Pippo Delbono
Essere lì, col corpo
Durante certe repliche pomeridiane de “La menzogna”, al Teatro Argentina di Roma, con la platea e i palchetti pieni di abbonati, c’erano spettatori che protestavano, sbraitavano, inveivano, non capivano. E allora un giorno, nell’intervallo che spezza lo spettacolo, ho raccontato la storia di una cantante ebrea, che poco dopo la fine della guerra in Germania, di fronte allo scandalo provocato da un suo nudo sulla scena, disse rivolta al pubblico: “Ma come? È solo da due anni che sono finiti gli orrori dei campi di sterminio e nessuno dice niente, e voi fate tutto questo chiasso perché io mi spoglio nuda in scena?”
Ho anche raccontato la storia dell’africano Abdul Abba, che a Milano venne massacrato a bastonate per aver rubato dei biscotti. Quando andai al suo funerale non c’era nessuno, tutti i politici e gli intellettuali se ne sono infischiati di quel delitto. La cosa è scivolata via come se niente fosse, in modo osceno.
Quando ho riferito al pubblico questa storia è accaduto qualcosa di straordinario: alcuni spettatori si sono messi a piangere. Ma anche in un momento di emotività così forte il mio stare in mezzo alla platea non era psicologico, bensì sempre fisico. Ero dentro il mio ritmo, il mio sguardo, la mia voce. Ero interamente dentro la coscienza del mio corpo.
Danzare l’immobilità
La tua presenza, il tuo stare sulla scena, è sempre qualcosa che ha a che fare con lo stomaco e con il sensibilissimo centro del tuo corpo. Raggiungi quel punto di equilibrio che equivale a esercitarti con la sbarra nella danza classica.
In “Bandoneon”, di Pina Bausch, il danzatore Dominique Mercy sta seduto e fermo a lungo: osserva il pubblico. Il suo corpo è immoto. Eppure in lui c’è tutta l’energia della danza e dei suoi anti anni di lavoro sul corpo, senza alcuna psicologia. Io, tramite un altro percorso, sono approdato allo stesso risultato arrivando alla forza dello stare in piedi senza pensare. In quel momento esisto stando lì col corpo, con una presenza concretissima che corrisponde a uno stato di coscienza.
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La voce
Una volta a Parigi ho lavorato con alcuni giovani cantanti d’opera. Ho chiesto loro di cantare brani e di usare il corpo in modo totalmente opposto a quello derivato dal loro naturalismo. Il seminario durò una settimana. Poteva accadere che una cantante intonasse un brano anche conosciuto seduta su una seggiola, scoprendo una posizione diversa del corpo, con la testa bassa e le spalle rilassate, quindi con un corpo in qualche modo fragile, ferito. Ne risultava una voce incredibile. Diventava emozionante.
Lei è seduta, e tu vedi il corpo riconoscibile di una donna fragile, e a questo punto la sua voce urla la sua rabbia. È un’emozione, e l’emozione è sempre una contraddizione, al contrario della pateticità dell’emozione televisiva. L’emozione vera nasce sempre dal conflitto: sento una voce e voglio vedere un corpo che nega quella voce. So che si tratta di un lavoro difficile. Io capisco la difficoltà che ha la cantante, perché deve andare contro la propria emotività.
Per ogni attore tradizionale l’equazione è quasi sempre la seguente: voce violenta uguale corpo violento, oppure, se deve dire qualcosa di amoroso, la voce è amorosa e il corpo è amoroso. E l’attore pensa, in quel momento, di interpretare un personaggio amoroso.
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Teatro anti-borghese
Il teatro deve sollecitare qualcosa che ha a che fare con l’inconscio e con l’andare oltre le convenzioni della mente. Questo, secondo me, significa fare un teatro anti-borghese: andare nel profondo delle cose. Quando la tipica abbonata da teatro stabile mi chiede di “capire che cosa significa lo spettacolo”, credo che stia chiedendo all’arte le stesse convenzioni della più banale narrazione televisiva, nel senso che vuole essere garantita e rassicurata nel suo livello di comprensione più superficiale.
Quando si va nel corpo, si entra nelle ferite del corpo in una comprensione autentica del corpo, il risultato è radicalmente diverso: lo spettatore mette in gioco le sue emozioni, anche le più oscure. Questo, per me, è l’effetto politico che il corpo senza menzogna può produrre sulla scena.
Un giorno, facendo una lezione alla Scuola d’Arte, dissi ai ragazzi: quando andate a vedere un grande museo, mettiamo il Louvre, cinquanta o cinquecento sale, magari vorreste averle viste tutte, però non ce la fate, per voi è troppo. Provate una specie di senso di colpa culturale, sentite che manca qualcosa. Non esistono musei che espongono un solo quadro, e invece potrebbe essere meraviglioso. L’arte ha senso solo se la percepisci in profondità, se ti cambia qualcosa dentro. E allora sì che basta solo un quadro.
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Estratti da Pippo Delbono. Corpi senza mezogna. A cura di Leonetta Bentivoglio. Barbès: Firenze, 2009.
Immagini tratte dagli spettacoli della Compagnia Pippo Delbono: Dopo la battaglia (2011), Gente di plastica (2002), Menzogna (2008).




di Gianni Biondillo





Gian Piero Piretto, La vita privata degli oggetti sovietici – 25 storie da un altro mondo, 208 pagine, Sironi, 2012

Via via che la mia collaborazione con Tunué andrà solidificandosi, potrò parlare sempre meno dei suoi libri, il che è un peccato: se conoscevo già bene la casa editrice di Latina per il suo catalogo estero, nel quale spiccano capolavori come Rughe di Paco Roca o Perché ho ucciso Pierre di Alfred & Ka, sto scoprendo solo adesso la sua altrettanto interessante produzione italiana, nell’ambito della quale si va a inserire il nuovo progetto di adattamento di romanzi italiani recenti, la cui prima uscita è Il tempo materiale, fumetto di Luigi Ricca tratto dal romanzo omonimo di Giorgio Vasta, uscito per minimum fax nel 2008. La scelta, va da sé, è azzeccata: quando, quattro anni fa, per effetto dell’aver cominciato a scrivere, per così dire, “seriamente”, cominciai ad avvicinarmi anche alla letteratura italiana contemporanea dopo anni spesi soltanto su opere dei secoli scorsi, Il tempo materiale fu uno dei romanzi usciti in quel periodo che mi persuasero che anche qui e oggi si potevano fare cose ottime: che, insomma, valeva la pena. (Gli altri due erano Ultimo parallelo di Filippo Tuena e Puerto plata market di Aldo Nove, che non è del 2008, ma che comprai nella riedizione Einaudi Stile Libero di quell’anno, credendolo appena uscito).
alità della lingua, nel fumetto il fatto di averli sempre tutti e tre sott’occhio, lì disegnati, se da un lato limita le suddette dimensioni, dall’altro potenzia la vicenda sotto il profilo del crudo realismo, e ci si scopre a pensare “ma guarda che razza di piccoli, perfidi bastardi,” mentre li si guarda catturare Morana, “interrogarlo”, fotografarlo, ucciderlo, o a scuotere la testa di fronte alla messa in scena dei loro deliri ideologici.

