Figli della bolla formativa: laureati, precari e al nero
di Roberto Ciccarelli
A un anno dalla laurea lavora solo un laureato su tre. E chi lavora è sempre più precario, viene pagato in nero. Dopo cinque anni la situazione tende a migliorare: lavorano stabilmente 7 laureati su 10, tra i triennali quasi 8 su 10. Sono i dati del XV rapporto Almalaurea che colgono il drastico aumento della disoccupazione dei «colletti bianchi» che tra il 2010 e il 2011 è aumentata del 4% passando dal 19 al 23%. Una tendenza cresciuta del 5% negli ultimi 5 anni. Il precariato cresce tra i laureati triennali, +10% dal 2008 e +6% tra gli specialisti. Ma la laurea resta sempre un titolo da prendere perché garantisce un tasso di occupazione più elevato rispetto al diploma (+12%). Le prospettive non sono però rassicuranti.
La bolla formativa è esplosa
Nei prossimi anni la componente maggioritaria dell’offerta di lavoro sarà costituita da individui in possesso della scuola dell’obbligo o di un diploma secondario. Nel 2010 il 37% dei manager aveva completato tutt’al più la scuola dell’obbligo, contro il 19% della media europea a 15 paesi e il 7% della Germania. Su 407 mila assunzioni previste, il 14,5% ha coinvolto i laureati e il 32,3% i lavoratori senza formazione specifica. Insomma per dirigere un’azienda – medio-piccola – non c’è bisogno di una specializzazione e per essere assunti non occorre la laurea.
Una volta di più Almalaurea conferma che la maggior responsabile dello scacco dell’istruzione pubblica italiana non è la scuola, o l’università, bensì il ridotto interesse del tessuto imprenditoriale (costituito per la maggioranza da Pmi) ad assumere personale qualificato, a partire dai livelli più alti. Se i vertici di un’azienda non sono laureati, perchè dovrebbero assumere dipendenti più qualificati di loro?
Dicerie dei piccoli imprenditori
La controprova è stata fornita da un’indagine commissionata al Censis dalla Cna dove questa realtà viene rovesciata e la responsabilità viene addebitata agli under 25 ai quali i piccoli imprenditori attribuiscono la scarsa, o inesistente, volontà delle aziende di fare nuove assunzioni.
La Cna stigmatizza l’approssimativa preparazione tecnica del 39,5% dei giovani, lamenta la loro scarsa attitudine del 26,6% al lavoro artigiano e la scarsa propensione a sostenere la fatica fisica (nel 25,1% dei casi). Uno slancio di realismo impedisce all’indagine di addebitare la stagnazione delle Pmi solo al morbo del «lazzaronismo» che avrebbe colpito i giovani dall’inizio della crisi. La Cna sposta il mirino sul bersaglio grosso. La colpa della crisi è della scuola. Gli imprenditori denunciano il suo forte scollamento dal mondo dell’impresa.
Tre aziende su 4 giudicano la scuola inadatta ai propri bisogni (76,6%), per una su 4 è del tutto inadeguata (24,2%). Si lamenta inoltre il poco tempo dedicato alla formazione pratica (39,7%) e la carenza di occasioni di tirocinio (27,7%). Per il 23,2% degli imprenditori la scuola non è in grado di trasmettere i valori del mondo del lavoro. Non si dice quali, forse sono quelli della massima flessibilizzazione e dei salari ridotti? Non importa, perché sul banco degli accusati c’è l’intero sistema educativo che non risponde ai bisogni delle aziende, figlio di un’impostazione teorica e generalista, frammentato in una miriade di percorsi formativi che non permettono uno sbocco occupazionale.
L’indagine sottolinea inoltre che il 33% delle imprese è riuscita ad assumere nuovo personale, il più delle volte in sostituzione di altre figure. Più di un’impresa su 4 (26,4%) ha fatto ricorso alla cassa integrazione, il 17,1% delle imprese ha ridotto l’orario di lavoro dei propri dipendenti, il 16,6% riorganizzato i processi di lavoro, il 13,6% riconvertito professionalità già presenti all’interno dell’azienda. Un’impresa su 10 ha ridotto lo stipendio dei dipendenti (10,7%), mentre sono poche di meno quelle che non hanno rinnovato contratti a termine o di collaborazione (7,9%). Può stupire fino a un certo punto che la rude razza pagana delle piccole imprese consideri la formazione scolastica con un’alzata di ciglio. In fondo questa è la tradizionale rappresentazione del piccolo imprenditore italiano interessato più al «fare» che agli inutili discorsi «intellettuali».
La campagna contro la “licealizzazione” della società
Questa campagna contro la scuola, come istituzione e come luogo della formazione di saperi “non utili” alle aziende e quindi alla società è il fattore che ha fatto esplodere la bolla formativa. Dieci anni fa, lo ricorderete, non passava settimana in cui tutti enfatizzavano il ruolo dei master o della laurea per favorire l’ascensore sociale. Da quando, invece, ci si è resi conto che le aziende non assumono, lo Stato ha bloccato il turn-over e moltiplica a dismisura i precari nella pubblica amministrazione (secondo la Cgia di Mestre sono 3,3 milioni di persone) è partita la caccia alla “laurea inutile”. E poi si è arrivati a sostenere che è ormai “inutile” laurearsi per trovare un posto di lavoro stabile. E ben retribuito.
Feroce è stata la campagna contro la “licealizzazione” della società. Tutti che volevano la laurea, nessuno che accettava i lavori “umili”. Esemplare è stato, ad esempio, Giorgio Guerrini, presidente di Confartigianato: nel 2011, 45 mila posti tra i mestieri artigiani “ad alta intensità manuale” sono rimasti scoperti per mancanza di candidati. Stesso discorso quando, sempre nel 2011, si è scoperto che i profili più ricercati tra i “giovani” nel 2011 sono i cuochi, camerieri e altre professioni dei servizi turistici (+23,4%).
Curiosa espressione “licealizzazione”. Perché a licealizzare la società è stata innanzitutto la riforma Berlinguer-Zecchino del 2000, il famoso “3+2″, che ha organizzato i corsi di laurea con i moduli di insegnamento, spezzettando gli esami secondo un commercio di debiti e crediti. Una laurea è la somma di questo smercio quotidiano, non l’accumulazione e la differenziazione di saperi in base ad un’esperienza, un dialogo. In compenso si fanno tanti stage. Gratuiti. Questa riforma è stata un fallimento, più volte sottolineato in questi anni dai rapporti Almalaurea. La campagna contro l’istruzione pubblica, e il ruolo della scuola, lo ha rimosso. Con un duplice risultato: si delegittima il sistema della formazione fallito per incapacità dei governi e si sposta la responsabilità sui soggetti che non accettano le possibilità offerte dalla società.
Le prove del fallimento? Le ha date il governo Monti quando ha ammesso che l’obiettivo fissato dalla Commissione Europea per il 2020 è irraggiungibile: il 40% di laureati nella popolazione di età tra i 30-34 anni. Oggi siamo fermi al 26-27%. Insieme alla Romania, l’Italia è il paese più arretrato d’Europa.
Compressione dei redditi
L’indagine Almalaurea ha coinvolto oltre 400 mila laureati in 64 atenei e registra una contrazione delle retribuzione dei laureati tra il 16 e il 18%, di poco superiore ai mille euro, 1.400 dopo cinque anni. Gli ingegneri guadagnano di più (1.748 euro al mese), gli insegnanti sono i più poveri (1.122 euro). Questa situazione è stata provocata da due fattori: l’Italia si trova agli ultimi posti per la quota di laureati sia per la fascia di età 55-64 anni sia per quella 25-34 anni. E i laureati non guadagnano abbastanza, e in maniera duratura. Quindi non pagano le tasse, non versano i contributi, non finanziano le prestazioni del Welfare e quindi, in cambio, non riceveranno una pensione, un sussidio di disoccupazione, un reddito di base, prestazioni dignitose nel sistema sanitario nazionale. E’ una delle catene prodotte dall’esplosione della bolla formativa. La recessione dei lavori della conoscenza colpisce al cuore le nuove generazioni e lo Stato sociale.
