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Pierre Drieu La Rochelle. Morte di un delicato.

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di Francesco Filia

Si scrive veramente con l’inchiostro o con il sangue? Che rapporto c’è tra vita e scrittura? Tra esistenza e parola ? Queste domande attraversano l’intera esistenza di Pierre Drieu La Rochelle (13 gennaio 1893 – 15 marzo 1945) fino al suicidio, avvenuto in una casa di campagna, nei pressi di Parigi, alla fine della guerra che lui, collaborazionista, ha interamente percorso dalla parte sbagliata e da cui trae le estreme conseguenze, senza cadere nel melodramma del pentimento. Ma ridurre la fine di Drieu al dato storico sociologico, che pur è presente, di una sconfitta politica, sarebbe non comprendere il cuore del suo percorso artistico e intellettuale. Nella sua opera si agitano e si mostrano, nella loro terribile limpidezza, le questioni che dilaniano la vita di ogni uomo, lo sappia o no. Può essere concepita la vita senza la distruzione? O, meglio, senza l’autodistruzione? Ha senso continuare a vivere oltre la soglia fatidica della giovinezza, sopravviverle? Tradire ciò che si è stati anche solo per un attimo? “Da ragazzo ho giurato a me stesso di rimanere fedele alla mia giovinezza: un giorno ho cercato di mantenere la parola.”

La figura di Drieu è una delle più affascinanti, non solo della letteratura francese, ma anche di tutto il primo novecento, soprattutto per queste domande definitive e inaggirabili, in cui, il fascino dello scrittore e del dandy ammalato di delicatezza si alimentano l’un l’altro, lasciando sempre un che di irrisolto che fa ritornare a leggerlo nuovamente. Forse Drieu come scrittore è incompiuto, perché avrebbe voluto essere scrittore di un solo libro, il libro perfetto, indelebile, “Rimbaud, Lautréamont. Beati gli uomini dai pochi libri: non hanno avuto il tempo di confessarsi, di addomesticarsi ripetendosi” . Invece ha continuato a scrivere, a confessarsi , fino a due giorni prima del suicidio, lasciandoci un ultimo grande testo incompiuto Memorie di Dirk Raspe , biografia romanzata di Vincent Van Gogh, in cui, nell’affinità con il grande pittore olandese, Drieu coglie il cuore di ogni destino artistico, quello di farsi “divorare dalla visione” dell’irrealtà, ossia, da quell’Oltre immanente a ogni cosa che fonda già da sempre quello che noi, per nostra comodità e stoltezza, chiamiamo realtà. Ma la figura di Drieu pone una domanda ancora più inquietante: che senso dare alla nostra vita quando questa, rapita una volta e per sempre dall’atrocità del vero e del bello, inizia a tradirci? Perché per Drieu la vita è degna solo del suo apice e non della decadenza, che pur le è costitutiva e che lui, come gran parte dei suoi personaggi, attraversa sino in fondo. La vita va vissuta nella sua irripetibile selvatichezza, a questa intuizione e non da altro si deve, forse, far risalire le sue scelte politiche scandalose . Il dramma di Drieu e di molti dei personaggi dei suoi libri, che non coincidono mai del tutto con l’autore, è segnato da una doppia impossibilità, quella di esistere autenticamente e di arrendersi al quotidiano, o, se resa c’è, è nelle sue forme più abbiette e autolesionistiche, come estremo gesto di rivolta, folle, patetica e disperata, che però non chiede pietà ma ha l’ambizione, attraverso l’ultimo estremo gesto, di lasciare “una macchia indelebile” su chi resta . Perché quel che conta è solo l’amore, l’ardore dell’esistenza che si sporge oltre se stessa e quando questo slancio vitale si esaurisce, l’amore – e le donne che non si lasciano afferrare, trattenere e anzi sembrano stringere in un assedio che pretende la resa della procreazione – diventa forma vuota, maschera mortuaria e dunque tutto si trasforma in vuoto, in thanatos, in un lento finire che ha solo due vie d’uscita, morire o sopravvivere a se stessi.

Dal confronto tra due opposte possibilità, una richiamante l’altra, nascono pagine tra le più belle dell’intera opera di Drieu, i capitoli di Fuoco fatuo in cui Alain, il protagonista, si confronta, passeggiando per i boulevard di Parigi, con l’amico di un tempo Dubourg, che, a differenza sua, ha accettato il “ritmo elementare della vita”, il caldo rassicurante della quotidianità, simboleggiato dal ventre della moglie che lo accoglie ogni sera nel letto o dall’amore per l’archeologia egizia, amore necrofilo, ma che permette di trovare un interesse per sopravvivere. Dubourg non può salvare Alain, non può distoglierlo dal suo proposito, perché in fondo anche lui sa che sta barando con se stesso (“Dubourg capiva che l’occasione per salvare Alain gli era sfuggita. Si diceva che se fosse veramente sicuro di se stesso, si sarebbe gettato su Alain con brutalità, insultandolo, mettendolo a nudo. Gli avrebbe gridato: ‘Sei mediocre, accetta la tua mediocrità. Rimani a livello che la natura ti ha assegnato. Sei un uomo: per la tua semplice umanità sei, per gli altri, ancora inestimabile'”) . Alain, con la sua sola presenza, mostra le cose per quel che sono, eppure anche Alain sa che in Dubourg c’è l’altro se stesso deformato; è come se i due vecchi amici guardassero nell’altro se stessi in uno specchio e vedessero la strada non presa. In Alain c’è già il distacco di chi si sente finito, in Dubourg il cruccio di chi sopravvivrà, in entrambi le braci sempre più tiepide di un amore per la vita che non ha più di che alimentarsi.

Del suicidio, il tema dei temi nell’opera e nella vita di Drieu, è fin troppo facile parlarne male, giudicarlo come un atto frutto di una qualsivoglia disperazione, vile o un atto contro Dio, come lo giudicano le religioni, ma invece in esso sono in gioco la libertà e il destino. Drieu coglie un aspetto del gesto estremo che nessun atteggiamento strettamente moraleggiante potrà cogliere. Nella possibilità dell’autodistruzione irrompe la questione del sacro, del patto sancito da ogni uomo per il solo fatto di esser nato. Patto sancito con cosa? Come nominare quella forza che ci fa stare al mondo, come corrispondere all’enigma che siamo? Ecco che nella possibilità ultima che la morte evoca e che il suicidio anticipa, irrompe l’alterità, l’estraneità radicale che, per contrasto, ci riguarda più da vicino, fino a toglierci il fiato, fino a toglierci la vita. Alterità che si fa gesto in noi nella vertigine dell’auto distruzione e in tale gesto è raccolto, per un attimo che si fa soglia irrevocabile, tutto ciò che quel singolo uomo è stato, è e, in maniera tragicamente paradossale, sarà ancora per un istante: altezza e bassezza, autocommiserazione e disprezzo di sé, amore immedicabile per la vita e disgusto dei giorni che si ripetono sempre uguali, lucido delirio autarchico (“La vita non andava abbastanza in fretta per me, io l’accelero. La corda si allentava, io la tendo. Sono un uomo. Sono padrone della mia pelle, lo dimostro.”) e estrema consapevolezza dell’impossibilità di bastare a se stessi (“Ma in fondo a te stesso ti credi un delicato. Quanto a me, lo credo, non posso non crederlo. Avrei voluto piacere alla gente, ma mi manca qualcosa. E, in fondo, questo qualcosa mi disgusterebbe.”) e, infine, sapere di non poter uscire dalla propria radicale solitudine e che, per un’inezia o per un vizio, per un piacere unico e irripetibile, diventa un percorso verso la perfezione del morire (“Ebbene, ora l’ho capito, la solitudine è il cammino del suicidio o almeno il cammino della morte. Nella solitudine assoluta si prova un piacere unico, superiore a ogni altro, per il mondo e per la vita; è il solo modo per gustare fino in fondo un fiore, un albero, una nuvola, gli animali, gli uomini, anche quando passano lontano da noi, e le donne; ma è la china lungo la quale ci si perde”) . La via della bellezza è la via della morte, in questa equazione sembra riecheggiare la sapienza platonica del Simposio, del Fedone e del Fedro. Dove, però, a differenza di Platone, la psicagogia non porta ad una anabasi salvifica, ma ad una catabasi della Disperazione, non ritrovare se stessi, ma perdersi in maniera definitiva nell’indistinto della morte, come unico modo autentico di essere fedeli all’errore che si è, perdersi nel nero abbagliante del nulla ( vorrei rientrare nella notte senza stelle, nella notte senza dei, la notte che non ha mai portato il giorno nel suo seno, che non ha mai aspirato al giorno, che ha mai prodotto il giorno, la notte, immobile, muta, intatta, la notte che non è mai esistita e non esisterà mai. Così sia . In questo senso il suicidio per Drieu è il rito, nel senso forte del termine, che ci inizia all’enigma dell’esistenza e del mondo, al suo fondo buio, a quel qualcosa che si nasconde dietro a ciò che noi nominiamo nulla e che non si dà in altro modo possibile. L’auto-distruzione fino al gesto estremo, non solo e non tanto come un atto di disperazione, quindi, ma come punto d’arrivo di una logica implacabile, compimento della vera Disperazione strutturale che noi siamo, che non si accontenta del rimorso, della tristezza o del melodramma del ‘se avessi’, ma arriva sino allo strappo finale, lì dove si spezza il nesso tra parola pensiero ed essere, dove la parola si ritrae o, al massimo, arriva postuma e dove, se riesce a dire qualcosa di essenziale, non ha la pretesa di salvare ciò che non può essere salvato .

