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Le censure e le tracce. Su “Critica dell’inespresso” di Marco Gatto

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di Nicola De Rosa

In un passo della Rhétorique générale, a partire da una problematizzazione della condanna mossa da Croce nei confronti della retorica, il Gruppo di Liegi discute la possibilità di concepire un suo impiego non faziosamente persuasivo, di convincimento dell’uditorio a un contenuto manifesto. È esistita ed esiste una retorica dalla funzione dissuasiva, censoria rispetto alla possibilità di attingere dal messaggio un contenuto latente[1].

Le implicazioni estetiche di questa ipotesi sono coraggiose quanto delicate: paventano la possibilità che, nell’opera d’arte a cui si riservi un certo giudizio di valore, il piano della forma non si allinei simbioticamente al contenuto da esprimere, bensì sia il luogo in cui quel contenuto, pur agitandosi per emergere, è soggetto a un qualche tipo di interdizione. La constatazione del sapore vagamente freudiano di quest’idea non basta a interpretare alcune esperienze critiche e teoriche che si incontrano nella concezione dell’opera come un contenitore profondo, da cui è possibile far riemergere le cicatrici di un inespresso. È a quest’interpretazione che punta l’ultimo libro di Marco Gatto, pubblicato per la collana «Elements» di Quodlibet.

Se, da una parte, gli autori passati in rassegna da Gatto condividono l’interesse per gli aspetti formali dell’opera d’arte, dall’altra, essi sono mossi da una forte istanza di storicizzazione delle forme, dal proposito di «storicizzare sempre»[2], come Fredric Jameson esordiva in The Political Unconscious, dalla coscienza della «radicale storicità della letteratura»[3], come invece ribadiva Juan Carlos Rodríguez. È quel movente storicistico che – soprattutto in Jameson adombrato dalla glossa althusseriana al Capitale marxiano, per cui la Storia è «causa assente»[4] attingibile essa stessa solo in forma testualizzata – non si traduce in una teoria del rispecchiamento, bensì nel tentativo di descrivere il rapporto, sì, mimetico, ma di compensazione, della letteratura rispetto alla realtà. Per quanto i dispositivi egemonici, di cui anche il testo letterario è in una certa misura agente, tendano a funzionare da dispositivi di normalizzazione e pacificazione di istanze conflittuali, il testo conserverebbe in un immanente campo di forze le tracce della contraddizione ideologica nella sua conflittualità.

Ma prima del Jameson a cui Gatto ha già dedicato lavori importanti, a fornire gli spunti per la prima sezione, oltre che per il titolo del libro, è il Gramsci lettore dell’episodio dantesco di Farinata e Cavalcante. Nei Quaderni, la categoria di «critica dell’inespresso» è formulata a partire da una riflessione, da leggere, anche qui, in dialettica con l’estetica crociana, sul dramma dell’epicureo: al momento dell’incontro con Dante e, quindi, durante la sua enunciazione discorsiva, poetica, Cavalcante, avveduto di passato e futuro, non può osservare il presente e non può sapere se il figlio Guido è in vita. Ma la sua tragedia è attingibile solo da quella che Croce, contrapponendola alla «poesia», definirebbe «struttura»[5], cioè dal momento didascalico di Farinata. Gatto evidenzia la radice anticrociana della riflessione di Gramsci, che tende a ricomporre il nesso tra struttura e poesia. Così, emerge l’idea che muove, in buona sostanza, l’argomentazione del libro nella sua interezza: «È, insomma, quella gramsciana, una visione del testo che, inevitabilmente, coincide con una critica dell’autonomia estetica o poetica […]: il momento strutturale e organizzativo, che rimanda alla sfera dell’operosità architettonica, svela ragioni che la rappresentazione poetica non riesce a esprimere. È in gioco, insomma, una possibile teoria del testo come luogo o deposito di ragioni profonde che riemergono dalla superficie testuale alla stregua di tracce»[6].

Tra i tanti spunti offerti dal libro – che attraversa, ad esempio, anche il problema di un’ermeneutica del profondo in Mimesis di Auerbach puntando a una ricognizione del concetto di realismo figurale –, sono molto appassionanti, e dense sul piano teoretico, le sezioni di sutura in cui si affrontano Walter Benjamin e Theodor Adorno, passando per Siegfried Kracauer; centrali sia sul piano materiale, in quanto poste al centro del libro, che simbolico. Stimolante è il modo in cui l’autore affronta il problema del «contenuto di verità» nel saggio di Benjamin sulle Affinità elettive, e quello dell’estetizzazione come schiacciamento allucinatorio delle mediazioni, dei conflittuali rapporti di “struttura”, intesa, stavolta, in senso marxiano. Gatto fa transitare la sua riflessione da Passagen-Werk ad alcuni spunti forniti dalla Teoria estetica, in particolare quelli sul «carattere d’enigma» dell’opera d’arte, che Adorno descrive in forma quasi aporetica: «l’arte diventa enigma perché si presenta come se avesse risolto ciò che nell’esistenza è enigma, mentre nel mero essente l’enigma è stato dimenticato»[7]. Oppure, per dirla con un altro passo icastico della Teoria estetica: «la forma estetica è […] la sintesi non violenta del disparato che comunque conserva quest’ultimo come ciò che è, nella sua divergenza e nelle sue contraddizioni, ed è pertanto effettivamente un dispiegarsi della verità»[8]. A nostro avviso, è in una interpretazione delle sezioni adorniane sul carattere d’enigma e sul contenuto di verità, e in un’agnizione delle fonti della sua riflessione, che si custodisce la chiave di volta del problema teoretico affrontato da Gatto, cioè quello relativo a come una certa generazione abbia pensato i rapporti fra opera d’arte, carattere utopico e falsa coscienza, intesa sia in senso marxiano che freudiano, nel senso, dunque, più generale della «scuola del sospetto», da cui avrebbero attinto anche altri autori affrontati nel libro, come Francesco Orlando, Fredric Jameson e Juan Carlos Rodríguez.

In Storia e coscienza di classe, in particolare nel saggio sulla Verdinglichung, la reificazione, Lukács scriveva: «una relazione tra persone riceve il carattere della cosalità e quindi un’“oggettività spettrale” che occulta nella sua legalità autonoma, rigorosa, apparente, conclusa e razionale, ogni traccia della propria essenza fondamentale: il rapporto tra uomini»[9]. Se ad estetizzarsi, e quindi ad occultare le mediazioni, è prima di tutto la merce, c’è un nesso estremamente ambiguo tra carattere di feticcio e spazio estetico, perché il funzionamento dell’opera d’arte gli assomiglia per qualche verso: oltre a persuadere, sospendere l’incredulità, sposta, strania, defamiliarizza le mediazioni, i rapporti non solo strutturali ma anche ideologici che hanno contribuito a produrla. La grande scommessa del critico è che, però, quello straniamento sia arricchente, che aggiunga qualcosa, e che le tracce di quelle mediazioni siano conservate da qualche parte, come un fantasma, come un eidolon.

Soprattutto per quanto riguarda tre autori come Orlando, Jameson e Rodríguez, le ipotesi di interazione fra queste esperienze teorico-critiche – ricostruite da Gatto seppur in forma sintetica –, meriterebbero una valutazione approfondita. Gatto, da questo punto di vista, fonda solide basi per interpretare la loro posizione storica sondandone le possibili interazioni con un milieu culturale più ampio. Se Orlando è più orientato a pensare il testo come dispositivo di affrancamento dall’egemonia, Jameson come dispositivo di risoluzione immaginaria del conflitto reale, Rodríguez oscillante fra le due prospettive, tutti e tre hanno condiviso la comune matrice teoretica nell’eredità della scuola del sospetto.

Il libro di Gatto ci rammenta anche la necessità di storicizzare le produzioni discorsive di tipo teorico, con una postura atta a descriverne le costruzioni concettuali sul piano delle loro implicazioni ideologiche, a partire dall’idea che un testo argomentativo parli sempre a degli interlocutori dialettici impliciti. È forse questo un punto su cui dovrebbe indugiare in modo circospetto qualsiasi studio che affronti le modalità attraverso cui la storia delle idee ha pensato la domanda sartriana: qu’est-ce que la littérature? Tale studio dovrebbe forse evitare di incorrere nel rischio dell’argomentazione ‘a tesi’, di presentare la teoria come ciò in cui si crede e ciò che in modo consequenziale va applicato in sede di analisi testuale; e aggredire, invece, le produzioni teoriche con un approccio ermeneutico che le riconduca alla loro dimensione storica, facendo emergere le istanze culturali che hanno contribuito a dar loro forma. Questo è, d’altronde, l’insegnamento dello stesso Jameson più gadameriano, del Jameson che utilizza, ad esempio, la tradizione strutturalista passandola a contropelo dialetticamente.

Uno dei motivi d’importanza della pubblicazione di Critica dell’inespresso è certamente quello di colmare uno spazio ancora aperto nel dibattito sulla fase di implosione dell’utopia – enunciata da Roland Barthes in Critique et vérité – della «scienza della letteratura» nelle sue evoluzioni post-strutturali e decostruttive, isolando le proposte teoriche di una serie di autori che hanno affrontato il problema con soluzioni originali. Il libro di Gatto mette in luce le implicazioni di un gesto ermeneutico teso a isolare l’emersione di una contraddizione storico-ideologica, del depositum historiæ fortiniano, a cui Gatto dedica l’ultima sezione del libro, che non è custodita nel piano meramente tematico, non risiede in cosa la letteratura tematizza oppure no, bensì in come il contenuto è espresso o meno, nella morphé, nelle forme attraverso cui il contenuto si organizza. La produzione di molti autori osservati da Gatto è animata da un’urgenza cruciale per chi agiva in una fase, anch’essa, di grande conflittualità ideologica: approfondire, a partire dalla polarizzazione marxiana fra struttura e sovrastruttura, i meccanismi di reciproca interazione fra il livello dei rapporti di forza reali e quello della loro sublimazione nelle pratiche discorsive della cultura. Urgenza che trovava ulteriori tentativi di rielaborazione nell’interpretazione che un autore come Althusser – ma in una certa misura anche il Bourdieu che approfondiva le «forme di capitale» – forniva del campo concettuale di ideologia. La posizione storica di alcuni degli autori liminari chiamati in causa da Gatto, quelli riuniti attorno alla temperie culturale tra gli anni ’70 e ’80, è riconducibile sicuramente a un’urgenza di originale risposta alle apprensioni per l’arretramento o, come sarebbe stata definita, la «crisi», l’«eutanasia» dei grandi modelli novecenteschi di interpretazione della letteratura e del mondo[10]. In alcuni di loro è palpabile la dialettica con la voragine gnoseologica aperta dalle progressive evoluzioni decostruttive del pensiero letterario negli ultimi decenni del Novecento, che accogliesse però, in una certa misura, la lezione sul conflitto delle interpretazioni, declinandola come un portare fuori il conflitto. L’urgenza e la pertinenza storica di queste esperienze teoriche è ricostruita da Gatto con l’accortezza che fa di Critica dell’inespresso uno strumento atteso e innovativo.

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[1] Cfr. Gruppo μ, Retorica generale. Le figure della comunicazione [1970], Milano, Bompiani, 1976, p. 193: «Croce, Breton e i loro seguaci sarebbero senz’altro insorti meno violentemente contro l’imperativo retorico se la retorica avesse rinunciato ad essere imperativa. Quando essa si confondeva con l’arte di parlare e di scrivere, la sua funzione era di prescrivere e proscrivere. Ma è possibile anche una retorica che non dia alcun consiglio al locutore e allo scrittore e il cui fine sia di trovare in un discorso che gli psicoanalisti chiamerebbero “manifesto” dei significati “latenti” suggeriti e ripudiati dalla metabola».

[2] F. Jameson, The Political Unconscious. Narrative as a Social Symbolic Act (1981), London, Routledge, 2002, p. 9, trad. mia.

[3] J.C. Rodríguez, De qué hablamos cuando hablamos de marxismo. Teoría, literatura y realidad histórica, Madrid, Akal, 2013, p. 72, trad. mia.

[4] Cfr. L. Althusser [et al.], Leggere il Capitale [1965], Milano-Udine, Mimesis, 2006, p. 270; F. Jameson, The Political Unconscious, cit., p. 67, trad. mia.

[5] B. Croce, La poesia di Dante, Bari, Laterza, 1921, p. 68.

[6] M. Gatto, Critica dell’inespresso. Letteratura e insconscio sociale, Macerata, Quodlibet, 2023, p. 26.

[7] Th.W. Adorno, Teoria estetica [1970], Torino, Einaudi, 2009, p. 170.

[8] Ivi, pp. 192-93.

[9] G. Lukács, Storia e coscienza di classe [1923], Milano, SugarCo, 1991, p. 108.

[10] Cfr. C. Segre, Notizie dalla crisi. Dova va la critica letteraria?, Torino, Einaudi, 1993 e M. Lavagetto, Eutanasia della critica, Torino, Einaudi, 2005.

