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1° Maggio – «Festa del lavoro»

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Claudia Maina «Corpi docili»
Claudia Maina «Corpi docili»

Dal gennaio 2008  al 30 aprile 2013 sono morti per infortunio sul lavoro oltre 5000 lavoratori di cui 2553 sui luoghi di lavoro e gli altri sulle strade e in itinere. (Osservatorio indipendente di Bologna)

Dall’inizio dell’anno sono documentati 145 lavoratori morti per infortuni sui luoghi di lavoro. (Osservatorio indipendente di Bologna)

«Molte vittime non hanno nessuna assicurazione, – si legge nel blog dell’Osservatorio indipendente di Bologna, – e muoiono lavorando in “nero”ed intere categorie non sono considerate morti sul lavoro. Praticamente sono morti sul lavoro invisibili»

Nel 2012 sono morti 1180 lavoratori, di cui 625 sul luogo di lavoro (Osservatorio indipendente di Bologna)

Bollettino dei suicidi nel solo mese di aprile. Le morti della «crisi»:

Booking: Stefania Hauser

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hotel

Camera 304
di
Stefania Hauser

Sebastiano dorme beatamente, ne approfitto per uscire sul balcone a guardare il panorama. Il lago è una falsa rappresentazione del mare, se sei nata a Genova e se ci hai vissuto per trent’anni, ma da qui si apre davanti ai miei occhi un panorama che pretende ossequioso rispetto, infatti, prendo una sedia e mi accomodo. Se fumassi, avrei acceso una sigaretta e s Esse fosse qui già l’avrebbe fatto. Dondolo tra i ricordi, come se oscillando riuscissi ad avvicinarmi a tal punto da afferrarli, ma lei qui non c’è e non cambierebbe niente se mettessi più slancio. Quanta acqua sarà? Quanti litri, intendo?

Ho sempre avuto difficoltà a quantificare le cose, devo crearmi un’ipotetica unità di misura e moltiplicarla all’infinito, quindi, quante vasche da bagno sarà questo lago? Prendo la prima e la adagio al porticciolo che vedo ad est, ne metto accanto un’altra, orizzontalmente, e continuo cercando di essere il più precisa possibile, mentre ripeto a voce alta il numero, ogni volta che questo aumenta: trentacinque, e ancora non ho raggiunto la sponda orientale, quarantuno, non sono nemmeno a metà strada, ma resto concentrata sull’orizzonte e aggiungo altre vasche da bagno, cinquantadue, in fondo, si tratta solo di calcolare la prima fila per poi moltiplicarla, no? Ok, ma moltiplicarla per?

Ci penserò dopo… Settantuno. Meglio prenda dei punti di riferimento, però, per capire da dove far ripartire il conteggio se qualcosa dovesse distrarmi, settantanove, dove in linea retta c’è quella terrazza, con le sdraio, ottantuno, l’insegna del bar, novantuno, il lampione, centouno, le fronde dell’albero, centoundici, la postazione del bagnino, centoventuno, la boa del sub, centotrentuno, centotrentadue, centotrentatre, centotrentaquattro. Centotrentaquattro vasche da bagno da una riva all’altra, e adesso per quanto devo moltiplicare? Ops, ti sei accorta che non stiamo parlando di una forma ben definita? Non è un rettangolo, devi considerare la conformazione della costa, quando si apre, quando si restringe, quindi? Quindi parti dalla punta occidentale e ne sistemi una in verticale tracciando una linea immaginaria di vasche da bagno, le conti fino all’orizzonte, ammettiamo per un istante che tutto sia possibile, poi calcoli tutte quelle che stanno alla destra del confine e, come se stessi facendo un puzzle, incastri le vasche da bagno alla litoranea; stessa cosa ad ovest, anche se da questa parte è molto più semplice perché scorre la strada panoramica e non ci sono troppe curve. Ma quanta acqua sarà?

Prova ad indovinare: secondo te? Non riesco ad immaginare, davvero… E mentre il lago assomiglia sempre più al bagno di casa mia, proseguo con le moltiplicazioni, e sono parentesi tonde e quadre, numeri pari e dispari che ondeggiano, acqua trasparente che non ha profondità (non posso permettermi di calcolare anche quella, non ho gli strumenti né l’unità di misura adatta), una distesa di h2o, una spiaggia di vasche da bagno. E poi succede sempre così, quando sto per concludere, quando i miei sforzi stanno per essere ricompensati, ecco che Sebastiano si sveglia e perdo il conto. Quante vasche saranno? Tieni a mente il numero tra una riva e l’altra, ci riproverai un’altra volta.

Essere mamma mi costringe a non lasciarmi trasportare troppo lontano dalle mie divagazioni mentali: se mio figlio non si fosse svegliato, sarei ancora lì a moltiplicare vasche da bagno e, perché no, sarei poi passata ad animare gli oggetti intorno a me (mi diverto a dargli vita propria), oppure, avrei finito con rimanere intrappolata nel mio passatempo preferito: osservare una cosa, o una persona, da un punto di vista specifico e circoscritto e non nel suo insieme, per poi accorgermi che cambia fisionomia. È divertente e più facile di quanto sia riuscita a spiegare, prova concreta è che lo sto facendo proprio in questo momento, mentre cambio il pannolino a Sebastiano: guardo il suo viso partendo dalle labbra – ma sarebbero potuti essere il naso, le orecchie, gli occhi – e lascio che il mio sguardo sul suo viso si estenda a macchia d’olio, palesandomi lineamenti che prima non avevo osservato e che probabilmente non noterei, se guardassi mio figlio nella sua totalità facciale. Va detto che, qualunque sia il punto di vista da cui si osserva, Sebastiano non smentisce la sua bellezza.

Ripasso a voce alta tutto ciò che d’indispensabile va messo nella borsa per una passeggiata con un bambino di venti mesi, ho preso tutto, sistemo Sebastiano sul passeggino, operazione che richiede sempre diversi minuti perché non ne vuole sapere di stare seduto, aggiungo, come sempre, qualcosa all’ultimo momento – in quest’occasione ho preso un libro da leggere – ed eccoci pronti per uscire all’aria aperta.

Gli scrittori sullo schermo e Nella casa di François Ozon

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di Giuseppe Zucco

Un fotogramma del film Nella casa, di François Ozon, 2013
Un fotogramma del film Nella casa, di François Ozon, 2013

Si sa, gli scrittori sono esemplari romantici: così il cinema, quando non è impegnato nella caccia al retino della propria figura romantica per eccellenza, cioè il regista (ultimo capofila, Hitchcock), mobilita schiere di professionisti e maestranze per catturare e offrire al pubblico il visino pallido, tendenzialmente deperito ma luciferino, di un asso della penna.

Ovviamente, sfogliando l’albo mondiale della letteratura, esiste una quantità di scrittori la cui vita avrebbe i numeri giusti per finire sul grande schermo – e infatti, negli ultimi decenni, sono fioccati i biopic più o meno verosimili di Edgar Allan Poe, Truman Capote, Charles Bukowski, William Shakespeare, Virginia Woolf, Francis Scott Fitzgerald. Ma non occorre scomodare i mostri sacri. Le pose di uno scrittore standard invogliano di per sé all’allestimento di un film. Andando a braccio, ce n’è per tutti: dallo scrittore che si fa possedere da oscure forze demoniache (Shining, 1980), a quello bohemien e squattrinato che scrive per assicurare a sé la donna dei propri sogni (Moulin Rouge!, 2001), a quello che svela gli intrighi del potere e ci resta secco (L’uomo nell’ombra, 2010), a quello che svela gli intrighi dello star system e non ci resta secco (False verità, 2005), a quello rintanato e misantropo che torna a nuova vita seguendo le qualità di un allievo piovuto dal cielo (Scoprendo Forrester, 2000), a quello rapito e tagliuzzato senza misericordia da una lettrice accanita e vendicativa (Misery non deve morire, 1990), a quello mentalmente disordinato e interrogato per ore da un commissario a causa di un omicidio (Una pura formalità, 1994).

In un’epoca in cui si legge sempre meno, in cui anche i lettori forti appaiono sufficientemente impallinati dalla crisi, circola sempre più nell’immaginario collettivo il fantasma dello scrittore – una forma di nostalgia che ha più affinità con gli alieni, cioè con proiezioni fantastiche irraggiungibili, che con il vissuto ordinario, disciplinato e regolare di un uomo o una donna che passano ore e ore a schiacciare tasti e allungare stringhe alfanumeriche sulla rappresentazione virtuale di un foglio di carta. Catturato nell’ambra della vita quotidiana, lo scrittore non garantirebbe plot né chissà quale avventura: i fatti più entusiasmanti sono gli schiocchi infinitesimali che accadono tra le sue sinapsi mentre allinea le parole giuste per comporre un libro e/o un mondo. Ma è impossibile filmare quel momento, o quanto meno metterlo in scena con precisione: lì non ci si arriva se non per continue e sempre provvisorie inferenze e avvicinamenti, risalendo le pagine delle sue opere. La vita esteriore di Kafka o Nabokov, per dire, trasposta in un film, suonerebbe parecchio gracile e noiosa – del tutto indipendentemente dagli eventi, rimirando quelle esistenze, succubi della mitologia di una vita straordinaria a cui tendiamo senza sforzo, viene più facile immaginarla come un turbinio.

L’ultimo film-turbinio su uno scrittore s’intitola Nella casa, e l’ha diretto François Ozon. La storia, senza tentennamenti, scatta in velocità: Claude, studente sedicenne del liceo Flaubert, ha un talento, la scrittura. Scrive temi, nient’altro – ma ogni tema sembra il capitolo di un romanzo in cui la famiglia dell’unico coetaneo che frequenta, Rapha, viene passata ai raggi x. Germain, il professore di letteratura francese, legge i temi, rimane sorpreso e sprona Claude a seguire la strada di un realismo spinto, tanto che Claude, con un accanimento crescente di tema in tema, si infila tra le maglie della famiglia e conquista uno a uno figlio, padre, madre con lo scopo di avere un quadro sempre meglio definito delle loro relazioni. Il film fila come un’educazione sentimentale, ma poco per volta diventa un thriller: e così mentre Germain si appassiona sinistramente alle storie di Claude e Claude scivola sempre più in profondità dentro il cuore borghese della famiglia di Rapha, entrambi arriveranno a mettere un doloroso punto a capo alle loro vite.