“Egli è convinto di credere al nulla, pensa di abbandonarsi al nulla, ma sotto questa parola negativa, sotto questa parola approssimativa, sotto questa parola limite c’è qualcosa che gli resta nascosto” . In questi passaggi, rivelatori del pensiero e del vero sentire di Drieu, sembra quasi delinearsi una filosofia neoplatonica, una teologia negativa, il Mónos di cui parla Plotino a cui si può giungere solamente superando la dualità del divenire in una forma di mistica negativa, nel caso di Drieu non ascendente ma discendente e nichilistica . Questa deriva consapevole di Drieu è testimoniata dal diario e dall’ultimo suo libro pubblicato in vita, I cani di paglia , libro di rara sottigliezza analitica e di una bellezza livida, che prende il titolo da una frase del Daodejing di Laozi posta in epigrafe , in cui la crudeltà dell’esistenza è connaturata alla condizione umana, che sembra essere un esperimento del destino in mano a forze sconosciute dove ognuno – il collaborazionista, il traditore, il comunista, il gollista – in situazioni limite, come quelle della Francia occupata dai nazisti, fa i conti tragicamente con ciò che è, con il carattere che lo abita, che lo possiede, al di là di ciò che vorrebbe essere, al di là della sua volontà .

Drieu alla fine dei suoi giorni sente il fascino di un pensiero originario che lo possa liberare dal carcere dell’esistenza e, di volta in volta, questa liberazione si presenta sotto forme diverse, dalla filosofia neoplatonica alla sapienza evangelica, dalla mistica alla teologia negativa, dai Veda all’Upanishad e al Taoismo, vie che però, al di là delle intenzioni dello stesso Drieu, non potranno mai essere abbracciate da lui, letterato fino al midollo , che ha riversato tutto il suo sangue nell’inchiostro della scrittura, scrittura che non potrà mai contenerlo tutto nonostante il suo amore per la terra, per ogni singolo dettaglio e che, però, alla fine si mostrerà incapace dell’ultima parola che possa dire ciò che parola non è. C’è un’ombra che cade tra la parola e la cosa, è questo il limite disperante di ogni gesto letterario. Drieu quindi è uno scrittore incompiuto non per una sua mancanza soggettiva d’artista, ma perché quel che egli vuole dire si ritrae definitivamente dalla parola, cede il passo a quel che non potrà mai essere nominato. E proprio per la sua radicale alterità e quindi sacralità, più sacro di qualsiasi dio, il nulla o ciò che attraverso esso è, richiede un rito, l’ultimo e il solo, che però non ha il conforto della ripetizione ma l’indicibile vertigine dell’irripetibilità, del mai più, del per sempre .
L’ek-stasi di un delicato, cioè di colui che coglie l’intima violenza e bellezza dello stare al mondo, in un’epoca senza dèi è il suicidio. Il perdersi oltre la dispersione dell’esistenza, l’uscire fuori di sé nel tutto infinito (“L’infinito crea il finito e rimpiange l’infinito.”) ed è al tempo stesso fare i conti per la prima e ultima volta con le cose – attraverso un gesto, questo sì veramente politico – con la muta barriera inscalfibile che le avvolge e che ci avvolge. Fare i conti con la nostra costitutiva sconfitta. “Una pistola è solida, è d’acciaio. È una cosa. Scontrarsi, finalmente, con le cose”. (Pierre Drieu La Rochelle, Fuoco fatuo, cit., p. 115)

 

Tabucchi inquieto

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Antonio Tabucchi, un anno dopo. Per il primo anniversario della morte (avvenuta a Lisbona, il 25 marzo del 2012), i suoi editori stanno mandando in libreria testi di e su Tabucchi (Feltrinelli stampa una raccolta di “Saggi” curata da Anna Dolfi, e “Mi riconosci” di Andrea Bajani che racconta gli ultimi giorni dello scrittore; tutte le opere di Tabucchi pubblicate da Sellerio escono ora in un volume con prefazione di Paolo Mauri). Al ricordo di Tabucchi la Regione Toscana, a Firenze, dedica una tre giorni che si intitola “Dialoghi inquieti“. Il 23 marzo al Teatro Cantiere Florida di Firenze, Versiliadanza mette in scena “Nel tempo di questo infinito minimo io ti dico Good Bye Mr Nightingale”, un’azione teatrale ispirata a “Notturno indiano”. Il giorno dopo, sempre al Florida, è la volta di una maratona di lettura dalle opere di Tabucchi. Al centro della giornata del 25, all’Odeon, ci saranno i rapporti fra letteratura e cinema. La mattina, introdotto da Anna Dolfi, si comincia con “Tristano e Tabucchi”, un raro filmato del 2003 in cui lo scrittore racconta la gestazione del romanzo “Tristano muore”. Nel primo pomeriggio, alla presenza del regista Roberto Faenza, viene proiettato “Sostiene Pereira”. Alla sera, infine, conclusione con la proiezione di “Notturno indiano” di Alain Corneau. Sempre nel pomeriggio porteranno i loro ricordi gli editori Inge Feltrinelli e Antonio Sellerio; gli scrittori Andrea Bajani, Paolo Di Paolo, Romana Petri, Ugo Riccarelli; le studiose dell’opera di Tabucchi, Anna Dolfi e Thea Rimini; e, infine, Antonio Padellaro, direttore de “Il Fatto”, che prima sull'”Unità” poi sul “Fatto” pubblicò gli ultimi interventi politici di Tabucchi.

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video arte #19 – daito manabe

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Daito Manabe, Face Instrument, 2008.

Comme un roman

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Je me souviens
L’homo poeticus dei romanzi
Sul rapporto tra romanzo e memoria
di
Simona Carretta

La memoria, forma ed effetto del romanzo

«Je me souviens», io mi ricordo, è la scritta che figura sulla targa delle automobili di Montréal, città in cui mi trovo a trascorrere qualche giorno per via di un convegno. Il significato originario di questa massima, considerata il motto ufficiale del Québec almeno dal 1883 – quando l’architetto Eugène-Étienne Taché la iscrisse sulla facciata del Parlamento -, è ancora oggi oggetto di varie interpretazioni. Che indichi l’antico legame del Québec con la cultura francofona o semplicemente l’attenzione dei quebecchesi verso il loro bagaglio storico, l’adozione di questa massima esprime, da parte del Québec, l’assunzione della memoria a valore.

Così, anche Montréal, la cui architettura combina stile liberty ed elementi futuristici, cattedrali neogotiche e grattacieli, ma che per alcuni aspetti mi appare come un concentrato della vecchia Europa, stranamente posto fuori dall’Europa (basta entrare in una delle fornitissime librerie del Boulevard Saint-Laurent per ritrovare il cuore della letteratura europea, nello stile delle migliori librerie parigine), si presenta ai miei occhi, che la visitano per la prima volta, come città della memoria.

Se mi soffermo su questo è perché vi scorgo il segno di una piccola coincidenza, dal momento che il convegno a cui sono invitata ha come oggetto proprio il tema della memoria, da esaminare in rapporto al romanzo.
Mentre ci penso, rifletto sul fatto che l’attitudine alla ricerca di corrispondenze, quel filo rosso che permette la connessione tra i ricordi, sembra rispondere ad un tipo di immaginazione che si potrebbe qualificare come romanzesca.
I meccanismi che decidono della reminescenza di un avvenimento, o del suo oblio, non sembrano infatti rispondere a parametri logici, ma ad un altro ordine di criteri, apparentemente particolari e soggettivi: rispondenti al desiderio dell’uomo, più o meno inconscio, di rappresentarsi il proprio vissuto secondo una trama. Sotto questo impulso, la memoria organizza una composizione che accoglie, più facilmente, i ricordi di quei determinati eventi che sembrano confermare quel particolare significato, individuato come chiave di interpretazione dell’esistenza, mentre tende ad escludere gli altri, destinati perciò a cadere nell’oblio.

Qualunque sia il disegno così tratteggiato, che ritragga lo svolgersi di un’esistenza più o meno felice, dalla sua contemplazione l’uomo trae una gratificazione. Questo disegno infatti, a prescindere dagli esatti contenuti della sua rappresentazione, appare, in ogni caso, bello: aggettivo da intendere nel senso di armonioso, compiuto.
Il piacere che se ne trae corrisponde principalmente ad una soddisfazione di natura estetica: la stessa che si prova davanti ad una composizione (figurativa, musicale o letteraria) nella quale ogni elemento trova chiaramente la sua collocazione e che può dirsi, per questo, riuscita.

In questa continua commutazione, ad opera della memoria, di eventi quotidiani o puramente accidentali in un racconto interiore che presenta una struttura coerente si manifesta una profonda tensione umana, in cui si può cogliere – credo – uno slancio etico.
Questo corrisponde alla speranza di poter sempre cogliere, attraverso il turbine degli eventi, la raison d’être di un’esistenza; speranza che sembra raccogliere l’unico residuo forse ancora superstite di ciò che un tempo era la fiducia nel destino. Così l’uomo, forse senza neanche saperlo fino in fondo, stabilisce in ogni momento la propria gerarchia dei ricordi secondo leggi di natura estetica.

Se, da un lato, l’arte del romanzo sembra riflettere i processi della memoria nella definizione delle sue strutture compositive, allo stesso modo, la maniera in cui l’uomo tende ad elaborare i propri ricordi risulta in qualche modo influenzata dalla lettura di opere romanzesche: la stessa capacità di ricordare sembra essere ispirata dai romanzi. Da alcuni in particolari.