(Im)mobilità sociale
In questa condizione, la mobilità sociale è un bene residuale riservato a coloro che possiedono più risorse familiari per sostenere la povertà dilagante. Le indagini Almalaurea hanno messo in evidenza che una parte rilevante dei laureati proviene da famiglie i cui genitori sono privi di titolo di studio universitario. Fra i laureati di primo livello del 2011 la percentuale di laureati con genitori non laureati raggiunge il 75 per cento. La selezione sociale inizia quando si passa alla laurea di secondo livello. Fra i laureati specialistici la quota di chi proviene da famiglie con genitori non laureati scende al 70 per cento. Un’ulteriore conferma la si ottiene esaminando l’origine sociale di provenienza dei laureati specialistici a ciclo unico (medicina e chirurgia, giurisprudenza, ecc.): le famiglie con i genitori non laureati calano al 54 per cento. Una giustizia sociale di classe.
[“the p(recarious) s(cholar)”, da dance scriber]
L’importanza di una laurea in lettere
C’è anche un altro luogo comune confutato dal XV rapporto Almalaurea: visto che i laureati non trovano lavoro, e quelli che lo trovano svolgono ruoli non «allineati» alla loro formazione, è inevitabile restringere l’accesso alla formazione terziaria e a quella specialistica, al fine di garantire a pochi «eccellenti» l’ingresso sul mercato. Un luogo comune che dovrebbe permettere, ad esempio, agli ingegneri informatici – che sono pochi e molto richiesti – di percepire un buon reddito.
Almalaurea dimostra che tra il 2008 e il 2012 è accaduto esattamente l’opposto: le loro retribuzioni si sono ridotte del 9% (il 17% nel caso dei laureati specialistici). Non resiste nemmeno l’ultimo tabù dell’ignoranza dettata per legge. Quante volte è stato ripetuto che «non conviene» prendere una laurea umanistica, perché di letterati o avvocati ce ne sono a bizzeffe, e «sono tutti disoccupati»?
Dati alla mano, AlmaLaurea dimostra che rispetto alla Germania, in italia ci sono pochi laureati in queste discipline. Sembra assurdo, ma è proprio così: nel 2010 in Italia erano il 19%, mentre in Germania il 23%. La ragione per aumentare il numero di questi laureati viene spiegata con Martha Nussbaum: «le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica» e anche con l’idea che gli «umanisti» siano più sensibili rispetto a «lavori che non sono stati ancora creati, per tecnologie che non sono ancora state inventate».
Troppe cose per un governo inesistente
Almalaurea insiste: bisogna rifinanziare scuola e università, premiare il “capitale umano”, accrescere il “valore aggiunto” della formazione delle persone. Un giorno, tutto questo, arriverà, forse. Ma non conviene, prima di tutto, affrontare la volontà delle imprese di non assumere, sbloccare il turn over nella scuola e nell’università, modificare le riforme Gelmini che impediscono un serio reclutamento, modificare nella sostanza la formazione professionale al di là degli equivoci della riforma Fornero e dell’apprendistato?
Troppe cose per una legislatura troppo breve. E per un governo che, se mai vedrà la luce, dovrà pensare a tagliare i rimborsi ai partiti e cambiare la legge elettorale.
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Articolo già apparso in La furia dei cervelli, 11 marzo 2013.
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[La prima immagine è una scultura di Paolo Fumagalli, Precarious thought (2008)]
Apollonio Rodio – Argonautiche IV 891-919 – Le Sirene
trad. isometra di Daniele Ventre
νῆα δ᾽ ἐυκραὴς ἄνεμος φέρεν. αἶψα δὲ νῆσον
καλήν, Ἀνθεμόεσσαν ἐσέδρακον, ἔνθα λίγειαι
Σειρῆνες σίνοντ᾽ Ἀχελωίδες ἡδείῃσιν
θέλγουσαι μολπῇσιν, ὅτις παρὰ πεῖσμα βάλοιτο.
Francesca Canobbio – Poesie inedite
CONCERTO AL MINIMO
hai scavalcato il pianoforte fino alla sua coda- fino a tastare le corde che tese a capestro con un pizzico o più di follia davano la morte sospesa nel nastro fatto scorrere al collo che pendendo una nota sul petto fanno il cuore maiuscolo più dello spazio- stella nana- stellina di ottave in colonne di marmo sonoro- e cerchi- dall’alto scorgo e cerco dalla cupola quanto di celeste ormai giunto- quanto dista l’oscuro nell’ordine spartito da dio- se ha un suono il suo passo sulla scala o porta- un profilo di mani giunte fanno un coro su questo pavimento che hai ormai tentato capovolto quando con tutta la voce- tutte le voci sono uno schianto?
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Le BLOG est mort, vive le BLOB?!
The Blob [1958] “Non riusciremo a fermarla!”
di Orsola Puecher
La data simbolica di nascita dei blog [web+log *diario in pubblico] è il 18 luglio 1997
Una serata su Pagliarani e una nuova collana di poesia
Nell’anniversario della scomparsa di Elio Pagliarani, in occasione dell’uscita dell’omaggio Ma dobbiamo continuare. 73 per Elio Pagliarani a un anno dalla morte
a cura di Andrea Cortellessa, e della nuova collana poetica i domani di Nino Aragno Editore con I funerali di Corrao di Emilio Isgrò
Fondazione Mudima e alfabeta2
invitano all’incontro
che si terrà
lunedì 25 marzo alle ore 18:00
presso la Fondazione Mudima
in via Tadino, 26 – Milano
Ma dobbiamo continuare
(Per Elio Pagliarani)
interverranno
Cetta Petrollo Pagliarani, Nanni Balestrini, Franco Buffoni, Maria Grazia Calandrone, Biagio Cepollaro, Carla Chiarelli, Michelangelo Coviello, Maurizio Cucchi, Enzo Di Mauro, Giorgio Falco, Vincenzo Frungillo, Aldo Nove, Laura Pugno,
Francesco Targhetta, Ade Zeno e tanti altri
Gian Maria Annovi
collegato da Denver (Colorado) presenterà il suo Italics
Andrea Cortellessa e Maria Teresa Giaveri presenteranno
Emilio Isgrò, I funerali di Corrao
e l’autore ne darà lettura
Una nuova collana di poesia di Nino Aragno Editore: i domani
Secondo un grande maestro da poco scomparso, Andrea Zanzotto, la poesia è legata a quello che lui chiamava (parafrasando e capovolgendo un assai noto concetto freudiano) piacere del principio. Ogni volta la parola interrompendo il silenzio – non importa se con un grido o con un bisbiglio – stimola i nostri sensi. Sia che ci tocchi ascoltare, o prendere la parola. I tempi dell’editoria confliggono da sempre con questa urgenza bruciante e, specie in un contesto fuori dal mercato com’è quello della poesia, costringono gli autori a lunghe attese: a volte interminabili, geologiche. Percorrendo strettoie, produttive e distributive, che le nuove tecnologie al momento si limitano a promettere di allargare.
Il progetto dei domani, la nuova collana progettata da Maria Grazia Calandrone, Andrea Cortellessa e Laura Pugno per Nino Aragno Editore, e che s’inaugura in occasione della giornata mondiale della Poesia il 21 marzo 2013, intende conciliare queste diverse temporalità per produrne, chissà, una tutta nuova. Libri compatti, nell’impaginazione e nella struttura: destinati a fotografare, flash e dediche, opere circoscritte ma in sé compiute di autori “nuovi”, per anagrafe o per una marginalità sinora più sofferta che goduta; oppure, al contrario, works in progress di autori più affermati. Andando a cercare gli orientamenti, i generi, i temperamenti più diversi – ma accomunati da una vitalità, da un piacere del principio che è un piacere, appunto, condividere con i lettori. Quasi anticipando i tempi di autori e opere che domani, appunto, si scommette siano destinati a restare. Fermoimmagine di un movimento per sua natura imprevedibile, qual è quello della parola nel vivo del suo farsi.
I primi tre titoli: il numero zero è un a parte, anche tipograficamente parlando, in quanto raccoglie 73 omaggi in versi e in prosa giunti alla redazione della rivista alfabeta2 da colleghi, amici e compagni di strada all’indomani della notizia, giusto un anno fa (8 marzo 2012), della scomparsa di un altro grande maestro, Elio Pagliarani. Il libro reca un titolo tratto dal suo poema La ballata di Rudi, un titolo che – è il caso di dire – è tutto un programma: Ma dobbiamo continuare. Il libro a venire di Emilio Isgrò, protagonista delle arti visive oltre che della nostra letteratura, è il poemetto I funerali di Corrao, dedicato all’assassinio – nell’estate del 2011 – di un autentico personaggio della politica e della cultura siciliane, Ludovico Corrao (e che preannuncia una nuova raccolta poetica sull’ambivalente rapporto di Isgrò con la propria incancellabile terra d’origine). Mentre Gian Maria Annovi, un giovane intellettuale trasferito oltreoceano e che è fra i più brillanti della sua generazione (è nato nel 1978), illustra la sua vita “americana” nei versi acuminati e iridescenti di Italics.
