro nero”)


[testo pubblicato presso la rivista Semicerchio, n. 48/2013]

Oreste Quaglia

4

di Franco Buffoni

Ho cercato Oreste Quaglia su internet,
Un prozio che nel cinquantasette
Per la comunione regalò a Franchino
Con grafia tremante L’isola del tesoro.
Dal trenta fino agli anni della guerra
Preside a La Spezia del liceo “Lorenzo Costa”
Poi da pensionato a Gallarate
Pro tempore al ginnasio…
Severissimo, si sussurrava in famiglia,
Tenerissimo, lo ricordo io…

I Poeti appartati: Giovanni Cossu

4

346px-HotelChelsea

Poesie
di
Giovanni Cossu

da Ostracodermi

( 1983-1984)

“Com’è che dicono nei mattatoi
di Chicago a proposito dei maiali?”
“Non so” disse Wirtanen.
“Si vantano di saper utilizzare
tutta la bestia, tutto tranne gli strilli”
dissi.

KURT VONNEGUT, Madre notte.


sotto il vento
c’è il banco, la banca e il baraccone
e passano sudici gli uomini
un pazienza assurda li attanaglia
refrattari ai sogni
e refrattari
gli sposi
accusano stanchezza d’anni
Altri animali percorrono la faccia
della terra
: non un esempio.

Un coleottero, appesantito e nero
celebra l’anniversario della notte
: chiede alla madre che lo liberi
dalle oscure ali ricevute in dono
: lui solo sopravanza
la schiera dei compagni, sterile
che tende alla luna
Riposa non visto il sole
Accomunati da strategie fraterne
due occhi lo seguono nel buio
giustificando l’uomo.

 

 

Cocktail party

Guerinu si chiamava il banditore
al mio paese
Scalzo ai piedi percorreva le strade
annunciandosi a tutti con la tromba d’ottone
Gesuino invece il vigile notturno
Il terzo era il più grosso
Guardia municipale
portava addosso un divisa nera
e un nome intraducibile Viovvu
In modo temerario lo avresti imparentato
al giustiziere di Fetonte.

Le vacche grasse, le vacche grasse.
A. M. RIPELLINO, Autunnale barocco.

L’eredità del sauro

Ranuncoli ornati
di sperequazioni afasiche
, noi poeti
perseguiamo uno scopo
non facile da distribuire
agli astanti rimossi
che incedono impettiti
per strade boscherecce
e di città

Un’afa fetida
ci permuta la gola
richiamando a stento un simulacro

: uguali a noi
solo i piselli
concrescono nella brina assurda
di un matinée

1.

Mi par quasi di stare a foro
intendendo a sghimbescio
le tremuli vertigini di un sogno
fatto solo a metà
Ah, sogno di un amico
assunto a mentore temporaneo
in una prova oltre la quale
resta solo la scelta
per una terapia che non guarisce
( in quella d’agosto

uno scisso non è pronto alla ventura
se non ascolta calmo
le foglie paventate
e incrudendosi alquanto
dimentica le strade )

2.

Mi dà pensiero
nella poesia di questi giorni
un assunto
dicasi stile, maturità o coerenza
: invocata la bestia
non recita il Maestro
che ha triplice testa?

3.

Certo che la giocanda
fa di necessità virtù
( malgrado gli allattati al seno
dimentichino in fretta
quanto le costi riallacciarsi il busto )
E allora amori, onori, complimentose mani
sanno che col fare non c’è pericolo
di perdersi in sordina
e scrivono scrivono concettualmente
la possibilità di afferrare il nodo per la coda

münchausen
vincitori d’autunno
( appunto )

4.

Ma a che ci giova?

Uguali e ritmati nell’obbrobrio
restiamo con un pizzico di dubbio
e assumiamo l’esperto

Agape o collettivo
amore e invidia
sublimano saffo
e aprono le porte alla collaborazione

5.

Similmente il tempo
e l’aurea america
, direbbe un barbino
privo d’esperienza
e (
con riconosciuta voce )
allora préfero scaglionare i marosi
in modo da permettermi il lusso del pedaggio

Ma addove?

6. ( la casa di tebe )

Una fortuna occulta mi guida nella scelte
vivo
, in questo mondo dimezzato

(cinquepercento è l’altro )

versificando il passivo

Azzurri cieli fanno da coperchio
a disuguali simboli
separando il folle dal poeta

Puntando sulla malattia
sconfino nell’assurdo battere le strade
che sfociano nella perfetta colpa
:

LA CANONICITÁ

Una sfinge
dietro le spalle del notaio
( Folon
sfintere                      anale                     donna                   Tiresia
o
Kundalini

, prima
della peste )

, sbaglio tre volte assegno
per la mediatrice
unmilionecentossessantamila
( mi piace )
Solo alla fine stacco quello giusto.