«E’ proustiano !» – diciamo, in genere, di un ricordo che improvvisamente ci assale, restituendoci un frammento di vita lontana e, con esso, quel che un tempo eravamo e che credevamo per sempre perduto.
Attraverso i continui andirivieni nella memoria del suo personaggio protagonista (questi salti temporali nel passato o nel futuro, a cui i critici danno il nome di «flashbacks», o «flashforwards») Proust – molto più che la filosofia di Bergson – condiziona la maniera di ricordare propria dell’uomo moderno.
Lo abitua a organizzare la sua memoria per «serie di variazioni su tema» (per riprendere un’espressione cara a Deleuze, lettore della Ricerca): a confrontare, in ogni istante, quel che di nuovo accade con tutti gli episodi precedenti della stessa “serie”; questo, alla ricerca di «segni», cioè di antiche premonizioni che confermino il suo carattere di necessità.

In questa attitudine al confronto con i ricordi si riconosce la cifra artistica dell’universo proustiano, in cui ogni evento assume un senso solo se è possibile rapportarlo ad avvenimenti precedenti.
Per il narratore della Ricerca, la gioia di poter finalmente baciare Albertine non sarebbe la stessa, se non alla luce della disperazione, provata tante volte in passato, di potervi mai riuscire.
La stessa esperienza dell’amore – alla luce di quello che impariamo, leggendo Proust – sembra essere indissociabile dalla possibilità di ricollegare, con il filo d’Arianna della memoria, le relative immagini, e sensazioni, che con il tempo abbiamo accumulato della persona amata.

Per questo, si può dire che Proust abbia scoperto una nuova possibilità della memoria: quella di fungere da detonatore per il riconoscimento delle esperienze di senso (ossia, cariche del valore di necessità); questo, attraverso il rilievo delle coincidenze significative che possono riscontrarsi tra avvenimenti sparsi nel tempo.
La memoria, allora, sta al romanzo come un effetto. Tuttavia, essa vi corrisponde anche come forma, ossia come componente formale necessaria alla realizzazione dell’obiettivo conoscitivo del romanzo: sviluppare una visione dell’esistenza che si mantenga problematica e relativa (una visione dunque alternativa a quella, più sistematica, della scienza, o all’immagine piatta e superficiale della vita veicolata dai media).
A tal fine, l’elemento della memoria svolge un ruolo importante: l’introduzione, nel tempo del romanzo, del tempo passato – ossia, di una dimensione temporale presentata come diversa da quella in cui si svolge la principale storia raccontata – fornisce un’ulteriore angolazione da cui considerare i fenomeni narrati e contribuisce, in tal modo, a problematizzarli.

La stessa scoperta della relatività del tempo – ricordava Bachtin – rappresenta la principale conquista del romanzo ed è connessa alla stessa nascita di quest’arte; in questo elemento consiste, soprattutto, la sua lontananza dall’epos: genere che, invece, descrivendo le gesta degli eroi, presenta la loro epoca come un passato ideale e «assoluto».
Ne Le grandi scomparse. Saggio sulla memoria del romanzo (Les Grandes disparitions. Essai sur la mémoire du roman, PUV, Saint-Denis, 2008), Isabelle Daunais scrive che la propensione ad esaminare il presente attraverso il ricordo del passato, ossia a scoprire il “nuovo” attraverso l’osservazione di quello che un tempo c’era e ora non esiste più, contraddistingue la storia del romanzo, a partire dai suoi più celebri capolavori.

In Don Chisciotte o Madame Bovary, il motore di avvio della storia è costituito proprio dallo smarrimento registrato dai protagonisti, una volta constatata l’impossibilità di vedere corrispondere il mondo in cui vivono al bagaglio delle aspettative personali, quest’ultimo elaborato su modelli ereditati dal passato; che si tratti dei codici in vigore nei romanzi cavallereschi, amati da Don Chisciotte, o del galateo tipico delle storie d’amore ottocentesche, preferite da Emma.

Custodire la memoria poetica

Il romanzo contemporaneo è ancora popolato da figli putativi di Don Chisciotte o Madame Bovary; personaggi, a loro a volta lettori di romanzi, che si ritrovano a sperimentare la distanza tra il mondo di cui parlano quei romanzi e la realtà che li circonda.
Ad esempio, questo è il quadro entro il quale si definisce la vicenda esistenziale di David Kepesh, il protagonista del romanzo di Philip Roth Il professore di desiderio (1977).

Il problema di Kepesh è essenzialmente questo: come riuscire a resistere, quale senso dare alla vita, nel momento in cui ci si rende conto di vivere in un mondo – precisamente, quello occidentale post sessantottino – in cui la logica consumistica, a cui anche i rapporti umani sembrano ormai sottoposti, sembra rendere sempre più difficile non solo la possibilità di costruire delle relazioni d’amore durature, ma anche quella di abbandonarsi spensieratamente alla passione? Questo tormento accompagna il personaggio di Roth per tutto il corso della sua vita erotica: dal periodo della sua prima formazione universitaria trascorsa in Europa – dove si dedica ad una vera e propria tournée di amori libertini, di cui però si stanca presto – al fallimento del matrimonio con Helen, bella e ricca ereditiera che si scopre innamorata molto più dell’idea dell’amore che del marito. Per finire, con l’amara constatazione della natura dispotica che – al pari dei sentimenti – sembra contraddistinguere anche il desiderio, l’attrazione fisica, la cui volubilità può rischiare anch’essa di mettere in pericolo relazioni apparentemente stabili e durature; come quella che, al termini delle sua vicissitudini sentimentali, Kepesh intreccia con la dolce Claire.

A fare da contrappunto al contesto di disordine amoroso in cui si muove Kepesh, l’esempio dei suoi genitori: una classica coppia “vecchio stampo”, che incarna gli ideali di amore eterno e fedeltà reciproca. Non è un caso che – soprattutto nella seconda metà della romanzo – essi vengano descritti come deboli, fragili (verso la fine, la madre di Kepesh muore); in questo modo, essi simboleggiano la condizione di precarietà in cui, ormai, versano gli ideali da loro testimoniati.
Questo scenario conflittuale fa emergere un nuovo dilemma: nel momento in cui quei codici che prima avevano regolato i rapporti tra uomo e donna, tanto le dinamiche dell’amore quanto quelle del desiderio, si sgretolano e questi ultimi allora si manifestano nella loro nudità mostruosa, come forze astratte e ingovernabili, su quale base allora, se non sull’amore, né sulla passione, ciascuno può credere di vedere fondata la sua identità?

Il personaggio di Roth sperimenta questo disorientamento in maniera tanto più intensa non solo perché nato proprio a cavallo di questo cambiamento epocale, ma anche in quanto uomo di lettere.
Kepesh è un docente di letteratura comparata che, proprio nel momento in cui la sua vita amorosa sembra assumere una piega drammatica, si prepara ad organizzare un seminario sul tema del romanzo amoroso; l’intensa lettura dei romanzi a cui si dedica lo porta a confrontare la miseria delle sue esperienze con la storia delle grandi passioni descritte in Anna Karenina o Madame Bovary, o con le avventure licenziose di Henry Miller o Colette, e a trovarla, di conseguenza, ancora più difficile da accettare.

Proprio il ricorso di Kepesh alla letteratura può rappresentare, però, l’ancora di salvataggio contro il disorientamento di cui è vittima.
Anna Karenina (1877) il capolavoro di Tolstoj menzionato dal Professore di desiderio, è anche il libro preferito da Tereza, protagonista del romanzo L’Insostenibile leggerezza dell’essere (1984) di Milan Kundera.
Cameriera di provincia costretta dalla famiglia ad abbandonare gli studi, Tereza è però una lettrice appassionata: nei romanzi, ritrova quella bellezza di cui appare sprovvisto, invece, il mondo della sua prima giovinezza.
Il romanzo di Tolstoj viene menzionato più volte nell’Insostenibile leggerezza dell’essere, fornendo l’occasione per alcune riflessioni sul problema della memoria poetica: questione che contribuisce allo sviluppo del tema principale del romanzo kunderiano, articolato intorno all’opposizione leggerezza-pesantezza.

In particolare, la questione della memoria poetica sta a dimostrare il valore positivo che può assumere anche il polo della «pesantezza», intesa come necessità.
In un inserto del romanzo che si potrebbe definire meditativo, o saggistico, il narratore riflette sulla struttura del capolavoro di Tolstoj, che sembra basata sulla logica delle coincidenze: gli incontri tra Anna e Vronskij sono infatti spesso determinati da circostanze fortuite; la stessa Anna, verso la fine del romanzo, si toglierà la vita gettandosi sotto un treno, così imitando l’uomo ritrovato sui binari il giorno del primo incontro di Anna e Vronskij alla stazione.
Al contrario di quanto si potrebbe pensare – spiega Kundera -, queste coincidenze non dovrebbero indurre a considerare il romanzo di Tolstoj come troppo «romanzesco»; nel senso di falso, artificiale, troppo costruito.
Per Kundera, l’opera tolstoiana si dimostra invece realista nel cogliere l’impulso degli esseri umani a ricercare la presenza di nessi significativi negli eventi apparentemente accidentali, a cercare di costruire la loro esistenza come se fosse un romanzo; ossia, a sviluppare una memoria poetica: «L’uomo senza saperlo compone la propria vita secondo le leggi della bellezza – continua il narratore dell’ L’Insostenibile leggerezza dell’essere – persino nei momenti di più profondo smarrimento».

Nei suoi saggi, Danilo Kiš chiama «Homo poeticus» l’attitudine a cogliere negli eventi contingenti che scandiscono l’esistenza la trama di coincidenze sotterranee; sarebbe stata l’esistenza di questa funzione – la funzione poetica -, presente nell’uomo sin dalle origini, a permettere agli antichi di elaborare i primi racconti mitici, corrispondenti alle prime forme di ipotesi ontologiche.
Questa propensione a sviluppare un’immagine del mondo che non ne riduca il mistero e la complessità, questa mentalità poetica, oggi sempre più oscurata dalla mentalità tecnologica, può essere custodita solo dai romanzi.
Essi ci mettono in guardia dalla scomparsa di Homo poeticus; dal pericolo che può risultare, al fine del raggiungimento di una felicità e della realizzazione personale, dalla perdita della capacità di coltivare una memoria poetica.
Nei romanzi di Kundera e Roth, i personaggi di Tereza e di David Kepesh traggono proprio dalla lettura uno spunto di salvezza.