Il secondo romanzo sul calcio che leggo

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di Marco Drago

Sono un lettore ingenuo, cerco strenuamente di conservarmi tale, leggo per divertirmi, per passare il tempo, per ammirare la capacità degli autori di raccontare storie nei modi più diversi. Oltretutto ho così tante lacune (i russi, i sudamericani, gli antichi) che spesso mi entusiasmo per libri che poi scopro essere opere epigonali di qualche russo, sudamericano o antico. Faccio questa premessa per parlare del romanzo “Sporca faccenda, mezzala Morettini”  di Marco Ferrari e Marino Magliani (Blu Atlantide, 2024) proprio perché mi ha entusiasmato. Il mio è un entusiasmo genuino, privo di consapevolezza, l’entusiasmo di un lettore qualsiasi, non quella di un lettore forte. Credo sia il secondo romanzo sul calcio che leggo (il primo furono i racconti di 10 di Dario Voltolini) ed è quasi sicuramente il primo romanzo che leggo con un’ambientazione argentina (ma forse qualche remoto libro di Magliani con l’Argentina l’ho letto una quindicina d’anni fa, chi si ricorda più?). E dunque ho trovato sia l’aspetto calcistico sia quello argentino, per me assolute novità, entusiasmanti. Ho riso molto, mi sono commosso, ho strabuzzato gli occhi e trattenuto il respiro, cosa chiedere di più?
In certi momenti mi pareva di leggere un vecchio giallo di Sanantonio, quel tipo di comicità grottesca anni ‘60 che non accenna a invecchiare, resta sempre fresca come quando è stata creata, una specie di miracoloso procedimento di messa sottovuoto che mantiene intatti sapori ed effluvi originari.
In certi altri momenti ecco Magliani con il suo incedere conradiano, quel suo girare a vuoto della coscienza, quel suo continuo tentativo di afferrare l’inafferrabile. La combinazione di due autori così diversi tra loro risulta vincente: difficile capire dove finisce l’uno e comincia l’altro, ma l’istinto mi dice che la sceneggiatura sia di Ferrari e le matite siano invece di Magliani e, proprio come in un fumetto, anche in questo romanzo è impossibile separare l’una dalle altre. Che cosa leggiamo quando leggiamo un fumetto? Le parole nei balloon o le tavole disegnate? Tutto e niente, niente e tutto, e così succede anche con Sporca faccenda, mezzala Morettini, la vicenda ci tiene ancorati tanto quanto la lingua che la racconta, e la vicenda ha a che fare con i primi vagiti della dittatura fascista in Argentina, con il mestiere di procuratore di calciatori, con la mezza sparizione di una mezzala, con uno scandalo finanziario che colpisce una squadra di calcio di Genova, con le A di Amore e Anarchia.
C’è tanta sapienza, dietro questo romanzo. E tanta passione coltivata bene.

Autenticità e poesia contemporanea # 3

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Di Marilena Renda

In un mondo sempre più complesso e stratificato ha senso tornare a discutere, in modo aperto, critico e libero, del rapporto fra autenticità e scrittura poetica. Per questo, partendo da una ricerca di Maria Borio e da un dialogo fra quest’ultima e Laura Di Corcia, è nata l’idea di allargare la discussione ad altre poete e poeti, in vista di una tavola rotonda che si terrà a Pordenonelegge il prossimo settembre. Il dibattito, sotto forma di intervista, sarà ospitato dai litblog Le parole e le cose, Nazione indiana e dal sito di Pordenonelegge stesso. A poete e poeti è stato proposto un questionario, che trovate in calce, da cui ciascuno ha potuto scegliere liberamente tre/quattro domande. Dopo il primo intervento di Roberto Cescon, uscito su Le parole e le cose e quello di Tommaso Di Dio, uscito su Pordenonelegge poesia, pubblichiamo oggi le risposte di Marilena Renda.

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  1. Il pensiero debole e il conseguente ragionamento sul soggetto debole ha messo in crisi il concetto di verità. Ma a partire dal crollo delle Torri Gemelle questa prospettiva è stata posta notevolmente in discussione: l’idea di essere al di là della storia, dei conflitti fra superpotenze o schieramenti, si è frantumata di fronte alla certezza, oggi ancora più evidente, che la tragedia può esistere davvero sulla scena del mondo e rompere la cortina fra noi – occidentali – e gli altri. Da questi assunti sono partite una serie di riflessioni, fra cui quelle di Maurizio Ferraris e Walter Siti, che postulavano breviter l’impossibilità delle poetiche del realismo e della fiction in un momento in cui la vita sembra superare la finzione. Tutto ciò chiama in causa una responsabilità rispetto ad alcuni fenomeni storici verso i quali il pensiero debole sembrerebbe non fornire più le risposte adeguate per la decodificazione della realtà. Questi fenomeni avrebbero portato l’attenzione anche sull’importanza dell’autenticità. Cosa ne pensi? E come pensi che questi ragionamenti possano o debbano essere integrati in una riflessione sulla poesia?

Qualche anno fa uscì un libro che postulava l’assenza di trauma nella letteratura di quegli anni e al tempo stesso il tentativo da parte degli scrittori di rivendicarlo come fondante della loro scrittura. Credo che quelli siano stati gli ultimi anni di quel lungo periodo di pace e benessere iniziato con il secondo dopoguerra. Siamo nel bel mezzo di due conflitti sanguinosi e dolorosissimi a cui non possiamo rimanere indifferenti; siamo governati da una forza politica post-fascista che minaccia alcuni diritti fondamentali conquistati dalle donne; siamo nel mezzo di una catastrofe climatica che la nostra classe politica ma anche l’opinione pubblica cercano ostinatamente di ignorare. Siamo, cioè, nel bel mezzo della storia, altro che scomparsa del trauma. La poesia, dal mio punto di vista, deve trovare nuovi strumenti espressivi per inglobare tutto questo, se non vuole continuare ad essere marginale.

  1. Partendo dal ragionamento precedente, se il desiderio viene dall’altro ed è quindi la traccia di una relazione o di un linguaggio che mi pre-esiste e dentro il quale oriento e contratto la mia identità, in cosa consisterebbe l’autenticità? E come essa potrebbe essere calata in una produzione letteraria? Per Andrea Zanzotto, ad esempio, a fronte di una natura che diventava inautentica con l’industrializzazione, la lingua e lo stile potevano mantenersi depositari dell’autentico. Lo stile e la lingua autentici dovrebbero cercare in ogni caso un nostro – per riprendere Natalia Ginzburg – “lessico familiare”?

In poesia, è impossibile trascurare un elemento a favore di un altro, nel senso che tutti gli elementi che la compongono sono ugualmente essenziali. Rendersi conto dell’importanza della forma, per esempio, o dell’importanza del suono o del ritmo, o del ruolo che può assumere l’aspetto grafico o il lavoro sulla voce, sono processi che indicano un potenziamento dell’attenzione, e quindi, dell’autenticità del lavoro poetico. Per quanto mi riguarda, ci sono degli indicatori di autenticità, a prescindere dall’argomento o dalla poetica di chi scrive. Credo che l’indicatore più importante per me sia quando mi rendo conto che chi ha scritto quel testo non si è tirato indietro rispetto alla sfida del linguaggio. Non si è tirato indietro può voler dire tante cose: non si è spaventato rispetto a quello che aveva da dire, o rispetto a come sarebbe stato recepito, o rispetto a dove la sua voce poetica avrebbe potuto portarlo/a, e così via. Per esempio, mi fido per istinto di un/a poeta che si trasforma, anche molto, da un libro a un altro, che sperimenta, che non ha paura di trasformarsi insomma: la ricerca dell’autenticità, per me, passa soprattutto da lì.

  1. Il discorso sulla verità e sull’autenticità sembra essere tornato in auge, specialmente nel romanzo e in quel segmento della narrativa che corrisponde all’autofiction. Se torniamo per un attimo alla stagione del neorealismo, troviamo scrittrici come Elsa Morante per la quale il romanzo realista parlava di una “verità poetica”, non meramente oggettiva, ma intrinseca alla trasfigurazione letteraria. Nell’autofiction odierna, come in alcuni dei romanzi autobiografici di Annie Ernaux, sembra non esserci né l’intento di problematizzare davvero il parlare di sé in modo autentico, né di cercare una “verità poetica”. E come si posiziona la poesia in questo contesto? Mancano delle riflessioni? Ve ne sono troppe? Occorrerebbe postularne altre?

Lo statuto della verità è un’altra questione molto interessante. Personalmente non amo l’espressione “verità poetica”, ma solo perché mi avvicino al linguaggio poetico sempre con una grande cautela, e la verità poetica mi sembra un oggetto talmente caustico che potrebbe farmi del male. Detto questo, la verità dell’esperienza la si può trovare praticamente dappertutto, dalle notizie di cronaca ai racconti dei vicini d’autobus, se si è disponibili e nello stato d’animo giusto per recepire i frammenti di verità in cui ci si può imbattere, e che di solito corrispondono alla verità più grande che si sta cercando in quel momento. Personalmente trovo molta più verità poetica nei saggi e nei romanzi che nella poesia, e più ancora nella forma del saggio narrativo; ci trovo spesso una verità al grado zero, non inquinata dagli sfarfallii e dalle sovrastrutture estetiche che spesso usiamo per raccontare la verità con il risultato a volte di evitarla, di nasconderla. Questo vale anche per la poesia: mi attraggono molto, per esempio, le ultime scritture, gli ultimi libri, o quelli che potrebbero per la loro natura scabra essere degli ultimi libri anche se di fatto non lo sono. Sono libri asciutti, che badano all’essenziale, e che rappresentano per me una direzione da seguire. Esempi: Chiodi (che non è un ultimo libro ma potrebbe esserlo) di Agota Kristof, la Ingeborg Bachmann di Non conosco mondo migliore, o ancora Pallottoliere celeste di Spaziani, o Epitaffio di Giorgio Bassani: tutti libri in cui tutto quello che doveva essere stato sottratto è stato sottratto. Libri in cui, come scrive Pusterla nella prefazione a Chiodi, ci si avvicina “alla cosa per la quale non c’è parola”, qualunque essa sia. O, aggiungerei, ci si avvicina alla cosa alla quale non siamo riusciti ad avvicinarci fino a quel momento, qualunque essa sia, e la cui ricerca richiede uno sforzo di precisione, di concentrazione, di attenzione e autenticità che va a crescere con il tempo, non certo a diminuire.

  1. Che rapporto c’è tra scrittura confessionale e autenticità? L’autenticità può essere connessa solo alla lirica, concentrata quindi intensivamente sul soggetto, oppure ad altro? L’etimologia di autentico, d’altra parte, deriva dal greco αὐϑέντης, composto autos (me stesso) e hentes (colui che agisce): autentico è chi agisce secondo il suo vero sé. Ma l’azione, per realizzarsi, presuppone un contesto e la possibilità di interazione con gli altri, senza i quali nemmeno la nostra identità riuscirebbe a costituirsi. La prova dell’autenticità, alla fine, avverrebbe comunque in un orizzonte intersoggettivo… – e, quindi, l’espressione (autentica) di sé, da parte del poeta, come può interessare la collettività?

Il problema dell’autenticità – perché è chiaro che se ne stiamo parlando è perché fa problema – è che negli ultimi decenni è stata identificata con il genere lirico, e quindi in apparenza si attaglia perfettamente all’immagine del poeta che “agisce secondo sé”, immobile sul divano, cercando l’adesione perfetta della parola alle istanze della sua interiorità. In questa descrizione, l’unica parte in cui mi identifico è quella del divano. Per il resto, propongo di separare l’autenticità dalla lirica, perché è un accostamento che potrebbe esserle fatale. Sa di abusato, quasi come i tramonti e i gabbiani. Una volta che l’abbiamo estrapolato da quell’ambito, personalmente io vedo il concetto di autenticità circonfuso da un’aura di libertà, come quando scopriamo che non è poi così necessario compiacere gli altri, oppure che la nostra scrittura può andare letteralmente in innumerevoli direzioni. Posta la questione in questi termini, io non vedo l’”agire secondo il proprio sé” come separato dall’orizzonte degli altri, anzi. È solo agendo secondo il proprio vero sé che è possibile vivere l’unica vita possibile, oltre che scrivere l’unica poesia possibile. La possibilità di incontrare gli altri può darsi o non darsi, ma in ogni caso se vivessimo o scrivessimo secondo dei dettati esterni, incontreremmo gli altri secondo modalità fondamentalmente inautentiche. Quindi, per me, nell’idea di autentico c’è comunque un guadagno, anche se l’autenticità dovesse avere come prezzo la non-popolarità o l’isolamento. In realtà, come dimostra la narrativa degli ultimi anni, ciò che è vero o suona-come-vero incontra sempre dei lettori: sono sempre più numerosi i lettori, come me, sostanzialmente indifferenti alla fiction e avidi invece di quella forma a metà tra saggio e narrativa che promette qualcosa-di-vero. Personalmente, questo è ciò che da qualche anno ho iniziato a chiedere alla poesia, anche alla mia: uno sforzo per portare il linguaggio in un territorio dove l’esperienza, e con essa, il suo rimosso possano essere detti con più esattezza – un’esattezza più vicina alla forma narrativo/saggistica piuttosto che a ciò che tradizionalmente consideriamo come “poetico”. La speranza è che ciò che “io” considero autentico sia riconosciuto come tale anche da una comunità di lettori, ma questo accade sempre con un’esperienza sempre minoritaria come è la poesia.

Vorrei chiudere citando quello che dice Ben Lerner a proposito della possibilità di una poesia realmente autentica, che lui identifica con una poesia che è sostanzialmente all’altezza di se stessa e delle sue ambizioni. Una poesia del genere è, dice Lerner in Odiare la poesia, impossibile, ma comunque non importa, perché anche se non riusciamo a creare una poesia autentica, possiamo comunque creare “uno spazio per l’autenticità”.