Perché domani, sempre, è il tempo della poesia.
post in translation : Pere Calders
L’albero domestico*
di Pere Calders
traduzione dal catalano a cura di Alessio Arena
In questa vita ho avuto molti segreti. Ma uno dei più grossi, forse quello che era maggiormente in conflitto con la verità ufficiale, è il segreto che adesso trovo opportuno confessare.
Una mattina, quando mi alzai, vidi che nella sala da pranzo di casa mia era nato un albero. Ma non vi fate illusioni: si trattava di un albero vero, con radici infilzate nelle mattonelle e dei rami che si piegavano sotto al soffitto.
Pensai subito che quella cosa lì non poteva essere lo scherzo di nessuno, e, non avendo persone care alle quali raccontare certe cose, decisi di andare dalla polizia.
Mi introdusse il capitano, con dei grandi baffi, come sempre, e un vestito la cui eleganza non sarei in grado di spiegare, perché era coperto dai distintivi. Dissi:
– Vengo per farvi sapere che nella sala da pranzo di casa mia è nato un albero vero, al margine della mia volontà.
L’uomo, penserete, si sorprese. Stette un po’ di tempo a guardarmi e poi disse:
– Non può essere.
– Ma certo. Queste cose uno non sa mai come accadono. Ma l’albero è lì, a prendersi la luce e a darmi fastidio.
Queste mie parole irritarono il capitano. Diede un colpo sulla tavola con la mano aperta, si alzò e mi prese per il colletto. (Quel gesto che dà tanta rabbia.)
– Ho detto che non può essere – fece di nuovo -. Se questo fosse possibile, sarebbe possibile qualsiasi cosa. Lo capite? Dovremmo correggere tutto ciò che hanno detto i nostri saggi e perderemmo molto più tempo di quanto uno si immagina a prima vista. Saremmo ben conciati se nelle sale da pranzo di un cittadino qualsiasi accadessero cose tanto straordinarie! I rivoluzionari alzerebbero la testa, tornerebbero alla discussione della divinità del re, e chissà se qualche potenza, incuriosita, non ci dichiarerebbe guerra. Lo capite?
– Sì. Ma, nonostante tutto, ho toccato l’albero con le mie mani.
– Andiamo, forza, dimenticate questa faccenda. Condividiate solo con me questo segreto, e lo Stato pagherà bene il vostro silenzio.
Io stavo per considerare la possibilità di un assegno quando la mia coscienza ebbe una scossa. Chiesi:
– Ma è una cosa d’interessa nazionale, questa qui?
– Ovviamente!
– Allora non voglio nemmeno un centesimo. Io per la patria faccio qualsiasi cosa, sapete? A disposizione vostra.
Dopo quattro giorni mi arrivò una lettera del re, nella quale mi ringraziava. E con questo chi non si sarebbe sentito ben pagato?
Nota del traduttore
Pere Calders, vero maestro nel genere della narrativa breve in lingua catalana, si esiliò in Messico, dopo un’attiva partecipazione alla guerra spagnola scoppiata nel ’36, come tecnico cartografo dell’esercito repubblicano.
Per un catalano di forti radici come lui è duro adattarsi alla vita messicana degli anni cinquanta, ma è proprio qui che l’autore viene a contatto con il nascente realismo magico della letteratura hispano-americana che trasferirà alla sua opera, anche dopo il ritorno a Barcellona.
Ossessionato da quella “verità occulta” sulla cui base si appoggiano le schizofrenie della società attuale, anche nella letteratura di Calders l’uomo è considerato un mistero immerso in una serie di dati realistici. Per usare le parole del venezuelano Arturo Úslar Pietri egli è “Una divinazione poetica o una negazione poetica della realtà”.
In principio non era il Logos
di Daniele Ventre
Mulieri autem docere non permitto (Paolo Tim. I 2.1)
1. Metacondizioni del discorso e comunità argomentativa ideale
Risale al 1981 la Teoria dell’agire comunicativo in cui Jürgen Habermas codifica le basi della cosiddetta etica del discorso. Sottesa alla visione del filosofo è la semplice ed elementare constatazione secondo cui, al di là delle divergenze di opinione sui fatti o sulle soluzioni ai problemi, nessun discorso, normativo o descrittivo che sia, possa evitare di riconoscere implicitamente e di presupporre di principio i criteri di giustezza, verità (o verosimiglianza), veridicità e comprensibilità.
Nazione Indiana, i blog letterari, la cultura italiana
di Giacomo Sartori
GS Si dice che i blog letterari siano in crisi, e per certi versi superati, sei d’accordo?
GS Non mi sembra che si possa parlare di crisi dei blog letterari: Nazione Indiana e Carmilla mantengono la loro posizione preminente, e negli ultimi anni sono nati molti altri blog di peso e qualità, ognuno dei quali ha un numero più o meno grande di lettori. In qualche caso, come per esempio Minima Moralia e La poesia e lo spirito, il seguito comincia a essere (stando a blogbabel) quasi dello stesso ordine di grandezza di quello di Nazione Indiana e Carmilla. Senza contare che certi temi meno strettamente letterari adesso sono trattati anche da blog più “specialistici”, a cominciare da quello di Alfabeta2. Quindi mi sembra innegabile che il bacino totale si è allargato, e probabilmente continua a crescere, anche se purtroppo non ci sono dati certi, perché i parametri disponibili non sono facili da interpretare in modo immediato. E soprattutto nessuno si è preso o si prende la briga di fare un’analisi seria, che io sappia.
GS Quindi ti sembra che godano di buona salute, e che continueranno a esistere nei prossimi anni?
GS D’altra parte i motivi che hanno portato alla nascita di questi blog sono tutti lì, o forse sono ancora più invasivi rispetto a dieci anni fa, quando è nata Nazione Indiana: lo stato di abbandono in cui versa la nostra cultura, il conformismo della narrativa mainstream e delle grandi case editrici, la cieca e probabilmente autolesionistica dittatura di queste ultime sulla distribuzione, la loro completa chiusura nei confronti della poesia più interessante e innovativa, l’impaludamento e il nepotismo e la gerontocrazia della maggior parte delle pagine culturali, le meschinità e le relazioni incestuose nei premi, l’asma provinciale di molta critica letteraria, la mancanza di originalità e la sottomissione alle leggi della notorietà della maggior parte dei festival letterari etc. È un fenomeno molto italiano questo dei blog letterati collettivi di scrittori, o comunque con molti scrittori: in molti altri paesi ci sono blog di singoli autori, anche molto seguiti, e soprattutto blog che segnalano e commentano testi, non blog collettivi dove gli scrittori sono dominanti o comunque molto presenti. E non mi sembra un caso che proprio in Italia molti scrittori giovani e non, e alcuni dei quali con un successo di vendite, altri novizi o non ancora pubblicati, sentano il bisogno di associarsi per formare e portare avanti delle esperienze collettive. Io la vedo come una forma di difesa, di resistenza, di fronte a uno stato delle cose nel quale appunto il nuovo, il dibattito aperto, la critica radicale, o più semplicemente l’intelligenza e la qualità, sono repressi e non trovano il loro spazio. Avendo scelto di non farne parte io conosco poco i social network, ma non credo, proprio per il loro funzionamento effimero, che possano svolgere il ruolo di approfondimento e di trattazione sistematica di certe tematiche, e di segnalazione delle opere di valore, che portano avanti i blog letterari. Semmai possono integrarsi molto bene con questi.
GS Però ora i commenti ai post sono meno numerosi di qualche anno fa, no?