Nel caso della protagonista dell’Insostenibile leggerezza dell’essere, proprio l’abitudine a leggere le coincidenze come segnali, appresa sulla scorta delle sue letture, la induce ad abbandonarsi alla storia d’amore con Tomáš.
Anche in Professore di desiderio, l’evocazione dei romanzi letti da Kepesh – che fanno da contrappunto ad un mondo, quello del personaggio, che sembra aver smarrito la memoria – non va intesa come una parentesi o come la prova della chiusura autoreferenziale del romanzo.
Al contrario, il senso della vicenda esistenziale di Kepesh si chiarisce solo nel momento in cui i due piani su cui è articolato Il professore di desiderio, quello relativo alla vicenda principale e quello più saggistico, che costituisce “il romanzo del lettore”, si incontrano.

Ciò avviene verso la fine del romanzo, quando, prendendo spunto da Una relazione per un’accademia di Kafka, Kepesh decide finalmente l’impostazione da dare al suo seminario. Presenterà, ai suoi allievi, una sorta di confessione della sua vita sentimentale ed erotica. Da un lato, questo tentativo risponde all’obiettivo di presentare agli studenti l’universo amoroso di cui parlano i romanzi oggetto del corso come qualcosa di non astratto, ma accessibile a tutti. Questa impresa, però, dà anche a Kepesh una nuova possibilità: quella di ritornare Homo poeticus, di interpretare la sua vita come un romanzo e di trovare così una forma di consolazione.

Desessualizzare lo Stato

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di Pino Tripodi

 In tema di libertà sessuali una piccola rivoluzione – una di quelle piccole rivoluzioni dal passo lento ma dal cammino duraturo – s’avanza nel cuore della vecchio, malato Occidente.

Il primo articolo (Le mariage est contracté par deux personnes de sexe différent ou de même sexe; Il matrimonio è un contratto tra due persone di sesso differente o dello stesso sesso) della legge appena approvata dall’Assemblea nazionale francese pone una serie di problemi che è banale ridurre, come si usa fare nella canea mediatica e nell’agone politico, a quello dell’introduzione dei matrimoni omosessuali.

Metafore della crisi

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di Monia Andreani

Con Twilight viaggiamo dentro una metafora della crisi attuale, che è una crisi globale, scatenata dall’economia tardo-capitalista ma non confinata al campo finanziario o economico. Oggi siamo di fronte ad un livello tale di saturazione della crisi che il quadro molteplice in cui questa si è sviluppata – che è sociale, morale, politico e antropologico – comincia a diventare consapevolezza diffusa. La crisi è anche quella della nostra individualità di persone che vivono quotidianamente la forte diversificazione sociale, la frammentazione dei legami di relazione sociale e personale, la precarizzazione di tutti gli aspetti della vita (a partire dal lavoro), e la cronicizzazione delle malattie – che si è sostituita ai processi di invecchiamento e ha fatto emergere l’impossibilità di guarigione.

«I cardinali sono imbevuti di pregiudizi e il papa è un ignorante» (Wikileaks)

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Pio VII, Jacques-Louis David

Wikileak 1
«(…) [I cardinali] Antonelli, Di Pietro e Caselli (…) sono imbevuti dei pregiudizi romani e chiunque debba trattare affari complicati a Roma può avere la certezza di trovare sempre sul proprio cammino Di Pietro e Antonelli. Eppure sono molto diversi l’uno dall’altro. Il primo è silenzioso, riservato e duro, ma ostenta modestia, semplicità, rassegnazione e dolcezza. Non fa che ribattere la volontà del Santo Padre a quel che gli si dice.

L’être dal carcere

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di
Anna Giuba

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T., 6 febbraio 2013
Ciao amore mio,
che disperazione venire a trovarti e saperti lì dentro.
L’avevi descritto bene, il carcere. Ho fatto due ore di treno, poi mezz’ora di pullman e sono scesa sulla statale deserta, accanto alla tangenziale dove passano i tir. Che squallore, vedere scritto il nome della fermata alla pensilina dell’autobus, carceri. È un nome duro da sopportare e da mandare giù.
Quello che mi ha colpita di più, è stato l’odore del carcere rispetto all’aria gelida e pulita di fuori. Un odore forte, di metallo e di umanità compressa, anche se ieri era un giorno di visita in cui non c’era quasi nessuno. È stata dura essere perquisita. E la poliziotta non era neanche poi così gentile. È una grande tristezza, essere qui, le ho mormorato mentre mi metteva le mani addosso. Poi mi ha anche fatto aprire la bocca e ha indagato sopra e sotto la lingua. Ho dei brutti denti, lo so, ho detto, non è colpa mia. E mi vergognavo senza motivo di vergognarmi. Solo per il fatto di essere lì. Poi mi hanno dato un foglio con un numero, che era il numero del tavolo al quale avremmo potuto parlare. Era un grande otto disegnato, e ho pensato tra me e me, il numero dell’infinito, com’è infinito il mio desiderio di vederlo, e la mia sete di lui. Poi abbiamo attraversato cortili e porte blindate con i vetri antiproiettile, e finalmente hanno aperto la porta di ferro pesante con una chiave che faceva rumore, e ti ho visto, di là del vetro, il tuo viso da ragazzino. Il tuo sorriso. Per me.
Dimmelo, forse tu lo sai? Che senso ha il carcere? Privare una persona dalla libertà e basta, non fare niente per lei, non coltivarla come una pianta cresciuta storta cui si mette un’asticella per raddrizzarla. Siete chiusi lì dentro, stipati come bestiame cui non si dà una seconda, o una terza, o una quarta possibilità. Siete esseri umani, cazzo, esseri umani. Una delle cose che mi ha lasciata con il fiato sospeso è stata la somiglianza dei detenuti con i secondini. Man mano che si aprono le porte, e si attraversano i cortili, il filo che vi unisce e nello stesso tempo vi separa dai vostri carcerieri si assottiglia sempre più.
Che tristezza. Anche loro erano uomini, ma ora forse non lo sono più. Durante il colloquio ti ho chiesto se nel carcere ci sono dei corsi di studio per i detenuti. Mi hai detto che no, a parte, forse, un corso di computer che tu non te la sei sentita di fare. E poi hai aggiunto, I corsi sono per quelli che hanno tanti anni da scontare…
E che differenza fa? Perché ti hanno dato solo un anno tu dovresti uscire senza essere migliore? Ma quale logica perversa è questa, non so capacitarmene. Lo sanno tutti che la situazione dei detenuti in questo paese è drammatica, ma ieri, ieri! Vederti così pallido, come davvero un viso che non vede mai la luce. Abbiamo parlato tanto, ogni tanto appoggiavo il viso sulle tue mani, le tue mani piccole, da bambino. Mani che non sono mai cresciute. Le tue mani, che tanti direbbero sporche, ma che per me sono le tue. Non tenerle chiuse, schiudile al sole e lascia che il cielo le purifichi di luce e di consapevolezza. Le tue mani. Ti guardavo, ti indagavo gli occhi, come per entrarci dentro. Le due ore di colloquio sono passate in fretta, sono volate via. Poi mi sono ritrovata al sole rancido dell’inverno, sulla statale. È stato bellissimo vederti. Ma quando ti ho lasciato, lo sapevo. Ti stavo lasciando sulla porta dell’inferno. E la pena più grande è non dividere il suo fuoco tremendo con te.
A presto.
Rossana

Il diciottesimo compleanno

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Il diciottesimo compleanno - copertinadi Alessandro Chiappanuvoli Gioia

Riccardo RomagnoliIl diciottesimo compleanno, 2012, Transeuropa edizioni, 176 pagine  

“In questo libro ogni frase è un animale famelico, pauroso e rabbioso, qualcosa che divorando (e divorandosi) trasmuta da una a un’altra possibilità di esistenza.”

Giorgio Vasta – Le scritture che traboccano

[Roma, 8 dicembre 2012, Fiera “Più libri più liberi”, ore 15.00: presentazione de Il diciottesimo compleanno di Riccardo Romagnoli (Transeuropa editrice, 2012), intervengono l’autore, Dario Rossi e Giorgio Vasta. – Appena arrivato in fiera, programma in mano, la folla tutta arrampicata. La prima persona che ho incontrato fu proprio Vasta: “È un libro notevole, uno di quei libri che testimoniano la rinascita della narrativa italiana.” Di Romagnoli invece non avevo mai sentito parlare, ma la garanzia della casa editrice mi convinse definitivamente ad assistere all’incontro.]

Qualche mese di purgatorio sullo scaffale della mia libreria. Un progetto grafico d’impatto. Schizzi di sangue stampati nell’interno della copertina. I capitoli scanditi per età, da zero a diciassette anni e nove mesi. C’è una festa di compleanno in preparazione, il diciottesimo di Matteo. Leggo le prime righe. Non è il solito libro.

Piscio e mangio così io penso e fotto, mi spurgo e sbadiglio, come fossi un gibbone reale e una pulca d’acqua bestemmio. Tre ore mancano, e avrò i miei anni nel numero dei diciotto, maggiorenne e responsabile per il mondo e per Luciano e Anna Solmi che sono i miei genitori. Io rispetto le leggi, in nient’altro mi scovo se non in un corpo che segue la gravita e cade. Da un momento qualsiasi della mia vita ho sentito storie né vere né false riempirmi i polmoni di sangue e di aria.