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Questionario completo

 

  1. Il pensiero debole e il conseguente ragionamento sul soggetto debole ha messo in crisi il concetto di verità. Ma a partire dal crollo delle Torri Gemelle questa prospettiva è stata posta notevolmente in discussione: l’idea di essere al di là della storia, dei conflitti fra superpotenze o schieramenti, si è frantumata di fronte alla certezza, oggi ancora più evidente, che la tragedia può esistere davvero sulla scena del mondo e rompere la cortina fra noi – occidentali – e gli altri. Da questi assunti sono partite una serie di riflessioni, fra cui quelle di Maurizio Ferraris e Walter Siti, che postulavano breviter l’impossibilità delle poetiche del realismo e della fiction in un momento in cui la vita sembra superare la finzione. Tutto ciò chiama in causa una responsabilità rispetto ad alcuni fenomeni storici verso i quali il pensiero debole sembrerebbe non fornire più le risposte adeguate per la decodificazione della realtà. Questi fenomeni avrebbero portato l’attenzione anche sull’importanza dell’autenticità. Cosa ne pensi? E come pensi che questi ragionamenti possano o debbano essere integrati in una riflessione sulla poesia?

 

  1. L’autenticità – dall’età romantica all’esistenzialismo – è stata cruciale per la formazione dell’individualità moderna: il mondo interiore diventava imprescindibile nella comprensione del reale al posto dei sistemi generali aprioristici del passato. Giacomo Leopardi distingueva il “vero” dall’“affettazione”. La letteratura ha progressivamente abbandonato la rappresentazione della vita secondo forme fisse universali, concentrandosi su quella, complessa e variegata, della coscienza. L’autenticità è stata un ideale: avrebbe dato senso all’esistenza, sarebbe stata una via d’accesso alla verità o quanto meno ci avrebbe aiutato a individuare dei significati per l’umanità nella storia. Questo suo carattere, come ha notato fra gli altri Charles Taylor, si è perso. Essere autentici avrebbe portato a giustificare solo le scelte e l’espressione dei singoli, a guardare prevalentemente al proprio interesse esasperandolo, a dimenticare che l’orizzonte della storia è importante e non aleatorio, così come un’etica nella società. Ci avrebbe chiuso, in modo nichilista, nelle nostre monadi, nella prigione di noi stessi, mentre i rapporti sociali sarebbero degenerati in una neutralità relativistica. Anche la letteratura, allora, è arrivata al punto di non poter più credere al valore dell’autenticità. Ma per chi fa letteratura oggi è importante interrogare l’autenticità come un problema?

 

  1. L’autenticità sembra distinguersi dalla verità: la prima partirebbe da una spinta interiore, dalla necessità individuale di poter esistere e agire secondo il proprio sé, mentre la seconda sarebbe legata a un orizzonte esterno, dal momento che il discorso della verità deve comunque poter essere condiviso. Seguendo, però, le riflessioni che abbiamo ereditato da Jacques Lacan, il desiderio presenterebbe un duplice volto, ovvero giungerebbe sempre dall’altro (il Grande altro), ma manterrebbe anche delle sue caratteristiche intrinseche (il desiderio è anche mio, e di nessun altro). Che rapporto c’è fra desiderio e autenticità?

 

  1. Partendo dal ragionamento precedente, se il desiderio viene dall’altro ed è quindi la traccia di una relazione o di un linguaggio che mi pre-esiste e dentro il quale oriento e contratto la mia identità, in cosa consisterebbe l’autenticità? E come essa potrebbe essere calata in una produzione letteraria? Per Andrea Zanzotto, ad esempio, a fronte di una natura che diventava inautentica con l’industrializzazione, la lingua e lo stile potevano mantenersi depositari dell’autentico. Lo stile e la lingua autentici dovrebbero cercare in ogni caso un nostro – per riprendere Natalia Ginzburg – “lessico familiare”?

 

  1. Il discorso sulla verità e sull’autenticità sembra essere tornato in auge, specialmente nel romanzo e in quel segmento della narrativa che corrisponde all’autofiction. Se torniamo per un attimo alla stagione del neorealismo, troviamo scrittrici come Elsa Morante per la quale il romanzo realista parlava di una “verità poetica”, non meramente oggettiva, ma intrinseca alla trasfigurazione letteraria. Nell’autofiction odierna, come in alcuni dei romanzi autobiografici di Annie Ernaux, sembra non esserci né l’intento di problematizzare davvero il parlare di sé in modo autentico, né di cercare una “verità poetica”. E come si posiziona la poesia in questo contesto? Mancano delle riflessioni? Ve ne sono troppe? Occorrerebbe postularne altre?

 

  1. scrittori e le scrittrici che si consideravano realisti sembravano dare credito al valore dell’autenticità (anche dal punto di vista ideologico) e basavano su di essa l’arte del narrare, la fiction. Successivamente, soprattutto nella cultura postmoderna, chi faceva fiction ha respinto l’idea che si potesse raccontare di qualcosa di autentico. Ma, come scriveva Giovanni Giudici, “anche dalla finzione […] il vero può nascere”. Oggi la narrativa – con le scritture-documentario, la non-fiction, e la stessa autofiction – sembra aver riscoperto l’autenticità voltando le spalle alla fiction, alla narrazione come arte? E in poesia esiste una dimensione – diversa sia dalla non-fiction sia dalla autofiction – in cui, anche attraverso l’immaginazione, si potrebbe esprimere una forma di autenticità?

 

  1. Che rapporto c’è tra scrittura confessionale e autenticità? L’autenticità può essere connessa solo alla lirica, concentrata quindi intensivamente sul soggetto, oppure ad altro? L’etimologia di autentico, d’altra parte, deriva dal greco αὐϑέντης, composto autos (me stesso) e hentes (colui che agisce): autentico è chi agisce secondo il suo vero sé. Ma l’azione, per realizzarsi, presuppone un contesto e la possibilità di interazione con gli altri, senza i quali nemmeno la nostra identità riuscirebbe a costituirsi. La prova dell’autenticità, alla fine, avverrebbe comunque in un orizzonte intersoggettivo… – e, quindi, l’espressione (autentica) di sé, da parte del poeta, come può interessare la collettività?

 

  1. Utilizzando il filtro problematico dell’autenticità, credi che le dicotomie che riguardano la postura del soggetto in poesia possano essere ripensate o ristrutturate?

 

  1. Il parlar franco è stato per secoli guardato con sospetto nella dimensione letteraria. Ma dai tempi di Niccolò Machiavelli e Baldassar Castiglione a quelli di Pier Paolo Pasolini, la rivoluzione percettiva e antropologica è stata tale che si è arrivati a dare all’autenticità un posto ben diverso. Per Pasolini il parlar franco era la spia dell’integrità politica – anche in letteratura. E il parlar franco si può esprimente tanto in modo tragico quanto ironico. Una riflessione etica connessa all’autenticità dà un valore aggiunto a un testo letterario?

 

  1. In letteratura l’onestà – come il tema della “poesia onesta” caro a Umberto Saba – può andare di pari passo con il valore estetico?

 

  1. Quando scrivi, nel momento in cui prende spazio l’elaborazione del testo, hai di fronte queste prospettive? E se sì, in che modo influenzano il tuo lavoro?

 

 

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Immagine: Max Pechstein, Ragazza sdraiata, 1910

 

Ali per essere libere: “Una terra per restare” di Jadd Hilal

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di Daniele Ruini

 

Valorizzare la cultura e la letteratura mediterranee è la missione meritoria della casa editrice pisana Astarte, e la pubblicazione del romanzo di Jadd Hilal Una terra per restare (traduzione di Giulia Beatrice Filpi) rappresenta, a tale riguardo, un contributo particolarmente prezioso. Uscito originariamente in Francia nel 2018 col titolo Des ailes au loin, si tratta di un testo che attraversa 80 anni di storia mediorientale raccontando, con una scrittura intima e asciutta, vicende umane alle prese con questioni a dir poco complesse, come guerre, migrazioni forzate e le prevaricazioni tipiche di una società maschilista.

Nato in Francia nel 1987 ma di origini libano-palestinesi, Jadd Hilal costruisce il suo romanzo sulla successione e l’incrocio delle voci di quattro donne appartenenti a quattro generazioni della stessa famiglia: Naima, Ema, Dara e Lila. Si tratta di donne tenaci che condividono lo stesso destino di esilio obbligato dalla propria terra, una separazione dolorosa compiuta soprattutto per difendere i figli dalla violenza della guerra.

Il fatto di vivere in epoche diverse incide naturalmente sulla sorte delle protagoniste: se Naima, nata in Palestina nel 1930, è obbligata dai genitori a un matrimonio forzato all’età di 12 anni, la sua primogenita Ema avrà la forza di ribellarsi al padre e di determinare il suo futuro: studierà, diventerà un’attivista del partito comunista del Libano (dove la madre si era trasferita per fuggire agli attentati sionisti) e sposerà in matrimonio civile un uomo che condivide le sue battaglie. Tuttavia anche lei si scontrerà con la necessità della fuga dal proprio paese (in seguito all’invasione israeliana del 1982) e con le difficoltà di una condizione femminile che non fa sconti, tra una maternità non desiderata e una posizione di sottomissione nei confronti del marito.

E il medesimo schema si ripete anche nella figlia di Ema, Dara, che vive con imbarazzo la sua posizione di cittadina libanese privilegiata, visto che i suoi genitori, entrambi laureati, lavorano per le Nazioni Unite e possono quindi lasciare il paese con minori difficoltà rispetto alla maggior parte della popolazione. Sarà forse per questo che a 18 anni deciderà di tornare in Libano, dove sposerà un uomo di condizione sociale inferiore alla sua col quale andrà a vivere in un villaggio di montagna. Tuttavia lo scoppio del secondo conflitto israelo-palestinese nel 2006 costringerà anche lei, suo malgrado, a una nuova fuga verso la Francia, dove vive la madre: una scelta che, anche in questo caso, porterà a uno scontro irreparabile con il marito.

Quello della prevaricazione maschile è uno dei fili rossi che legano le vite di queste donne: di fronte alla loro decisione di scappare dalla guerra per proteggere i figli, gli uomini reagiscono con rabbia, dando priorità alla difesa della propria terra. Si tratta di un richiamo atavico con il quale Jadd Hilal sembra volerci dire che, in una società violenta, nemmeno i maschi sono davvero liberi di scegliere, obbligati anch’essi a incarnare ruoli predefiniti. In questo senso la storia raccontata dall’autore francese rievoca schemi narrativi ancestrali: per esempio quando Naima rivela di aver dovuto vestire uno dei suoi nipoti da femmina per proteggerlo dai controlli dei miliziani durante l’invasione israeliana, viene in mente quanto accaduto al giovane Achille: secondo una leggenda post-omerica (citata nell’Achilleide di Stazio e nelle Metamorfosi di Ovidio) la madre Teti, ascoltata la profezia che annunciava la futura morte del figlio nella guerra di Troia, cercò di risparmiarlo travestendolo da donna e nascondendolo alla corte di Licomede, sull’isola di Sciro (dove sarà furbescamente scovato da Ulisse). E lo stesso non si ripete anche oggi da parte di quelle madri ucraine che, nei territori occupati, cercano disperatamente di nascondere i propri figli per tenerli al riparo dalle scuole di propaganda e “rieducazione” russa?

Aperto e chiuso significativamente dal sogno di librarsi in volo (condiviso dalla Naima bambina e dalla giovane Lila), Una terra per restare insegue continuamente gli spostamenti delle protagoniste, spaziando dalla Haifa degli anni ’30 (durante il Mandato britannico sulla Palestina) a varie località del Libano, fino a Baghdad, Abu Dhabi e all’Europa delle organizzazioni internazionali dell’area ginevrina. Tra partenze e ritorni, Naima, Ema, Dara e Lila non smettono di ripensare ai luoghi che hanno dovuto abbandonare: la loro ricerca di libertà si porta dietro sempre un pesante sentimento di nostalgia, al punto che il raggiungimento di una vita più comoda e sicura fa crescere in loro il rimpianto dei luoghi d’origine, tanto modesti e disordinati quanto generosi e «dove non si aveva paura di perdere né di donare».

Se, come dice Ema, «odiare significa impedirsi di essere l’altro», il romanzo di Jadd Hilal, mettendo al centro i sentimenti di personaggi che sono stati costretti a partire, ci sollecita invece a metterci nei panni degli altri e ad aprirci alle ragioni dei popoli oppressi. Un invito non da poco, davvero.

 

Elisa fa saltare i tappi

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di Laura Scaramozzino

Elisa fa saltare i tappi o ci fa le spille. Prima si china e fruga tra gli sterpi. L’odore di merda pizzica il naso. Le cicale friniscono e graffiano i timpani. Il cielo è uno schiaffo azzurro sulla fiumana. C’è puzza di sudore, di gomma bruciata e di albicocche pestate.

«Eccolo». Elisa si solleva e ci mostra un rametto secco. Lo tiene fra l’indice e il pollice da cui sfarina una polvere scura.

Ci curviamo fra gli steli e le lattine schiacciate. Una vedova nera si apre un varco sulla terra rossa, libera dall’immondizia. Luccica. L’identica polpa di un’oliva succosa.

Trovo rametti scheggiati che si sbriciolano e macchiano i polpastrelli. Li getto fra i fazzoletti di carta appallottolati e le bottigliette vuote della Peroni. Mi piego sulle ginocchia. Le cosce tirano, il sudore cola sulla schiena e sotto il cappello di cotone azzurro. Elisa sbuffa. Antonio e Francesca ridono e bisbigliano uno nell’orecchio dell’altra.

«Siete i soliti deficienti. Come le facciamo le spille se non troviamo i rametti giusti?» Elisa ha le labbra gonfie. Il corpo è quello dei grandi. Senza le tette, ma con le gambe lunghe e i piedi larghi. L’odore cattivo trasuda dalle scarpe da tennis. È acido. Simile a quello delle mele gettate e rattrappite fra cui fingo di cercare.

Francesca e Antonio si guardano e piegano il capo come fanno i piccioni sugli slarghi delle piazze. «Siamo stufi dei tappi». Dice Francesca. «E questo posto è un inferno. Torniamo giù».