GS Certo negli ultimi due o tre anni una buona fetta del dibattito si è trasferito dai thread sotto i pezzi dei blog letterari ai social network, ma non mi sembra che i commenti abbiano mai costituito il motivo principale di essere e l’aspetto più innovativo dei blog. Certo danno vitalità e apertura, attentando forse a quell’autorità fittizia della parola scritta della quale ci ha parlato Platone, e qualche volta sono davvero interessanti, e/o contengono delle perle, ma raramente la sostanza sta lì. Non dobbiamo dimenticare che in ogni caso le persone che commentano sono un’infinita minoranza rispetto ai lettori “silenziosi”. E questo ora come qualche anno fa, quando i dibattiti sotto i post erano più vivaci, e le tenzoni più frequenti. A fronte di qualche appassionante dibattito con belle idee e approfondite analisi, spesso frutto di qualche lucidissimo commentatore che poi ha finito per pubblicare le proprie cose, hanno spesso prevalso i deliri di ego frustrati e non di rado incattiviti, con quella mancanza di un galateo compartito che caratterizza i primi tempi di ogni nuovo medium.
GS Quindi quella dei blog letterari ti sembra una realtà con una sua vitalità?
GS Lasciando stare una valutazione sul preciso apporto che è venuto dai blog, anche per quanto riguarda l’emergenza o una più grande visibilità di nuovi autori o nuove forme di scrittura (ma come sappiamo la questione è ben più complicata, si vedano Raffaele Simone e altri), o nei confronti della critica letteraria, delle riviste letterarie, del giornalismo culturale etc., valutazione che secondo me richiederebbe un grosso lavoro di analisi e di riflessione, mi sembra che si può dire qualche cosa sulle dinamiche in generale. Da una parte i blog letterari sono ora più numerosi e più vari, e quindi sostanzialmente rappresentano un’offerta più ampia per il lettore/utente. Vengono tuttora snobbati da gran parte del giornalismo culturale (rarissimamente i giornali che pescano contenuti e notizie da Nazione Indiana si degnano di citare la fonte, tanto per fare un esempio) e dalle case editrici (che sostanzialmente li ignorano, o fingono di), la maggior parte dei critici letterari e dei ricercatori preferiscono attenersi a un ruolo voyeuristico, ma pesano di più. Qualsiasi approfondito intervento critico su Nazione Indiana ha un seguito ben superiore a quello che avrebbe sulle più conosciute riviste letterarie, mi stupisce sempre che molte persone attente a queste cose non se ne rendano conto e non ne approfittino, quasi avessero paura di sporcarsi le mani, o comunque necessitino ancora del sigillo della rivista cartacea. D’altra parte è evidente che si sono create tante parrocchiette indipendenti, per non dire impermeabili una all’altra. Quindi quell’esigenza di apertura e di condivisione che stava alla base della nascita di ogni realtà si è trasformata in molti casi in chiusura. Non riesco a non vederci quella solita incapacità tutta italiana, di cui hanno parlato tantissimi, anche prima di Leopardi, e su fino a Gervaso e Galli della Loggia, di uscire dall’orizzonte ristretto del proprio clan di amicizie e relazioni, una recalcitranza a creare connessioni ampie, a concepire dei fini meno immediati e per così dire più disinteressati, a mettere in sordina i particolarismi per costruire una sana e vasta opposizione a malfunzionamenti che non soddisfano nessuno. Io personalmente la considero una grossissima tara, e lo trovo spesso insopportabile, e triste. Il limite principale mi sembra questo, non certo la concorrenza dei social network.
GS E i frequentatori/lettori, in tutto ciò?
GS Per paradosso chi fa il legame tra i vari blog sono soprattutto i lettori, perché è evidente che molti di loro si spostano da un sito all’altro. Probabilmente ognuno di loro fa individualmente le sue valutazioni e i suoi confronti, le sue sintesi, ma manca appunto un dibattito diretto tra le varie realtà. Non riesco a non vederci uno specchio dello stato del paese, carico degli effetti della storia recente, perché la crisi non è solo crisi della rappresentanza, crisi della Politica, ma anche capillare incapacità di confrontarsi e di discutere, crisi del legame sociale a tutti i livelli, anche proprio nella cultura. Pur con le sue specificità la rete non è immune da quello che succede “fuori”, dai comportamenti diffusi. E chi paga in fondo è sempre l’ultimo anello della catena, il lettore, il cittadino, che si trova solo, e deve fare tutto senza nessun aiuto. In balia, se parliamo di libri, dell’affliggente offerta libraria delle librerie Feltrinelli, dell’ennesimo festival letterario con De Luca e Lucarelli, della recensione su Repubblica dell’amico del tale noto scrittore o della sconosciuta scamorza, che ne parla come se non fosse suo amico o sodale di gruppo editoriale, e appunto con la stampella dei blog, che sono certo più gagliardi e affidabili, ma il più delle volte si ignorano a vicenda, o sembrano occupati a perpetrare se stessi, rifuggendo come la peste il confronto e in definitiva la possibilità di contare di più.
GS E non potrebbe esserci qualche forma di apertura reciproca?
GS Forse si potrebbe pensare, almeno dove non prevale il settarismo (che a me fa pensare in qualche caso all’insofferenza reciproca tra i ”gruppi extraparlamentari” degli anni ’70, la violenza subliminale, che coagula i gorghi non sopiti della nostra società, sembrerebbe echeggiare quella) a delle iniziative in comune, quali per esempio delle riflessioni su determinati temi, o a delle collane in comune di e-book. O anche si potrebbero organizzare degli eventi fuori dalla rete (dibattiti …), ingaggiare delle battaglie (per esempio per un trattamento dignitoso dei traduttori, per dei finanziamenti alla cultura …). La vedo dura, perché appena si profila una possibilità in questo senso scattano le reazioni e le rigidità di parte, ma credo sarebbe molto bello, e permetterebbe di uscire dalla claustrofobia dei microhabitat di ogni blog, e forse appunto anche di avere più influenza.
GS Come vedi l’esperienza di Nazione Indiana, in questo panorama di cui parli, dopo dieci anni di esistenza?
GS Quello che caratterizza Nazione Indiana fin dalla sua nascita è l’estrema eterogeneità delle sue anime. I suoi componenti sono sempre stati e sono tuttora molto diversi per origine geografica, luogo di residenza, età, sensibilità, formazione, percorso, esperienze creative e lavorative, visione della letteratura, posizionamento nell’industria delle lettere. Senza alcuna forma di gerarchia esplicita o subliminale, senza legami di interessi materiali, senza settarismi di clan. Chi ci accusava di comportamenti interessati, in una polemica di qualche anno fa sulla “classifica Dedalus”, dimostrava di non cogliere la specificità di questa realtà. Io la considero un’enorme ricchezza, in un paese appunto dove le coesistenze e il confronto costruttivo sono molto difficili. La sua gran vitalità, e il fatto che rimanga il blog culturale più seguito e autorevole, o insomma uno dei, risiede lì. Beninteso è anche la sua debolezza, perché l’estrema diversità impedisce qualsiasi forma di sintesi o anche semplicemente di coerenza. Nazione Indiana è in fondo una grande macchina anarchica, che sposa e sfrutta l’orizzontalità della rete. Quando la riflessione per avanzare ha bisogno di solidi minimi comuni denominatori, di scelte compartite, di seppure indisciplinata disciplina. Io personalmente ogni tanto rimpiango un funzionamento più coerente e meno individualista, e credo che il motivo per cui nel corso degli anni tante persone sono uscite, rimpiazzate via via da altre, sia proprio questo. L’anarchia è bella ma faticosa, logorante, spessissimo inconcludente. Ma sarebbe possibile oggi in Italia far lavorare assieme anime tanto diverse, adottando per esempio un classico funzionamento di redazione, cercando di individuare una anche minima linea editoriale, senza scatenare ipso facto l’instaurarsi di gerarchie e chiusure, gregarismi e irrigidimenti, appiattimenti e esclusioni? A modo suo Nazione Indiana è riuscita a evitare queste piaghe, che mi sembra in misura diversa contaminino, e limitino, molti altri blog. Senza bisogno di nessun Grillo.
GS E la scissione che ha portato alla nascita del Primo Amore?