Una rincorsa disperata, nel mezzo, compressa in 169 pagine, un’urgenza sovraumana, verso la libertà salvifica. Matteo è nato assieme al fratello gemello Francesco, nato già morto, già libero dunque. Matteo cresce quindi in una condizione congenita di schiavitù. Un peso opprimente dal quale, vorace, sente di doversi purificare, riscattare. Si dà un tempo, come qualsiasi altro adolescente del resto, 6574 giorni, la distanza per raggiungere gli agognati, fantastici, ingenui, 18 anni, raggiunti i quali sa che sarà libero dai fantasmi della sua stessa casa, dal silenzio del padre, dal bipolarismo (credo) della madre.

Quella di Matteo è una vita spremuta. È una caccia forsennata all’inseguimento della bestia più feroce da domare, il mostro interno, nascosto dentro la caverna del proprio animo. Bruciare le tappe è l’unico senso compiuto che riesce ad attribuirsi. E di questa fame, dell’animale famelico, come lo chiama Vasta, il protagonista è schiavo, il libro ne è schiavo, l’autore stesso pare esserne totalmente prigioniero. Le pagine seguono un flusso che è dato prettamente dall’istinto, la ragione che muove gli eventi, che seleziona cosa dire e cosa non dire, pare irretita da una necessità altera, sconosciuta, irreperibile. “È un romanzo che a volte ho scritto in una specie di trance”, mi ha scritto Romagnoli quando l’ho contattato su internet, e spero non me ne voglia per aver riportato le sue parole. Un vortice di emotività di cattiveria di sensibilità insensibile contemporanea attuale brutalmente ficcante nei nostri giorni terzomillenaristici. Anche il lettore non ha scelta. Io non ho avuto scelta. Ho dovuto seguire, assistere, vivere inerme. Ho potuto leggere con i miei tempi, piano, sciogliere i nodi poetici intessuti tra una frase e l’altra, ma l’impressione era sempre di leggere in discesa, vorticando con la mente in panne, lo stomaco spaccato, il sesso impossessato, costantemente a mezz’asta. Come il piacere del sadomasochismo e tu, lettore, non puoi mai essere il master della situazione. Non hai dato nessun assenso, eppure ti ritrovi legato e incaprettato a mezz’aria, gli orifizi dilatati: diciott’anni sono, ora, il tuo desiderio, carnale, schiavo, sprofonda, obbedisci, leggi.

Il principio di non contraddizione è la versione logica della lotta per la sopravvivenza. Se il principio di non contraddizione non ci fosse sarei ridotto al gorgoglìo di un torrente strozzato che precipita lentamente, trascinando con sé l’intero linguaggio, così come se un qualsiasi essere vivente non sfuggisse la morte già non esisterebbe più. La vita è perché si difende. Oltre i nostri discorsi e il loro senso, oltre la vita, si apre un’unica traiettoria che non conduce ma disperde, un niente che si aggroviglia, e noi non vogliamo che accada, almeno noi che siamo la parte maggiore degli uomini.

Poco, pochissimo posso, voglio, devo aggiungere sullo stile linguistico de Il diciottesimo compleanno. Bastano, del resto, le già citate parole di Vasta. Se poi aggiungessi che il romanzo ha ricevuto una delle prime attestazioni di merito da un certo Antonio Moresco (come mi ha confermato il direttore Giulio Milani), chiuderei un cerchio, metterei un sigillo, amen, fumata bianca, per restare a cavallo dei nostri giorni. Sarebbe come riempire uno spazio, mettere Romagnoli a sedere sul trono, pontificare, nel senso etimologico del termine. Non c’è nessuna sentenza da emettere. Uno squarcio, una breccia, insomma un dibattito, invece, bisogna aprire.

Poesia come poiêsis, creazione, è impressa a inchiostro tra le righe della pagina. Un linguaggio nuovo propone Romagnoli, di per se stesso liberatorio prima ancora che provocante ed estetico. Necessario. Quasi non ci sia altro modo per svelare e velare quei segreti che albergano l’animo umano, che infestano il mondo degli esseri umani, che saturano gli spazi angusti del focolare domestico, che animano la fantasia e le perversioni, certo non solo sessuali, dello scrittore, i segreti che colmano quel tempo familiare e famelico, comune a tutti, che porta all’illusoria liberazione, alla compassata responsabilità, alla vana redenzione, a quel fatidico diciottesimo compleanno.

Mi innamorai di spazi dalle sponde eternamente distanti, vi avrei depositato gli anni successivi, ora per ora.

Note sull’influenza della Neoavanguardia italiana

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[Testo scritto su invito in occasione dell’incontro “Identità concettuale e dilatazione dell’istante”, Tokyo University of Foreign Studies, Tokyo, 4 Ottobre 2010]*

di Lorenzo Carlucci

Ho letto la Neoavanguardia italiana molto tardi, e non troppo. In compenso ho letto le Avanguardie Storiche molto (troppo) presto e molto (troppo?). Forse anche per questo motivo, tendo a percepire il lavoro della Neoavanguardia come un approfondimento – forse necessario – e una continuazione – forse ineluttabile – delle istanze delle Avanguardie Storiche e dei campioni del Modernismo. Da questo punto di vista non giudico il lavoro della Neoavanguardia italiana particolarmente originale o innovativo dal punto di vista artistico (piuttosto che culturale o comportamentale) e sullo sfondo della storia della letteratura mondiale, o anche soltanto europea.

Da Trilogia dello zero (parte seconda) – Poesie inedite di Antonio Bux *

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2.

 

 

“C’è nell’aria una specie di contorno 
mai pronto a superare il paesaggio
piuttosto passaggio stretto dove si filtra 
un dolore dentro, che fatica a respirare.
In questo, perdono le cose la trasparenza
il loro tacere l’ombra nell’abbandono
al dono del colore sbiadendo per inerzia
quando l’oggetto si assomiglia troppo al luogo
e dove tutto ha un peso per eccessiva mancanza
se lo si bilancia cadendo, nel rovescio della materia”

Dieci anni fuori dalla pozzanghera: 23 marzo a Milano

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Nazione Indiana è stata fondata dieci anni fa:

il suo percorso da allora ad oggi è stato così ricco e produttivo da diventare Nazione Indiana, Il Primo Amore e varie altre realtà.

Oggi non celebriamo ricorrenze, ma offriamo proposte che, forti di questi dieci anni di lavoro, siano generose di nuove idee e fantasie per il futuro.

Lo vogliamo fare, tutti assieme, i redattori presenti e passati di Nazione indiana e del Primo amore, insieme ai lettori e a tutti coloro che vorranno partecipare all’incontro-festa che si terrà al Teatro I di Milano (via Gaudenzio Ferrari angolo via Conca del Naviglio) sabato 23 marzo, dalle 15.00 alle 23.

Nazione Indiana, Il Primo Amore e chiunque voglia essere con noi.

Identikit e reazioni dello spettatore modello del film Educazione siberiana

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di Giuseppe Zucco

Un fotogramma tratto da Educazione siberiana, di Gabriele Salvatores, 2013
Un fotogramma tratto da Educazione siberiana, di Gabriele Salvatores, 2013

(attenzione, spoiler!)

Un testo postula il proprio destinatario come
condizione indispensabile non solo della
propria capacità comunicativa concreta
ma anche della propria capacità significativa.
Umberto Eco

a) Lo spettatore modello non ha le idee chiare appena entra in sala e il buio annerisce le poltroncine, ma comunque sa, grazie a un battage pubblicitario quasi porta a porta, che il film Educazione siberiana è tratto da una storia vera o probabilmente molto vicina alla realtà.

b) Lo spettatore modello prova un certo feticismo nei confronti delle storie vere o tratte dalla realtà o ispirate a fatti di cronaca, anche se difficilmente poserà Elephant di Gus Van Sant, per dirne uno, in cima ai propri gusti.

c) Lo spettatore modello, di solito, preferisce le storie vere o tratte dalla realtà soprattutto quando queste raccontano fatti atroci e sanguinosi successi in un posto lontano, lontanissimo, un girone dell’inferno i cui dannati non lo possano sfiorare nella vita di tutti i giorni, e questo film non fa difetto, dato che la storia è ambientata nella neve o sotto il sole di Fiume Basso, un quartiere di Bender, la capitale della Transnistria, un tempo parte della Repubblica socialista sovietica moldava.

d) Lo spettatore modello, però, è poco attrezzato cognitivamente, non è stupido, ma non ci arriva da solo, nella visione di chi lo ha pensato e ideato e continuamente tirato in ballo in estenuanti riunioni annebbiate dal fumo e dalla caffeina – cioè il regista Gabriele Salvatores, la coppia di sceneggiatori Rulli e Petraglia, i produttori di 01 Distribution – è già tanto se ha azzeccato il numero di monetine quando gli si è presentato il conto dei pop corn, per questo ha tremendamente bisogno che per la durata intera del film i personaggi parlino chiaro, siano espliciti, emettano una lunghissima serie di didascalie, dichiarando anche a gesti cosa intendano dire, fare, baciare.

e) Lo spettatore modello, nonostante il titolo del film, non ha alcuna frequentazione di verbi parascolastici come educare, formare, istruire – per non parlare di percepire e/o sentire – ma ha molta più inconscia dimestichezza con la voce del verbo formattare, voce del verbo il quale predispone a suo piacere e irrimediabilmente la percezione e il sentimento della realtà o dei fatti narrati.

f) Lo spettatore modello pende dalle labbra di John Malkovich nei panni del nonno siberiano Kuzja, un formattatore di professione, soprattutto quando quest’ultimo spiega al nipote Kolima, il protagonista del film, cosa sia e a quali ordini del giorno risponda costantemente un criminale siberiano.