«Siete i soliti coglioni». Elisa infila il suo rametto sul retro del tappo. Lo incastra fra i piccoli denti intatti. Se qualcuno di noi trova tappi non integri ci fissa torva. Bollicine di saliva le arrossano il labbro.

Ha le mani grassocce, Elisa. Umide. Le osservo. I pori dilatati. Le unghie brune e mangiucchiate. Immagino il sapore di cheratina e terra. Salino, di patatina in busta.

«Guardate che bella, la mia spilla». Elisa solleva il tappo rosso in modo che il sole lo colpisca e lo faccia baluginare. Non se lo appunta sulla maglietta, lo mette in tasca. Stringe gli occhi e si tocca il mento. Si avvicina ad Antonio e alla sorella. Fa la stessa cosa che un minuto prima l’aveva fatta incazzare. Bisbiglia, sussurra. Le labbra scarlatte come il tappo sfavillante.

Antonio e Francesca annuiscono e mi vengono incontro. L’idea delle patatine mi ha riempito di saliva il palato. Penso al pranzo, all’olio che sembra arancione. Alle olive e alle mele che cadono dagli alberi piccoli. Alle albicocche che seccano al sole. Al cibo prima che marcisca e si consumi tra i rifiuti. Penso al pieno dei sapori e dell’età che intravedo nei busti slanciati dei più grandi. Otto anni contro dodici. Un tempo infinito, più lungo dell’estate.

«Sei tu che ci fai annoiare. Starti dietro è una palla». Elisa non mi guarda e allunga le dita madide. Mi sfiora la guancia con le labbra che sanno di saliva. «Dobbiamo provare giochi nuovi».

Francesca mi arriva alle spalle e mi abbraccia. Le mani mi premono la pancia.

«Sdraiati. Facciamo una cosa nuova. Ci devi stare. Conosci le regole».

Una volta ho fatto un sogno. Ero nel cortile della scuola. Piccola come una barbie. Ero sdraiata su un letto che sembrava un vassoio. La maestra e i compagni mi fissavano dall’alto. Sorridevano e mi domandavano: «Vuoi che ti mangiamo?»

Mi ritraevo e restavo ferma sopra il vassoio. Nuda come la plastica rosa. Non temevo i morsi né il sangue. Mi sono svegliata di colpo.

«Sdraiati». Ordina Antonio. Ha la voce stridula.

Obbedisco. La terra sa di fuoco estinto. Rimango immobile. Il cielo sopra la faccia mi dà il capogiro. Non è mai stato così grande. Solo in spiaggia, quando mi appiattisco sul telo mare, mi accorgo di quanto sia intollerabile e vuoto.

Chiudo gli occhi e resto così non so per quanto. La luce filtra dalle palpebre serrate. Pulsa e arrossa il buio con un fremito che frizza e si ramifica su per la nuca.

Riapro gli occhi a un tratto. Il cielo è una trottola di luce chiara. Non c’è più nessuno nelle vicinanze. Mi alzo a fatica, mi tengo la testa e mi guardo intorno. Tremo. Il cappello si sfila e scivola via. Lo lascio dove si trova. Ho ancora addosso il prendisole di lino celeste. La spilla a forma di ape mi penzola sul petto come una cicca bruciata. Mi guardo le mani sporche, le annuso. Mi ricordano le patate coperte di terra che mi mostrava il nonno. Scoppio a piangere e a urlare.

Una risata improvvisa spezza il silenzio. Francesca, Antonio ed Elisa sbucano da non so quale anfratto.

«Stavamo solo scherzando» sghignazzano.

Mi prendono per mano e scendiamo verso il paese.

Foto di Yinan Chen da Pixabay

Mots-clés__Scacchisti

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"Giocatori di scacchi", Pittore caravaggesco, Secondo decennio del XVII secolo, Olio su tela, cm 95 x 132, Legato Girolamo Molin, 1816. Immagine ripresa dalle Gallerie dell’Accademia di Venezia

 

Scacchisti
di Nadia Liberati

Wicked Cinema, A Game of Chess -> play

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“Giocatori di scacchi”, Pittore caravaggesco, Secondo decennio del XVII secolo, Olio su tela, cm 95 x 132, Legato Girolamo Molin, 1816. Immagine ripresa dalle Gallerie dell’Accademia di Venezia

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Da Paolo Maurensig, La variante di Lüneburg, Adelphi, 2003

«Vedi,» disse «secondo lo psicanalista Reuben Fine, che fu per lungo tempo uno dei più grandi giocatori del mondo, esistono due specie antitetiche di scacchisti. Da una parte c’è l’eroe, che non ha altra religione, altra ragione d’essere, che non siano gli scacchi: ogni soddisfazione, ogni piacere gli vengono dalla scacchiera e dalle vittorie che ne riporta, e viceversa ogni forma di dolore e di paura della morte è racchiusa nelle sconfitte subite. L’eroe non può concepire l’esistenza senza quel campo di battaglia che sono gli scacchi, non può esistere senza lottare, solo questo lo mantiene in vita, e quando la sua supremazia comincia a declinare, egli perde ogni interesse per quel che lo circonda. Dal momento che per lui non esiste null’altro, egli scompare, dunque, se non come persona fisica (ché la morte può avvenire anche molti decenni dopo), almeno come individualità. Questa, naturalmente, è la via più rischiosa…»

Le parole di Tabori mi inquietavano, perché descrivevano proprio i miei sintomi; e lui me ne stava parlando con gravità, come se si fosse trattato di una malattia terribile. Che ne fossi già contagiato a quel punto? Ma mi restava ancora una speranza.

«E l’antieroe?»
«L’antieroe può diventare ugualmente un grandissimo giocatore, persino un campione del mondo, come è stato Lasker, solo che non è un predestinato: non vende l’anima al diavolo incondizionatamente, ma stila qualche clausola a proprio favore. Non vive solo per gli scacchi, capisci? È un uomo, e come tale si lascia una libertà di scelta.»

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[Mots-clés è una rubrica mensile a cura di Ornella Tajani. La prima domenica del mese Nazione Indiana pubblicherà un collage di un brano musicale + una fotografia o video (estratto di film, ecc.) + un breve testo in versi o in prosa, accomunati da una parola o da un’espressione chiave.
La rubrica è aperta ai contributi dei lettori di NI; coloro che volessero inviare proposte possono farlo scrivendo a: tajani@nazioneindiana.com. Tutti i materiali devono essere editi; non si accettano materiali inediti né opera dell’autore o dell’autrice proponenti.]

Dieci anni di Elba Book Festival

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Intervista a Marco Belli

di Claudia Mirrione 

 

Dedicato all’editoria indipendente, Elba Book Festival si svolgerà tra il 16 e il 19 luglio, a Rio nell’Elba. Tra presentazioni, dibattiti e laboratori, #ebf si conferma un punto di incontro per autori, editori e lettori che condividono la passione per i libri e la letteratura. Abbiamo intervistato Marco Belli, direttore artistico del festival.

Elba Book è giunto alla sua decima edizione ed è ormai una realtà affermata nel panorama culturale italiano. È forse opportuno, in questa sede, ricordare ai lettori qual è la missione del festival e cosa lo distingue da altri contesti letterari.

«Elba Book Festival è un festival dedicato alla piccole e medie realtà editoriali indipendenti italiane che si svolge nella terza settimana di luglio a Rio nell’Elba; nasce con l’obiettivo di mettere assieme piccoli e medi editori al fine di condividere le varie esperienze sul mercato cartaceo e digitale e mettere a punto nuove strategie di joint venture, cooperazione, metodi di distribuzione, proposte politiche per la tutela degli editori indipendenti. La manifestazione ha sempre voluto mettere al centro della propria azione culturale la promozione della lettura attraverso l’implementazione di una rete tra “tutti i soggetti attivi nel mondo del libro” (biblioteche, librerie, editori, associazioni culturali, associazioni professionali, associazioni di volontariato, altri festival). Elba Book, arrivato quest’anno alla sua decima edizione, si è dato l’obiettivo di diventare un volano di crescita per un territorio, quello riese, che da oltre quarant’anni ha puntato anche su un turismo sostenibile ed ecologico».

Il tema prescelto dalla rete PYM che coinvolge Elba Book, insieme alla Fiera del Libro “Argonautilus” di Iglesias, a Giallo Garda e alle Officine Wort, è “attenzione”. Che cos’è la rete PYM e come mai avete scelto un tema-guida tanto inflazionato, anche se superficialmente?

«La Rete PYM è una rete di Fiere e Festival, nata nel 2019 per stimolare un’azione coordinata e collettiva orientata alla diffusione della lettura come strumento di benessere individuale e sociale. Molto spesso l’attenzione viene confusa con una sorta di sforzo muscolare. Quando si dice agli allievi “ora state attenti”, li si vede corrugare le sopracciglia, trattenere il respiro, contrarre i muscoli. Se qualche istante dopo si domanda loro a che cosa siano stati attenti, non sono in grado di rispondere. Non hanno fatto attenzione ad alcunché. Non hanno fatto attenzione. Hanno solo contratto i muscoli». A spiegarlo con sagacia è stata Simone Weil facendo riflettere sulla differenza tra essere attenti e prestare attenzione a ciò che si può ascoltare. In una società in cui la fretta scandisce i tempi e si viene facilmente sopraffatti da una moltitudine non referenziata di informazioni, immagini, suoni e stimoli vari, secondo noi la possibilità di riuscire ancora a prestare attenzione è una chance che può aiutare l’individuo a non vivere in un tempo sclerotizzato, troppo simile allo scroll di immagini, tutte diverse fra loro, in uno qualsiasi dei principali social network. Il concetto di attenzione è un processo cognitivo da allenare affinché si impari a selezionare i tanti stimoli che arrivano in ogni momento, ma soprattutto a ignorarne altri, in una società bombardata da informazioni anche false. Questo esercizio dovrebbe iniziare da piccoli. Dunque cos’è l’attenzione? Sempre secondo Weil è prendersi cura dell’altro, essere generosi, è dare fiducia all’interlocutore. Attenzione è fare spazio all’altro, è un’arma bianca di difesa, l’attenzione è cura contro la guerra, contro la prevaricazione. Le forme dell’attenzione, tutte necessarie, sono di vari tipi: ad esempio, quella rispetto al territorio e all’ambiente per capire quali siano le sue criticità e le sue esigenze».

Oltre che per la contestualizzazione delle tematiche in loco e per i gemellaggi virtuosi con altre manifestazioni emancipate, così i Fumi della Fornace di Valle Cascia (Macerata), Elba Book si è sempre distinto per gli ospiti di un certo calibro, a cominciare dalla battaglia ideale al fianco di Sigfrido Ranucci di Report dalla prima ora. Ci può dare qualche anticipazione sul programma?

«Avremo come ospiti Tomaso Montanari, Gianluca Costantini, Carlo Lucarelli, Daniela Lucangeli e tanti altri; parleremo di attenzione pubblica, attenzione da un punto di vista cognitivo, attenzione in letteratura e ovviamente di attenzione all’ambiente».

All’interno del festival si terrà la nona edizione del Premio “Loris Claris Appiani” per la traduzione, istituito dalla famiglia Appiani, in collaborazione con l’Università per Stranieri di Siena, in ricordo del giovane avvocato elbano ucciso nel 2015, al Palazzo di Giustizia di Milano. Qual è lo spirito che anima il riconoscimento? E quali le novità che prevede per quest’estate?

«La cerimonia di assegnazione apre tradizionalmente Elba Book Festival, quest’anno il 16 luglio, alle ore 18.30. La lingua prescelta per quest’anno è il tedesco. Abbiamo annunciato il vincitore al recente Salone del Libro di Torino: primo premio a I morti dell’isola di Djal (L’Orma, 2023) di Anna Seghers, tradotto da Daria Biagi;  Robbi, Tobbi e il Vonapé (Lupoguido, 2023) di Boy Lornsen, tradotto da Valentina Freschi ha ottenuto una menzione speciale. La giuria del premio è presieduta dal 2023 dalla docente Giulia Marcucci; dal 2024 è stata nominata come componente fissa la traduttrice Ilide Carmignani. Per la nona edizione la giuria è formata da Claudia Buffagni, Giancarlo Maggiulli, e dalle stesse Marcucci e Carmignani. L’iniziativa affonda le proprie radici nel territorio, ricorda un uomo di legge di origini elbane attraverso una pratica, quella della traduzione, che è essenzialmente pratica di pace, di dialogo e di inclusione, risposta alla violenza che sempre più spesso si concretizza in episodi tragici e assurdi. All’interno di un festival che, seppur sostenuto da un’eco mediatica nazionale si svolge nel piccolo, al margine, nella periferia, il premio alla traduzione letteraria rappresenta un’apertura verso il mondo, sia per la presenza di lingue “altre”, sia perché la letteratura racconta storie che hanno come centro l’essere umano, nella sua essenza e nella sua molteplicità. Un progetto nato da questo premio è la scuola di traduzione intitolata a “Lorenzo Claris Appiani”, una autumn school che si è svolta per la prima volta lo scorso anno, a Rio Marina, nell’ultima settimana di settembre, organizzata dall’Università per Stranieri di Siena con sedici giovani traduttori coordinati dalle traduttrici Ornella Tajani e Federica Di Lella, vincitrice dell’edizione 2022».

Il premio Demetra per la divulgazione della letteratura ambientale indipendente, nato in seno a Elba Book grazie al Consorzio Comieco, prevede in giuria la partecipazione degli studenti di alcune sezioni della scuola ITCG “Cerboni” di Portoferraio. Quanto è importante questo doppio movimento, portare, per così dire, le università “in piazza” (come avviene nel caso del premio Appiani), e avvicinare i più giovani alla lettura e a occasioni relazionali?