Il film, nonostante la girandola sfiancante dei colpi di scena, e la colonna sonora incontinente che fodera tutte le superfici della pellicola, ha un pregio: Ozon, tranne che per la scrittura di una lettera per il giornale studentesco, non inquadra mai Claude mentre compone i temi. La scrittura è costantemente messa in scena: se Germain e la moglie leggono a voce alta il tema, Claude diventa il voice over dell’ispezione minuziosa alla casa e ai suoi inquilini – una soluzione che illumina subito l’ossessività di Claude e la morbosità della coppia Germain, e che ci risparmia una delle più grandi pose dello scrittore standard, la scena che avrete visto mille volte e che conoscerete ormai a memoria, dove lo scrittore scrive, cancella, si alza, strappa nuovi fogli ancora, circondato da innumerevoli palline di carta, uno spaventoso blocco creativo che in Shining Kubrick aveva genialmente spostato nella risma di fogli impilati con cura al lato della macchina da scrivere, tutti attraversati dallo stesso ossessivo righino nero, il mattino ha l’oro in bocca.

Resta da capire che genere di scrittore sta puntando il dito contro la borghesia francese, perché una cosa è chiara: quando un film dipana la vita di uno scrittore, e illumina la costruzione di un’opera letteraria, dieci a uno sta propagandando una certa idea di letteratura, un’idea normativa di letteratura, di cosa la letteratura dovrebbe o non dovrebbe fare. Claude è uno studente, siede all’ultimo banco, osserva gli altri senza a sua volta essere osservato – con le stesse modalità, penetra nello spazio privato di una casa, rovista le sue stanze e, senza alcun dilemma etico, studia la fattura e la disposizione degli oggetti quotidiani e si impossessa delle abitudini, ripugnanti e per questo così modeste e umane, dei suoi inquilini. Nelle ricognizioni segrete di Claude, nella loro riproposizione letteraria, regna il distacco assoluto, e se pure è presente qualche momento di mimesi, di confusione dolorosa tra quelle ricognizioni e la sua vita, è solo perché s’innamora in modo adolescenziale della madre di Rapha – amore che almeno in una scena, quella dove la madre di Rapha, distesa sul divano, è ripresa dalle unghie laccate dei piedi agli occhi chiusi sotto lo sguardo rapito di Claude, Ozon gira come se fosse un remake di Lolita a parti invertite (tra l’altro, il professore di letteratura francese si chiama Germain Germain proprio come Humbert Humbert, e la madre di Rapha è quanto di più vicino alla bellezza vacua e ormai avanti negli anni di Dolores Haze).

Claude, a questo punto – e Germain potrebbe andarne fiero, gli insegnamenti e le letture che impartisce filano in questa direzione – sarebbe uno scrittore realista. Osserva con distacco quanto accade nella casa, studia con freddo rigore i comportamenti dei suoi inquilini, ripropone in modo calligrafico gli eventi principali ricollocandoli nella cornice di un tema, e in coda a ogni tema, per accrescerne la suspense, allunga l’ombra carica di incognite e di oscuri presagi di un continua.

Ma è realismo questo? Prendendo per buona la definizione che ne dà Walter Siti, avremmo qualche dubbio. Scrive Siti nella seconda pagina de Il realismo è l’impossibile: “Il realismo, per come la vedo io, è l’antiabitudine: è il leggero strappo, il particolare inaspettato, che apre uno squarcio nella nostra stereotipia mentale – mette in dubbio per un istante quel che Nabokov (nelle Lezioni di letteratura) chiama “il rozzo compromesso dei sensi” e sembra che ci lasci intravedere la cosa stessa, la realtà infinita, informe e impredicabile. Realismo è quella postura verbale o iconica (talvolta casuale, talvolta ottenuta a forza di tecnica) che coglie impreparata la realtà, o ci coglie impreparati di fronte alla realtà […]”. Ecco, a guardare bene, nella scrittura di Claude non c’è traccia di questa antiabitudine, né tantomeno la descrizione impietosa della famiglia di Rapha accoglie qualche illuminazione che piega le sbarre della nostra stereotipia mentale. In fondo, appare già tutto ampiamente visto e codificato: e così alle pose di uno scrittore standard che desidera cogliere la realtà nel suo divenire, segue un adolescente ricco ma tarato con tendenze omosessuali, un padre molto parvenu che tenta con piccoli e miseri mezzi di arricchirsi ancora, una moglie insoddisfatta della propria vita e dell’arredo del proprio appartamento con qualche velleità artistica, un professore di letteratura che un tempo ha scritto un romanzo ma con scarso successo, una moglie del professore che dirige una galleria d’arte contemporanea al solo scopo di vendere le opere e garantirsi la stagnazione perpetua dentro i confini di una classe sociale in cui ha stipato la sua esistenza. Una borghesia da operetta, in fondo, nel cui mondo, la realtà, piuttosto che lasciarsi cogliere impreparata, è preparata da tempo.

Nonostante ciò, perdura la sensazione che Claude sia in tutto e per tutto uno scrittore realista. Anche se il modo in cui Claude sbozza la massa informe della realtà, stilizzandola in una figura già riconoscibile, non sembra trovare precedenti nella tradizione letteraria, ma nella logica di un altro mezzo, la televisione – del resto, per tutto il film, Claude non esibisce alcuna preparazione letteraria, anzi ne sembra piuttosto asciutto, sarà Germain a somministrargli in corso d’opera i romanzi che potrebbero soccorrerlo nel suo apprendistato. Due sono gli indizi più forti: il fatto che Claude osservi senza essere visto gli abitanti di un luogo chiuso come una casa, e l’evidenza che i temi si chiudano tutti con un identico espediente, quel continua. Insomma, è come se la scrittura di questo adolescente, la cui formazione deve qualcosa in più alla televisione che ai libri, fosse un pendolo che oscilla tra le forme di un reality e quelle di un serial televisivo. D’altra parte, Claude si muove all’interno della casa con la stessa invisibile discrezione di una telecamera sul set di una edizione del Grande Fratello, e quel continua, che in gergo televisivo verrebbe etichettato come cliffhanger, non ricorda nient’altro che il rito straziante con cui finiscono e danno l’arrivederci ai telespettatori le puntate di una telenovela o di una soap-opera, sempre in corrispondenza di un colpo di scena o di un climax narrativo.

Ecco che in un attimo si svela il nume tutelare di questo realismo: non tanto Gustave Flaubert, come il film tenta ossessivamente di suggerirci, ma John de Mol, l’inventore multimilionario del Big brother, il format olandese che ha mutato per sempre il destino della comunicazione. Questo realismo, infatti, perfettamente in linea con quanto propone Claude, è di tipo conservatore, non si pone mai l’obiettivo di cogliere impreparata la realtà, piuttosto propende a confermarla, a renderla persistente nelle sue stereotipie, a chiuderla una volta per tutte dentro quei modelli e quelle consuetudini che in modo molto elegante e consolatorio chiamiamo spirito del tempo. Un realismo che organizza, predispone e struttura la vita quotidiana dei propri protagonisti nella trama di una proposizione morbosa delle loro avventure sentimentali e corporali. Il tipo di realismo che non eleva mai in universale il particolare, ma che rincorre i particolari, di tutte le taglie, rovistando nel cassonetto dei tic e delle manie. Ed è proprio questo che incanta più di ogni altra cosa la coppia Germain: non tanto lo stile e la lingua dei temi di Claude, quanto la possibilità di essere fino in fondo dei voyeur senza correre alcun rischio – che, in fondo, allargando il raggio dalla televisione ai new media, è la strettoia in cui ci infila l’uso mai troppo ingenuo dei social network.

Se dovessi trovare, per il realismo per come lo intendo, un verbo riassuntivo, indicherei il verbo sporgersi”, scrive in chiusura di saggio Walter Siti. Ma alla fine del film, anche se non si rivela subito alla coscienza dello spettatore il senso di colpa per essere stato piacevolmente sedotto da un realismo conservatore, tutti tirano un passo indietro: la famiglia borghese si ricompone felice, Claude e Germain fantasticano di scrivere con il sorriso sulle labbra, la realtà a cui si ispirano da modello diventa definitivamente una copia pacificata, tutta la tensione irrisolta del conflitto svanisce di colpo. E anche la letteratura, di cui il film doveva darne una versione attraverso il ritratto di uno scrittore sedicenne, alza la manina e fa ciao ciao.

[Le citazioni sono tratte da Il realismo è l’impossibile, di Walter Siti, nottetempo, pp. 8 e 79]

2666 non è lontano

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di Helena Janeczek

Arcimboldo-Il Bibliotecario

Grazie a Antonio Coiro, ho scoperto che oggi Roberto Bolaño avrebbe compiuto 60 anni. Ho quindi deciso di “festeggiarlo” con l’estratto di un intervento che verrà pubblicato negli atti del Seminario sul Romanzo dell’Università di Trento.

Sono anni che in Italia si dibatte su filoni di poetica intesi come alternativi, anzi vicendevolmente escludenti: l’opzione realista, aggiornata in formule come il “ritorno al reale” o “docufiction”, rivalutata come veicolo necessario di engagement, contrapposta a barocchismi postmoderni, filiazione libresca e citazionista, ma anche alla “restaurazione” del romanzo neo-borghese. Narrazioni che decidono di veicolare preoccupazioni contenutistiche attraverso le gabbie di noir o thriller si scontrano con la convinzione che la vera letteratura debba fondarsi sulla ricerca formale quasi sempre identificata con la scrittura e con lo stile.

¡Que viva la traducción! – La letteratura italiana in Spagna 2

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(Dopo la prima intervista, ecco una seconda che chiude idealmente il capitolo sulla letteratura italiana in Spagna. Questa volta saranno Celia Filipetto e David Paradela López a rendere molto più chiara e definita la situazione. gz)

Un’intervista a Celia FilipettoDavid Paradela López di Ilide Carmignani e Giuseppe Zucco

Un'opera di Escif, street artist spagnolo
Un’opera di Escif, street artist spagnolo

Che spazio occupa la letteratura italiana nell’insieme delle letterature tradotte in Spagna?

Nel 2012 sono stati tradotti in spagnolo 19.792 libri, di cui 1.074 dall’italiano, cioè il 5% (fonte: Federación de Gremios de Editores de España).

 

Quali sono gli scrittori più conosciuti fra i moderni e i contemporanei?

Dal punto di vista del grande pubblico: Alessandro Baricco, Andrea Camilleri, Umberto Eco, Erri De Luca, Paolo Giordano, Margaret Mazzantini. In rete troviamo, per esempio, questo elenco di autori italiani “indispensabili”.

 

Viene tradotta anche la poesia? E la letteratura di genere, la saggistica, i libri per ragazzi?