g) Lo spettatore modello, al contrario da quanto si evince dal punto a) e b), più che il cinema adora le fiction italiane da prima serata, le quali al novantanove per cento contengono personaggi che si muovono e agiscono didascaleggiando come nel punto d).

h) Lo spettatore modello taccerebbe di snobbismo chiunque associ le fiction italiane da prima serata al verbo formattare.

i) Lo spettatore modello, tra l’altro, diffida completamente degli intellettualismi di ogni sorta e in particolare di una versione vetero-liceale della vita in cui conti ancora il riconoscimento delle figure retoriche tra cui le metafore: quando sente la parola lupo – lupo il quale allude a una forma neocomunitaria dell’esistenza vissuta dentro piccoli e autonomi e ringhiosi e siberiani branchi così lontana dagli ideali marcescenti del consumismo occidentale – vuole vedere un lupo in carne e ossa, come in questa versione desaturata e tendente al bianco.

l) Lo spettatore modello è più o meno venuto al mondo tra gli anni settanta e ottanta, e senza saperlo, struggendosi di nostalgia, gode a vedere un inseguimento di macchine in stile poliziottesco proprio all’inizio del film o la guerra fra bande in punta di coltelli e mazze da baseball così simile a I guerrieri della notte di Walter Hill, quando i quattro ragazzi tra cui gli inseparabili Kolima e Gagarin perdono il passaggio e devono tornare a piedi verso casa.

m) Lo spettatore modello, però, per darsi un tono e sedurre intellettualmente con una sola battuta il proprio vicino nella sala annerita e dominata dal rettangolo luminoso del film in corso, piuttosto che spingersi in parallelismi tra gli inseguimenti in macchina del punto l) e quelli di, per esempio, Milano odia: la polizia non può sparare di Umberto Lenzi, dirà alla persona seduta al suo fianco che molte sequenze, per non dire dei tatuaggi così bene in vista, specie quelli tracciati con un righino nero sul petto e le falangi dei criminali siberiani, ricordano La promessa dell’assassino di David Cronenberg.

n) Lo spettatore modello, però, già dopo pochi minuti, ripensando al punto m), capirà di avere commesso una gaffe, e neanche così sottile – e con imbarazzo spererà che sempre il suo vicino di posto non abbia sentito o lo abbia volutamente ignorato, dato che La promessa dell’assassino racconta di criminali sì, ma russi, che sono dichiaratamente i nemici numero uno della comunità siberiana. 

o) Lo spettatore modello ha una concezione dell’amore da feuilleton ottocentesco o da fiction italiana inquadrata nel punto g): basta guardare una ragazza appena scesa dal treno, come accade a Kolima, ormai sul limitare dell’adolescenza, e il gioco è più o meno fatto.

p) Lo spettatore modello, nonostante sappia di stare guardando una storia dalle caratteristiche tipiche del punto c), ha un debole per i bozzetti, le cartoline, il mondo meno crudo e parecchio folklorico à la Kusturica, tipo la scena del fiume, di cui il film dà ampia varietà, dove la luce è pastosa e dorata e le risate sono una cascata di monetine tintinnanti e la vita non si prende alcuna rivincita su i sentimenti dei personaggi, luce dorata che in filigrana ritorna paradossalmente anche nel terribile carcere di cui Kolima fa esperienza.

q) Lo spettatore modello, comunque sia, segue passo passo le avventure dei due ragazzi amici per la pelle Kolima e Gagarin – uguali e contrari, stessa altezza, gracilini, uno moro uno biondo – mentre si proiettano nel mondo riproducendo in movimento alcune righe de I ragazzi della via Pàl, soprattutto quando con roteare di mani smuovono dalle loro sedi naturali i lineamenti di qualche coetaneo.

r) Lo spettatore modello, dato il punto d), da un certo momento in poi è del tutto consapevole che se proprio deve ricorrere a qualche figura retorica tanto invisa al punto i) finirà per considerare Kolima la personificazione di concetti come l’etica e la fedeltà monomaniaca alla tradizione e Gagarin il conflitto e la trasgressione delle leggi.

s) Lo spettatore modello, del resto, è così intimamente connesso al punto di vista di Kolima, così Kolima-dipendente, da non ammettere neanche per un attimo che le azioni umane siano guidate perlomeno in parte dal conflitto e dalla trasgressione delle leggi, forse anche perché le leggi non vengono stilate e ribadite da un padre, di per sé generatore di conflitto e di scontro generazionale, qui venuto a mancare quando Kolima era piccolo, ma da Kuzja, un nonno, una figura autorevole e/o autoritaria più insidiosa, buona per definizione, ammaliatrice, portata a pacificare gli animi e le intenzioni, difficilissima da scalzare o destituire, perché, dopotutto, così vicino alla morte – del resto, come desiderare di prendere il posto della morte, di qualcuno prossimo a qualche disfunzione degli organi interni che decide al posto tuo?

t) Lo spettatore modello, certificato il punto s), nella propria intimità odia Gagarin e nel segreto dell’urna vota Mario Monti.

u) Lo spettatore modello fa aderire così in assoluto il proprio punto di vista a quello di Kolima da non ammettere che lungo la storia raccontata si possa generare una qualche forma di conflitto, di un sentimento che inglobi le intenzioni o il desiderio di qualcun altro disposto a agire fuori dalle regole fissate dalla tradizione.

v) Lo spettatore modello come da punto s) e u), anche se ne dimostra i segni, non è realmente addolorato e sconvolto dall’arresto di Gagarin, né dalla morte di un altro carissimo amico – il quale invece di ascoltare il nonno e aiutare i vicini durante un’inondazione, trascina Kolima e gli altri ragazzi lungo e dentro il fiume per fare razzia degli oggetti sottratti dall’acqua alle case – proprio perché, da subito, sgranando le proprie scelte, questi si sono posti fuori dalle leggi della tradizione, tanto che alla fine del film il bilancio emotivo non è neanche così sgradevole, e permette di uscire dal cinema scherzando e ridendo con i propri vicini di posto.

w) Lo spettatore modello, proprio perché brutalmente e ripetutamente formattato come al punto f), non lascia affiorare alcun tipo di sofferenza e lacerazione rispetto ai tristi eventi raccontati, anche perché il film non si decide mai a diventare un vero e proprio dramma, ma aspira continuamente a diventare cartolina, irradiando una certa luce già vista al punto p).

x) Lo spettatore modello, addirittura, formattato quanto basta, del tutto invischiato a Kolima e al suo punto di vista, anche nel momento in cui Kolima uccide in nome dei valori della tradizione, rimane al suo posto senza minimamente avvertire la vertigine di un trauma, un trauma capitale, per altro, la soppressione del vero amico per la pelle Gagarin, morte che paradossalmente Gagarin accetta di buon grado, senza combattere, come se in fin di vita avvertisse su di sé il peso insostenibile del giudizio di Kolima, dello spettatore modello, della tradizione intera, preferendo a tutto ciò la soluzione finale di un proiettile.

y) Lo spettatore modello non avrebbe mai accettato la formattazione del nonno Kuzja e il punto di vista di Kolima e questa specie di narrazione senza presa e senza trauma dove è già tutto dispiegato rigidamente fin dalle prime inquadrature se invece delle fiction italiane da prima serata e di un certo cinema avesse frequentato molto tempo prima un altro personaggio, Barbino, e fatto esperienza del libro che lo racconta, Seminario sulla gioventù, di Aldo Busi, Mondadori, per esempio alle pagine 47 e 48, come nel punto z).

z) “Era come se Barbino cominciasse a rendersi conto che “sentire” non conglobava il “pensiero” che in parte, mentre il pensare o conglobava tutto il sentimento del “sentire” o non era niente, era un sentire in parte, un sentire, o un pensare, solo quella parte che faceva comodo a lui e che non poteva fare a meno di pensare. Pensare era mettersi in agguato, se non proprio al servizio, del sentire degli altri equiparandolo, per valore e intensità, al suo. Pensare, a differenza degli uomini, sordomuti che non pensavano perché pensavano solo a sé e sentivano solo sé, era fare a metà innanzitutto della propria testa, fare spazio in sé alla metà alienata dell’umanità, la metà altrui.”

La Caduta

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La Caduta (è da pochi giorni in libreria La Caduta il primo romanzo di Giovanni Cocco. Ringraziamo la casa editrice Nutrimenti per averci permesso di pubblicarne un estratto. G.B.)