«Per noi è un gesto politico fondamentale per creare infrastrutture sociali utili a rendere la cittadinanza, ma soprattutto i giovani, più vigili e attenti rispetto al proprio presente».

Ci saluta con un augurio?

«Spero che sia una grande festa di pubblico e del pensiero per dare voce al nostro urlo collettivo contro la guerra».

Lo Scuru di Orazio Labbate, nuova edizione Bompiani

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Primo capitolo del romanzo di Orazio Labbate

 

Piazza Dante.

Poggio le mani sui lastricati in ardesia, i miei sedili artigianali, voglio fottermi la frescura ficcatasi nelle fessure buie della pietra. Il caldo s’alza dai capannoni bruciati e le nuvole diventano nere. Io sono nato sotto quelle nuvole nere; ci mangio come i cani quando divorano le carcasse dei buoi nei rettilinei verso Gela, ci mangio pane e uovo, uovo e ciliegini spaccati in due, azzanno anche le ossa del pollo e manco mi scanto, non mi caco nei calzoni. Questo caldo fuori stagione. Le scarpe, rovinate, me le sento avvampare, sembrano zone carsiche erose dal fuoco, nei buchi entrano lucertole minuscole, alzo il piede solo per calpestarle. In Piazza Dante, a Butera, d’inverno, le putìe sono serrate, mentre i bastardi assettati si nascondono nelle loro cucine e i termosifoni tossiscono mosche. Le ali rimaste s’attaccano tra le viuzze, il fieto del troppo friddu si mischia agli scarti del macellaio Sciandrù e le bestemmie, che rimbombano dai soggiorni aperti lungo i vicoli, si sciolgono negli orecchi quando mi calo con la testa dentro l’acqua fredda della fontana.

Solo. Io sono da solo, dentro la piazza.

Palpare la morte di un cristiano non m’aggrada, preferisco gustarmela, succhiare fino al midollo il folclore della dipartita siciliana. Quando s’aprono le case, per mostrare il cadavere con la sua pelle screpolata, livida, come di pollo crudo, mi introduco nella camera ardente casalinga, a odorare quel profumo di gesso friscu. Gli insetti si inerpicano sul ventaglio delle comari, sfilettano impudichi la trama di raso nero e poi si posano sulla bara: legno bello lucidu, di modo che scintilli la cassa dò muortu. Mi brillano gli occhi a ogni ricorrenza, mi brilla l’anima perché io non sono crepato. Le palpebre delle vecchie che si prefigurano la stessa sorte, l’ambiente, che mi porta a benedire il respiro lesto dei miei anni, le conversazioni sottovoce dei presenti:

“Come minchia è morto?!”
“Come se l’è preso u Signuri?”
“Stava in grazia di Dio?”
“Era un disonesto, sa pigghià ìntra u culu.”
“Era a merda, a merda della sua famigghia.”
Mi interesso agli appellativi, mi inorgoglisce discutere del poveretto, in silenzio, mentre la puzza dei fiori e il rancido sole scolorito sui mobili puntella la comicità dello scenario.

Aspetto il buio.

I completi del “cu murìu”, spacchiusi, scintillanti; le scarpe quasi leccate da una vacca incinta che s’alluminano a contatto con i riflessi del pomeriggio assolato, mentre c’è anche chi sputa sul palmo della mano per rizzittare il capello del morto per poi stuiarsi sui pantaloni dello stesso. Alcuni benedicono, altri condannano e in mezzo a quella scena i corpi, scorticati dai ventilatori, respirano a malapena, con i pantaloni appiccicati alla carne mentre quella stessa carne, che nel poveretto s’era rattrappita per volontà divina, non può riesumarsi nemmeno di fronte all’acqua benedetta, conservata nelle boccette a forma della Madre di Cristo. Nuddu poteva fare il miracolo, poteva succhiare la ciolla dura che ha il sole siciliano! “Cu mori, mori,” chi è morto è morto: non c’è minchia, fiamma, Spirito Santo o ampolle sacre che tengano. Me l’ha sempre spiato solo Zù Guglielmo, l’unico che ha capito cosa fosse u fuocu.

Nelle mani buteresi degli Spiteri, i becchini, nelle loro mani da muratori golosi di fosse da scavare, sta il corpo del dipartito. Il rito è sempre il medesimo. La Pilato Mercedes, i crisantemi stagionati colmi di vespe, il loro “ora ca muriu ni faciemmu i sordi”, il percettibile terremoto quando l’auto percorre la scala reale che allaccia Butera Bassa a Butera Alta, affinché i morti raggiungano il cimitero; il cuore secco dei parenti, come piante della macchia tranciate dallo scirocco ossidrico, i Gloria al Padre dentro l’abitacolo della macchina, e non c’è il mare, per i morti, e i parenti dei morti non possono vedere il mare, ché la sepoltura finale non ha quell’orizzonte limpido, e Butera è stinnicchiata in collina.

Io degli Spiteri amo la precisione, la coerenza nel timbrare, con un bollo di cera rossa, la caviglia del muortu, il loro farne una pecora numerata, una di quelle pecore strammate che incontro quando raggiungo Gela. Scappano da una roccia, le bestiole, lasciano pagliericcio fituso e fumoso, scattano dai burroni quasi calciati via dal culo storto del diavulu, insudiciano la provinciale. Altre volte si fanno investire, crepano lasciando la lingua buttata sui denti, penzolante e frisca. Te ne accorgi di notte, mentre viaggi, quando la luna è china e dentro c’ha il futuro degli animali perché deve fartelo vedere.

Per gli Spiteri i morti sono come gli animali: devono essere sacrificati, congelati, mostrati al miglior sguardo sofferto, offerente, e compressi nel proprio nuovo appartamento. Sono le regole, le regole per avere la minchia dura, per differenziare una morte dall’altra, tecnicamente, per imparare ad averla, per fare il becchino, e per coricarsi senza il rischio di scantarsi della propria faccia o del sempiterno aroma di lilium che avvolge anche le onde del Mediterraneo, dove non riusciresti a distinguere il buio del fondale con il buio del dormire! C’avevo empatia, c’avevo distacco partecipato, provavo compassione e versavo lacrime come un copertone che finge di forarsi sotto il vento africano, quello che t’ammacca senza torcerti. I copertoni di gomma nera, abbandonati ai lati della via, poco prima del sentiero per il cimitero: i copertoni che paiono introdurre “il posto” dei loculi costruiti per la decomposizione dei vutrìsi scaricati da dio: il cimitero, la discarica della morte.

Lassù, c’abitava Concetta, mia nonna.

Piccola, una nana lavandaia con l’amore per le uova, le frittate, cattolica sino alla stampa nera sul dito ciccione, dove si incarcava il rosario ad anello. Era un minuscolo cagnaccio, col grasso e la pancia piena di latte, un mammifero carico di figli, una cagnola che si trascina verso il Belvedere per lasciarsi cadere all’ombra del castello normanno.

Di fronte alla sua casa: il castello arabo-normanno, una villa secentesca, un orfanotrofio e un’altra casa colonica, sempre chiusa. Quattro esemplari di solitudine siciliana, quattro catacombe per sotterrare la propria esistenza mentre tutti i cristi a quattro zampe ficcano tra i cespugli incucchiati, e le gazze si affrettano a caricarsi il mangiare che il sole piano piano risucchia. I cardellini, invece, Concetta li faceva ingrassare. “Volatili a forma di baccello di cìciru verde,” diceva. Se n’è andata, Concetta. Morta, con sdillìnio, come frittura di pepi saraceni. C’era il tramonto a Butera, quella volta, mi hanno raccontato. Quel tramonto che s’appiattisce tra le case in una sorta di milza pressata dentro due lembi rozzi di pane cattivo. Oleoso. Freddo. Mia madre Angelina s’era recata, per staccare la corrente, in via Archimede, dove stava la casa che condivideva con la madre. Aveva scoperchiato il vaso di ceramica, al centro del tavolo della cucina, dove da una vita nonna Concetta conservava i nucatoli, i biscotti di Butera. Fu solo a quel punto che Angelina, una volta raggiunto il salotto, fece la scoperta del corpo della madre. Per terra, con gli occhi spirdati, un uccellino scuro che non riusciva ad uscire dalla stanza.

“Perché te ne sei andata, nonni?”
“Perché non mi hai lasciato dire le ultime cose?”
Mi ha lasciato negro, a Butera, come la solitudine di un arabo sotto il castello, pronto per essere sacrificato evangelicamente, nella tua dimora, a mangiare biscotti. E quello che mi resta, ora, è raccontare la mia storia. Come sono arrivato fino a qui.


Orazio Labbate, nato nel 1985, ha pubblicato i romanzi Lo Scuru (Tunué, 2014), Suttaterra (Tunué, 2017) e Spirdu (Italo Svevo Edizioni, 2021), e i saggi Atlante del mistero (Centauria, 2018), Piccola Enciclopedia dei mostri (Il Sole 24 Ore Cultura, 2016), Negli States con Stephen King (Giulio Perrone editore, 2021) e L’orrore letterario (Italo Svevo Edizioni, 2022). Ha ricoperto l’incarico di giurato della XXXV edizione del Premio Calvino e collabora con la Lettura – Corriere della Sera. Dirige la collana di narrativa italiana, Interzona, per Polidoro editore.

Il contenitore è il suo contenuto: su “Stellare nero” di Alessandra Greco

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di Antonio Devicienti

 

Contenere un centro vuoto intorno a cui ruotare e continuamente ri-articolarsi pone la questione di un pieno che ha bisogno del vuoto per assumere senso e per esistere in un moto incessante e ricorsivo che contiene segni e rimandi di diversa natura e derivazione.

Si parta da un cartoncino nero sul quale siano stampate figurazioni astrali (le stelle abbiano forma di uccelli in volo) e frasi; si effettuino delle piegature seguendo precise linee-guida, s’incolli e si chiuda ad anello – il risultato sia un caleidociclo esagonale (vale a dire tre doppi tetraedri) che si apra e si chiuda in un movimento a spirale potenzialmente infinito; tale caleidociclo si chiami Stellare nero (Benway Series, Colorno, Tielleci 2023), autrice Alessandra Greco, solido geometrico complesso, ma di pochi grammi di peso, capace di caricarsi, nello sguardo e nella mente di chi guarda e legge, d’una densità concettuale ed estetica particolarmente suggestiva che trova nel concetto di contenitore una delle sue ragioni d’essere.

Il solido ruota, pulsa e si sviluppa attorno a uno spazio “vuoto” centrale che figura il segno zodiacale dell’ariete; scrive Alessandra Greco in una delle note che accompagnano il suo lavoro: «[…] Alla base della logica caleidociclica sta l’idea geometrico-matematica di ricorsività; qui sono le parole che ritornano ciclicamente e riformulano ad ogni rotazione l’assetto narrativo del testo. // Durante le fasi di ideazione e progettazione del lavoro sono emerse numerose simmetrie legate all’ordine cosmico e alla vita dell’uomo.

L’oggetto è idealmente orientato alla Pars Orientalis della volta celeste (l’Est geografico), al punto vernale: punto in cui la traiettoria apparente del Sole sull’eclittica incontra l’equatore celeste. Il punto vernale è anche detto punto d’Ariete (perché quella era la costellazione in cui anticamente iniziava la primavera) o punto Gamma: i Greci indicavano il punto con la lettera gamma (γ) perché la sua forma ricorda la testa dell’animale con le corna che si avvolgono a spirale».

In un punto del caleidociclo è inoltre riportata una sequenza numerica afferente a un file d’immagine che rimanda alle coordinate geografiche del villaggio di Čerkassk (in Kazakistan) dove un memoriale ai caduti per la difesa della località ricorda, nelle sue forme architettoniche, il caleidociclo stesso, mentre la fauna selvatica autoctona delle regioni attorno a Čerkassk vanta gli Argali (gli arieti più grandi del mondo) e l’ariete dal manto bruno, specie che devono essere connesse alla Colchide e al mito del Vello d’oro, quindi, ancora, all’inizio della primavera, cioè alla rinascita e al riavvio dei cicli vitali.

In un altro punto si leggono i nomi di Jules Alfred Pierrot Deseilligny e di Étienne Léopold Trouvelot, astronomi e artisti francesi della seconda metà dell’Ottocento dei quali compaiono sul caleidociclo precisi riferimenti a due opere visuali dedicate rispettivamente al sole e alla superficie lunare: Stellare nero contiene, dunque, sia un centro vuoto che permette il movimento del solido conferendogli la capacità di rendere visibile la ciclicità e la ricorsività (in caso contrario ci si ritroverebbe tra le mani un oggetto immobile, “morto” da più punti di vista), sia un complesso sistema di segni (alfabetici, grafici, astronomici, numerici) che si dispongono nello spazio secondo un sistema di lettura non-gutenberghiano, ma che danno vita a successioni diverse la cui interpretazione si dirama in più direzioni, ossia quella dell’incessante metamorfosi della natura terrestre e del cosmo stesso, quella dell’armonia di carattere musicale che scaturisce dal moto e dal ripetersi-rinnovarsi dei cicli, quella del respiro e del battito cardiaco che, dall’individualità dei singoli esseri viventi, si dilatano a tutto l’esistente. È in tal senso che il relativamente minuscolo caleidociclo contiene il cosmo, le sue pulsazioni e le simbologie che le culture umane hanno elaborato nel corso dei millenni; è nella potenza espressiva ed evocatrice dei segni che è contenuto l’infinitamente grande, è nel gioco del caleidociclo (serissimo come tutti i veri giochi) che è contenuta la bellezza di una realtà in costante movimento.

il vuoto è sempre un indizio

………………………………….una specie di continua vacuità

scrive Alessandra Greco con una sorta di mise en abyme dello stesso ruotare di Stellare nero attorno al suo centro vuoto, vacuum e continuum che sembrano richiamare alla mente la śūnyatā di diverse tradizioni filosofiche e religiose indiane, vuoto necessario che contiene il pieno permettendogli di venire a esistenza, o, meglio, è il movimento ricorsivo a essere contenuto nel vuoto che, non frapponendo ostacoli, permette le differenti disposizioni dei segni (non lo si trascuri) non su di un piano a due dimensioni, ma a tre dimensioni, giungendo a un concetto di “pagina” anch’esso non-gutenberghiano o, anche, post-gutenberghiano. Ovviamente “vuoto” e “pieno” andrebbero qui intesi non secondo i parametri della fisica classica, ma quantistica, facendo cioè riferimento al concetto di campo e di probabilità e Stellare nero offre un esempio notevole di come la scrittura possa (e debba) congedarsi da un atteggiamento puramente rappresentativo e/o descrittivo ripensandosi quale elemento parte della complessità del reale e, quindi, non isolato né passatisticamente contemplativo.