Della letteratura di genere si traducono soprattutto autori di gialli e di noir: Massimo Carlotto, Andrea Camilleri, Gianrico Carofiglio, Maurizio De Giovanni, Giorgio Faletti.
Praticamente tutta la saggistica straniera tradotta in Spagna proviene dai paesi di lingua inglese o dalla Francia, ma ci arrivano comunque gli autori italiani di fama mondiale: Vattimo, Eco, Bobbio, Negri, Montalcini.
Quanto alla poesia, facendo una ricerca sui siti (qui e qui) troviamo più di cento case editrici che si occupano del settore. Un’indagine veloce ci conferma che, a parte le lingue classiche, la poesia tradotta segue più o meno la stessa tendenza della narrativa con l’inglese, il francese e il tedesco come lingue prevalenti. Ad esempio, Ediciones Hiperión, casa editrice che ha una collana di poesia, ha pubblicato, sì, alcuni autori italiani – Giuseppe Gioachino Belli, Vittoria Colonna, Gaspara Stampa, Chiara Matraini, Mario Luzi – ma sempre molto pochi in rapporto a un catalogo in cui prevalgono gli autori inglesi, francesi e tedeschi. DVD Ediciones, casa editrice specializzata in poesia, ha pubblicato soltanto quattro libri di poeti italiani: Pier Paolo Pasolini, Filippo Tommaso Marinetti, Michelangelo e Dino Campana.

 

Quanto sono tradotti i classici?

I classici, in generale, sono ben rappresentati. Tra le case editrici che pubblicano classici italiani possiamo citare Cátedra, che ha pubblicato, tra gli altri, Vittorio Alfieri, Ludovico Ariosto, Giorgio Bassani, Pietro Bembo, Giovanni Boccaccio, Michelangelo Buonarroti,  Gabriele D’Annunzio, Dante Alighieri, Carlo Collodi, Ugo Foscolo, Carlo Emilio Gadda, Carlo Goldoni, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Machiavelli, Giacomo Leopardi, Elsa Morante, Alessandro Manzoni, Alberto Moravia, Cesare Pavese, Francesco Petrarca, Luigi Pirandello, Italo Svevo, Federico de Roberto, Giovanni Verga ed Elio Vittorini (vedi qui).
Un’altra casa editrice dove troviamo classici italiani tradotti è Austral. Per la prosa accoglie Boccaccio, Castiglione e Verga in mezzo a 150 titoli di classici spagnoli, inglesi, tedeschi e francesi. Per la poesia, offre Dante e l’Antología esencial de la poesía italiana, una scelta di poesie di 55 autori a cura di Antonio Colinas, fra cui di nuovo Dante e Petrarca, Pascoli, Ungaretti, Quasimodo, Montale.

 

Quali case editrici dedicano spazio agli scrittori italiani? Che tipo di linee editoriali hanno? Esistono case editrici specializzate in letteratura italiana?

Non esiste una casa editrice specializzata soltanto in letteratura italiana. In linea di massima, possiamo dire che le case editrici commerciali pubblicano più che altro gli autori mainstream che già hanno avuto successo in Italia, ci riferiamo ad Anagrama, Minúscula, Lumen, Seix Barral, Tusquets. Poi ci sono case editrici più piccole, come Sajalín, che recuperano autori del Novecento, ad esempio Beppe Fenoglio, Giuseppe Bonaviri, Luigi Bartolini; un’altra piccola casa editrice che pubblica autori italiani è Gadir: Carlo Dossi, Dino Buzzati, Elio Vittorini, Luigi Malerba, Diego Marani, Aldo Palazzeschi, Carlo Levi, Elsa Morante, Andrea Camilleri, Luigi Pirandello, Mariolina Venezia, Italo Svevo, Carlo Cassola, Dante Alighieri, Roberto Vecchioni, Edmondo de Amicis, Giovanni Verga, Grazia Deledda.

 

Che parte hanno i traduttori nella scoperta di nuovi autori?

Si può dire che sono rari i casi di traduttori che consigliano un autore da tradurre. Di solito, le case editrici seguono altre vie.

 

Le case editrici spagnole con partecipazione italiana hanno dedicato e dedicano attenzione alla letteratura italiana?

A guardare il catalogo, non più delle altre: Anagrama ha sempre avuto scrittori italiani (Baricco, Tabucchi), Duomo ne ha soltanto due o tre. E Lumen del gruppo Random House Mondadori pubblica, è vero, alcuni autori italiani (Alessandro Piperno, Elsa Morante, Elena Ferrante, Maurizio De Giovanni, Umberto Eco, Andrea Molesini, Cesare Pavese, Natalia Ginzburg, Margaret Mazzantini, Vitaliano Brancati, Giorgio Bassani) ma sempre pochi in una scuderia in cui prevalgono autori di altre nazionalità (vedi qui).

 

Quale accoglienza riserva il pubblico spagnolo agli autori italiani? Gli scrittori più conosciuti  (Eco, Tabucchi, Camilleri, Calvino, etc.) sono riusciti in qualche modo a fare da traino?

Forse Eco  e Camilleri sono riusciti a fare da traino ad altri scrittori di gialli e di noir. Anche Calvino, Tabucchi, Calasso e Magris, nella loro nicchia, hanno aiutato a introdurre altri autori.

 

Che immagine ha il lettore spagnolo dell’Italia? Secondo voi, gli stereotipi che ci caratterizzano all’estero possono influire in qualche modo sulla scelta dei titoli italiani da tradurre in spagnolo?

No, l’Italia è un paese che appare spesso nei notiziari spagnoli, secondo noi è abbastanza conosciuto e non c’è bisogno d’importare libri basati su stereotipi. Tuttavia, ogni tanto, si verificano fenomeni come Gomorra di Saviano, che ha portato alla pubblicazione di un gran numero di libri sulle diverse organizzazioni malavitose italiane.

 

I libri italiani che vengono tradotti in spagnolo che tipo di lingua e lavoro sulla lingua presentano? Si traducono (e si vendono) principalmente libri scritti in maniera più semplice? C’è un’affinità linguistica tra le opere italiane tradotte in Spagna o si tende a dare diffusione anche a libri particolarmente elaborati sul piano stilistico?

Dagli autori citati si può dedurre che sono rappresentati i più svariati modelli di lingua: da quella di Dante a quella di Mariolina Venezia. Non ci sembra di riscontrare un’affinità linguistica particolare fra le opere tradotte in Spagna.

 

Esistono riviste o blog letterari che, nel caso i giornali non siano interessati a questo tipo di lavoro, si prodigano nel promuovere e suggerire ai propri lettori libri italiani?

Su Facebook si trova Letteratura Italiana.

 

Quanto conta il lavoro dell’Istituto Italiano di Cultura in Spagna per quanto riguarda la diffusione culturale?

L’Istituto Italiano di Cultura di Barcellona, quello che noi conosciamo, organizza varie attività: proiezioni cinematografiche, incontri gastronomici, proiezione di opere liriche, gruppi di lettura e anche presentazioni di libri tradotti in spagnolo e catalano, a cui partecipano case editrici e professori universitari, non sempre i traduttori. Siamo convinti che tutto serva, purché le diverse attività vengano adeguatamente pubblicizzate e richiamino un minimo di pubblico. Purtroppo non sempre è così.

 

Biografie

David Paradela López (Barcellona, 1981). Laureato in Traduzione presso l’Università Autonoma di Barcellona e l’Università degli Studi di Bologna, e in Letterature Comparate presso l’Università di Barcellona. Ha tradotto dall’inglese e dall’italiano in spagnolo e in catalano una quarantina di libri di Curzio Malaparte, Dacia Maraini, Rita Levi-Montalcini, Fabio Geda, Roberto Pavanello, Stanley Cavell, Philip Kerr, Misha Glenny, Stacy Schiff e altri. Ha collaborato al volume Hijos de Babel. Reflexiones sobre el oficio de traductor en el siglo XXI e dal 2009 gestisce il blog Malapartiana.

Celia Filipetto (Buenos Aires, 1951). Laureata in Traduzione presso l’Università di Granada. Ha pubblicato oltre centocinquanta traduzioni dall’inglese, dall’italiano e dal catalano. Ha tradotto in spagnolo, fra gli altri, Milena Agus, Maurizio de Giovanni, Elena Ferrante, Natalia Ginzburg, Ring Lardner, Niccolò Machiavelli, Salvatore Niffoi, Flannery O’Connor, Dorothy Parker, James Thurber y Mark Twain. Ha collaborato come traduttrice con “La Vanguardia” di Barcellona e con “The Barcelona Review”, “Saltana” e “Literatura sonora”. Ha insegnato nei corsi post-laurea di Traduzione Letteraria presso l’Università Autonoma di Barcellona e l’Università di Málaga.

[La foto dell’opera di Escif è tratta dal sito Collateral]

note book : Roberto Saviano

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rob

da Zero Zero Zero
di
Roberto Saviano

La ferocia si apprende

Mi chiedo da anni a che cosa serva occuparsi di morti e sparatorie. Tutto questo vale la pena? Per quale ragione? Ti chiameranno per qualche consulenza? Terrai un corso di sei settimane in qualche università, meglio se prestigiosa? Ti lancerai nella battaglia contro il male, credendoti il bene? Ti daranno lo scettro di eroe per qualche mese? Guadagnerai se qualcuno leggerà le tue parole? Ti odieranno quelli che le hanno dette prima di te, ignorati? Ti odieranno quelli che non le hanno dette, quelle parole, o le hanno dette male? A volte credo sia un’ossessione. A volte mi convinco che in queste storie si misura la verità. Questo, forse, è il segreto. Non segreto per qualcuno. Segreto per me. Nascosto a me stesso. Tenuto in disparte nelle mie parole pubbliche. Seguire i percorsi del narcotraffico e del riciclaggio ti fa sentire in grado di misurare la verità delle cose. Capire i destini di un’elezione politica, la caduta di un governo. Ascoltare le parole ufficiali inizia a non bastare. Mentre il mondo ha una direzione ben precisa, tutto sembra invece concentrarsi su qualcosa di diverso, magari di banale, di superficiale. La dichiarazione di un ministro, un evento minuscolo, il gossip. Ma a decidere di ogni cosa è altro. Questo istinto è alla base di tutte le scelte romantiche. Il giornalista, il narratore, il regista vorrebbero raccontare com’è il mondo, com’è veramente. Dire ai loro lettori, ai loro spettatori: non è come pensavi, ecco com’è. Non è come credevi, adesso ti apro io la ferita da cui puoi sbirciare la verità ultima. Ma nessuno ci riesce mai completamente. Il rischio è credere che la realtà, quella vera, quella pulsante, quella determinante, sia completamente nascosta. Se inciampi e ci caschi, inizi a credere che tutto sia cospirazione, riunioni segrete, logge e spie. Che qualsiasi cosa non sia mai accaduta come sembra. Questa è l’idiozia tipica di chi racconta. È l’inizio della miopia di un occhio che si ritiene incontaminato: far quadrare il cerchio del mondo nelle tue interpretazioni. Ma non è così semplice. La complessità sta proprio nel non credere che tutto sia nascosto o deciso in stanze segrete. Il mondo è più interessante di una cospirazione tra servizi di intelligence e sette. Il potere criminale è una mistura di regole, sospetto, potere pubblico, comunicazione, ferocia, diplomazia. Studiarlo è come interpretare testi, come diventare entomologo.