7. ( e fine )

Una felice conclusione o.t. a questa piccola silloge – trascritta dopo trent’anni in
Word dall’originale dattiloscritto – mi pare possa essere la frase che un ufficiale
rivolge all’addetto alla mitragliera antiaerea nel film “L’ammutinamento del Caine”,
e che ho ritrovato scritta su un foglio chissà come finito tra queste poesie:
“Quanto tempo dovrà durare la guerra, perché lei possa imparare a distinguere un
aereo da un volo di gabbiani?”

Questa è follia, è guerra contro le persone

9

di Helena Janeczek

BM1DgwWCcAA1Yzj

Egemen Bagis, il ministro turco per gli affari con la UE, ha annunciato ieri sera che chiunque si avvicinerà a piazza Taksim sarà «trattato dalla polizia come un terrorista». La dichiarazione sembra un avallo ex post dello stato della repressione già in atto.

Vilfredo Pareto e la critica al grillismo

3

Di Enrico Piscitelli

Dunque aveva ragione Pareto, quando scriveva che le rivoluzioni, nel senso comune del termine, non esistono, sono semplicemente “cambi della guardia”. «In tutta la storia i cosiddetti capi popolari erano stati semplicemente degli scontenti di grandi capacità, i quali si erano sentiti esclusi dal potere esistente. Le grandi rivoluzioni non erano state niente di più che la lotta di una nuova élite per scavalcarne una vecchia, in cui il “popolo” offriva le masse di combattimento» [H. Stuart Hughes, Coscienza e società, Einaudi 1967, p.85].

La frase nazi

19

di Andrea Inglese

La frase della consigliera leghista Dolores Velandro non è semplicemente una frase razzista. Non si limita a rendere corresponsabile una cittadina italiana di origine africana di un presunto crimine realizzato da un immigrato africano.

Oltre i titoli di coda

2

di Giovanna Marmo

.

Scomparendo dallo schermo

Benvenuti. Accendete la luce, ma non guardatemi,
perché io non posso riconoscervi, così come voi
non siete in grado di riconoscermi.

A Corigliato gli danno pure la carta di credito

0

di Giorgio Mascitelli

Di fronte ai sedili dove aspettava c’era un distributore automatico di bevande calde e Corigliato si alzò, infilò le monete e scelse il caffè, ma il distributore si limitò a trattenere i soldi, resto compreso, senza erogare la bevanda. Ora questo era chiaramente un presagio di cattivo augurio che avrebbe dovuto indurre Corigliato ad andarsene quanto prima da quel luogo, Corigliato invece si limitò a imprecare sotto voce e ritornò al suo posto, ma subito fu raggiunto da un tizio in giacca e cravatta con qualche problema di forfora, ma era anche la stagione, che lo fece accomodare e sentito le sue richieste, disse che prima di ogni cosa si doveva provvedere a determinare le sue propensioni di spesa e pertanto il suo profilo di consumatore.

Minima ruralia – Conservare la diversità

2

di Massimo Angelini

Non si conserva il patrimonio varietale se si dissolve il tessuto rurale che lo ha generato, conservato e fatto evolvere: non ha senso recuperare i semi se si estirpano i contadini.

Per conservare la diversità delle piante agricole e il patrimonio di varietà e razze tradizionali, bisogna che nelle aree rurali e montane soggette a spopolamento funzionino le scuole per i figli di chi ci vive. E i servizi sanitari. Bisogna che le botteghe nei paesi possano restare aperte senza essere schiacciate dal peso delle norme fiscali e da norme igieniche astratte. Bisogna che gli agricoltori e gli allevatori possano lavorare in pace, senza l’aggravio di oneri, registri, carte, controlli che generano burocrazia e giustificano l’impiego di funzionari e consulenti, più di quanto serva al bene comune. Bisogna che i diritti comuni sulla terra e le sue risorse siano preservati e che, allora, sia interrotto il processo di liquidazione degli usi civici.

Questi aspetti – e altri ancora – segnano un confine; da una parte c’è la possibilità di continuare a vivere sulla terra, dall’altra c’è il suo abbandono. In Italia quel confine è già stato superato, forse non definitivamente e, forse, si può ancora fare un passo indietro; ma, per farlo, non occorrono nuove norme, al contrario: bisognerebbe cancellare quelle che scoraggiano il lavoro e la vita sulla terra, o, almeno, bisognerebbe escludere le aree rurali e montane dal campo di applicazione delle leggi che impongono norme fiscali e igieniche scoraggianti, se non opprimenti.

È così che si può conservare la diversità delle piante agricole: rispettando il contesto comunitario e locale nel quale la diversità è stata generata (e si rigenera), e i contadini che hanno selezionato le varietà e le razze tradizionali, le hanno fatte circolare, le coltivano e continuano a tramandarle. Sono loro che hanno conservato e ancora conservano il patrimonio comunitario di varietà e razze; nessuna legge può imporlo e le banche dei semi non possono farlo al loro posto: possono, tutt’al più, mantenere in vita materiale genetico senza contesto.