GS Io all’epoca non facevo parte del blog, ma avevo letto e condivido appieno l’analisi di fondo sul blog fatta da Moresco nella lettera di commiato quando ne è uscito: mi sembra che le sue parole restino validissime anche adesso. E pure a me piacerebbe una Nazione Indiana più combattiva e più coerente e più impegnata in progetti e posizionamenti radicali di lungo respiro, composta esclusivamente da coraggiosi paladini senza l’ombra di compromissione con il mondo editoriale e terreno. Ma il sentito richiamo alla radicalità e alla coerenza di Moresco, al quale sono molto sensibile, mi sembra rifletta una concezione della militanza superata, legata alla sua storia personale, e soprattutto velleitaria. Ci vedo una sottovalutazione degli effetti pervasivi del disastro capillare della cultura italiana nell’era della rivoluzione digitale, e degli stessi cambiamenti antropologici che questo connubio di arretratezza e di microelettronica ha indotto, e che la rete riflette in maniera cristallina. Io sono convinto che sia vano rincorrere una purezza che non esiste e non può esistere. E questo non vuole certo dire a rinunciare a checchessia. Il Primo amore è un bellissimo e molto coerente blog, ma non mi sembra che rappresenti un qualcosa di più radicale e incisivo di Nazione Indiana. Anzi. E non è un caso.
GS E il futuro?
GS Non dobbiamo dimenticare che i blog letterari sono mandati avanti da volontari. Ma per scrivere un buon post ci vuole tempo e fatica, esattamente come per partorire un buon pezzo per una rivista o una pagina culturale. Questo è un grosso limite. O meglio, il carattere “amatoriale” implica la più grande libertà, e quel confronto disinteressato con il testo che può permettere di cogliere la letteratura per quello che è, ma è anche un limite. La maggior parte delle persone che fanno parte dei blog collettivi sono giovani o non più tanto giovani intellettuali, che spesso hanno al loro attivo lavori importanti (di creazione, o di traduzione, di critica), ma hanno un enorme difficoltà a sbarcare il lunario, nell’indigenza in cui naviga la nostra cultura. È quel sottoproletariato culturale, sovente con delle enormi doti, che conosciamo tutti, e che non trova impieghi degni, che è bistrattato e umiliato, e in qualche caso riesce a tirare avanti solo con l’aiuto della famiglia. È una situazione che in altri paesi occidentali non è nemmeno immaginabile. Ognuno di noi potrebbe citare decine di casi. Queste persone, e ripeto, spesso hanno grandi capacità, e che sono affiancate da scrittori o professori o ricercatori che stanno un po’ meglio, spesso non possono permettersi di dedicare molto tempo al confezionamento di contributi originali. E nello stesso tempo sono proprio la loro indigenza e la loro esclusione che li spingono pur sempre a partecipare a un’impresa collettiva, a dedicare il loro tempo libero a un’attività di militanza, perché di questo si tratta. Mi sembra questa la contraddizione di fondo che sta dietro a questa realtà.
GS Quindi?
GS Forse in un futuro non immediato ci sarà una professionalizzazione, e continueranno solo i blog che sapranno organizzarsi, che sapranno fornire dei contenuti di qualità, trovandosi qualche sponda economica. Un po’ come è successo per le radio libere trent’anni fa: dopo un periodo di disordinato fermento, sono sopravvissute e sono andate avanti solo quelle che hanno saputo strutturarsi, e hanno preso, anche se c’è qualche bella eccezione, una piega commerciale. Riuscirà Nazione Indiana a mutare la sua anima, diventando appunto meno anarchica? Probabilmente no (e sarà una perdita). Mi sembra emblematico a questo proposito il caso di Minima Moralia, che è una costola e si appoggia a una casa editrice che ha avuto la lungimiranza di capire l’importanza e anche la convenienza di ospitare un blog letterario. Mi sembra incredibile che le grandi case editrici non imitino questa esperienza. Costerebbe una pipa di tabacco, davvero nulla, e porterebbe a dei risultati anche proprio in termine di immagine e di vendite, visto che sono così focalizzati sulle vendite. Ma appunto sarebbe forse troppo in contrasto con l’impaludamento generale, con le reti di regole silenziose, con tutto il non detto (non a caso la sezione “blog” della Feltrinelli è una ilarante soffitta polverosa). Mentre Minimum Fax, che è una bella e vitale casa editrice, può permetterselo. Ma è solo un’ipotesi, per carità. Per ora i blog sono mandati avanti da desesperados della cultura, affiancati da qualche nobile e generoso intellettuale e scrittore di successo o successino.
[ho realizzato quest’intervista a me stesso soprattutto nell’intento di mettere lì qualche spunto di discussione, anche in previsione dell’incontro di sabato prossimo a Milano; convinto peraltro, molto umilmente, che altri avrebbero forse potuto sviscerare meglio di me la questione; GS]
Fare l’indiano
(Lo scorso anno mi fu chiesto da Ranieri Polese un pezzo per il suo Almanacco che quell’anno aveva come tema l’editoria. Decisi perciò di parlare della mia esperienza sul web. Le cose che ora riporto qui non sono una novità per i lettori della rete, ma furono scritte come compendio per quelli della carta stampata. Le condivido ora in prossimità del decennale come viatico della festa. G.B.)
Il dibattito culturale nel web per me – che non sono uno storico, che racconto queste cose quasi a memoria, senza neppure andare a consultare alcunché – inizia con La Società delle menti, rubrica fissa del portale Clarence. Non ricordo neppure se era il 2001 o l’anno appresso. Ho saputo poi che di letteratura, sociologia, filosofia, arte, etc. se ne parlava già prima, prima ancora della diffusione del web, con le BBS, con il Luther Blissett Project e con tante altre esperienze e aggregazioni attorno al nuovo mezzo tecnologico, nuovo per davvero, oggi quasi non ce ne rendiamo conto: rammento, per dire, che mi sentivo quasi un iniziato quando andavo al Centro di Calcolo del Politecnico per potermi connettere nella rete universitaria (sarà stato attorno al 1990) e comunicare con un amico che studiava alla Pennsylvania State University. Roba da film di fantascienza. Ho visto nascere il World Wide Web, ho consultato Internet anche dopo essermi laureato, l’ho usata come una gigantesca edizione delle pagine gialle, da architetto come strumento di lavoro, ma mai come qualcosa di strettamente connesso al dibattito culturale. Da questo punto di vista ero ancora troppo legato all’idea romantica delle riviste cartacee che leggevo (Nuovi Argomenti, Alfabeta, Linea d’ombra) o alla “terza pagina” dei quotidiani. Terza pagina spostata sempre più in fondo, che diventava decima, ventesima, al punto che oggi aspetto solo che venga dislocata dietro le pagine sportive, in fondo, assieme all’oroscopo, per poi sparire del tutto, definitivamente.
Credo cercai su Altavista (Google ancora non aveva preso piede) qualcosa attorno alla raccolta di poesie Nelle galassie oggi come oggi. Covers di Montanari, Nove e Scarpa. Trovai un pezzo di Giuseppe Genna. Divenne il mio appuntamento quotidiano. Ogni mattina, a studio, prima di scartabellare pratiche edilizie o di mettermi a disegnare passavo dalla Società delle Menti a vedere che aria tirava. C’era nella gestione – al contempo pop e culta – dei temi trattati da Genna una passione che sembrava ormai scomparsa dalle succitate terze (ma sempre più in fondo) pagine culturali, che apparivano al confronto bolse, rigide, ingessate. Devo dire che a distanza di oltre un decennio Genna da una parte e il collettivo Wu Ming dall’altra, restano sempre un passo avanti nella scoperta e declinazione ad uso culturale delle nuove tecnologie (Facebook, Twitter, etc.). Ma quello che all’epoca non sapevo è che da lì a poco mi ci sarei ritrovato immerso fino alla cintola anch’io.
Perché ancora non sapevo che nel novembre del 2001, dopo lo shock degli attentati terroristici dell’11 settembre, un gruppo di scrittori, poeti, intellettuali, aveva deciso di organizzare un convegno per fare il punto della situazione. Scrivere sul fronte occidentale, si chiamava quel guardarsi negli occhi. Decisero di utilizzare i proventi del libro che ne nacque per mettere on line una rivista, utilizzando uno strumento ancora poco frequentato in Italia, che permetteva a chiunque di pubblicare, “postare”, senza particolari conoscenze informatiche, contenuti sul web. Un blog. Inutile dire che a gestire l’operazione fu proprio Giuseppe Genna, il quale, all’ultimo, decise di defilarsi dal progetto per portare avanti una sua pagina personale. Così nacque Nazione Indiana, nel marzo del 2003. La cosa curiosa è che in teoria doveva essere rivista on line senza commenti. Ma per un errore di gestione i commenti furono lasciati aperti, credo se ne accorse Christian Raimo che ne lasciò uno, da casa sua a Roma.