Eppure, nonostante tutti i miei sforzi, non mi è chiaro perché si decida di occuparsi di queste storie. Soldi? Fama? Gradi? Carriera? Tutto infinitamente meno rispetto al prezzo da pagare, al rischio e all’insopportabile mormorio che accompagnerà i tuoi passi, ovunque tu vada. Quando riuscirai a raccontare, quando capirai come rendere accattivante il racconto, quando saprai esattamente dosare stile e verità, quando le tue parole usciranno dal tuo torace, dalla tua bocca e avranno un suono, tu sarai il primo a provarne fastidio. Sarai tu il primo a odiarti, con tutto te stesso. E non sarai l’unico. Ti odierà persino chi ti ascolta, cioè chi sceglie di farlo senza alcuna costrizione, perché gli mostri questo schifo. Perché si sentirà sempre messo dinanzi a uno specchio: perché io non l’ho fatto? Perché non l’ho detto? Perché non l’ho capito? Il dolore si fa acuto e l’animale ferito spesso attacca: è lui che mente, lo fa per depistare, per corruzione, per fama, per soldi. Raccontare il potere criminale ti permette di sfogliare come libri palazzi, parlamenti, persone. Prendi un palazzo di cemento e lo immagini come costruito da migliaia di pagine, e più puoi sfogliare quelle pagine più puoi leggere quanti chili di coca, quante tangenti, quanto lavoro nero ci sono in quella struttura. Immagina di poter fare così con tutto ciò che vedi. Immagina di poter sfogliare qualunque cosa sia intorno a te. A quel punto potrai capire molto,ma arriverà un momento in cui vorrai tenere chiusi tutti i libri. In cui non ne potrai più di sfogliare le cose.
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Puoi pensare che occuparti di tutto questo sia un modo per redimere il mondo. Ristabilire la giustizia. E magari in parte è così. Ma forse, e soprattutto in questo caso, devi anche accettare il peso di essere un piccolo supereroe senza uno straccio di potere. Di essere in fondo un patetico essere umano che ha sovrastimato le sue forze solo perché non si era mai imbattuto nel loro limite. La parola ti dà una forza assai superiore a quella che il tuo corpo e la tua vita possono contenere. Ma la verità, ovviamente la mia verità, è che c’è solo un motivo per cui decidi di star dentro a queste storie di mala e trafficanti, di imprenditoria criminale e stragi. Fuggire ogni consolazione. Decretare l’inesistenza assoluta di qualsiasi balsamo per la vita. Sapere che quello che saprai non ti farà stare meglio. Eppure cerchi continuamente di saperlo. E quando lo sai inizi a sviluppare un disprezzo per le cose. E per cose intendo proprio le cose, la roba. Vieni a sapere immediatamente come vengono fatte le cose, qual è la loro origine, come vanno a finire.
E anche se stai male ti convinci che questo mondo puoi capirlo davvero solo se a queste storie decidi di star dentro. Puoi essere un divulgatore, un cronista, un magistrato, un poliziotto, un giudice, un prete, un operatore sociale, un maestro, un militante antimafia, uno scrittore. Puoi saper far bene il tuo mestiere, ma questo non significa necessariamente che tu per vocazione, nella tua vita, voglia star dentro a queste vicende. Dentro significa che ti consumano, che ti animano, che bacano ogni cosa del tuo quotidiano. Dentro significa che hai nella testa le mappe delle città con i cantieri, le piazze dello spaccio, i luoghi dove si sono siglati patti e dove sono avvenuti omicidi eccellenti. Non ci sei dentro solo perché stai in strada o ti infiltri come Joe Pistone per sei anni in un clan. Ci stai dentro perché sono il senso del tuo stare al mondo. E da anni ho deciso di starci dentro. Non solo perché sono cresciuto in un territorio dove tutto era deciso dai clan, non solo perché ho visto morire chi si era opposto al loro potere, non solo perché la diffamazione scioglie nelle persone qualsiasi desiderio di opporsi al potere criminale. Stare dentro ai traffici della polvere è l’unica prospettiva che mi abbia permesso di capire le cose fino in fondo. Guardare la debolezza umana, la fisiologia del potere, la fragilità dei rapporti, l’inconsistenza dei legami, la forza immane del danaro e della ferocia. L’assoluta impotenza di tutti gli insegnamenti volti alla bellezza e alla giustizia di cui mi sono nutrito. Mi sono accorto che la coca era il perno attorno a cui ruotava tutto. La ferita aveva un nome solo. Cocaina. La mappa del mondo si tracciava sì con il petrolio, quello nero, quello di cui siamo abituati a parlare, ma anche con il petrolio bianco, come lo chiamano i boss nigeriani. La mappa del mondo si costruisce sul carburante, quello dei motori e quello dei corpi. Il carburante dei motori è il petrolio, il carburante dei corpi è la coca.

Gobetti, i padri, il cimitero

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di Helena Janeczek

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Lunedì 22 aprile mi arrampicavo ignara per il cimitero Père Lachaise alla ricerca di una tomba tra le decine di migliaia di coloro che dormono lassù sulla collina. Il cielo era sereno, l’umore in ripresa, però a fatica. Scarpinando tutto il giorno per Parigi, mi capitava comunque la fortuna di perdermi la strigliata del Presidente al Parlamento e al Partito, la scena perfetta di un paese dove i padri soffocano i figli e ancora più i nipotini per poi consegnarsi come scolaretti volontari all’autorità riesumata di un quasi novantenne.

Il 25 aprile di mio padre

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di Davide Orecchio

C’è una casa nel corso del tempo dove un uomo non parla, un bicchiere di whisky sta sulla libreria scura, una sigaretta accesa sta sul bordo dello sgabello, un televisore trasmette gli anni settanta, un bambino squaderna sul pavimento il libro di Gianni Rodari, una palla rotola sul parquet scheggiato, un gatto entra dal terrazzo, centinaia di volumi crescono negli scaffali fino al soffitto: di letteratura, storia, teatro, poesia, sociologia, denuncia, compromesso, reazione, rassegnazione, rivoluzione e provocazione.

Ma il libro numero uno è lui, il signore in poltrona.

Text : Roger Salloch

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Stasera alle 20 arriva a Torino, da Parigi, Roger Salloch. Roger esporrà i suoi lavori da domani fino a metà maggio alla nostra galleria libreria. Di lui ho pubblicato su Sud ( qui è possibile scaricare l’intera collezione) e NI dei bei testi e fotografie ed è grazie a lui che, sempre su Sud, Peter Handke suo amico da sempre, dopo una cena, “bien arrosée”ci diede questo splendido testo che l’amico Stefano Zangrando tradusse alla grande.
A chiunque si trovi per Torino in questi giorni raccomandiamo vivamente di fare un salto alla Voyelles & Visions e ancor più domani e dopodomani in modo da poterlo incontrare. Segue un piccolo testo che Elena Ientile, curatrice di questa mostra, ha scritto per i lavori di Roger effeffe

Una nota
di
Elena Ientile
L’incontro tra letteratura e fotografia è, nei lavori di Roger Salloch, qualcosa di più di una trasversalizzazione dei linguaggi artistici. L’una non può fare a meno dell’altra e le immagini di Text si rendono eloquenti di questo approccio a cominciare dal titolo stesso. Dal punto di vista letteralmente immaginifico, le fotografie di Salloch ricalcano la leggerezza del vivere momento per momento, per poi radicarsi ad una dimensione solo vagamente più pragmatica per mezzo della parola: scritta, ermetica, che non lascia troppo spazio alla poesia ma nemmeno se ne sottrae, la meta-poesia di Salloch riflette, come una lente, il cristallino scorrere di quegli attimi vitali – ritratti in un rigoroso bianco e nero- per mezzo di una poetica fatta di rimandi speculari, in cui non c’è confine tra l’oggetto riflesso e quello riflettente.

Nato negli Stati Uniti, Roger Salloch vive e lavora a Parigi. Dopo gli studi in Storia Politica ad Harvard, comincia a scrivere, pubblicando articoli d’arte per l’edizione francese della rivista Rolling Stone e su The Magazine di Santa Fe. I suoi racconti e saggi sono stati pubblicati su The Paris Review, Fiction, Plouhgshares, The North Atlantic Review, The Atlantic, the New York Times Book, The New Republic e Sud, trimestrale culturale italiano. Dal 2004 Sud ha pubblicato, su ogni numero, le sue fotografie in bianco e nero. A New York è rappresentato dalla Jennifer Lyons Literary Agency, mentre a Parigi è seguito da Pamela De Monbrison della ANOA Galerie Mobile.
Le sue fotografie sono state esposte per la prima volta nel 2002.

La miniera di fango

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(Questo articolo è stato scritto quando ancora si disponeva soltanto del papa dimissionario, ma neppure l’aitante Francesco potrà più dormire sonni tranquilli. È di queste settimane, ad esempio, il lancio pubblicitario di Mea maxima culpa: silenzio nella casa di Dio di Alex Gibeny per la collana Real Video di Feltrinelli…)

Di Andrea Inglese

I credenti, quelli di verace fede cattolica, che ancora io presumo esistano anche nella miscredente Europa, dovrebbero avere mente soprattutto intesa ai misteri della fede, che sono un po’ come i mattoncini su cui si edifica tutta la dottrina loro, e anche la pratica, e di questi misteri poi, come la trinità divina e il ciclo incarnazione-ressurezione del Cristo, è proprio il re del Vaticano ad esserne sommo custode, e anche per ciò stesso infallibile, come già ratificava il previdente Pio IX nel 1870, con il primo Concilio.

Discorso di Bersani alla sua coscienza

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di Italo Testa

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Discorso di Bersani alla sua coscienza (durante le elezioni del Presidente della Repubblica),
o discorso del mentitore

Io mento quando dico che il PD è un partito di sinistra.
Mento quando dico che il PD è alleato con SEL.
Mento quando dico che il PD non si alleerà mai con il PDL.
Mento quando dico di essere il segretario del PD.
Mento quando dico che il PD è il PD.
Mento quando dico di essere Bersani.
Mento quando dico che Bersani non è D’Alema.
Mento quando dico di mentire.

Classe politica italiana sperimenta la clonazione presidenziale

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Ma alcuni scienziati americani  segnalano i rischi di una tale operazione.

WHAT ARE THE RISKS OF CLONING PRESIDENTS?

In territorio nemico, a Milano. (Con un estratto dal romanzo).