Tutto questo è cosa le leggi regionali approvate negli ultimi anni sulla tutela delle “risorse genetiche” sembrano ignorare: istituiscono banche dei semi, registri, commissioni tecnico-scientifiche, conferiscono incarichi, moltiplicano i moduli e i funzionari; finanziano genetisti e agronomi perché caratterizzino le varietà con descrittori standard o attraverso marcatori molecolari. E così facendo quelle leggi ignorano che conosce e può riconoscere con competenza le specie e le varietà di piante di un luogo chi in quel luogo vive e di quelle varietà sa spiegare l’uso e descrivere l’aspetto, il comportamento e le differenze, con le parole che in quel luogo tutti possono capire in un modo noto e condiviso.

Dall’altra parte, si riconoscono compensi agli agricoltori e li si chiama “custodi”. Custodi di cosa? Del museo della campagna? Di un ospizio grande come questa montagna? La terziarizzazione dei contadini come giardinieri del paesaggio e della biodiversità mi fa impressione. Le varietà tradizionali sono eredità, patrimonio e memoria, così come lo sono le fotografie dei propri vecchi, i saperi di famiglia e la terra di casa: se qualcuno ha bisogno di un compenso per conservare le fotografie dei propri vecchi e per tenere in vita i documenti del proprio costume è meglio che li perda.

Desidero ripeterlo: non si conserva il patrimonio varietale se si dissolve il tessuto rurale che lo ha generato e conservato e fatto evolvere: non ha senso recuperare i semi se si estirpano i contadini.

 

(anche quest’ultimo frammento, come il primo e il secondo, è tratto da “Minima ruralia”, sottotitolo: “Semi, agricoltura e ritorno alla terra”, del filosofo e ruralista Massimo Angelini, pubblicato da “Pentagora”, Savona, 2013)

Gli Intempestivi: Hannah Arendt

0

cercle-vicieux-violence-couple
Acqua Potabile
di
Francesco Forlani

“L’estrema forma di potere è Tutti contro Uno, l’estrema forma di violenza è Uno contro Tutti.”H. Arendt

Recentemente ho conosciuto ad una serie di incontri letterari in una valle piemontese una ragazza che lavora in Equitalia. Che ci lavorasse l’ho saputo in una pausa caffè tra un atelier di scrittura e un altro e mi ha molto colpito il modo in cui, alla domanda di rito in questi casi, del genere, “ok scrivi, ti occupi di letteratura, ma cosa fai per campare?” prima di rivelarmi il suo travail alimentaire, ha usato un’espressione del tipo, “un lavoro bruttissimo”. In realtà ho temuto il peggio anche perché qualche tempo prima, sempre ad un incontro letterario, però a Cagliari, due ragazzi che si erano avvicinati per fare due chiacchiere, avevano usato più o meno la stessa formula, “il peggiore mestiere del mondo”. Chissà perché, ma forse nella suggestione di quanto stesse accadendo nel Sulcis, avevo pensato alle miniere, e invece, prima ancora che dicessi una cosa del tipo, “non esistono lavori brutti in sé ma solo per chi non ama fare un lavoro che è costretto a fare”, il più spiritoso aveva aggiunto “vestiamo i morti”. Come se non fosse già abbastanza truce quell’espressione grammaticale al punto da spingere il mio amico poeta, napoletano, Biagio Cepollaro immediatamente in una sorta di danza del “gratta e vinci”, i due nel vedere passare un giovane accigliato lo avevano descritto così: “anche lui è uno che veste”.

Sui fatti accaduti a Roma qualche tempo fa, si sono già pronunciati le migliori menti della mia e della vostra generazione però non so, dopo averne letti alcuni di questi “illuminati signori” quanti si siano concentrati su una delle affermazioni dell’autore del gesto forsennato: “Ho voluto fare un gesto eclatante in un giorno importante: non odio nessuno in particolare ma sono disperato”.
“Luigi è sicuramente una persona disperata, ma questo non può giustificare assolutamente quello che ha fatto. Sono convinta, però, che anche la politica ha le sue colpe e dovrebbe riflettere su quanto è accaduto”. Lo ha detto la sorella di Luigi, Girolama Preiti.

La ragazza incontrata ai reading, dopo avermi spiegato l’imbarazzo del suo lavoro, di certo non del suo mestiere, mi ha anche raccontato come il giorno prima davanti al suo ufficio un uomo l’avesse aggredita prima verbalmente e poi sputandole in faccia. Ricapitoliamo allora. Una ragazza che per sbarcare il lunario e non certo per vocazione si arruola in una funzione simbolica, una impiegata, rappresentante, simbolo appunto di una delle più detestate marche sociali in Italia, al punto che qualora un cronista fosse venuto a conoscenza della cosa avrebbe intitolato il suo pezzo: Ragazza di Equitalia aggredita a calci e sputi. E sentire dichiarare dallo stesso aggressore, “non ce l’avevo con lei anzi, mi dispiace”.