di Giovanni Cocco

Helladios –
Atene, 20 giugno 2014

Serrava la lingua, mordendola fino a sentirne il sangue, nello spazio di gengiva ricavato tra gli incisivi caduti anni prima, fissando la rete calata in acqua con la perizia di un biologo, e me lo sono immaginato per anni in quel modo, un eroe bislacco dei tempi della guerra, il remo al posto della spada, il collo rubizzo sul retro nel solco scarnificato dei due muscoli sternocleidomastoidei, ed era fiero, Helladios, di quella fierezza tutta speculativa e razionale, un angelo decadente destinato a non piegarsi, uno Psaronikos al contrario che sfidava il mare brandendo una fiocina, gli avambracci bruciati al sole del Mediterraneo, una ferrea volontà di potenza incistita nell’animo che gli avrebbe garantito le forze, lungo i primi sessant’anni, di viaggiare per tutto l’Egeo, solo con le proprie mani, armato di lenza e bastone, tutto muscoli e nervi, braccia magrissime e determinazione feroce, come se quella fame, una fame atavica alimentata a taramosalata e molluschi, fosse stata in grado, da sola, di partorire quel prodigio, quell’ossimoro vivente, un mastino anomalo fatto di pelle e ossa, un uomo che la vita, e la guerra, e le costrizioni, e la miseria, e la malnutrizione, non sarebbero mai state in grado di piegare, un miracolo aspro forgiato a fuoco dalla vita, una santabarbara lavoratrice capace, ogni giorno, verso il calar del sole, quando la campana di P. aveva già chiamato a raccolta gli isolani, di rimettersi al lavoro dopo le dodici ore passate a bordo del peschereccio, negli angoli più remoti attorno al Pireo, giusto il tempo di prendersi un ouzo, di salutare Zoe, di avere accordato una carezza rugosa a uno dei suoi nove figli e via di nuovo, a inventarsi un secondo mestiere, dopo aver infilato goffamente la canottiera tutta bucata nei pantaloni tagliati sopra il ginocchio, e tu lo avresti detto impassibile, a tratti, e forse anche eroico, Helladios, al tempo dei suoi anni migliori, a bordo del suo destriero, l’Eleutheria, un ventuno metri di medio tonnellaggio, con un ampio pozzetto e la carena azzurra, la cabina rovente all’interno della quale aveva condotto, come in un rito d’iniziazione, solo i figli maschi, la fronte imperlata di gocce di sudore, gocce salate a scorrergli dalle sopracciglia alle gote raspose ancora profumate di schiuma da barba e poi giù, di nuovo, fino alle labbra, ad alimentare quello sforzo sovrumano che non conosceva pause, né fatica, né sconfitte. Labbra, le sue, secche di vino e tabacco, capaci di schiumare rabbia e angoscia, determinazione incrollabile e un’indomabile fame di vita.
Adesso il vecchio Helladios è là, seduto in un angolo seminascosto della Papaiannou, la trattoria di famiglia. Una delle tante attività di Atene con il cartello vendesi appeso davanti all’ingresso.
I figli e molti dei suoi nipoti hanno perso il lavoro. Stephane si è messo a impilare cassette e vendere verdura in uno dei tanti mercati rionali che sorgono intorno al porto; Cristophe si mantiene lavorando in un magazzino di conserve; Cosmas è uno di quei cinquemila greci che, tramite una cooperativa sociale, hanno fatto domanda per un posto da raccoglitore di pesche su a Veria, nel nord del paese. Prima, questi lavori erano affidati agli immigrati. Adesso i greci fanno la fila fin dalle prime ore del mattino per una paga giornaliera di ventinove euro lordi.
Suo fratello Manolis ci aveva visto giusto. Era emigrato in Germania all’inizio degli anni Settanta.
Adesso vive a Francoforte. È uno dei numerosi greci che, col passare degli anni, sono diventati cittadini tedeschi. Per anni ha gestito una rivendita di Volkswagen. Si è fatto una posizione. Suo figlio ha potuto studiare. Di tanto in tanto telefona alla cognata. Il tono di voce è sempre più preoccupato.
“Come va, da voi?”, ha chiesto l’ultima volta Manolis alla moglie di Helladios all’indomani degli ennesimi disordini.
“Noi stiamo bene”, ha risposto Zoe. “E tu? Come sta Klaus?”.
“Io tiro avanti. Non mi posso lamentare. Klaus vive ancora a Berlino. Il lavoro va bene. Siamo preoccupati per quello che abbiamo visto in tv”.
“Qui le cose vanno sempre peggio. Il problema, Manolis caro, sono le banche”.
Zoe passa la cornetta alla nipote, che racconta le loro ultime disavventure.
Le cose hanno cominciato a mettersi male quando l’Unione europea ha fatto entrare in vigore la nuova normativa relativa alla pesca nei bacini del Mediterraneo. Il pescato, nel giro di pochi mesi, è diminuito del quaranta per cento. I prezzi sono saliti alle stelle. La concorrenza dei prodotti provenienti dal Baltico e dall’Oceano Indiano si è fatta serrata. In poco tempo intere generazioni di pescatori sono state costrette a chiudere bottega. Noi abbiamo resistito. Dopotutto rimaneva sempre la trattoria. Abbiamo stretto la cinghia. Nonostante le difficoltà la trattoria ha mantenuto per un anno un discreto giro d’affari. Riuscivamo a tirar fuori di che vivere. Non era granché, ma per noi era sufficiente. Poi è subentrata la crisi. Quella vera. Abbiamo iniziato a dilazionare i pagamenti ai pochi fornitori rimasti. L’improvviso crollo di una parte del soffitto nella sala più grande ci ha costretti a chiedere un prestito alla banca. La banca ha impiegato mesi per accordarcelo. Noi intanto perdevamo clienti giorno dopo giorno, un po’ per la crisi e un po’ per le condizioni del locale. Quando alla fine la banca ha erogato il prestito, il tasso era da strozzini. Gli incassi hanno cominciato a diminuire. Allora abbiamo chiesto alla banca una dilazione del pagamento.
La banca non ha voluto sentire ragioni. Non ha concesso proroghe. Le bollette non pagate hanno iniziato ad accumularsi. Avevamo ancora i fornitori da saldare. In pochi mesi siamo passati dal ritardo nel pagamento delle rate del prestito agli insoluti.
A poco più di un anno di distanza dalla concessione del prestito la banca ha fatto partire la procedura per il rimborso totale del finanziamento. L’ufficio legale ha fatto valere le sue credenziali con una ferocia inaudita. Non hanno preso nemmeno in considerazione l’ipotesi della concessione di un fido. Non hanno tenuto conto del fatto che fossimo clienti da oltre quarant’anni.
“Ordini che arrivano dall’alto”, ha detto uno degli impiegati allo sportello. “Dobbiamo assolutamente rientrare”, ha concluso il vicedirettore.
Helladios torna ai suoi pensieri, si concentra sui particolari.
Da tempo non riesce più a muoversi e l’unica compagnia rimastagli è il fascio luminoso e ininterrotto proveniente dalla televisione, che in questi giorni proietta in diretta le immagini di un paese in fiamme.
Uomini, a migliaia.
Intere famiglie.
Una carovana ininterrotta di persone percorre l’Egnatia Odos verso est. La gente è allo stremo. Ripensa al dopoguerra, il vecchio Helladios. Ripensa al tempo in cui ogni cosa sembrava a portata di mano. Adesso è diverso. Le immagini della tv mostrano scene agghiaccianti.
Manca tutto. Non solo i generi di prima necessità. Manca l’elettricità, l’acqua corrente, il gas. Il carburante è terminato da settimane.
La telecamera inquadra le auto rimaste incolonnate lungo il margine della strada, immobili, preda dei disperati. Le carcasse degli automezzi sul ciglio della carreggiata si sono trasformate in alloggi di fortuna destinati alle migliaia di persone che si sono riversate lungo il confine tra Macedonia e Tracia da ogni angolo del paese.
Lo speaker parla dei due nemici da combattere per chi si è messo in marcia: la polvere di giorno e il freddo di notte. L’escursione termica non dà tregua alle popolazioni in cammino. Molti erano pieni di speranza, il giorno della partenza; arrivano da lontano, alcuni da Igoumenitsa. Dopo aver attraversato buona parte del territorio greco, si sono resi conto che non è rimasto più niente.
Solo miseria.
Fame.
Polvere a sferzare gli occhi ad ogni folata di vento. A incollarsi alle scarpe ormai logore, consunte. Helladios rimane immobile, le condizioni di salute non gli permettono una corretta deambulazione. Però sembra intendere ogni parola. La telecamera inquadra il paesaggio circostante.
I pochi campi destinati alla coltivazione sono rimasti abbandonati. Dalla strada asfaltata fino a dove un tempo cominciava il frumento è un susseguirsi ininterrotto di radici, barbe, erbacce. La campagna è una distesa monotona, grigia, brulla, resa ancora più spoglia dal sole che durante le ore diurne sembra voler rimanere incollato allo zenit.
Non è rimasto più nulla da depredare.
I più fortunati riescono a rimediare un passaggio, magari solo per poche miglia, a bordo dei soli automezzi ancora dotati di benzina.
Lo speaker racconta un episodio:
Oggi abbiamo visto transitare un furgone rosso. Il cassone era pieno di persone. Una specie di apparizione: sembrava nuovo, l’autocarro. Appena uscito dalla carrozzeria. Il treno di gomme ancora immacolato. Le modanature cromate scintillanti lungo la fiancata. Alcuni ragazzi hanno provato ad aggrapparvisi. Altri si sono buttati nel mezzo della corsia, nel tentativo di rallentarne la corsa. Il furgone ha accelerato e gli occupanti, dal cassone, hanno respinto a calci il tentativo dei ragazzi di salire.
Lo abbiamo accompagnato con lo sguardo mentre si allontanava sollevando una nuvola di polvere densa, greve, capace di impregnare le narici.
Sullo sfondo, in ogni direzione, decine di cani, smunti e magrissimi, vagano senza meta.
Latrano fino a notte fonda. Una specie di litania che accompagna le notti dei disperati, insieme al crepitare del fuoco acceso grazie agli pneumatici.
La telecamera indugia su un’immagine: una ragazza incinta, mentre tiene per mano un bambino, allatta un vecchio senza denti appoggiato con la schiena ai resti di una roulotte.
Vorrebbe raccontarti, il vecchio Helladios, lui che ne ha viste tante, come tutto è cominciato.
Come si è arrivati fino a qui.

Poesie Inedite

21

di Daniele Ventre

 

1.

Il ricordo che forse frugavi nella caverna del mondo
davanti all’ombra, a un fantasma di cera che cola,
il ricordo che ancora cerchi ti segna, ferisce
nel bagliore che filtra dal giorno fra gli scuri appena accostati
sugli occhi cerchiati di polvere. E forse vorresti
scrutare di nuovo il buio, sondare ancora i veggenti
o il volto dei sogni che ti spieghino il senso dell’ira
che dentro ti cova nel tempo, che sempre ti consuma nascosta
e ti morde polso e respiro.