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Libreria Popolare,
via Tadino 18, Milano

Conversazioni in libreria

Martedì 23 aprile, ore 21
In territorio nemico
di SIC (Scrittura Industriale Collettiva)
Minimum Fax, 2013.

Ne discutiamo con Jacopo Galimberti (uno dei 115 autori),
Alessandro Broggi, Paolo Giovannetti, Italo Testa, Paolo Zublena.

E con Gregorio Magini e Vanni Santoni, i due fondatori di SIC.
Coordina Antonio Loreto

SIC – Scrittura Industriale Collettiva indica un metodo di scrittura collettiva ideato da
Gregorio Magini e Vanni Santoni, la comunità aperta che lo utilizza e il gruppo di 115 scrittori, coordinato dai due fondatori, che ha realizzato il romanzo In territorio nemico.

Ne abbiamo parlato recentemente su Nazione Indiana qui e qui.

In territorio nemico

[Un estratto dal libro]

[…] «I Comandi tedeschi», disse Maiolica,

¡Que viva la traducción! – La letteratura italiana in Spagna

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(Una cosa di cui si sa poco o nulla è che ruolo giochi la letteratura italiana all’estero e quanto venga tradotta e quindi conosciuta. Così, con questa intervista, inauguriamo su Nazione Indiana uno spazio in cui cercheremo di fare luce sulla sorte dei nostri autori e delle nostre opere una volta che oltrepassano i confini nazionali. Il primo intervistato, Carlos Gumpert, renderà molto più chiara e intellegibile la situazione in Spagna. Se non avessi avuto la fortuna e l’onore di conoscere Ilide Carmignani – per intenderci, la traduttrice, tra le tante altre opere, di 2666 di Roberto Bolaño – questo progetto non sarebbe mai nato. gz)

Un’intervista a Carlos Gumpert di Ilide Carmignani e Giuseppe Zucco

Guillotina, un'opera di Escif a Valencia, Spagna
Guillotina, un’opera di Escif su una parete di Valencia, Spagna

Che spazio occupa la letteratura italiana nell’insieme delle letterature tradotte in Spagna?

I dati più recenti risalgono al 2011. I libri tradotti rappresentano nel complesso il 21,1% del totale della produzione editoriale spagnola; quelli tradotti dall’italiano sono 1473,  un 1,3 % del totale (i libri tradotti dall’inglese sono quasi un 10%). L’italiano è la quarta lingua straniera più tradotta dopo l’inglese (11.500 titoli), il francese (2.621 titoli) e il tedesco (1.626 titoli), ma attenzione, storicamente è stata sempre la terza e solo nel 2011 è stata superata per la prima volta dal tedesco, un dato che parla chiaro sull’attenzione che la Spagna ha sempre riservato alla cultura italiana.

 

Quali sono gli scrittori più conosciuti?

Bisogna chiarire subito un malinteso che non riguarda soltanto la letteratura italiana. Il sistema socioletterario spagnolo è molto debole in confronto alla sua tradizione culturale e allo sviluppo – oggi in fase critica, tra l’altro – del paese, e questo in confronto non solo con la Francia e la Germania ma anche con la stessa Italia. Come lettori, librerie, biblioteche (anche se quest’ultime non erano così malandate prima della crisi) siamo su livelli ancora lontani delle medie europee. Il problema principale però è che le vendite sono basse (è frequente che autori italiani abituati a toccare certe cifre in Italia o in Francia non riescano a capire che in Spagna è diverso) e questo rappresenta un freno per lo sviluppo del mercato editoriale. Per fortuna c’è il mercato latinoamericano che aiuta e che oggi con la crisi è diventato fondamentale.
È proprio per questi motivi che la memoria del sistema editoriale e del lettore spagnolo è corta e in libreria si trovano soltanto opere recenti e sempre meno quelle di catalogo. In altre parole, gli scrittori più conosciuti sono sempre quelli viventi. Faccio un  esempio: Calvino, sempre presente, è però ogni giorno meno conosciuto e venduto. In Spagna, Pavese è stato un autore imprescindibile in un passato non tanto remoto, mentre oggi praticamente non si trova in nessuna libreria. D’altro canto, come spiegherò meglio più avanti, ci sono delle piccole case editrici che hanno trovato una nicchia nella riscoperta di bravi autori dimenticati o addirittura sconosciuti in Spagna, fra cui alcuni italiani.
Detto questo, gli autori italiani di punta sono quelli che possiamo immaginare: Tabucchi, Magris, Baricco, De Luca, Eco e anche Camilleri, in modo diverso. Sciascia e Pasolini si uniscono a Calvino nel dimenticatoio di cui parlavo prima, pur essendo sempre presenti in libreria. I best-seller arrivano anche da noi (Tamaro, Giordano, Saviano in un altro senso). Ovviamente sto parlando della condizione “viva” degli autori nel mondo editoriale e socio-letterario, nel senso che si possono trovare facilmente nei giornali e nelle librerie. Nella considerazione dei lettori, soprattutto quelli di una certa età, le cose sono molto diverse e non parliamo poi in campo universitario.

 

Viene tradotta anche la poesia? E la letteratura di genere, la saggistica, i libri per ragazzi?  

Si, certo, si traduce di tutto, ma prevalgono i romanzi. I gialli in particolare, tanti, anche perché c’è un filone specifico nell’editoria spagnola, e perché si cerca chi ha avuto un buon  successo di vendita nel suo paese (Camilleri, ovviamente, e Faletti, ma anche Malvaldi, Carofiglio, Carlotto, Di Giovanni, Costantini, Vichi).
La poesia non viene molto tradotta, ma nemmeno poco, direi. Ogni tanto appare anche sui giornali. Gli ultimi poeti tradotti che ricordo sono Calabrò, Caproni, Zanzotto, Merini, Grasso, Penna, Loi, Magrelli… Nella poesia, invece, si può forse dire che i grandi poeti del Novecento (Montale, Saba, Ungaretti) sono sempre i nomi di riferimento, ovviamente per i lettori e gli editori di poesia, che sono una minoranza.
La saggistica è abbastanza tradotta, direi, nelle sue diverse varietà, e più è divulgativa meglio è (Craveri, Odifreddi, Eco, ovviamente, e poi Cavalli-Sforza) anche se mancano tanti nomi interessanti.
Decisamente migliore è la situazione della letteratura per ragazzi. Non soltanto ci sono autori riconosciuti (Pitzorno, Baccalario, Troisi e sempre Rodari) ma serie come Geronimo Stilton coi suoi derivati e Bat-Pat spopolano in Spagna. L’Italia è una potenza editoriale riconosciuta nella letteratura infantile e giovanile.

 

Quanto sono tradotti i classici? Quali sono accessibili e quali mancano all’appello? 

Visto quanto dicevamo prima, la vita dei classici in Spagna non è facile e le collane tascabili che ha ogni casa editrice italiana con i titoli fondamentali di ogni letteratura da noi non esistono. Soltanto alcuni editori, Alianza, Espasa nella classica collana Austral, e altri di piglio più scolastico o universitario (Cátedra)  pubblicano classici, con una certa sistematicità voglio dire. In tal senso, possiamo dire che Dante è ben rappresentato con diverse traduzioni, ma per il resto il panorama lascia a desiderare già a partire da Petrarca e Boccaccio, immaginiamo il resto. Questo non impedisce che un editore di prestigio come Acantilado abbia pubblicato di recente una bella edizione delle Confessioni di Nievo. Ma se facciamo un nome caro alla cultura ufficiale italiana come quello di Manzoni, non trovo titoli disponibili nella libreria online della Casa del Libro, la più importante di Spagna, anche se c’è o c’era una traduzione  in Cátedra. La situazione di Pirandello è migliore, invece, con tanti titoli tradotti e a quanto pare in commercio.

 

Quale tra i nostri scrittori è diventato parte di un canone ideale?

Come dicevo prima, la situazione è molto diversa se prendiamo in esame il canone – nel senso usato da Harold Bloom, di gruppo di autori imprescindibili – perché allora tutti i grandi sono presenti. Ma potremmo aggiungere che, in un canone colto più esteso, dai tre illustri autori medievali si passa quasi direttamente al Novecento, perché i grandi scrittori rinascimentali non escono delle aule universitarie (un po’ forse Ariosto per via di Calvino) e Manzoni e Verga non sono stati davvero recepiti in Spagna, anche se Leopardi è chiaramente presente. Invece da Pirandello in poi (non tanto D’Annunzio, autore forse poco traducibile) e soprattutto dal dopoguerra i grandi nomi di romanzieri e poeti già citati – insieme a Gadda, Bassani, Morante, Moravia, Buzzati, Manganelli – sono senz’altro presenti in questo canone colto allargato, il che però non significa che siano pubblicati o reperibili in libreria…

 

Quali case editrici dedicano spazio agli scrittori italiani? Che tipo di linee editoriali hanno? Esistono case editrici specializzate in letteratura italiana?

Un po’ tutte le case editrici che seguono l’attualità letteraria hanno autori italiani in catalogo, perché la letteratura italiana è molto apprezzata in Spagna, anche se si ritiene che non venda molto, con le dovute eccezioni, è chiaro. Adesso la crisi ha peggiorato ulteriormente la situazione, ma non percepisco un calo di interesse verso gli autori contemporanei. Come dicevo, l’interesse è cominciato con i grandi autori del dopoguerra e non è più diminuito; negli anni Ottanta c’è anche stato il cosiddetto boom italiano. E poi, come accennavo prima, negli ultimi tempi abbiamo avuto un piccolo boom di case editrici indipendenti e quasi artigianali che cercano autori trascurati da quelle grandi e medie, perché meno conosciuti, giovani o meno recenti, autori di tutte le letterature,  anche quella italiana. Cosi Minúscula ha pubblicato Marisa Madieri, Errata Naturae Flaiano, Periférica Monina, per citare alcuni casi.
C’è una casa editrice specializzata in letteratura italiana, Gadir, che pubblica autori attuali e classici. Esisteva anche Parténope, specializzata in autori napoletani e meridionali in genere, ma credo che non pubblichi più.

 

C’è un vero lavoro di scouting sulla letteratura italiana contemporanea?  Che parte hanno in questo i traduttori?

Non saprei. L’industria editoriale spagnola, comunque, non è abbastanza ricca da permettersi degli scout, tanto meno per l’Italia. Il lavoro di scouting lo fanno certo agenti ‑ penso a Silvia Meucci – e anche i traduttori svolgono un ruolo importante in questo senso, lo dico per esperienza personale e non solo perché ho raccomandato motu proprio degli autori, ma anche perché non è raro che le case editrici mi interpellino e mi chiedano consigli.