Un discorso affine riguarda l’esplicita dedica di Stellare nero all’etnomusicologo Marius Schneider perché il caleidociclo, contenendo riferimenti alla musica, va considerato anche quale esplicitazione della dialettica suono-silenzio e quest’ultimo, come il vuoto al pieno, consente al suono di esistere e di articolarsi, trasferendo nel campo acustico-musicale la relazione vitale tra spazi cavi e spazi convessi.

Si legge sul caleidociclo:

Le foreste profonde sono più inclini a echeggiare     rispetto all’erba alta o alla neve | se il movimento non è corretto il suono non è limpido

| alle estremità di ogni arcata c’è un angelo che suona

uno strumento musicale di tipo diverso |

sendo rivolte in suoni  |  le stelle  |  sono tipi diversi di uccelli  |

In una trina satura di suono  |

♈ | radure del respiro | avvolto più volte | ritornante in se stesso | canto fermo ripiegato |

Naturalmente se non si ha Stellare nero tra le mani occorre fare uno sforzo d’immaginazione per riuscire a intuire come tali frasi (o versi) si compongano di volta in volta con le altre che fanno riferimento agli astri, al movimento, all’erosione della superficie terrestre e dei fondali marini, eccetera – ed è qui un altro motivo per cui la dialettica contenitore-contenuto si rivela particolarmente feconda: il caleidociclo dev’essere tenuto tra le mani, sono quest’ultime a contenere l’universo di Stellare nero e tutti i suoi rimandi, le mani con la loro disponibilità ad accogliere il caleidociclo e con la loro azione che imprime all’oggetto il movimento, ma anche lo sguardo è contenitore ché accoglie e contiene quanto di volta in volta va a rendersi visibile sulle facce del solido, solido che, nel suo muoversi e per potere muoversi, abbisogna, lo si ricordi, di un centro vuoto e che, nel suo movimento, produce il suono del cartoncino sfregato dalle mani e delle varie facce che si toccano per poi separarsi e così via.

“Giocare” con Stellare nero significa approdare a un’idea innovativa di testualità, rompere con la pagina tradizionale e con il libro di derivazione gutenberghiana, rivoluzionare il concetto di contenitore, non descrivere il vuoto, ma percepirlo in atto, non descrivere il movimento, ma coglierlo come consustanziale ai segni e al loro disporsi nello spazio-tempo del caleidociclo che aprendosi e chiudendosi contiene (ed esprime) la diastole e la sistole (καρδία scrive Alessandra Greco in un punto di Stellare nero) con un battito che è a sua volta suono vitale. La “lettura” tradizionale si trasforma in un’interazione continua (e fisica) con il contenitore-contenuto, si disloca dalla bidimensionalità della pagina nello spazio tridimensionale, accade non più secondo successioni dei testi e dei segni prestabilite (d’autore).

E non si trascuri neanche il fatto che l’aprirsi e il chiudersi ricorsivi sono sempre scanditi da un’infinitesima pausa, da un arresto pur brevissimo del movimento, da una στάσις cioè che possiede affinità sia con il vuoto che con il silenzio, una caesura in atto di cui sono segni visibili anche le numerose barre verticali ( | ) presenti nelle e tra le frasi stampate sulle facce del caleidociclo. Stellare nero rende visibile un’armonia e una bellezza che, senza vane né melense retoriche, è nei ritmi vitali del cosmo, nel loro manifestarsi in cicli e in suoni.

L’isola di Giorgio

5

di

Francesco Forlani

 

Domani i funerali. Ho pensato fosse doveroso avvisarti.

 Un abbraccio da Ischia.

pausa

ti voleva bene.
Così mi ha scritto Antonietta il 26 aprile scorso ed io sono rimasto senza parole ma con una promessa fatta a me stesso e all’amica dell’isola, quella di scriverne appena ne avrei avuto la forza, il coraggio. Ricordarlo qui su Nazione Indiana perché Giorgio Di Costanzo GDC ci veniva spesso su queste pagine, il più delle volte a gamba tesa, e non a torto, non a ragione, in difesa della letteratura dimenticata o poco “attualizzata”, soprattutto una ventina d’anni fa, come per esempio l’opera di Anna Maria Ortese di cui ha per anni curato  In sonno e in veglia.
Ci siamo conosciuti vent’anni fa, poco meno, e all’inizio della mia avventura su Nazione Indiana. C’era stata un’incomprensione legata alla rinascita della rivista Sud, da me fortissimamente voluta e proprio in quegli anni realizzata, ma ne eravamo venuti a capo rapidamente al punto di diventare, poco tempo dopo amici. Ci accomunava l’amore per Anna Maria Ortese e ogni qualvolta ne avessi avuto l’occasione l’ho sempre trascinato con me, come nel caso della pubblicazione numero dell’Atelier du Roman dedicato alla scrittrice o più recentemente per una mia recensione  
all’ultima corrispondenza dell’Ortese pubblicata da Adelphi.
In un passaggio si poteva leggere:
Una menzione particolare va alla nutrita e inedita corrispondenza con Giorgio Di Costanzo, che grazie a un lavoro meticoloso e appassionato tiene in vita un archivio digitale imprescindibile sulla vita e l’opera di Anna Maria Ortese.
Giorgio è stato per molti di noi memoria viva delle avventure letterarie del dopoguerra, non soltanto meridionale, con una infinità di rapporti, corrispondenze, storie d’amicizia, particolarmente quella con Goffredo Fofi, Dario Bellezza e Anna Maria Ortese, per l’appunto.
In questo sentirsi bastarono poche telefonate all’Inglese e a me, compagni di cella con vista sul mare, nel nostro confino traduttorio a Procida per organizzare un’incursione poetica sull’isola d’ischia. Prima di lasciare parlare quelle immagini vorrei ricordare e insieme “scordare” che in quegli anni Nazione Indiana non era un blog ma un campo di battaglia, con veri e propri duelli all’ultimo post, diverse centinaia di botte e risposte (altre botte) per articolo, che potevano generare perle o porci. Attacchi sopra e sotto la cintura, diverbi, avverbi, malaverbi, querelle che più di una volta hanno visto Giorgio menare colpi a destra e a manca. A quanti lo ricordano gladiatore soltanto, vorrei  poter dire di non dimenticare la “tenerezza” della sua attenzione militante rivolta alle “piccole creature”. In questo senso riprendo un passaggio di Giorgio Agamben che traduce bene le mie intenzioni.
“Come molte categorie e istituzioni delle democrazie moderne, anche l’amnistia risale alla democrazia ateniese. Nel 403 avanti Cristo, infatti, dopo aver abbattuto la sanguinosa oligarchia dei Trenta, il partito democratico vincitore prestò un giuramento in cui si impegnava a “deporre il risentimento” (me mnesikakein, letteralmente “non ricordare i mali, non aver cattivi ricordi”) nei confronti dei suoi avversari. Così facendo, i democratici riconoscevano che vi era stata una stasis, una guerra civile e che era ora necessario un momento di non-memoria, di “amnistia” per riconciliare la città. Malgrado l’opposizione dei più faziosi, che, come Lisia, esigevano la punizione dei Trenta, il giuramento fu efficace e gli ateniesi non dimenticarono l’accaduto, ma sospesero i loro “cattivi ricordi”, lasciarono cadere il risentimento. Non si trattava tanto, a ben guardare, di memoria e di dimenticanza, quanto di saper distinguere i momenti del loro esercizio.”

Queste sono le immagini tratte dalla sua galleria, e intitolata:

Poeti all’ultima spiaggia
5 maggio 2008
Libreria “La Gaia Scienza” Ischia Ponte
Andrea Inglese e Francesco Forlani

Se avrete voglia nei commenti di ricordare Giorgio, sarete i benvenuti.Colonna sonora Murolo Forlani, foto inviatami da Giorgio con i saluti da Ischia.

 

 

 

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Aggiungo anche il mio di ricordo. Devo l’incontro con Giorgio Di Costanzo a Francesco (il Furlén, FF), che aveva rapporti diretti con lui. E ci trovammo, poi, ad Ischia a passare una giornata di spensieratezza e allegria mediterranea. (Il pretesto dell’incontro era una presentazione in libreria.) Avevo conosciuto anch’io Giorgio come commentatore di Nazione Indiana, spesso polemico, assiduo attraverso una sorta tormentone relativo all’Ortese, a cui dedicava un culto del tutto degno e controtendenza. Poi lo incontrai, e scoprii in realtà un uomo di grande gentilezza e apertura mentale. Quello che noi conoscevamo di lui, nei commenti di Nazione Indiana, era il suo lato appassionato, battagliero, che trovava uno spazio di condivisione in rete, per uscire anche da un isolamento culturale e geografico, da una periferia del mondo letterario. Ma come spesso accade in Italia, lontano dai centri di visibilità e di produzione, si scoprono personaggi straordinari, anticonformisti, profondamente gentili e appassionati come Giorgio Di Costanzo. L’amicizia che Francesco racconta è un’amicizia che è stata resa possibile dalla rete, ma anche dall’insufficienza di un dialogo puramente virtuale. Le cose si sono chiarite, la statura “umana” di Giorgio, la sua generosità, ci è parsa subito evidente, nel momento in cui siamo usciti dal puro scambio virtuale, per ritrovarci faccia a faccia con lui, a Ischia. E lo trovo, ancora oggi, straordinariamente accogliente, quando guardo la nostra foto a tre di “comunisti da spiaggia”. Noi facciamo i guitti, ma lui è perfettamente a suo agio, perfettamente se stesso, tenendosi addosso la sua camicia, e posando con noi come se fosse la cosa più naturale (e seria) del mondo.
Andrea Inglese – Champigny 2 luglio 2024.

Il voto francese che interessa tutta l’Europa

8

di Andrea Inglese

A sentire qualche amico italiano, la situazione francese è davvero preoccupante, perché l’estrema destra francese non è come quella italiana, in fondo moderata e “bonacciona”, come il nostro popolo che sembrerebbe intrinsecamente inefficace anche nel fare il male. A me sembra, invece, di tremenda efficacia il governo Meloni, che per primo sancisce in Europa l’esternalizzazione del trattamento dei migranti giunti sul proprio suolo. Anzi, ancora una volta all’avanguardia del peggio, dal momento che i centri sovvenzionati in Albania per la “raccolta” dei nostri migranti possono costituire un modello da estendere ad altri paesi europei. Siamo già ampiamente fuori da un quadro di principi e di garanzie democratiche. Ma il governo Meloni non si occupa solo dei nemici esterni, ma anche di quelli interni, e quindi ecco il disegno di legge sicurezza, che prevede pene di prigione per il reato di blocco stradale con il solo corpo. Le proteste non-violente saranno punite con il carcere. Il superamento della frontiera tra democrazia e Stato autoritario è un processo per tappe. Lo si sa dalla storia novecentesca, e lo si sa ancora meglio dalla storia recentissima. È sufficiente osservate quello che è successo nella Russia di Putin. Nel 1993 la Russia si è dotata di una nuova Costituzione democratica e federale in linea con quelle delle democrazie occidentali. Dal 2000 ad oggi, ossia dalle elezioni che gli permisero di essere presidente della Russia per la prima volta al suo attuale quinto mandato presidenziale, Putin ha progressivamente imposto, nei fatti e in parte nelle leggi, un potere dittatoriale.

Le elezioni legislative francesi sono decisive anche per tutta l’Europa non solo perché il Rassemblement National costituirebbe un’estrema destra più “dura” di quella che governa attualmente in Italia, ma perché avrebbe la possibilità di cambiare ulteriormente gli equilibri europei, seguendo la via già aperta da Meloni e grazie alla maggioranza di elettori italiani. Il progetto di queste destre estreme è chiaro: distruggere spirito e forme della democrazia, nel rispetto di un’organizzazione capitalistica della società. “I nuovi fascismi si limitano a rinsaldare le gerarchie di razza, genere e classe; la strategia politica rimane quella neoliberista. La missione dei nuovi fascismi non è combattere un’opposizione inesistente, ma portare a termine il progetto politico che è alla base delle politiche neoliberiste”. È Maurizio Lazzarato che lo scrive in un libro del 2019, Il capitalismo odia tutti. Fascismo o rivoluzione (DerriveApprodi). Cinque anni dopo la sua pubblicazione, le vicende statunitensi, israeliane, italiane, francesi e più generalmente “occidentali” non fanno che confermare il nucleo delle analisi svolte in esso. Sono in disaccordo solo con l’idea che i nuovi fascismi abbiano da combattere un’opposizione inesistente. Un’opposizione esiste, e lo si vede almeno nel caso francese, che dal primo mandato presidenziale di Macron ha conosciuto un ciclo di lotte sociali estremamente duro – quasi del tutto assente, in Italia, invece. Ma queste lotte sono state represse in piazza da una gestione estremamente violenta della polizia e in parlamento da un politica di governo estremamente autoritaria. In un articolo apparso su “doppiozero” il 23 giugno, intitolato Elezioni europee: tragicommedia alla francese, ho messo in luce la strategia del tecnocrate Macron per liquidare politicamente la sinistra e puntare tutto su un duello con l’estrema destra. La strategia di Macron ha doppiamente fallito: le sue riforme anti-sociali sono state platealmente condannate dall’elettorato francese, ed è il Rassemblement National che raccoglie i maggiori risultati di questa condanna.