Seguii subito Nazione Indiana come qualcosa di davvero nuovo, dirompente. Autori più o meno miei coetanei, che non riuscivano a trovare spazio nelle asfittiche pagine culturali, al posto di lagnarsi dello status quo intraprendevano percorsi alternativi, scevri da autocompiacimenti, reciproci favori, “marchette” editoriali. (Per inciso: ancora oggi vige su Nazione Indiana l’imperativo di non pubblicare recensioni che parlino di opere dei redattori o vicendevoli elogi, così come non abbiamo mai optato né per l’utilizzo di piattaforme gratuite, che implicavano la perdita della proprietà dei contenuti che abbiamo sempre considerato Creative Common, né abbiamo mai voluto pubblicità di alcuna sorta, sobbarcandoci gli oneri finanziari del progetto, rendendolo così libero da ogni eventuale, involontaria o meno, pressione esterna).
Il blog nacque in marzo. Solo a settembre, non ostante la frequentazione quotidiana, pubblicai il mio primo commento. Sentivo, ormai, di far parte di questa comunità che si disinteressava a quel principio di autorità (e autorialità) che bloccava il dibattito cartaceo e che invece, orizzontalmente, metteva assieme autori e lettori, scrittori e utenti. Il mio primo pezzo, nell’aprile 2004, fu pubblicato di rapina da Tiziano Scarpa. Si innamorò di un mio lungo e ironico commento e decise di trasformarlo in un post. In seguito postai i miei pezzi ospitato da Dario Voltolini, o da un giovane giornalista campano free lance che scriveva cose inaudite e rabbiose, Roberto Saviano. Pochi mesi dopo ricevetti l’invito di far parte della redazione. La cosa interessante è che io non conoscevo di persona praticamente nessuno. Lo racconto perché trovo in qualche modo esemplare, tipico, il modo in cui sono stato arruolato. Nel corso degli anni i redattori si sono avvicendati, alcuni, nel 2006 – fra cui Scarpa stesso, Antonio Moresco, Carla Benedetti (soci fondatori e appassionate anime critiche del blog) – lasciarono Nazione Indiana per contrasti interni. Contrasti espliciti, dichiarati, pubblicati sul sito stesso, nel quale nacque una discussione calda e coinvolta. Altri se ne sono aggiunti, invitati di volta in volta dalla redazione. Dei soci fondatori, dopo nove anni, sono rimasti solo Andrea Inglese e Helena Janeczeck. Eppure, non ostante la più antica critica al blog sia sempre stata che “Nazione Indiana non è più quella di una volta” (ce lo siamo sentiti ripetere già a pochi mesi dalla nascita), credo che lo spirito del blog, la sua tonalità, le sue modalità, i suoi intenti siano sempre gli stessi. Sogno, di mio, una Nazione Indiana dove nessuno dei presenti redattori sia a firmarlo, nelle mani di 20 giovani redattori, sconosciuti, pronti a portare avanti il progetto.
Progetto che, sinceramente, agli albori era visto dalla critica ufficiale, accademica, come qualcosa di curioso e poco interessante. Poco più di un covo di letterati freak frustrati. La stessa modalità dei commenti aperti, la critica spesso ingenerosa ai pezzi pubblicati che ne nasceva, inorridiva la vecchia guardia. E tutt’ora urtica. Anche perché, ammettiamolo, una sorta di male interpretata idea di libertà che circola dalla sua nascita su Internet trasforma, spesso, il web in un far west dove tutti possono dire tutto, trivialità, insulti, aggressioni, nascosti dietro l’anonimato non tanto del nome (mai avuto problemi a relazionarmi coi nickname) ma del corpo. Discutere così, a botta calda, senza guardarsi in faccia aiuta i livorosi – i “leoni da tastiera” li ha chiamati Wu Ming 3 – a scatenarsi, trasformando, spesso, lo spazio dei commenti, in tutti i blog, in un defecatoio dove c’è chi, per fare un esempio, spiega il teorema di Pitagora e chi, come se fosse sensato, dice di non essere d’accordo col filosofo greco. Ma altrettanto spesso non è così. Per me molte discussioni con gli utenti si sono trasformate in luoghi di arricchimento, di scoperta, di condivisione. Ecco, quest’aspetto giustifica, da sempre, la ragione dei commenti aperti, anche se per noi redattori significa una continua attenzione a evitare che le discussioni deraglino nell’insulto gratuito, spesso nei confronti dei meno bellicosi (io ho una procedura standard: gli insulti a me rivolti li tengo tutti, ma se viene maltrattato un mio ospite non ho problemi a cancellare il commento ingiurioso).
Parlo di Nazione Indiana ma questo racconto andrebbe allargato all’intero sistema di blog e siti letterari e culturali che nel frattempo stavano nascendo in quegli anni. Ognuno con la propria identità. Come Vibrisse di Giulio Mozzi (precursore e grande pioniere del mezzo), Zibaldoni, Carmilla on line, nata per trasferire in rete una rivista cartacea diretta da Valerio Evangelisti, o come Lipperatura, blog di Loredana Lipperini dal taglio giornalistico, Minima et Moralia, La poesia e lo spirito, La dimora del tempo sospeso, Absoluteville, Il primo amore, fondato dagli autori che uscirono da Nazione Indiana, e tanti altri. L’elenco, il blogroll, è lungo e meriterebbe di essere fatto per intero. Anche perché l’insieme dei blog culturali ha da subito “fatto rete”: autori di un sito hanno pubblicato su un altro, oppure si sono spostati da una redazione ad un’altra, ci si è letti a vicenda, anche polemizzato, ma più spesso collaborato. Cercato, cioè, di fare massa critica.
Il “vecchio mondo” – fatto di critici, giornalisti, scrittori, editori – legato a ritualità novecentesche, iniziò, con lentezza e farragine a sentire il peso di questa avanguardia sgangherata che dibatteva animosamente in rete. Me ne resi conto un giorno, in libreria, quando vidi il libro di un giovane scrittore che nella quarta di copertina al posto di citare firme prestigiose della carta stampata metteva in bella evidenza i commenti positivi ricevuti dai lit-blog. “Ormai al mattino” mi disse un redattore di una grande casa editrice “iniziamo la nostra rassegna stampa accendendo il computer: cosa pubblica oggi Nazione indiana? Cosa Carmilla?”
Il lavoro di scouting fatto dalla rete in questi Anni Zero, dove l’editoria classica sembrava sempre più ridotta a fare cassa inseguendo gli umori del momento e chiudendo perciò tutti gli spazi possibili a scritture altre, differenti, è stato enorme. Pensiamo solo a come la più reietta, dall’editoria, delle attività di scrittura, la poesia, abbia trovato uno spazio dove esprimersi per davvero. Dalla rete sono nati autori che poi hanno trovato sbocchi editoriali. La rete ha dato attenzione ad autori che altrimenti rischiavano la smemoratezza. Anche autori internazionali, di enorme spessore (e qui, con un orgoglio un po’ beota, non ho vergogna a ricordare le traduzioni inedite di autori straordinari fatte su Nazione Indiana e poi ripubblicate, senza autorizzazione, dalla carta stampata. O i premi Nobel sconosciuti dalle pagine culturali nazionali che da noi avevano da tempo trovato spazio e recensioni).
Insomma, qualcosa era cambiato. Agli albori capitava sovente che pezzi pubblicati sui quotidiani venissero poi riproposti dalla rete. Nel tempo accadeva sempre più spesso il contrario: discussioni scaturite dalla rete diventavano argomenti della carta stampata. Esemplare il dibattito sul New Italian Epic che nacque in rete dal testo dei Wu Ming e che si propagò ben oltre il web diventando tema di convegni universitari non solo nazionali. E sempre più spesso autori, critici, accademici curiosi iniziarono a guardare alla rete con maggiore attenzione, intervenendo dapprima magari con automatismi professorali subito cassati da chi in rete ci stava da anni (e che ora un po’ si atteggiava da carbonaro detentore della netiquette) e poi sempre più vicino ai nuovi linguaggi e modalità. In questo modo sono nate altre realtà come DoppioZero, Le parole e le cose, Alfabeta2, etc. così come chi aveva battuto da subito la strada del virtuale ha nel tempo cercato altre inclusive pratiche di scambio culturale: iniziative editoriali “tradizionali” – Il Primo Amore che diventa rivista cartacea, così come lo è Alfabeta2 – “miste”, come le Murene, librettini pubblicati da Nazione Indiana ai quali abbonarsi on line (senza cioè la classica distribuzione in libreria) – ebook, performance, manifesti – penso all’attività del movimento Generazione TQ -, marce da nord a sud del paese – il “Cammina Cammina” organizzata da Il Primo amore -, ritrovi – penso alle Feste Indiane svolte al Castello di Malaspina in Lunigiana e all’Arci Bellezza di Milano -, e tanto altro ancora.