Questo da una parte. Dall’altra un senza lavoro spara a bruciapelo su due carabinieri, ovvero un giovane e un cinquantenne in atto di esercitare per vocazione, sicuramente, assurgendosi a vendicatore di offese indicibili subite dal popolo, ad opera della sua classe dirigente. In realtà sappiamo che il bersaglio della disperazione di Luigi Preiti non erano affatto i due carabinieri ma un politico, un politico a caso, credo abbia detto in un’altra dichiarazione. Ecco allora che la centralità del lavoro e del potere, da intendersi come ostacolo all’esercizio legittimo che si vorrebbe fare del proprio talento o delle proprie braccia, in questa piccola storia ignobile, la fa da padrona e permette il salto simbolico che ha trasformato la vittima in carnefice. C’è una confusione tra Potere e Violenza nell’immaginario collettivo che sembra con estrema facilità e banalità offrire al disagio del male una qualche giustificazione. Se rileggiamo il bellissimo trattato di Hannah Arendt troviamo un passaggio a parer mio illuminante in questo scenario così dominato da chiaroscuri. E precisamente quando proprio a proposito della confusione tra potere e violenza, scrive:

Dietro la confusione apparente c’è un fermo convincimento alla luce del quale tutte le distinzioni avrebbero, nel migliore dei casi, un’importanza relativa: la convinzione che l’aspetto politico più sostanziale è, ed è sempre stato, la domanda: Chi comanda a Chi? Potere, potenza, forza, autorità, violenza non sono altro che parole per indicare i mezzi attraverso i quali l’uomo domina sull’uomo; sono considerati sinonimi perché hanno la stessa funzione. E soltanto dopo che si sarà rinunciato a ridurre gli affari pubblici all’esercizio del dominio che i dati originali nel campo degli affari umani appariranno o, piuttosto, riappariranno, nella loro autentica diversità.(…) Riassumendo: politicamente parlando è insufficiente dire che il potere e la violenza non sono la stessa cosa. Il potere e la violenza sono opposti; dove l’una governa in modo assoluto, l’altro è assente. La violenza compare dove il potere è scosso, ma lasciata a se stessa finisce per far scomparire il potere (Tratto da H. Arendt, Sulla violenza, Ugo Guanda Editore )

Al Palio di Siena i cavalli scossi sono quelli liberi dal fantino, e si sa che possono vincere, la politica mai, quando è scossa.

Bella Gezi Park

1

 

“Sradicheremo gli alberi da Gezi Park, saranno ripiantati in un altro luogo. La questione è chiusa. I manifestanti si ritirino dal parco. Non avremo più tolleranza. Con il pretesto del parco si sta giocando a un gioco più grande.” (Tayyip Erdogan)

Careerbuilder – Satura minima

1

di Daniele Ventre

in quest’età di squali e mare stanco
il candidato a mansioni di schiavo
soffre non poco la competizione

così va in sovraccarico e in tensione
lui strumento vocale postmoderno
e si gioca l’augusta selezione

Thalarctos maritimus (da “Bestiario”)

4

di Giacomo Sartori

orso_p026_1_00_web

Hai un bell’esserci abituato, a un certo punto ti accorgi che hai freddo. Succede all’improvviso. Sei lì, faccio un esempio, che mangi un grosso pesce che hai agguantato con una zampata – di bagnarti dalla testa ai piedi non ti faceva proprio voglia – e la tua schiena è percorsa da un brivido. Capperi, fa freschino, ti dici. Non è nulla, poi a muoversi passa, pensi. E vai avanti col pesce, senza affrettarti. Ci mancherebbe solo che io, l’orso polare, abbia freddo, ridacchi dentro di te.

Sarà anche così, ma mentre inghiotti gli ultimi bocconi hai l’impressione che nel tuo stomaco il pesce si sia trasformato in un blocco di ghiaccio. Gambe in spalla, ti dici. Affondi la testa nelle scapole, e ti incammini con un buon passo. Per superare gli avvallamenti tra gli speroni di ghiaccio spicchi dei gran salti, invece di scendere e poi risalire come fai di solito. Ben presto ti senti in gran forma, un leone. Il problema è piuttosto che a quel ritmo ti viene fame di nuovo. Quando invece comincia a fare buio, e quindi fino all’alba di cibo nemmeno parlarne. Non so se domani avrò tanta voglia di pesce, ti dici, mentre ti prepari a passare la notte in un inospitale cunicolo. E ti pregusti un qualche delizioso bocconcino tiepido tipicamente autunnale: che ne so, un grassottello roditore, o un uccellaccio ritardatario, ormai troppo indebolito per spiccare il volo.