La situazione attuale è questa: la sinistra si è unita e ha proposto un programma che io, pur non essendo votante alle legislative in Francia, voterei. E lo dico dopo aver votato per diversi anni una sinistra italiana che, invece, non mi rappresentava. I risultati definitivi del voto, dopo il primo turno, vedono il Rassemblement National e i suoi alleati a 34,34%, il Front de Gauche a 27,99%, i macronisti a 20,04%. (Gli ultrafascisti di Zemmour non sono riusciti ad arrivare all’1%.) La sinistra ha dunque resistito e non ha perso voti rispetto alle precedenti legislative. Ora, sulla carta, ci sarebbero i numeri per creare un fronte repubblicano, in grado di sbarrare la strada all’estrema destra. La maggioranza di questo schieramento sarebbe costituito dal Front de Gauche, a cui dovrebbero sommarsi i voti dell’elettorato macronista. È quanto ha chiesto ufficialmente il primo ministro Attal, ma la proposta è venuta ancora prima dalla sinistra. Il secondo turno delle legislative, fra una settimana, prevede una serie di ballottaggi, in cui rischierebbero di presentarsi almeno tre candidature: estrema destra, unione delle sinistre e macronisti. Affinché non ci sia dispersione di voti, e viga lo sbarramento repubblicano, se il candidato o la candidata di sinistra è al terzo posto, non si presenterà e proporrà al proprio elettorato di votare per candidato/a della uscente maggioranza di governo. E così dovrebbe fare quest’ultima, favorendo una candidatura del Front de Gauche, nel caso un suo candidato o una sua candidata si trovi in terza posizione. Ma a questo punto entra in gioco la cultura politica della galassia della destra che ha sostenuto il governo Macron. Una galassia di neoliberisti convinti o moderati, che ha assimilato perfettamente l’equivalenza tra nuovi fascisti e sinistra radicale (La France insoumise), seguendo in questo la vulgata mediatica, e che quindi si sente dispensata da eseguire le indicazioni di voto del suo primo ministro. In poche parole, è molto probabile che sarà una fetta di quel 20% di voti macronisti, e una parte di candidati della maggioranza uscente che deciderà della conquista del governo o meno da parte di Bardella. Stavolta, almeno qui in Francia, i dirigenti delle sinistre non potevano fare di meglio, in termini di chiarezza e di presa di responsabilità. Quello che accadrà al secondo turno non potrà essere imputato loro. Di fronte a un pericolo estremo, hanno dimostrato coraggio e lucidità. Hanno saputo unirsi, hanno proposto un programma di sinistra e hanno accettato di fare compromessi, in grado di distinguere tra avversari politici (i macronisti) e nemici della democrazia (i nuovi fascisti). Ma anche questo il passato ce lo insegna: l’antifascismo per funzionare non può essere circoscritto ai partiti e agli elettori di sinistra.

L’ultimo sogno

1

di Edoardo Mazzilli

Secondo Ania l’uomo ha perso la capacità di autodistruzione. Me l’ha detto la notte in cui ha smesso di esistere. Dapprincipio non ho capito cosa intendesse, per questo ha voluto mostrarmelo. Mi ha trascinato nella profondità di una grotta eterna dentro a cui viveva una monstera in stato quiescente. La guttazione delle foglie più antiche produceva ancora gocce d’acqua che, fievoli, cadevano sulla roccia calda spezzandosi. Ania si è inginocchiata e le ha raccolte. Mentre lo faceva mi ha preso la mano e mi ha tirato a sé. Colma la sete, mi ha detto. Mi sono chinato e ho emulato il suo gesto, portandomi poi le dita umide alle labbra. Ora dimmi dove siamo, mi ha detto. L’ho guardata negli occhi e la grotta ha iniziato a rabbuiarsi lentamente. Il suo viso è scomparso, ma lei era ancora lì. Dove siamo?

Quando è tornata la luce, Ania e io eravamo stretti da un legame indissolubile che durava dalla prima alba che la Terra avesse mai visto. Eravamo genitori di cento uomini e cento donne ed eravamo gli abitanti più anziani di una grande isola di terra e pietra accanto a cui ne sorgeva una più piccola. Ania aveva assunto tratti esotici in viso, aveva capelli canuti e stava china tra le pelli di un tricheco morto di stenti. Dove siamo?, mi chiedeva. Attorno a noi c’erano bambini nudi che correvano al riparo dal sole. Ania indicava l’isola vicina e diceva che quello era lo ieri. Questo invece è l’oggi, ripeteva sfiorando la terra su cui posavo i piedi. Non possiamo più raggiungere il passato. Dove siamo?

All’orizzonte, dove il mare nero e il cielo tetro scomparivano, si profilava un vascello ricoperto di avorio. Dal ponte colava il sangue degli uomini e delle donne uccise per mano dei loro fratelli e sorelle in ogni secolo. Ania e io eravamo nudi, distesi sul fondo dell’oceano mentre il nucleo della Terra ci scaldava amabilmente la schiena. Le nostre viscere erano collassate in un cataclisma onirico e i nostri corpi erano ormai parte di un cosmo atarattico. Il sangue scendeva lentamente verso di noi attraversando la massa d’acqua senza mischiarvisi e mentre lo fissavamo, Ania si è distesa sopra di me e ha iniziato a piangere. Solo allora mi sono accorto che non si trattava di Ania, ma di Ania bambina. Ha poggiato la testa al mio petto e mi ha chiesto dove fossimo. Sono scivolato diabolicamente dentro di lei e in quel momento la sabbia sotto di noi ha iniziato a cedere. Ania bambina si dimenava e benché non facessi niente per tenerla stretta a me, i nostri ventri si sono uniti promettendosi attrazione eterna. Ero paralizzato in un orgasmo occulto e né le sue grida né il sangue che ormai le avvolgeva i capelli e le penetrava nelle narici e nella bocca mi smuovevano dal mio stato di godimento malato.

Quando il sangue si è posato sulle mie cornee ed è sceso sotto le palpebre sono colato nel corpo di Ania risalendo le pareti calde del suo utero e mi sono fatto cellula. Ero un’unità di un plotone felice che costituiva parte dei dotti lattiferi del suo seno sinistro. I miei fratelli vivevano imperturbati la loro esistenza, senza vizi, senza ambizioni, senza eccessi né sete di potere. Ho vissuto per anni osservandoli e chiedendomi come potessero resistere. Ogni volta che uno si moltiplicava, un altro moriva estasiato. Il loro sguardo serafico in punto di morte mi sconquassava le ossa. Consumavano la loro esistenza in serie, crogiolandosi nella plasmalemma senza fare nulla per essere ricordati. Quando la cellula accanto a me si è sdoppiata, mi è stato chiesto di fare spazio e cedere all’apoptosi. Autodistruggermi. Mi sono rifiutato e ho dato vita a mia volta a un essere uguale a me, che covava lo stesso disprezzo verso i nostri fratelli. Insieme ci siamo moltiplicati ancora, generando una macchia di odio cellulare incontrollato in mezzo al plotone felice. Ci siamo fatti spazio attaccando alle altre cellule e mettendo fine alle loro inutili vite, e più uccidevamo, più accresceva nel baratro della nostra fame primordiale la voglia di uccidere. Abbiamo attaccato altri tessuti fondando una società capitalista negli organi di Ania, costruendo strade, città, quartieri e periferie in cui ci rincorrevamo per soddisfare piaceri effimeri. Abbiamo depredato il suo corpo di ogni cellula instillando le nostre e quando non ne è rimasta più neanche una delle sue, Ania è diventata il nostro pianeta depravato.

Abbiamo continuato a riprodurci anche una volta superato il limite di saturazione e allora i più forti di noi hanno costretto i deboli a vivere nella miseria, nell’ignoranza e nella paura, accatastati negli angoli più impervi del corpo di Ania. Il sovraffollamento però ha portato all’esaurimento di ogni di risorsa e allora uno dopo l’altro siamo morti tutti. Poveri e ricchi, deboli e forti, ebeti e scaltri. Sono sopravvissuto soltanto io e Ania mi ha partorito sulla cima di un vulcano. Ha succhiato il veleno che scorreva sotto la mia cute e l’ha sputato nel cratere. Tu sei me e io sono te. Chi siamo noi?, mi ha chiesto. Il suo corpo si era rigenerato dalla necrosi, gli edifici che avevamo impiegato secoli a costruire su di lei erano crollati e dalle macerie erano fiorite distese di narcisi bianchi che io e Ania ora attraversavamo mano nella mano.

Siamo caduti in uno stato di piacere catastematico. Camminavamo giorno e notte e i muscoli non ci dolevano, ci nascondevamo in giardini tropicali e ci accoppiavamo sulle sponde di stagni limpidi, ci nutrivamo di pesche all’ombra di foglie di alocasia e palme reali e vivevamo in armonia insieme a tutte le specie animali che un tempo avevano abitato la Terra e poi si sono estinte. Attorno a noi pascolavano uri, moa, lupi marsupiali, tigri di Giava, rinoceronti neri, elefanti della Siria, ratti canguro, armadilli arboricoli e orsi dell’Atlante. Sui gli alberi erano tornati a ripararsi volpi volanti, falchi di palude, nitticore, huia e ara tricolore e nelle acque nuotavano di nuovo lipoti e focene. Non avevamo mai amato così tanto noi stessi e la materia cellulare che ci circondava. I nostri figli crescevano sani, si rispettavano gli uni con gli altri e facevano l’amore tra loro. Donne con uomini, donne con donne, uomini con uomini, e chi non sentiva la necessità di farlo non veniva giudicato. Insieme a loro, io e Ania esploravamo il pianeta e ogni giorno ci sorprendevamo di quanti paesaggi ospitasse. Eravamo una comunità ricca. La quantità di frutti che la terra metteva a disposizione ogni giorno era maggiore di quella necessaria a saziare tutti. Se uno di noi moriva, un altro nasceva e il numero di individui rimaneva sempre in perfetto equilibrio con l’ecosistema di cui facevamo parte.

Una primavera però ci siamo imbattuti in un fiume in cui non scorreva acqua, ma parole. Ogni vocabolo pronunciato nella Storia, in ogni lingua esistita, era lì dentro, placido e meditabondo. Ania ha fermato i nostri figli e ha detto loro di non entrare, ma il più giovane si è inginocchiato sulla riva e ha immerso un braccio. Quando l’ha ritirato, in un pugno teneva stretta la parola dolore. Si è accasciato al suolo colpito da convulsioni spasmodiche e i suoi fratelli e le sue sorelle hanno iniziato a piangere, allora mi sono gettato nel fiume e ho nuotato disperatamente tra i vocaboli finché in fondo all’alveo non ho trovato quello che cercavo. Sono riemerso con in pugno la parola antidoto e nostro figlio è rifiorito, ma Ania mi ha implorato di riporre quelle otto lettere nel fiume. L’equilibrio sta nell’autodistruzione, mi ha detto. Ho fatto per gettare il vocabolo, ma nostro figlio l’ha afferrato. È scappato verso Nord e l’ha portato con sé.

Io e Ania siamo diventati astri e abbiamo osservato la sofferenza degli abitanti della Terra dalla nostra nube di vuoto esoterico nell’Universo. Abbiamo assistito alla costruzione e alla distruzione di imperi, al sorgere di confini, allo scoppio di guerre e alla scrittura di leggi giuste e ingiuste. Abbiamo guardato uomini trucidarsi, lapidarsi, stuprarsi e torturarsi. Abbiamo seguito la devastazione di radure incantate per fare spazio ad abitazioni di uomini insoddisfatti, e lo stermino di animali felici per nutrire individui depressi. Abbiamo visto la creazione di antidoti che hanno risolto situazioni complesse ma che hanno generato nuovi problemi dando vita a un moto isterico, implacabile e distruttivo.

Adesso io e Ania siamo qui a guardarci negli occhi per l’ultima volta, perché lei ha un carcinoma mammario e non vuole cedere alla necrosi. Vuole l’apoptosi. Morte programmata. Autodistruzione. Adesso siamo svegli. Ania è mia madre. Il figlio più giovane sono io, ho provocato io il dolore e sono fuggito con l’antidoto. Grazie a me l’uomo è arrivato a creare i francobolli che abbiamo nel cervello, che decodificano segnali permettendomi di comunicare e creare sogni condivisi con Ania, ma non ha ancora trovato un antidoto per le cellule invidiose della felicità altrui, né per eliminare il mio autismo. Ania è una biologa ambientale e ora non ci sarà più. Ania conosce i nomi delle piante, degli animali e di tutti i luoghi della Terra, e con i nostri francobolli me li ha mostrati tutti. Ania è mia moglie. Questa notte abbiamo giocato per l’ultima volta a dove siamo? e mi ha portato sulla grande isola di Diomede, accanto alla piccola isola di Diomede, dove il cambiamento climatico ha sciolto il ponte di ghiaccio. L’ultimo sogno è finito. La temperatura media globale si è alzata di due gradi e Ania si autodistrugge. Ania si è autodistrutta, ma poco prima mi ha detto di ricordarmi sempre che il futuro si raggiunge a piedi.