Questo per dire che ormai quelle che apparivano barriere pregiudiziali che definivano spazi incapaci di comunicare fra di loro, opposti quasi, si sono dimostrate fortunatamente fragili, creando così un modo inclusivo di concepire il campo della cultura, più ampio, variegato, ricco. Fatto di continui feedback fra i vari dispositivi di diffusione della cultura non maggioritaria, non pacificata, non arresa ai modelli omologanti imposti da un centro politico e ideologico che in questi anni difficili ha banalizzato e reso marginale l’idea di cultura in Italia.
Nazione Indiana ha nove anni. Non so se ci sarà ancora fra nove anni. Non so neppure cosa farò io fra nove anni, magari mi dedicherò alla danza classica, chi può saperlo. Nove anni di vita, sul web, sono un’era geologica. So che questi nove anni, a guardarli ora, retrospettivamente – ora che mentre scrivo queste righe do un occhio alla posta elettronica, leggo un messaggio su skype, controllo gli aggiornamenti sui vari lit-blog, rispondo ad un commento – a guardarli, tutti assieme, mi sembrano passati in un soffio. Gli oltre settemila post pubblicati e le decine di migliaia di contatti unici mensili, invece, mi ricordano il lavoro enorme di resistenza culturale che siamo riusciti, redattori, ospiti e lettori, a produrre, tutti assieme. Gratis, senza alcun tornaconto, per pura militanza, per pura, anarchica felicità. Per amore.
(pubblicato col titolo C’era una volta il blog. E poi gli indiani uscirono dalle riserve, in: Fare libri. Come cambia il mestiere dell’editore, (a cura di) Ranieri Polese, Guanda, 2012)
Tra gnomi e troll
di Francesca Matteoni
nani delle caverne
A metà degli anni Ottanta io ero una bambina fervidamente innamorata della lettura e dei mondi che in lei si dischiudevano. Per la festa della Prima Comunione, in mezzo a noiosa paccottiglia d’oro, apparvero due libri, uno sulla storia delle civiltà antiche, l’altro di fiabe della buonanotte. Inutile dire che sono gli unici doni sopravvissuti e amati, oltre alla medaglietta proveniente da mia nonna. Li lessi quella primavera. Il libro di fiabe aveva illustrazioni piacevoli e ordinarie, di bambini, giocattoli, luoghi, folletti. Una in particolar modo, tuttavia, mi rimase impressa, per la malignità della creatura che vi era ritratta: un nano dal mento aguzzo, che richiudeva guardingo il passaggio di roccia nella montagna. All’interno della montagna i nani accumulavano tesori, per lo più rubati agli esseri umani, almeno così diceva la storia. L’unica luce che riverberava dentro le caverne era quella delle pietre preziose e delle monete. Nella quasi totale oscurità i nani si muovevano benissimo e potevano intrappolare per sempre il malcapitato visitatore umano che fosse giunto lì, spinto dal caso o dalla curiosità. Non erano creature raccomandabili e avevano tutt’altra indole rispetto agli unici nani magici che conoscevo, i sette dell’adattamento disneyano della fiaba di Biancaneve. Questo nano malevolo era un lontano parente degli esseri ctonii della mitologia germanica, abitatori di caverne, fabbri e custodi di tesori, e anche dei nani nella Terra di Mezzo tolkieniana, che forgiano metalli nelle profondità delle montagne, ma privo del loro orgoglio e dei tratti eroici. Molto più della storia, mi interessava l’inquietudine, seppure leggera, che derivava da quella figura grifagna, qualcosa che avrei ricercato anche in seguito, leggendo di abitanti delle foreste e delle rocce, cercandoli nelle illustrazioni.
Buon compleanno, Sergio Pitol

di Davide Orecchio
Sergio Pitol compie 80 anni. Fioccano gli articoli e gli omaggi al più colto ed erudito degli scrittori messicani viventi, traduttore di Conrad, Gombrowicz, Nabokov, Austen e James, tra i primi a sperimentare l’autofiction, autore di racconti perfetti, romanzi indimenticabili, biografie letterarie, diari di viaggio. Un creatore di generi e “maestro involontario”, come riconosce lo spagnolo Enrique Vila-Matas:
“Pitol mi ha aperto porte, mi ha mostrato sentieri della letteratura e gli devo quello che sono e ciò che non sono. Lo considero il mio maestro”.
10 anni fuori dalla pozzanghera: programma
La festa dei dieci anni ha, incredibilmente, un programma di massima in divenire: invitiamo tutti i redattori presenti e passati di Nazione Indiana e de Il Primo Amore, i lettori e tutti coloro che vorranno partecipare al Teatro I di Milano (via Gaudenzio Ferrari angolo via Conca del Naviglio) sabato 23 marzo, dalle 15.00 alle 23.
Programma provvisorio in divenire:
10 anni fuori dalla pozzanghera
15:00 – Lettura primo post di nazione indiana + presentazione dei blog Nazione Indiana e Primo Amore
15:30 – Fare rete, fare blog
Il blog, come strumento e modalità di discorso, riesce ancora a mappare il presente e a connettere le realtà più interessanti o sta attraversando una crisi? è un trampolino di lancio o una spina nel fianco dell’industria culturale? I principi etici che stanno alla base di molti blog in che modo saranno utili alla loro sopravvivenza e/o a un possibile rilancio?
Modera: Mario de Santis (Radio Capital). Partecipano: Jan Reister, Sergio Baratto, Gianni Biondillo, Vanni Santoni.
17:00 – Scrivere in rete rende più spericolati?
Che impatto ha avuto la scrittura in rete, in virtù del suo formato e delle sue specifiche modalità di ricezione sui generi letterari, da quelli del giornalismo culturale a quelli della scrittura narrativa, saggistica e poetica? Possiamo parlare di una ridefinizione delle frontiere di genere, o di una riattualizzazione salutare di molte forme di scrittura che andavano incontro a un evidente declino?
Modera: Annarita Briganti (Repubblica). Partecipano: Andrea Inglese, Carla Benedetti, Helena Janeczek, Alessandro Gazoia (jumpinshark).
18.30 – Scrivere senza rete: un dialogo tra Walter Siti e Antonio Moresco
19:45 – rinfresco
21:00 – videopoesia con Biagio Cepollaro e Emanuele Magri
21.45 – Marco Rovelli e la sua chitarra: storie di uomini in attitudine di sogno e di combattimento
22.30 Inderogabile chiusura
Saranno presenti, tra gli altri, molti e illustri: l’equipe di Writers, Alessandro Bertante, Giuseppe Catozzella, Gabriella Fuschini, Renata Morresi, Serena Gaudino, Alessandro Broggi, Maria Cerino, Antonio Sparzani, Giacomo Sartori, Silvia Contarini, Teo Lorini, Rinaldo Censi, Francesco Forlani, Davide Orecchio, Maria Luisa Venuta, Giuseppe Zucco, Franz Krauspenhaar, Anna Ruchat, Giovanni Giovannetti.
Il coltello di Lichtenberg
di Domenico Pinto
«Volevano i fatti. I fatti! Esigevano fatti da lui, come se i fatti potessero spiegare alcunché», osserva il narratore nel capolavoro di Conrad, quando Jim sta alla sbarra per aver abbandonato il piroscafo dov’era primo ufficiale. Il più ancipite eroe della modernità soggiace al giudizio della Storia, lui che ha lasciato una nave che in verità non affonda
Atlantide, Il Grande Dittatore e un dubbio capitale sulla scrittura collettiva – Una lettera a Vanni Santoni
di Giuseppe Zucco

Caro Vanni,
domenica scorsa incontro un tuo lungo articolo su La Lettura del Corriere della sera, e affrontando quest’ultimo lo strano caso della scrittura collettiva, un argomento e una modalità di composizione letteraria che affiora ciclicamente nei punti più disparati dell’oceano della letteratura, un’isola tipo Atlantide, con i suoi fasti e le sue cupole dorate che balenano negli occhi di qualche avventuriero per pochi istanti prima di inabissarsi ancora tra i flutti, mi ci sono calato dentro, cercando di avvistare la stessa isola dalla prua del mio divano.