Le settimane seguenti tiri avanti, seppure a denti stretti. Però è innegabile, le giornate si accorciano ancora di più, e quel che è più scoraggiante il sole si solleva appena dall’orizzonte, quasi una zampona invisibile lo pigiasse contro la banchisa. Dai che oggi invece balza su in mezzo al cielo e mi scalda per benino, ti dici ogni mattina, e per ingannare l’attesa pensi a qualcos’altro. Per esempio la famiglia che hai lasciato da poco. Tua moglie era decisamente un gran pezzo di orsa, e i tuoi figli erano proprio carini, specialmente il maschietto nato per ultimo, ti dici. Era bello andarsene in giro tutti assieme, in fila indiana: diciamo la verità, ti riempiva di orgoglio. Il punto dolente era quell’interminabile confusione di voci, tutti quegli snervanti capricci, le continue lamentele, i battibecchi: l’impressione di soffocare. A un bel momento non ce l’hai più fatta, hai piantato lì baracca e burattini, e te ne sei partito senza nemmeno salutare. Non sei proprio fatto per la vita familiare, ormai è più che provato.

I giorni successivi, chiamiamoli giorni, sei obbligato a constatare che al sole non gli rimangono nemmeno le forze per staccarsi dalla linea dell’orizzonte. È fiacco-fiacco, come ammalato. Sembrerebbe quasi che rotoli, invece di volare. Il metodo migliore è ancora immaginarsi qualcosa di troppo caldo, ti dici, ricordando un vecchio proverbio. Rivai allora con la memoria al gran solleone dell’estate, quando con la scusa di catturare i pesci per tutta la famiglia ogni cinque minuti ti buttavi nell’acqua. O anche, ancora meglio, pensi a quel mai più ritrovato tepore di quando da piccolo dormivi con i tuoi fratelli, in un intrico di musi e zampe contro la pancia rovente e morbida della mamma. Funziona, per un po’ funziona. Mangi, rifletti, cammini, fai quello che devi fare.

Ci pensano le rabbiose scudisciate del vento, a rinchiodarti con durezza alla realtà. Sopra la testa ti sfilano nuvoloni grigi, lividi. Li diresti tetri soldati che marciano verso la carneficina finale. Ormai il sole nemmeno più fa capolino, è già tanto se si degna di rischiarare, da sotto la linea dell’orizzonte, metà del cielo. Il naso ti fa male manco una volpe argentata te la mordesse con tutte le forze, al posto delle zampe ti sembra di avere quattro stalattiti di ghiaccio. Delle orecchie non parliamone, ormai è un bel po’ che neanche le senti più. Diciamo le cose come stanno: io, l’orso bianco temprato a ogni rigore atmosferico, io, il re della banchisa, in questo particolare frangente ho freddo – ti dici – un freddo becco. Mi rendo benissimo conto che non è da me, so che dovrei essere superiore a queste bazzecole, eppure questa volta ho l’impressione di stare assiderando. È un dato di fatto, un’evidenza contro la quale non posso fare nulla.

Ti verrebbe da battere i denti, ti verrebbe. Sdraiarti in una cunetta riparata dal vento e tremare battendo i denti. E magari mugolare, fa bene mugolare, quando si è provati a quella maniera. Beninteso ti trattieni, ci mancherebbe solo che qualcuno ti sorprendesse a battere i denti e a mugolare come un cucciolo, saresti finito. La banchisa polare è strana: se hai voglia di veder qualcuno puoi anche vagare tre settimane con gli occhi fuori dalle orbite, non incontri anima viva. Solo come un cane. Quando invece sei ben bene arrivato alla conclusione che tutto sommato stai molto meglio senza tanta gente tra i piedi, zacchete, salta fuori una lepre artica, o un qualsiasi altro ficcanaso, che spia tutto quello che fai, o anche comincia a tempestarti di domande. Da quanto tempo stai camminando? Pure tu ti sei imbattuto in un esemplare di quegli esseri che se ne vanno in giro su due gambe e tutti infagottati? Sei stato sposato? Quante volte? Era meglio la quarta moglie o la terza? Preferisci i figli maschi o le femmine? Cos’hai sognato la notte prima? Come si può immaginare se solo ti lasci andare alla minima confidenza intima, l’anno dopo – com’è come non è – tutto il polo nord è al corrente. È un errore che fai una volta sola, poi impari la lezione.

Fin lì hai tenuto duro. Ormai però è inutile che te lo nascondi, le giornate si sono fatte vaghi accenni di albe, sempre più incerte, più brevi. Vieni fuori imbecille d’un sole! qui per colpa tua si gela! ti verrebbe da gridare. Ma no, hai altro a cui pensare: ti sembra che il vento si sia ripromesso di assordarti con i suoi ruggiti, che voglia a tutti i costi strappare ciocca per ciocca il tuo morbido pelo bianco, bucarti gli occhi con degli spilli, seppellirti sotto cumuli di nevischio. Non sai nemmeno più dove stai andando, per cosa. Sei solo frastornato, umiliato. Hai solo freddo, un freddo bestiale. Vorresti tanto una cosa, una cosa sola: due minuti di silenzio, due minuti della zampona tiepida del sole sul tuo pelo morbido, come in estate. Vorresti tanto, ebbene sì, la mamma.