 

Ci sono scrittori spagnoli che, magari anche prima che i libri arrivino nelle redazioni culturali dei giornali, suggeriscono ai propri lettori qualche libro italiano? O anche, scrittori spagnoli che di tanto in tanto riportano alla luce qualche libro e/o autore italiano da riscoprire?

Certo. Ignacio Martínez de Pisón e Justo Navarro, tanto per fare due nomi, oltre che traduttori sono scrittori che conoscono bene il panorama italiano. Lo stesso Javier Cercas, e prima di lui Vázquez Montalbán, raccomanda ogni tanto autori italiani.

 

Affinché uno scrittore italiano acceda al mercato editoriale spagnolo, quanto conta la sua casa editrice di origine?

Moltissimo, ovviamente, ma in modi diversi. Le case editrici più prestigiose riescono sempre a vendere gli autori interessanti: Anagrama ha avuto un ruolo importantissimo, probabilmente il più importante degli ultimi trent’anni, come Seix-Barral negli anni cinquanta, ma ha abbandonato Manganelli, ad esempio. Tusquets, un’altra delle grandi, ormai si limita a Sciascia e ad Agnello Hornby, dopo alcuni insuccessi come Scurati. Lumen, un altro editore prestigioso, è la casa editrice di Eco, ma anche di Elsa Morante. Alfaguara, ormai lontana dai suoi tempi migliori, pubblica molte autrici (Avallone, Mazzantini) ma senza successo, pare. Seix Barral, dal canto suo, ha ripreso a pubblicare autori italiani a buon ritmo, con De Luca e il pot-pourri  di autori di diverso livello che ormai la caratterizza (Gamberale, Mari). Un’altra casa editrice specializzata in best-seller con un po’ di pretese, e cioè Salamandra, pubblica oltre a Giordano, Nesi e Murgia.
Un caso particolarmente interessante è quello dei piccoli editori a cui accennavo prima, capaci non solo di pubblicare autori interessanti (Cornia, Celati in Periférica; Madieri in Minúscula, Bianciardi in Errata Naturae), ma di far parlare di loro e di venderli non troppo male.

 

Le case editrici spagnole con partecipazione italiana (pensiamo a Random House – Mondadori prima della cessione a Bertelsmann e a Duomo con Gems o Anagrama con Feltrinelli) hanno dedicato e dedicano attenzione alla letteratura italiana? 

Nel primo caso non direi, ma si è notato qualcosa in Anagrama che, dopo una certa diminuzione della letteratura italiana in catalogo, ultimamente ha ripreso a pubblicare anche autori abbastanza lontani dalla sua linea editoriale (Faletti). Comunque, come già ho detto, Anagrama ha sempre prestato grande attenzione  all’Italia.

 

Quale accoglienza riserva il pubblico spagnolo agli autori italiani? Gli scrittori più conosciuti  (Eco, Tabucchi, Camilleri, Calvino, etc.) sono riusciti in qualche modo a fare da traino?

Un’accoglienza simpatica, direi. In generale c’è molto interesse per l’Italia, come paese vicino in tante cose, e anche per la sua letteratura, che come ho detto, dopo quella inglese e francese, è stata storicamente la più tradotta. Certo gli autori che citate sono molto apprezzati e seguiti (aggiungerei anche Baricco) e le loro eventuali raccomandazioni sono importanti, ma in linea di massima direi che la letteratura italiana non ha bisogno di essere trainata come altre letterature minoritarie.

 

Che immagine ha il lettore spagnolo dell’Italia? 

Forse un’ immagine po’ stereotipata, ma proprio in ambito letterario, dopo la grande leva neorealistica degli anni Cinquanta (Sciascia, Pavese, i primi Pasolini e Calvino) focalizzata su un’immagine più caratteristica, alcuni autori di fine secolo come Magris e Tabucchi hanno allargato gli orizzonti del lettore,  non solo spagnolo, allontanandosi dai cliché.

 

Secondo te, gli stereotipi che ci caratterizzano all’estero, possono influire in qualche modo sulla scelta dei titoli italiani da tradurre in spagnolo?

Capita senza dubbio e alcune tematiche  – il Sud, la mafia ‑ risvegliano sempre interesse, ma ormai alle case editrici interessa soprattutto replicare il successo riscosso dai libri in Italia (o anche in Francia) e tradurre autori interessanti. Come ho detto, credo che la letteratura italiana non sia più legata a stereotipi.

 

I libri italiani che vengono tradotti in spagnolo che tipo di lingua e lavoro sulla lingua presentano? Si traducono (e si vendono) principalmente libri scritti in maniera più semplice? C’è un’affinità linguistica tra le opere italiane tradotte in Spagna? O si tende a dare diffusione anche a libri particolarmente elaborati sul piano linguistico e stilistico?

Si traduce di tutto ma si vende di più Moccia che Manganelli, per fare esempi estremi. Anche autori non facili come Tabucchi, Calasso o Bufalino hanno però avuto un discreto successo. Credo che il problema, in effetti, sia la grande difficoltà dello spagnolo a rendere una delle caratteristiche più forti di una letteratura linguisticamente plurale come quella italiana, e cioè il ricorso al dialetto. Autori come Camilleri si traducono appiattendone la lingua, ma più per impossibilità tecnica che per altro. Credo che qualcosa di simile accada quando si traducono in italiano autori latinoamericani.

 

Che funzione svolge la letteratura italiana nel polisistema letterario spagnolo?

È variata nel tempo, ma è stata sempre importante. Direi che oggi non svolge un ruolo di avanguardia come ai tempi del neorealismo o negli anni ottanta.

 

Ci sono, nelle redazioni culturali spagnole, giornalisti che conoscano il panorama italiano contemporaneo?

Si, Martínez de Pisón, già citato, lavora anche come critico, e Mercedes Monmany all’ABC di Madrid, o Masoliver Ródenas a La Vanguardia di Barcellona sono critici molto ben informati sull’Italia.

 

Esistono riviste o blog letterari che, nel caso in cui i giornali non siano interessati a questo tipo di lavoro, si prodigano nel promuovere e suggerire ai propri lettori libri italiani o di qualsiasi altra nazionalità?

Questo non lo so, non ne conosco nessuno, ma non sono un grande esperto.

 

Che tipo di politica culturale persegue l’Italia in Spagna? Potrebbe avere modalità di diffusione più efficaci? Quanto conta il lavoro dell’Istituto Italiano di Cultura in Spagna?

La mia impressione, molto personale, è che l’Italia non abbia una politica di diffusione culturale ben definita. Anche per l’apertura postmoderna dell’ambito culturale a tante cose che non sempre sono cultura, ma questo non è un problema esclusivamente italiano. Non sono nemmeno sicuro che la Spagna sia un mercato culturale di primario interesse per l’Italia, a fronte di altri più importanti, come la Francia o la Germania, per non parlare dell’inespugnabile mercato anglosassone. La prova migliore di quanto dico è che collaboro da anni con l’Istituto Italiano di Cultura a Madrid, ho visto passare svariati direttori e mi è sempre sembrato che la politica culturale svolta dipendesse esclusivamente delle competenze e dagli interessi personali di ciascuno di loro (non sempre eccellenti, anche se in media non male) e non da un progetto superiore articolato.

 

Biografie

Carlos Gumpert (Madrid, 1962) è stato lettore di spagnolo all’Università di Pisa. Da anni lavora come editor a Madrid. Ha tradotto più di ottanta opere della letteratura italiana contemporanea, di autori come Antonio Tabucchi, Ugo Riccarelli, Giorgio Manganelli, Italo Calvino, Erri de Luca, Goffredo Parise, Alessandro Baricco, Mario Fortunato, Giorgio Todde e Simonetta Agnello Hornby. Pubblica regolarmente recensioni e articoli sulla cultura italiana ed è autore di alcune antologie di letteratura spagnola e delle Conversazioni con Antonio Tabucchi (1995, di prossima pubblicazione in italiano da Feltrinelli), autore a cui ha dedicato anche altri lavori.

Ilide Carmignani è nata e vive in Toscana. Da venticinque anni svolge attività di consulenza, editing e traduzione dallo spagnolo per le maggiori case editrici italiane. Fra gli autori tradotti: R. Bolaño J. L. Borges, L. Cernuda, R. Fogwill, C. Fuentes, A. Grandes, G. García Márquez, P. Neruda, J. C. Onetti, O. Paz, A. Pérez-Reverte, L. Sepúlveda. Ha tenuto e tiene corsi e seminari di traduzione letteraria presso università italiane e straniere. Nel 2000, ha vinto il I Premio di Traduzione Letteraria dell’Instituto Cervantes. Dallo stesso anno cura gli eventi sulla traduzione letteraria per la Fiera del Libro di Torino (l’AutoreInvisibile). Dal 2003 organizza, insieme al prof. S. Arduini, le Giornate della Traduzione Letteraria presso l’Università di Urbino. Nel 2008 è stata eletta socio onorario dall’AITI – Associazione Italiana Traduttori e Interpreti.  Ha pubblicato Gli autori invisibili. Incontri sulla traduzione letteraria, Besa 2008.

[L’immagine è stata tratta dal sito di Escif]

Frattanto…

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di Daniele Ventre

Quando il trattato di Parigi del 1951 e i due trattati di Roma del 1957 ebbero poste le basi delle comunità europee, le classi politiche delle nazioni uscite dall’ultima guerra definirono un preciso piano di integrazione, che avrebbe dovuto condurre col tempo, attraverso il passaggio necessario di uno Zollverein continentale, al costituirsi in Europa occidentale di un organismo politico sovranazionale federativo, che bandisse per sempre dal continente il pericolo di conflitti sanguinosi e il ritorno di bioregimi totalitari di stampo nazi-fascista. Con il trattato di Maastricht e la creazione dello spazio Schengen fra il 1992 e il 1995, la nascita dell’Unione Europea sembrava aver dato inizio a una nuova fase, di cui l’approdo ultimo al costituirsi degli Stati Uniti d’Europa, tutela del benessere e dei diritti di tutti i cittadini europei, sembrava l’esito naturale. Nel 2013, a cinque anni dall’esplosione della crisi globale, e a sei dall’ingannevole trionfalismo del cinquantenario dei trattati di Roma, lo scenario socio-economico dell’Unione è alquanto diverso da quel che ci si attendeva.