Necrologio del comico

33

di Marco Mantello

cigbrolly

Certo che lo fu. Il governo di un blog
costruire una rete di relazioni
dove tutti potevano argomentare
i vaffanculo al comico. E chiamarlo re.

“Sono venuto qui per sparire” (Antonio Moresco, La lucina)

14

di Laurent Lombardimages

“Sono venuto qui per sparire, in questo borgo abbandonato e deserto di cui sono l’unico abitante”…

Questo l’incisivo incipit del nuovo romanzo di Antonio Moresco, La lucina (Mondadori), alla cui lettura mi sono chiesto chi potrebbe mai resistere all’incanto della scrittura del suo autore. Il progetto di sparizione del protagonista – di cui l’autore non tratteggia mai l’aspetto fisico né morale né emozionale, come se l’assenza di descrizione fosse già un atto dello sparire – è tutto contenuto nell’avverbio di luogo (qui), il quale rimanda al borgo deserto e abbandonato, isolato su un’altura, ossia a uno spazio privo della presenza umana e che sfugge a ogni possibilità di categorizzazione. Il lettore è preso sin da subito nella tempesta annunciata di questo voler scomparire dall’umano o forse dall’umanità. Ma la tempesta non si manifesta, o meglio è come se fosse sempre rimandata. Ne risulta una tensione incantatrice che produce l’effetto cinetico del testo: dal punto di partenza che è il borgo deserto e abbandonato nasce una serie di digressioni e di descrizioni che finiscono tutte con lo svanire nel meraviglioso della massa delle parole di Moresco che mantengono il lettore in una costante e magica sospensione. È questa sospensione a rendere vana ogni correlazione con il reale, che privato dal suo significato, diventa il luogo di passaggio verso un ailleurs fuori norma, mitico direi in quanto è da scoprire ma che, di fatto, non è scopribile. Ne La Lucina, l’ambiente ci supera, diventa il supporto reale dell’irreale: « Dove mi trovo? Mi chiedo. Cosa sto vedendo? Esiste davvero questo posto fuori dal mondo che i miei occhi stanno vedendo? Anche se nessuno oltre a me, in tutto l’universo, sa che esiste, sa che in questo momento c’è un uomo assolutamente solo che muove il suo corpo tra queste spoglie di pietra su cui non cessa un solo istante, giorno e notte, il tormento vegetale dei rampicanti » (p. 12).

Colpisce anche la stretta interdipendenza tra il paesaggio e il protagonista, cioè tra la solitudine dell’uomo e il brulichio della natura, che riflette, in un certo senso, il contrasto emotivo ed emozionale del testo e del protagonista durante la sua fuga dall’umanità. Il contrasto lascia trasparire delle proiezioni negative, terrificanti, metafore di un combattimento che possiamo dire universale. La rappresentazione della lotta risulta ancor più evidente nei lunghi passaggi dedicati alla natura dove si scatenano gli elementi del paesaggio. Il vegetale, infinito e conquistatore – che sminuisce l’uomo e le sue creazioni (casetta, finestrella…) – si impone in una lotta finalizzata a ritagliare lo spazio necessario alla sua sopravvivenza. La natura tutta si scatena dando vita a uno spettacolo in cui Moresco gioca con la visualizzazione, facendo della natura la sintomatologia dell’isteria umana.

Il trattamento stilistico della natura, sospeso tra realismo e meraviglioso, sembra creare una geometrizzazione del luogo che fa pensare a quella leopardiana dei primi versi dell’Infinito: « E questa siepe/che da tanta parte dell’ultimo orizzonte il guardo esclude, per giungere di là da quella ». Questo découpage dei volumi è importante per un’analisi del luogo delimitato quale è il borgo dove si trova il protagonista e da cui ambedue gli scrittori si allontanano, abbandonando la dimensione concreta, terrena. Tutto il libro è difatti scritto sotto il segno della fantasticheria estatica, come viene sottolineato dalla ricorrenza di numerosi mi è parso/mi è sembrato. Quasi si attuasse ciò che Baudelaire ha poeticamente invocato e descritto come l’“anywhere out of the world”.

Nel romanzo di Moresco questo ultimo orizzonte si concretizza con una lucina che, ogni sera, il protagonista scorge in lontananza nell’oscurità del mondo/territorio nel quale vorrebbe sparire. Incuriosito decide di intraprendere il viaggio verso il punto luminoso che si trova su un tratto pianeggiante del crinale di fronte a casa sua. Si inoltra senza timore nella moltitudine arborea, nella pluralità delle anime della natura, fino a giungere nel misterioso luogo dove, in una casetta, si trova uno sfingeo bambino. Lo spia nel suo quotidiano, fino al giorno in cui riesce a stabilire un dialogo. Si organizza allora nel romanzo una corrispondenza quasi perfetta tra i due personaggi, tra il reale e l’irreale, tra la vita e la morte, e si forma un’interrogazione possibile, in una poetica senza urla sul senso dell’esistenza, sospesa nel dolore, contenuto in questo spazio particolare, estremo e strettissimo, tra la vita e la morte, appunto. Ed è questa corrispondenza che permette all’autore di offrire al lettore un finale inopinato.

Da qualche tempo negli umori e nei giudizi della critica persiste l’evidente convinzione che sia morto il romanzo. Che sia morto il romanzo “italico”, per innumerevoli ragioni. Riposino i critici! Il generoso romanzo di Moresco scevera dal grottesco alito polemico di una certa critica. E se volessimo accettare l’idea del trapasso del romanzo sarebbe solo per gettare un urlo festivo: il romanzo è morto, viva il romanzo!

La Lucina è una dimostrazione palese che il romanzo può essere un lavoro di pura fantasia che si allontana da ogni verità del romanzo o dal romanzo vero. Leggendo La lucina si trova un altro mondo che è appunto il mondo della letteratura, spazio dove è permesso tutto, soprattutto evadere in un mondo distinto. Leggendo La lucina non ci si può esimere dal pensare, dall’intendere, dall’indurre, dal dedurre, dal vedere, dall’immaginare il nostro mondo concreto, astratto e distratto. Leggendo La lucina si passa da un mondo all’altro, come portati dall’interrogativo: “Chissà se la luce non è anche lei dentro un’altra luce? E che luce sarà, se è una luce che non si può vedere? Se neanche la luce si può vedere, che cos’altro si può vedere? Chissà se la materia di cui è composto l’universo, quel poco che riusciamo a percepire nel mare della materia e dell’energia oscura, perlomeno, non è dentro un’altra materia infinitamente più grande, e anche la materia e l’energia oscura non sono dentro un’oscurità infinitamente più grande?” (p. 141).

Allora, chissà se il mondo non è anch’esso dentro un altro mondo (il romanzo?). E che mondo è? Cosa possiamo vedere di lui? Chissà poi se il romanzo non è anch’esso dentro un altro romanzo (il mondo?)?

Dopo la lettura di questo nuovo libro di Moresco, è come se gli occhi si riaprissero e, vedendo l’imbratto, la bruttura del mondo, fossero presi da un impellente desiderio di richiudersi per tornare in quel borgo deserto e abbandonato, in qualità di increato.

Visita a don Giacomo

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Egon Schiele, Doppio autoritratto, 1915
Egon Schiele, Doppio autoritratto, 1915

di Andrea Melone

Lo vidi io per primo, da lontano, un pesce nel fondo dell’acqua nera, in piedi, ma non dissi niente. Non volevo indicarlo a loro, ma soltanto guardarmelo più a lungo e da solo. Camminava senza direzione, acherusio, dietro gli altri. Non andavano a sbattersi contro, neve dentro la neve, io facevo del mio meglio e me lo guardavo senza perderlo, forse loro non potevano proprio vederlo, così adunati al centro. Sui vetri delle stanze l’ottoneria della bufera suonava a fanfara, era così distante e piccolo appena sotto la Madonna di Lourdes alla fine del corridoio, piccolo dagli occhi al mento da afferrarlo dentro la lingua, da morsicarlo, mandarlo giù con un colpo di strozza aperta, capii al volo la situazione, non ci sono calci da sfondare il muro e urla da sgozzato, un poco c’era da meravigliarsene per la verità, non una ghigna da mal caduco, ma pestati dal batticarne, da un giorno di sole feroce. Ho visto un incidente una volta, dalle macchine sbucò un vivo sul ciglio del fosso con le mani in testa e a stropicciarsi le palpebre, il passo da sbronzo non del tutto.

Roberta Durante – Poesie edite e inedite

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Da Girini

(Napoli, Edizioni d’if, 2012)
 
 

poesia a bocca aperta

 

sono passata all’alta voce (chè l’altra

                                         non me la sento)

mi metto un cuore in pace      senza senso

e tuona e sbatte e trema il tono tenta tutto

                                                e tace poco

         ghigno ogni tanto a vuoto

(ma senti mi senti?)  la voce che ho qui dentro

mi è un ordigno

e fuori campo dice che Tartaglio un po’ la corda

che trito le parole senza sosta

e faccio con le rime ciò che voglio qui sul foglio;

di stare zitta così  non se ne parla

non taccio

e in men che non si dica infatti caccio

in mano      la parola

che gesticola mi lega e il gusto sposa

         ma intanto io m’intano in tante tane

e tra le righe canto in questo modo

(per non sentire solamente il suono)

che sai mi butta un poco sottotono

                                               io che sono

così dodecafobica

resto senza  parole e scrivo strabica

le note quelle basse a pie’ di pagina

poi ipotizzo un momentino che poetizzo

         ma ci ripenso un poco      (e spengo i fari)

(ma vedi mi hai vista?) ho scritto tutto tutto senza

mani