Del resto, è un luogo comune, ormai, anche se il più difficile da conseguire: fare letteratura, perdere giorni sonno forze dietro le continue evoluzioni dei personaggi e della lingua – dei personaggi dentro la lingua, della lingua dentro i personaggi – riesce davvero solo se chi scrive, forzando la propria natura, bucando il guscio di granito in cui prospera incontrastato Il Grande Dittatore del proprio Io, riesca a connettersi a tutto e ogni cosa, dalla materia inerte alla più insignificante creatura alla più lontana esplosione stellare. E scrivere a più mani, da subito, nel furioso e diacronico battere sui tasti di un numero elevato di dita, rende evidente una tra le possibili soluzioni al problema, non fosse altro che Il Grande Dittatore da solista si trova a cantare in coro, guardandosi per forza di cose intorno e tentando di accordare la propria voce a quella degli altri partecipanti alla scrittura. Non è un caso, infatti, che nell’articolo si parli di concertazione nella produzione di un testo: più voci, fondendosi, corrompendosi, modulando ognuna in funzione delle altre, avverano una nuova trama, una nuova tessitura, una nuova composizione in cui un mondo – reale o presunto, minuto o espanso, nella sua ineguagliabile stilizzazione e complessità – trova un senso o lo disperde, lasciando ai propri lettori la sensazione che la vita sia questa festa mobile, per dirla con Hemingway, o la migliore catastrofe in cui avventurarsi o battere i denti.
Da parte mia, andando indietro nella storia della letteratura, sebbene con qualche forzatura, ho sempre inteso la scrittura collettiva come un’officina di letteratura potenziale, la formula con cui i componenti dell’OuLiPo, nel 1960, definivano la letteratura che veniva fuori da una scrittura vincolata, dove i vincoli, le restrizioni, i contraintes, le regole categoriche adottate convenzionalmente prima di mettersi a scrivere – George Perec, per esempio, venne a capo di un intero romanzo senza mai usare la lettera e – costringevano gli scrittori a battere nuove piste, altri modi per affrontare la realtà, il verosimile o il suo contrario. E scrivere in 115, come è capitato a te, mettendo a punto un metodo, convogliando in un unico e coerente risultato le spinte centrifughe a cui porta il furioso e diacronico battere sui tasti di molteplici dita, non è altro che consegnarsi a questa enorme costrizione, tentando di tramutarla da vincolo in risorsa, rendendola più che altro produttiva di idee e soluzioni. Per essere parecchio vintage, questa costrizione non sarebbe altro che una musa, in fondo.
Ma continuando la lettura dell’articolo, oltre a incrociare un illuminante excursus di come la scrittura collettiva abbia trovato in Italia un terreno particolarmente fertile, abbondano tutta una serie di riferimenti ai software open source e all’intelligenza collettiva della rete, certo, alle similitudini con le botteghe rinascimentali come officine di creazione e luoghi di confronto e pianificazione, va bene, alla palestra in cui possono consapevolmente accedere perfetti sconosciuti per diventare poi gli artisti di un prossimo futuro, giustissimo, alla messa in ombra degli aspetti più deleteri e velenosi dell’autore al tempo della società dello spettacolo, senz’altro, alla constatazione che ogni testo è una produzione collettiva a cui concorrono le più diverse e troppe volte anonime professionalità, ok.
E la letteratura? E la fuoriuscita dal proprio Io e la connessione a tutto e ogni cosa? E il mondo e l’assegnazione o la dispersione di senso?
In un attimo scorgo Atlantide, poi volutamente la perdo di vista, non inseguendo più le cupole dorate, ma un dubbio capitale. Che la scrittura collettiva, molto più della scrittura sostenuta in completa solitudine, sia una sfida artistica così impegnativa da un punto di vista psicologico, così sfiancante in campo relazionale, così snervante per la ricerca continua di equilibrio e compromesso tra le parti in causa, che alla fine chi la pratica sostituisce il fine, la letteratura, al mezzo per arrivarci, il metodo di scrittura collettiva – diventato a questo punto un valore, un valore assoluto.
Tra l’altro, lo dici molto chiaramente nell’articolo. Due erano i nostri obiettivi: codificare un metodo di scrittura collettiva che potesse essere usato da chiunque, per qualunque tipo di testo narrativo, e utilizzarlo per realizzare un romanzo a molte mani che fosse sufficientemente valido da arrivare alla pubblicazione con un editore di primo piano.
Ed è proprio a questo punto che il dubbio iniziale ne produce molti altri: possibile che a una simile profusione di forze e immaginazione collettiva debba seguire un risultato piccolo piccolo, cioè un romanzo sufficientemente valido da arrivare alla pubblicazione? E la scommessa, l’ambizione dei risultati? Dove differirebbe questo romanzo rispetto a quello scritto da un unico scrittore, nel numero dei suoi autori? E non è questo un modo per prestare il fianco al mercato piuttosto che alla letteratura? Non è che messa così, i 115 autori, evidenziati in grassetto, manipolati pubblicitariamente come un fenomeno da guinness dei primati, diventano un’arma del marketing e della promozione editoriale invece che un setaccio raffinatissimo delle ossessioni umane?
Io non so se riuscirei mai a partecipare a un progetto di scrittura collettiva. Mi sembra già così complicato, alle volte, allineare le parole in completa solitudine cercando il giusto modo di dire le cose. Mi sembra, alle volte, che il Grande Dittatore mi reclami a sé e che io non riesca fino a fondo a uscire dal suo guscio o, a mali estremi, rendere l’interno di quel guscio un mondo angusto però abitabile – di Ferdinand Céline, in fondo, ce n’è stato uno, e pochi come lui. Ma la scrittura collettiva, secondo me, se spinta al vertice delle sue possibilità, anche se tra mille complicazioni, ha modo di ovviare con molta più forza e decisione questo problema. C’è in gioco la possibilità di connettersi ancora più profondamente a tutto e ogni cosa. Anche se Atlantide, nell’orizzonte di questo articolo, è balenata davvero troppo poco in bella vista.
Quattro inni omerici minori
traduzioni isometre di Daniele Ventre
VI Ad Afrodite
La venerata, la bella, graziosa di serti, Afrodite
celebrerò, lei che i veli di Cipro la cinta dall’onde
tutta sortì, dove forza di Zefiro d’umido soffio
la trasportò sopra l’onda del mare dal vasto fragore,
sopra la morbida spuma: e le Ore dall’aurea corona
liete la accolsero e poi le diedero vesti incorrotte,
e sulla fronte immortale le misero un serto intrecciato
bello, dorato qual era, e ancora le misero fiori
in oricalco ed in oro pregiato sui lobi forati,
quindi il suo tenero collo ed anche il suo candido petto
con i monili tutt’oro ornarono, sì, con le stesse
gioie che le Ore dall’aurea corona hanno, quando alla danza
desiderata dei numi avanzano in casa del padre.
Dopo che le ebbero cinte con ogni ornamento le membra,
lei fra gli eterni condussero, e lieta accoglienza, al vederla,
essi le fecero, offrendo la destra, e bramarono tutti
farne la propria legittima sposa e condurla alle case,
per la beltà Citerea dai serti di viola ammirando.
Salve, soave di miele, tu, occhi-vivaci, tu dammi
che in quest’agone io consegua vittoria ed ispira il mio canto.
Sì io di te mi ricordo e così d’un’altra canzone.
diaforia: rivista, sito, progetto
[dia•foria è una rivista di arti e letteratura versiliese, nata alla fine del 2010 da un progetto di Daniele Poletti. Rivista è però un’etichetta di comodo, infatti ogni numero (finora ne sono usciti 9) è monografico e muta tipo-graficamente di volta in volta, per vestire meglio il contenuto che va ad affrontare. Mutevole e ampio è anche lo spettro di interessi del progetto, tale da abbracciare la cultura nel senso più ampio possibile.