Qui si mette male, ti dici. No, devo farcela, io sono l’orso polare che non teme le peggiori intemperie, ti riprendi, in un’ultima impennata di orgoglio. Devo resistere, devo tener duro a qualsiasi costo, ti ripeti, e allunghi ancora il passo. Solo che ormai hai l’impressione di avere la testa incastrata in un crepaccio che si sta richiudendo, e le tue palpebre sono rigide e pesantissime. Ti verrebbe, se solo il tuo istinto non facesse che urlare che per te sarebbe la fine, da lasciare che si abbassino, e buonanotte ai suonatori.

Nel pieno della crisi ti imbatti in un grosso animale che brancola nella semioscurità come un automa, più morto che vivo. Non so come sia, ma la natura organizza le cose sempre allo stesso modo: non ha molta fantasia. Una renna ormai rassegnata al proprio destino, di solito. Guardandola nel fondo degli occhi, ce l’hai lì vicinissima, hai l’impressione che per lei sia quasi una liberazione, averti incontrato. Almeno adesso è finita sul serio, ti sembra che si dica. Bando ai sentimentalismi, con le tue ultime energie le spezzi il collo di netto. Dopodiché affondi il muso nei suoi intestini quasi troppo caldi, tutta la testa, le zampe. Ti imbratti di rosso il tuo bel pelo color porcellana, ma per una volta non te ne importa nulla. Nel farlo provi anzi un brivido di piacere.

Ti accucci e cominci a riempirti la pancia con metodo. O meglio, continui a trangugiare brandelli di carne anche quando sei già sazio, ti ingozzi fino a sentirti scoppiare, fino a averne la nausea, a non capire più niente. Ecco, adesso sono proprio pieno come un uovo, ti dici, quando sul ghiaccio non restano che ossa e qualche ciuffo di pelo. Sei appagato. Certo, ma prova tu ad andare da qualche parte, in quelle condizioni: stai a stento sulle quattro zampe. Ti guardi intorno, per quel poco che si vede, e sbadigli. Dio che abbiocco! ti dici.

Riesci a malapena a trascinarti fino al primo anfratto ben riparato, e poi chi s’è visto s’è visto, ti lasci cadere a terra con un tonfo. Che vadano tutti a farsi benedire, ti dici, io adesso mi faccio una dormita di tre mesi. Non ti pulisci nemmeno il muso con la lingua, non ne hai la forza. Sarà per domattina, ti dici. Chiudi gli occhi, e subito dimentichi di essere l’orso polare che non teme alcun rigore atmosferico, il re della banchisa: pensi alla tua mamma, al caldo che faceva quando con i tuoi fratelli vi stringevate tutti assieme contro la sua pancia, in un groviglio di zampe e di teste. E allora finalmente il vento tace, e ritrovi il tepore dell’estate.

(questo racconto è tratto dalla raccolta “Bestiario”, Provincia Autonoma di Trento, 1996; in compagnia della nidiata di confratelli migrerà tra breve nella raccolta a quattro mani “Zoo a due” (Perdisa Pop), con Marino Magliani, sodale di scrittura e non solo)

Una prosa e due poesie

0

di Antonio Scaturro

w. ryan

Letti dalle gambe

– Le madri non ci credono ai letti, o meglio: non credono alle loro gambe. –

Quando ero più piccolo, e la febbre faceva del mio corpo il centro di ogni fuoco, il letto diveniva l’unica dimora accessibile, “questo letto non è che un assaggio del buio, una preview della morte.”
I letti non si arrendono mai alle loro proporzioni, perciò se la danno a gambe elevate, proprio così: elevate, la vertigine febbrile portava a compimento l’impressione che le gambe percorressero una staffetta al soffitto, ma ogni gamba non sente ragione, punta al traguardo. Così, mentre una taglia la prima curva, un’altra, fuori forma com’è, inciampa in partenza.
Sono stato per anni spettatore inerme delle più terribili scorrettezze: non c’è fair play ai piedi del letto, solo l’avaria di questi arti tremendi, o il prodigio – in quantità massime -.
La luce dimessa su due gambe, ma poi ripresa, nella luce led blu del nintendo che fa “ciao ciao”, ma poi diventa rossa: rossa rossa fino a esplodere.

La notte ci misura la febbre con un bacio della fronte, mentre il buio raccatta le cose da terra, assesta il campo (tra le altre cose le zolle), assicura le condizioni minime necessarie.
Ne è passata di acqua sotto i ponti, ma i letti non si tirano indietro mai, per questo abbiamo sempre pensato ai letti come a zattere, zattere a lenzuolo nel porto delle camere, ma le madri non lo sanno, non se le pensano nemmeno queste infinite maratone notturne, nella grande notte del focolare.