L’Europa delle vestali dell’austerità appare troppo compiaciuta del suo misticismo finanziario cieco e sordo, per prestare ascolto ai moniti del FMI in tema di eccesso di rigorismo (né certo si può accusare il FMI di perverse inclinazioni neo-bolsceviche). Mentre l’Inghilterra, chiusa nel suo tiepido isolamento, celebra fra battute giustamente maligne, omaggi ipocriti postumi e revivals dei Pink Floyd la memoria di Maggie Thatcher the milk-snatcher (evocata peraltro come modello  da qualche improvvido idiot-savant del giornalismo d’opinione e del saggio socio-politologico), l’Europa della BCE e dei debiti sovrani, l’Europa dei Draghi e dei Van Rompuy, appare di fatto sempre più lacerata sul piano politico, ed economicamente sempre più esposta all’alea delle trame speculative, dove che sia il loro punto di origine nel moto browniano della finanza transnazionale. La Germania, in cui non è tutt’oro quel che luce, vista la passività media di 4600 euro annui delle famiglie più povere, la locomotiva Germania che ha per lungo tempo scaricato sull’Europa orientale e sull’area mediterranea i residui semicombusti delle passività potenziali della sua economia, guarda ora con freddo disprezzo (e ansia crescente) al deragliamento progressivo, e forse irrecuperabile, dei PIIGS, denominazione quanto mai omologante, e perciò erronea, della periferia dell’euro-impero. I sacerdoti del rigorismo finanziario teutonico, sordi alle sinistre insinuazioni di un Soros in tema di eurobond e di eventuale uscita della Germania dall’euro, premono per l’attuazione, dal centro, di provvedimenti estremi, fra prestiti forzosi e congelamenti dei prelievi agli sportelli. Di quale decisionismo dia prova l’Unione in fatto di materia bancaria, ci si è accorti nel caso della crisi delle banche cipriote, quando i tecnocrati contigui alle politiche di egemonia finanziaria della Germania sono stati fin troppo inclini a puntare il dito contro gli interessi finanziari russi, dimenticando che l’altra metà della putrefatta torta di Cipro era appannaggio quasi esclusivo della speculazione finanziaria tedesca. E nel frattempo iniziative di relativa autonomia e di recupero parziale di sovranità bancaria, quali quelle attuate, nemmeno tanto di soppiatto, dal governo irlandese, nell’ambito dello spazio di manovra ancora concesso, hanno lasciato interdetto il centro egemonico dell’Eurozona, costituendo un pericoloso precedente, e un fattore di collasso, di cui non a caso non si parla poi molto.

Nudo di uomo

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848_14626-sdi Silvia Contarini

Al Ludwig Museum, Museo di arte contemporanea di Budapest, da qualche settimana e fino al 30 giugno c’è una mostra temporanea intitolata The Naked Man. Ci sono capitata per caso, visitavo questo museo che non conoscevo, ho visto il titolo e l’affiche, ho esitato temendo una mostra accalappia turisti voyeurs, una versione al maschile di nudi artistici femminili, ho finito per entrare e ho fatto bene davvero. La mostra ripercorrere l’evoluzione della rappresentazione del corpo nudo maschile, a cominciare dalla Vienna di inizio Novecento e fino ai nostri giorni, dando ampio spazio ad artisti d’Europa centrale, ma non solo. Già esposta al museo di Linz, la mostra ha tre curatrici austriache, cui si sono aggiunte due curatrici ungheresi per la ripresa a Budapest. Chi capisce il tedesco, può andarsi a vedere e ascoltare la presentazione sul sito del museo Lentos di Linz http://www.lentos.at/html/en/2267.aspx, mentre sul sito del Ludwig Museum c’è un breve testo di presentazione in ungherese e inglese e ci sono diverse immagini http://www.ludwigmuseum.hu/site.php?inc=kiallitas&menuId=43&kiallitasId=848

Sulla rappresentazione del corpo femminile, nudo e seminudo, sul canone estetico e sui modelli imposti, sull’oggettivizzazione, lo sfruttamento e l’avvilimento, è stato detto e c’è senz’altro ancora da dire (e tra quello che c’è da dire, andrebbe proseguita l’opera di denuncia come quella dell’agghiacciante documentario “Il corpo delle donne”, il quale tra l’altro mostra come anche le donne abbiano introiettato lo sguardo maschile sul loro corpo).

E sulla rappresentazione del corpo maschile? Mentre guardavo quadri, sculture, fotografie, video della mostra The Naked Men, mi sono resa conto di non aver mai pensato al corpo nudo dell’uomo come a un soggetto di riflessione. Eppure, le problematiche sono molteplici, come evidenziato nei bei testi di presentazione delle varie sezioni (purtroppo non ripresi nel catalogo né sui siti). Il corpo nudo  maschile è emblematico di diversi momenti di crisi che possiamo sintetizzare in antieroismo e anticlassicismo, nella messa in discussione del ruolo maschile tradizionale e ricerca di alternative. Molta attenzione è portata allo sguardo: dell’artista maschio su di sé o sull’altro, dell’artista femmina sul corpo nudo maschile; lo sguardo erotico o lo sguardo razziale; altrettanta attenzione al significato politico e ai rapporti di potere legati al corpo maschile, in particolare nei paesi dell’est prima della fine dei regimi comunisti. Insomma una ricchezza tematica stimolante, ma anche dei begli oggetti esposti, di artisti noti (Egon Schiele, Robert Mapplethorpe, Oskar Kokoschka, Louise Bourgeois, Eduard Munch, Andy Warhol, Gilbert & George, David LaChapelle, Marlene Dumas) e meno noti, quantomeno a me, forse perché come ho detto molti sono di paesi d’Europa centrale.

Sogno di una notte di mezza primavera

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di Antonio Sparzani
(Notte, stanza con due brandine nella sede del Partito, sotto i cuscini niente Kalashnikov ma cellulari silenziati, le tre del mattino)
Pierluigi: Ehi, Enrico!
Enrico (che dorme, come quasi sempre): Eheee?
P.: Ma che fai, mica vorrai dormire?
E.: Ma senti, capo, almeno Palmiro ai tempi suoi dormiva con la Nilde e semmai svegliava lei, ma tu adesso cosa vuoi?
P.: Ho sognato il giaguaro

Abbracci

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Senza parole

Proviamo a ballare insieme quest’ultimo valzer

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di Helena Janeczek

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Tanto volle sopravvivere che poi morì. Tanto vollero sopravvivere che poi morirono.
Lo dico con rabbia perché la cosa che più mi sento stamane è incazzata. Mi pare bene, però, potenzialmente. Mi pare bene che si sia rotta la coltre del Non-Ci-Sono-Alternative, di rassegnazione al meno peggio. Ieri sono successe due cose, in rapida e ineluttabile sequenza.

Walter Siti e l’impossibile

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di Giacomo Raccis      cropped-courbet-siti2

Ci sono scrittori che prediligono titoli piani, anonimi, che passino sotto silenzio, che magari colpiscano proprio in virtù della loro genericità: Ammaniti con Io e te, ad esempio, uscito lo stesso anno del Leielui di De Carlo; ce ne sono altri che invece provano a toccare il lettore che vaga per gli scaffali della libreria con una sola ma incisiva parola: la Violazione di Sarchi o lo Spaesamento di Vasta; ci sono autori, poi, che con un titolo aprono interrogativi a cui talvolta neanche la lettura riesce completamente a rispondere: è il caso di Woobinda di Aldo Nove o, oltreconfine, del 2666 di Bolaño. Poi ci sono gli scrittori che quando devono scegliere il titolo della loro ultima fatica decidono di far squillare le trombe della propria fanfara: Walter Siti, almeno da qualche anno a questa parte, è uno di questi. Tralasciando Autopsia dell’ossessione (2010), che al lettore esperto suonava già familiare, con quel suo esplicito richiamo alla funerea e patologica mania che abita il personaggio protagonista dei suoi principali romanzi, lo scrittore modenese, esegeta e in qualche modo emulo del Pasolini narratore, ci regala, a stretto giro di posta, Resistere non serve a niente (Rizzoli 2012) e Il realismo è l’impossibile (nottetempo 2013): un romanzo e un saggio (“libretto” lo chiama Siti) che a un tempo segnano una cesura nella produzione dello scrittore e provano a gettare uno sguardo retrospettivo su tutta la sua opera. Niente di male, fin qui. Se non fosse che, allo scandalismo provocatorio e moralistico dei due titoli, non sembra corrispondere un altrettanto illuminante contenuto.

Considerato da molti il romanziere italiano più importante degli ultimi quindici anni, Walter Siti sembra aver già dato il meglio di sé, e soprattutto, sembra essersene accorto da solo. Dopo aver stupito tutti con la creazione del più emblematico e riuscito protagonista autofinzionale che la letteratura italiana possa vantare, l’autore si trova in un’impasse. Quel «Walter Siti come tutti» di Troppi paradisi (2006) – già abbozzato in Scuola di nudo (1994) e poi sostanzialmente riproposto nel Contagio (2008) e nell’Autopsia –, cinico profeta della fine di qualsiasi engagement per un intellettuale chiamato piuttosto a dar sfogo alle proprie pulsioni più depravate e ipocrite, e allo stesso tempo sonda esplorativa di un universo borgataro di esplicita impronta pasoliniana, aggiornato alla società liquida (personaggi privi di rotondità psicologica) e televisiva (il mondo della TV come sogno degradato per un riscatto facile quanto deperibile, ma anche come modello di comportamento e specchio di una nuova direzione dell’evoluzione sociale), quel “Walter Siti”, si diceva, sembra aver esaurito la propria missione di perlustrazione. Lo scavo, della psiche dell’io (unico soggetto su cui egoticamente valga la pena concentrare lo sguardo) e della società popolare (ridotta a funzione delle nichilistiche e masochistiche perversioni dell’io), è stato compiuto. Servono nuovi orizzonti: ecco allora giungere in soccorso dell’autore l’ancora inesplorato mondo delle collusioni tra camorra e alta finanza, pur sempre incistato nella realtà popolare di Roma e delle sue periferie. È il panorama che offre Resistere non serve a niente. Ora gli orizzonti necessariamente si aprono: a fianco della capitale compaiono altri set, internazionali ed esotici, dalle vacanze ai Caraibi su aerei privati ai viaggi in trimarano al largo delle Canarie, fino alla più “classica” delle seconde case a Cortina. I “Tommaso” e le “Stella” (nomi tipicamente pasoliniani, riconosce lo stesso Siti) non sono più chiamati a battersi in una disperata lotta per la sopravvivenza, ma diventano protagonisti di un’altra spietata competizione; quella di un mondo, tra capitalismo finanziario, jet set e criminalità organizzata, che porta al massimo grado posta in gioco e violenza d’azione, anche se sembra conservare intatte certe logiche proprie anche dell’universo borgataro (le clientele, la mercificazione del corpo, il cinismo disincantato di fronte alla vita).

Cambiando il mondo rappresentato, però, cambia inevitabilmente anche la posizione dell’io, costretto in Resistere non serve a niente a declinare diversamente il suo egotico desiderio di “fare centro” per raccontare la storia di Tommaso Aricò, «un sellerone mal cresciuto, un formichiere allevato in una tana di furetti; la mascella rettangolare e le labbra sottili, tutto quello che odio di un uomo» (p. 26). Avere accesso a tutti i segreti dell’esistenza di un broker miliardario, affermatosi attraverso “delitti” efferati e pegni impronunciabili, consente però a “Walter Siti” di recuperare per via indiretta il suo ruolo preferito, ovvero trovare le parole per dire ciò che nessuno si confesserebbe mai, e che in questo caso trova una doppia conferma: non solo dall’esperienza moralmente inaccettabile del protagonista, ma anche dalla defezione etica con cui il suo biografo decide di aderirvi integralmente. La legge della verosimiglianza, «verde praticello in declivio dove non si rischiano né querele né accuse di esibizionismo» (165), impone di lasciare a qualcun altro l’onere di fare esperienza diretta del mondo oscuro delle bolle speculative e del surfing finanziario; tuttavia, facendosi specchio deforme della storia altrui, “Walter Siti” riesce ancora una volta a mettersi nella posizione di chi fa scandalo: «credo di dire cose intelligenti solo perché le sparo grosse… sento fraterno chi si mette fuori dall’umano, come se fuori dall’umano ci fosse qualcosa…» (170). A colpire chi legge, allora, non saranno più le scene di sesso libertino e orgiastico, né l’esistenza di quest’individuo al di là di qualsiasi norma etica o sociale: il colpo più duro lo infligge ancora una volta l’autore, o meglio, il suo doppio narrativo, quando rinuncia a farsi filtro imparziale per prendere e dichiarare la propria posizione. Una posizione che non può che essere quella sbagliata, unica possibile per chi ha perso ogni speranza nell’uomo e non attende altro che il suo definitivo esaurimento. Non è “Walter Siti” a confessare il rapporto sessuale avuto con la figlia minorenne di un “socio” in difficoltà economiche, tuttavia è “Walter Siti” a dichiarare la struggente tenerezza procuratagli dal vedere un uomo distrutto dal piacere provato per un atto tanto meschino.

Così, confermando il paradigma dell’intellettuale decaduto e nichilista (in questo romanzo acuito anche dalla precarietà abitativa del protagonista, che accetta l’ingaggio di Aricò per potersi garantire una casa), lo scrittore propone ancora una volta l’immagine di un personaggio che ha deciso di contravvenire tutte le “convenzioni” del consorzio civile, che si denigra per ogni compiaciuta infrazione, ma che non riesce mai a spostare questa infrazione dal piano del discorso a quello dell’esperienza. “Walter Siti” osserva sempre da fuori, accontentandosi di «un’esperienza mediata da una protesi» (Giglioli, Senza trauma, p. 80): «….forse sei il mio stuntman, quello che esegue per me le scene pericolose…un prototipo della mutazione…o forse, più in profondità, sei il mio vendicatore» (314).

A questo punto, però, bisogna ritornare allo spunto da cui sarebbe voluto partire questo intervento, ovvero il breve saggio Il realismo è l’impossibile, con cui Siti decide di mettere sul tavolo le proprie carte di scrittore. Il lettore meno esperto, che si avvicina con curiosità ingenua ma ricettiva a questo “opuscolo” (80 pagine in formato 10×15), si fa coinvolgere dalla grande enciclopedia che Siti dispiega per esemplificare i passaggi principali dell’annosa questione del realismo (e, detto per inciso, non saremo mai abbastanza grati a chi riesce a rendere chiari e comprensibili concetti di non immediata evidenza, come il barthesiano «effet du réel» o l’astrattissima “semiosi illimitata”). E allora ecco brillanti aneddoti provenienti da differenti latitudini della nostra letteratura, come di quelle straniere, e soprattutto dai più disparati campi di quelle che vengono orrendamente definite “scienze umane”: dalla pittura al cinema, dalle arti performative fino alla storia delle religioni. Siti convoca tutto quanto può contribuire a inserire il discorso sul realismo entro un quadro che comprenda l’intera civiltà occidentale, con tutto il peso della sua tradizione (dove Stanislavskij e Warhol possono stare vicini a Dante e Dostoevskij).

Al lettore più attento, invece, che conosce l’opera del romanziere (e chissà, magari anche del giovane accademico che a 26 anni scriveva Il realismo dell’avanguardia, uscito per Einaudi nel 1973), una volta superata la prima piacevole quanto piatta parte metodologica, viene spontaneo misurare le dichiarazioni più oggettive dell’autore sui modelli rappresentativi del romanzo con la sua ultima e discussissima fatica. E non si tratterebbe certo di un’operazione capziosa. Innanzitutto perché in chiusa di Resistere non serve a niente (312), quando “Walter Siti” e Tommaso Aricò fanno i conti – un po’ didascalici in effetti – sul rapporto che li ha legati durante il periodo della stesura del romanzo, il narratore cita quell’Origine del mondo, tela di Gustave Courbet, che campeggia nelle prime pagine del saggio come modello della sfida all’informe finitezza del mondo a cui si vota il realismo (quadro che avrebbe fatto dire a Picasso: «Le réalisme, c’est l’impossible»). Ma in secondo luogo, perché a chiederci di leggere questi due testi uno di fianco all’altro (e con un occhio anche agli altri romanzi) è lo stesso Siti: «tanto è chiaro che il pudore è andato a farsi benedire e che questo non è un saggio sul realismo ma una bieca ammissione di poetica» (48).

Infatti, una volta conclusa la ricognizione sugli attributi “classici” del realismo (il rapporto conflittuale con il verosimile, la necessaria complicità con verità e menzogna), l’autore decide di esporre la sua specifica posizione al giudizio del proprio lettore. È una strategia ormai nota, quella di Siti, messa alla prova, come si è visto, in tutti suoi romanzi autofinzionali, dove l’io protagonista non teme di scadere nel patetico (che al contrario sembra una corda molto consona a Siti) per chiedere venia al lettore dei propri orribili e bellissimi peccati. Qui non si ha più a che fare con giovani aitanti che si mantengono ricattando i propri protettori, né con l’irresistibile attrazione suscitata da chi si mostra potente e dannato. Qui la posta in gioco è più sottile e astratta, ma forse più importante (almeno per giudicare uno scrittore): si tratta infatti di giustificare le proprie scelte estetiche, le opzioni tecniche e stilistiche dei propri romanzi.

Anche in questa circostanza l’autore non può fare a meno di mettere in campo il proprio armamentario di ammissioni, scusanti e sensi di colpa, inscenando il consueto autodafé. Tuttavia, se è legittimo, e anzi naturale, concedere allo scrittore di fondare la propria formula rappresentativa (il «realismo gnostico») su una personale percezione della realtà («Per stare in equilibrio tra cronaca e lirica, tra amore per la realtà e rancore per quel che la realtà non ha saputo essere per me (o io per lei) […] il metodo che mi sono abituato a usare è l’assorbimento dei miti», 61), meno corretto è che egli ricorra alla sua esperienza emotiva anche per dare conto e giustificare pregi e difetti dei risultati raggiunti in virtù di quella scelta estetica. In questo senso, l’autofiction come tecnica rappresentativa privilegiata di fronte al reale diventa l’esito di una scelta funzionale al confronto tra lo scrittore e i suoi demoni interiori, ovvero una questione “privata”, se è vero, come ci dice Siti, che a determinarla è stata la «paura di morire muto, paura che se parlavo [sic!] sinceramente tutti mi avrebbero abbandonato, paura di sostenere le mie idee senza nascondermi dietro il piagnucolio» (76). Con questa pratica ricattatoria, Siti si mette al riparo da qualsiasi eventuale critica: nulla è più personale e conta di più del rapporto tra uno scrittore e la sua coscienza, non è possibile sindacare su una scelta radicata così a fondo nell’esperienza emotiva dell’uomo. Solo che, in questo modo, il lettore e il critico sono messi fuori gioco, esautorati della loro funzione di interpreti: non possono far altro che constatare, al massimo condividere. Ma a livello empatico, nulla di più. E questo fatto diventa emblematico nel momento in cui Siti, non pago, decide di assecondare la sua vena autocommiserativa e autocompiaciuta (ormai diventata maniera) per mettersi spontaneamente sul banco degli imputati, riconoscendo i propri torti: «ricorro agli stereotipi quando non ho il coraggio di andare a vedere, anche sul piano della poetica il mio nemico è la paura. […] non sono contento di me quando tradisco il realismo per il bozzetto» (77-78).

Siti si costituisce e si consegna alle forze dell’ordine del Realismo: a noi, lettori e critici, non resta che prendere atto dell’ennesima messa in scena di un io che non può rinunciare a esibirsi e demolirsi, che non può fare a meno di imporsi con lo scandalo di un’esasperata autocoscienza. Con maliziosa consapevolezza Siti si mostra ancora una volta in cerca di un’assoluzione che la sua macchina retorica dovrebbe indurre automaticamente. Questa volta, però, è nostro dovere non concedergliela. Se anche possiamo accogliere la sua definizione “residuale” di realismo (per cui lo scrittore non è altro che «uno stolto demiurgo che cerca di mimare una Creazione che non conosce», 59), non possiamo accettare di farne un cavallo di troia che apra il campo a una scrittura sempre più rinunciataria, nelle intenzioni così come nei risultati. Siti ha rivelato il «ricatto dell’argomento» con cui ha cercato di tenere i lettori avvinti ai propri romanzi: ora questo non basta più. La sensazione è che queste pagine teoriche finiscano con il torcersi contro il loro autore, mostrando uno scrittore che, anche nel momento del colloquio più diretto e “sincero” con il proprio lettore, non rinuncia a mettersi in maschera, tanto da lasciarci con il dubbio che quelle che leggiamo siano ancora una volta le parole di un suo doppio finzionale, ennesima manifestazione di un io senza corpo, perso tra i riflessi di un incontrollabile gioco di specchi.

In questo tempo di poetiche incerte ed estetiche ambigue, non credo che alla letteratura italiana serva uno scrittore dallo statuto tanto debole da accettare di farsi teorico solo a patto di non infangarsi sul campo del pubblico agone (e si veda infatti come Siti schivi, e anzi sminuisca, le attuali discussioni sul «nuovo realismo», e al contrario si erga a giudice dei risultati, non dei progetti, dell’odierna narrativa italiana). È vero, Siti ha ragione, sporgersi è il verbo che dovrebbe compendiare ogni forma di realismo, e più in generale di scrittura. E ha ragione anche quando ci ricorda che questo sporgersi non è messo a rischio solo quando si ricorre agli stereotipi, ma anche, o soprattutto, quando si rinuncia a mettersi in gioco. Il problema sta nel capire fino a che punto il gioco che lui ha in mente ci riguarda tutti.