Così, mentre il mercurio mi prende sotto braccio, un altro delirio, ansimante e bollente: capita di essere il proprio Charizard, capita che non si respiri, capita che: lanciafiamme.
La camera ora è un rogo, – ciò che racconto accade adesso, in questo preciso momento -.
Ma ai vicini non interessa, se ne infischiano se la casa volge al termine, se le fiamme la avvolgono senza secondi fini – come gli antifurti la notte si rincorrono fra timpani e tempie -.

Voglio tentare, non so ancora se l’azione volge all’eroismo o alla disfatta, ma voglio provare ad alzarla questa testa. Chiaro che tutto poi ruzzola giù per il corpo, le granate della sete in questa trincea di buoni propositi. “L’intenzione non è mai stata buona, un discorso altro riguarda il piumone”.
E le gambe, quelle del letto dico, in questo concerto di fiamme che fanno? Continuano la loro sfrenata corsa, mentre dalle mensole il pubblico è, neanche a dirlo, infiammato più che mai e gioisce per ogni sgambetto, per ogni insulto: ad ogni sputo un tributo.
Il fuoco si è sempre difeso dalla parola, ma in questa notte nel tempio, il rogo sfila in passerella e non inciampa mai, ed è questa l’unica fine logica del verso: la fine, appunto.

La notte allaccia i lenzuoli così ci tiene a mente tutti gli oggetti, tutti incastonati nella camera: sono oggetti segnaletici, ci permettono una camminata agevole, in tutte le direzioni. È della mattina invece che temo gli spigoli, dunque mi faccio largo con le mani, con queste pupille al palmo sono una forza, un eroe mai visto. Nel sonno che non giunge mai, converso con la medicina, nel sapore alterato di dio, nella mora schivo il disgusto.

La mattina seguente ripristina il sangue, tutte le cose obbediscono al loro buio, mentre il resto ci suggerisce la cenere, a bassa voce, – abbiamo tanto pensato al freddo che quasi non bastano i cappotti -.
– Questa notte è stata una notte a camino -, non è vera la mattina che svela la realtà dei letti, ma noi confidiamo nel buio, che ci consegna gli highlights della corsa, perfetto come un cecchino, il rapporto delle 3:45.
La mattina dimette le gambe dei letti e assume le nostre, pesanti e senza molle, ci trasciniamo attraverso il giorno confidando nell’orizzonte della piuma, del cuscino di nuovo fresco.
Si ripristinano anche tutte le vertigini, come di consueto, così dal nulla il pensiero che le gambe non si muovano, e forse non esistano gambe dei letti ma solo letti dalle gambe, la terra come braille.

Alla febbre notturna segue la disperazione degli occhi, di queste pupille che seguono gli schermi come falene verso l’ustione, che si schiantano sulle cose come se non ci fosse un domani, ma questo domani giunge sempre, a ristabilire il tutto, a esaudire il lutto.
Temo ancora la febbre ma confido nel fuoco, – il verso verso le fiamme -, siamo talmente capaci di costruire che sarebbe un peccato non consegnare tutto al rogo, come dal principio si dividono le acque, così il fuoco, compatto come il vuoto, danzando porta a compimento ogni destino.

Questa fenice casca male, come di sbieco. Ora tutto muore irreversibilmente, come tutte le pietre senza occhi a dare acqua, nessun capo d’accusa, neppure un palo o una traversa a rimetterci in gioco.
– La morte senza se e senza ma, la stessa morte di sempre: frontale come i semafori. –

“Questo letto è abbastanza grande per tutti e due
vieni avanti, veglia con me
ma fa’ che non ci siano gambe
ma soprattutto occupati del domani:
fa’ sì che non sia mai domani”

 

 

il nome consiste in
questo sparire delle cose, nell’andarsene
muti fra i fischi.

dalla radice sottrae ancora
il peso, di questo corpo che
concede il taglio, che trabocca 
e fa naufragio.

poi non rimane che acqua a
destinarci alla terra, e non ci sono mai,
- ma neanche per errore -, 
altre mani a farci scudo. 

– ora mischia i materiali
in modo che non siano più -

nel riparo ultimo conca d’aria
sfasa il fiato, annuncia un sorpasso. franiamo
fra tutte le ispirazioni, ma senza respiro 
a reggere il gioco. (le mani di cui prima
reggono l’acqua, fanno un’ampolla
come per miracolo).

esposti finalmente
al fuoco aperto di ogni cosa. 


Testi di guerra

- il testo al fronte che prediligo è il cecchino -
fuori dalle parentesi la morte si annuncia come
un’esondazione, trabocca dal testo.
“perché quel che racconto questa sera avviene questa sera, a questa stessa ora”
è così naturale la morte frontale, così tirata a lucido
senza sbavature.
la laterale giunge a
spiazzare le ore invece, fa fronte con le fionde, 
ci costringe al punto e virgola; morte laterale. 

la morte abita ogni girone dell’orologio
Oh gironi orrendi. In così verde etate!
tutti noi, da piccoli,
abbiamo preso quella botta
tra i piedi e la nuca
che ci consegna - un dono nel suo livello massimo di generosità -
la sventura del domani.

quando dormiamo in sospensione, la mattina
(appostata com’è dietro le cose) ci fredda al volo. 
spesso la notte ci misura la febbre con un bacio della fronte,
mentre le gambe del letto 
affette (come lo sono spesso)
da sproporzione, ci passano la torcia.
il prossimo fuoco dista un sonno.                                                                      Solo uno.

[Immagine: W. Ryan.]

I poeti appartati: Pablo Visconti

3

images
Inediti
di
Pablo Visconti

Anime perse

Anime perse sono la pietra,
la cristallografia anomala del sesquiossido d’alluminio
Al2 O3, senza lacrime, senza gemme.
Non sono divenute pietra, sono la pietra,
senza più un sorriso, senza voce, senza fiato:
Bottiglie…Bottiglie…asperità, ossa, muscoli legnosi,
occhi di travertino giallo bruno, la luce lontanante dentro lo sguardo,
un puntino opaco, una capocchia di spillo.

Della pietra accantonati ai cantoni delle strade.
Ai “puntoni ”: Bottiglie…Bottiglie…barcollando
Ostacoli semoventi alle luminarie della festa,
Bottiglie…Bottiglie…e noi siamo allo specchio
E il cristallo molato e il moltiplicarsi dello specchio:
spesso vetro verde della nostra vita, culi infrangibili di bottiglie,
occhi fissi accucciati a Toledo, a Medina, a Fonseca, ‘o Conte ‘e Mola,
a San Giacomo degli Spagnoli, che Spagna hidalga di bottiglie…
Bottiglie…a via dei Giubbonari, a Garibaldi, che bottiglie…
lasciate sfiorire al chiaro di luna, che città di Spagna è questa,
di Africa, di Kiev, Leopoli, bielorussi:
che miscuglio etnico di sentimenti e alici, di cozze, melanzane
e di “sciurilli” e bottiglie…e bottiglie…
in fila come soldatini di piombo…nei vasi delle piante
a San Domenico Maggiore fioriscono bottiglie…
oh! piante delle bottiglie, vetro verde, vetro color dell’orzo
vetro verde verde, un prato spelacchiato di bottiglie
a via Nazario Sauro ‘ncopp ‘e scoglie tra gatti marini e fichi selvatici,
nei box trasparenti Telecom, bottiglie abbandonate e vetrobiglie
come occhi luccicanti nella notte,
Bottiglie…bottiglie…frammenti, pezzi
E sanguinando il cuore come le bottiglie in fiore.

E la neve, quella neve, chi l’ha più vista dal 1956,
quando ci si rompevano le gambe, palle di neve
dell’infanzia. Ora la neve…sbuffi di neve…
polvere di stelle nel letamaio delle scale a Montesanto,
nelle case abbandonate a Scampia, nelle scuole in costruzione,
a Ponticelli, polvere di neve, di talco, spruzzi di stricnina
e cadaveri innominati…la neve agli irti colli inspirando sale,
nei bagni maleodoranti di Napoli Centrale, il tapis roulant
a Napoli Centrale trasporta le ferite, a Napoli Centrale
la babilonia delle lingue e diffidenza e furtivi occhi
e gelide manine e vagoni abbandonati sui binari morti
a Gianturco, la notte come tane, “Stut cette sigarette,
dasvidania”,case carrelli di cartone e plastica e
il barone con il vestito nuovo portatogli dalla mamma,
il giaccone imbottito per l’inverno, all’angolo di
Santa Brigida con Toledo nella striscia di sole che viene dal mare
per asciugarsi i pantaloni pisciati durante la notte:
il barone non c’è più e il giaccone nuovo in una notte
divenne già vecchio.

Ciondola il cuore a riassumere: vedete che l’acqua sforza il tufo,
penetra le pareti e sinfonia d’acqua intanto affiora dalle visceri
dedicate alle viole di marzo, gambi all’aria.

(2004)

mamma è la mia medicina

una bambina per strada si rivolge al mondo
ha la chiave segreta della propria vita
negli occhi azzurri e spiritosi,
urla come un proclama la sua felicità
di stare stretta stretta al corpo di sua madre.
Ascolto questa sicura fermezza,
resto basito ma il cuore mi è balzato in petto.
Vorrei sentire anch’io queste magiche parole,
questo semplice eppure complesso afflato
questo respiro finale sotto il mare
come il tocco di Cirano che muore
senza toccare amore.
E vivere per sempre, fino alla fine,
come un sogno interrotto a metà notte
sudato come un selvaggio animale
braccato dentro le forre
nella montagna scura.

2009