Foto di Bhanu Khan da Pixabay

Il ritorno della guerra rimossa

4

di Giorgio Mascitelli

Maurizio Lazzarato, Guerra civile mondiale?, Deriveapprodi, Bologna, 2024, euro 15

Già da alcuni anni, dapprima che i conflitti ucraino e palestinese prendessero o riprendessero la prima pagina dei giornali per intenderci, Maurizio Lazzarato ha spostato la sua attenzione sulla guerra come modo di accumulazione primario del capitalismo e quindi sulla nozione leninista di imperialismo, ossia sul grande rimosso politico e culturale degli ultimi trent’anni non solo da parte del mondo liberale, ma anche delle sinistre antagoniste occidentali. In questo libro, l’ultimo di tre opere dedicate all’argomento, in particolare Lazzarato inquadra quella che con le parole del papa si potrebbe chiamare la ‘terza guerra mondiale a pezzi’ entro la categoria di guerra civile mondiale. Con questo termine Lazzarato intende il modo moderno della guerra tipicamente  capitalistico, senza il quale non c’è accumulazione primitiva,  perché non si basa sempre su una conquista territoriale, ma  anche sull’attacco a categorie della popolazione (operai, donne, popolazioni razzializzate ossia designate come minori) e pertanto non sempre appare una guerra guerreggiata in quanto ricorre anche ad altre forme di espropriazione e violenza. La guerra civile, che non coincide con la rivoluzione, anche se le rivoluzioni sono guerre civili nate da una reazione delle vittime agli atti bellici, è funzionale a una nuova organizzazione del mercato mondiale. Una nuova organizzazione del mercato mondiale non è mai pacifica non solo perché presuppone un cambiamento dei rapporti di forza tra i paesi e dentro gli stati, ma perché è una fase di una nuova accumulazione primaria, cioè la fase violenta con cui un nuovo capitalismo forma i suoi capitali. Inoltre la guerra civile non ha una dimensione solo bellica e collettiva, ma comincia per così dire con il principio di competitività tra gli individui che regge le società capitalistiche, specie quelle neoliberiste globalizzate, che lo hanno elevato a principio guida dei rapporti sociali.

Infatti la premessa ideologica della globalizzazione ossia di un superamento degli stati a favore di un libero dispiegamento delle forze economiche e dello spostamento della sovranità in una generica sfera internazionale si rivela falsa perché tutto il processo della globalizzazione è stato retto dal primato politico e militare dello stato statunitense. Affermare questo vuol dire che la globalizzazione non è affatto un fenomeno pacifico ed è invece caratterizzato da una violenza funzionale a nuove forme di accumulazione (d’altronde l’atto di nascita della globalizzazione non fu forse la Prima guerra del Golfo, definita allora come l’ultima guerra prima della fine della storia?).

La tesi di fondo di Lazzarato è che l’attuale quadro bellico nasce come risposta alla crisi dei mutui subprime del 2007-08, che segna a sua volta la crisi di un ciclo di accumulazione capitalistica, nato a partire dagli anni settanta incentrato sul consumismo, nei paesi occidentali, e sul suo finanziamento tramite il debito e dunque con un marcato ruolo di guida del capitalismo finanziario rispetto a quello industriale, basato sulla produzione. L’uso del debito per sostenere il consumo avrebbe consentito il superamento della tendenza alla stagnazione tipica del capitalismo monopolistico, ma la crisi dei subprime segnala  l’impossibilità di proseguire oltre in questo processo. Nonostante tale crisi sia stata scaricata con successo sul debito pubblico di alcuni stati occidentali, è la crisi dei cosiddetti debiti sovrani del 2011-12, la tendenza alla stagnazione resta. Questo comporta la necessità di aumentare le politiche di sfruttamento del Sud del mondo, ma anche qui il capitalismo occidentale si scontra con l’emergere di una nuova potenza capitalistica, la Cina, che le contrasta organizzando a sua volta delle politiche di penetrazione e creando un sistema di alleanza alternativo. Dunque il contesto attuale si presenta come scontro tra questi capitalismi, in particolare perché in un sistema finanziario che tramite il debito finanzia il consumo, la questione della moneta di riferimento internazionale è fondamentale e la funzione guida del dollaro è imprescindibile da un primato politico-militare degli Stati Uniti.

Questa guerra civile mondiale non comporta solo uno scontro tra stati come in Ucraina o comunque una guerra aperta come a Gaza né tensioni politiche quali quelle per Taiwan, ma anche una marcata azione contro classi o categorie di popolazione interna. In particolare la nuova fase di accumulazione basata sul debito e sulla finanziarizzazione è legata a un’eliminazione di quelle forme di compromesso con il capitale come lo stato sociale che i conflitti sociali del Novecento avevano imposto; nel contempo si è sviluppata nelle democrazie occidentali una prevalenza dell’esecutivo sul legislativo che corrisponde sia alle necessità del capitale finanziario, che si presenta dal punto di vista politico e giuridico come eccezione ed emergenza, sia alla frammentazione e tendenziale scomparsa delle varie forme di opposizione di classe. E’ probabile che questa tendenza sarà rafforzata ulteriormente dallo sviluppo della guerra.

Il libro è attraversato da una polemica nei confronti dei concetti di biopolitica e governamentalità, elaborati da Foucault per descrivere le tecniche di governo del neoliberismo, che sono a parere di Lazzarato delle false piste interpretative perché sorvolano sulla tendenza alla centralizzazione e alla violenza del capitalismo:  infatti “Il concetto di biopolitica ha riscosso tanto successo proprio perché, come il concetto di governamentalità, rimuoveva guerre e guerre civili mondiali, secondo l’ideologia per cui l’Occidente, una volta sconfitto il comunismo, non avrebbe avuto più problemi di sicurezza” (op.cit. p.67). Ora non solo alcune interpretazioni della biopolitica non nascondono gli aspetti più violenti di questa pratica ( per esempio Agamben, quando afferma che il campo di concentramento è il paradigma biopolitico, anche se non è interessato alle sue evidenti connessioni con i modi di accumulazione), ma resta il fatto che la biopolitica descrive abbastanza correttamente un certo modo di governo delle società capitalistiche. Questo dualismo di funzionamento del capitalismo, quello più soft, governamentale, parcellizzato e quello invece violento, imperialista e centralizzato può essere più utilmente spiegato con la teoria dei cicli di accumulazione di Arrighi, che considera l’imperialismo un fenomeno tipico dell’ultima fase, quella di crisi.

Un altro momento di dibattito che suggerisce questo libro ossia quello dell’importanza per i movimenti di riscoprire la dimensione del conflitto e della negazione e quella dell’importanza del contesto generale appare non tenere in conto che nel corso del Novecento la dimensione del conflitto e della rottura è stata gestita da forme organizzative più strutturate dei movimenti, di solito di tipo partitico. Se è assolutamente condivisibile l’idea di Lazzarato che le forme organizzative del passato non possono più essere usate, è d’altro canto evidente che di forme organizzative si parla e non di movimenti che fanno della spontaneità e della transitorietà il loro punto di forza.

Il merito di questo libro è la capacità di presentare un quadro complessivo della situazione attuale in una maniera articolata e con un linguaggio fruibile anche dai non addetti ai lavori. Non era affatto scontato arrivare a proporre un’interpretazione convincente della situazione in una forma chiara e sintetica, data la complessità del quadro e dei dati. E in questo Lazzarato riesce perfettamente. Certo il suo libro è di quelli che analizza la verità effettuale della cosa e non l’immaginazione di essa,  o, per dirla più modernamente, tra la pillola rossa che ti fa vedere la realtà com’è e la pillola blu che ti immette in un mondo ideale, Lazzarato sceglie come il protagonista di Matrix senz’altro la prima. E questo potrebbe spiegare perché le tesi sostenute qui differiscono in maniera sostanziale dai discorsi e dalle analisi che vanno per la maggiore.

 

 

L’ultima battaglia

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di Marco Ansaldo

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il testo che segue è l’introduzione di Marco Ansaldo al breve romanzo “L’Ultima battaglia”, del sivigliano Julio Manuel de la Rosa, recentemente pubblicato dall’editore Scritturapura, nella traduzione di Marino Magliani, e la cura di Alessandro Gianetti (NdR)

Morire scrivendo è forse la fine migliore per un autore. Come l’attore che crolla all’improvviso sul palco, o il corrispondente di guerra colpito sul campo di battaglia. Una scelta di vita che si sublima nell’attimo del momento supremo.
Julio Manuel de la Rosa è morto lavorando. “Scriveva sempre, anche quando semplicemente camminava”, raccontano le biografie. “Tutta la sua vita è stata letteratura”. E questo libro che avete tra le mani, L’ultima battaglia, è il testo da lui rilasciato nel 2017, appena pochi mesi prima di andarsene all’inizio dell’anno dopo.
Bene dunque ha fatto l’editore Scritturapura (specializzato nel raccogliere perle disperse, come qualche anno fa con lo splendido Lamadonna col cappotto di pelliccia del turco Sabahattin Ali) ad accogliere il consiglio di pubblicarlo in Italia, segnando così il proprio debutto nella letteratura spagnola, visto che l’autore era un orgoglioso sivigliano, nato e morto nella sua città (1935-2018). Perché questo breve romanzo, folgorante e potente nel suo attacco e nello sviluppo, è capace di conquistare un posto nel cuore del lettore.
Stalingrado, 1942-43, la battaglia più importante della Seconda guerra mondiale. Nella “Città eroica”, come la chiama il protagonista. E la sua lunga resistenza, con l’atroce sconfitta della 6° Armata tedesca e la conseguente avanzata sovietica che porterà alla caduta del regime nazista.
L’uomo è un disertore. Un soldato che ha per Dio un generale con “nome e cognome”, Gheorghi Zukov, e per Diavolo il suo avversario, Friedrich Wilhelm von Paulus. Ma il nostro uomo, benché smunto, lacero, sporco e affamato, è tutt’altro che uno sprovveduto. Nel campo di sterminio da cui è fuggito ha conosciuto Primo Levi, “il ragazzo italiano che non è riuscito a sopportare lo spettro dei suoi ricordi”, chimico che si salva dal Lager e sarà scrittore. L’uomo ne diventa amico. Gli autori italiani sono molto presenti nell’opera di Julio Manuel de la Rosa, autore che ha assorbito la lezione di Italo Calvino e scritto una biografia di Cesare Pavese. Di Levi scrive: “Era un chimico, ma quasi sempre parlava come un poeta”.
Il suo racconto è la fuga. Lo sfondo, quello indefinito della steppa. Il mezzo, il vagone di un treno. “Dio non può aiutarci, se noi non gli andiamo incontro”. Il militare scappa, e così si salva. È il momento più decisivo, ammette, della propria esistenza. Il salto doloroso dal convoglio lo ferisce, a terra c’è una figura di una donna con in mano un’ascia, e dietro una casa. La quiete arriva dopo tre scodelle di zuppa calda. Anna la vedova lo accoglie senza chiedere nulla, lo nasconde dandogli lavoro nel campo, lo ama. Ma lui, con strazio, è infine costretto a lasciarla. Deve proseguire il proprio cammino. Ora ricorda: è un cecchino della 64ª Divisione.
Il tiratore scelto si arma, e vaga nuovamente nella steppa. Ma ancora è confuso, si perde, crolla. Nella testa, assieme a Levi, ritrova un altro punto di riferimento, Socrate. “Socrate non venne ucciso: Socrate si suicidò”. Pensa ad Anna, alla sofferenza che le ha provocato, alle menzogne che le ha dovuto raccontare. Avvicina la bocca alla canna del fucile. Lo distrae, salvandolo nuovamente, il rumore di un motore. Tre soldati che bevono caffè, un odore dimenticato, e come autentici esseri umani in pace, fumano e conversano.
Il finale è poderoso: tornare, forse da vendicatore, al Grande Baraccone da dove era partito, ad Auschwitz, città anch’essa mai nominata. Da figlio della steppa (“legato a lei come un lattante alle mammelle vuote di una madre tirannica”), ha sviluppato facoltà uditive abnormi, olfatto al massimo livello, una smisurata crescita della vista. Soprattutto, ha coltivato la virtù della pazienza. Ma la guerra, non è finita? L’epilogo è l’immagine di un’apertura: “Vedo un gruppo di soldati di un esercito sconosciuto, che stanno entrando nella piazza. Tutti hanno il volto coperto con fazzoletti e avanzano pacificamente verso di me”.
Un soldato senza tempo, che attraversa tutte le guerre, un fantasma che fugge dall’orrore. Siamo noi, anche, davanti a un conflitto allargato che pare alle porte. Con la mente confusa, i ricordi frammentati. La memoria li fa passare davanti come pezzi di Storia. Il disertore indossa le toppe delle uniformi di tutte battaglie. Un testo che, con i giusti adattamenti, meriterebbe di essere portato a teatro.
Dentro, la lingua di Julio Manuela de la Rosa è tagliente e precisa. Non ci sono solo gli italiani. Vi risuonano echi di Cortázar, Pessoa, Faulkner. I due traduttori, Alessandro Gianetti e Marino Magliani, la restituiscono in purezza con parole levigate come gemme. Si immaginano le scene, si sentono gli odori, si percepiscono i pensieri. Ecco allora un maestro, generoso, affabile, che del giornalismo civile (che pure aveva frequentato) ha tratto la lezione migliore. Voleva scrivere ancora, Julio Manuel de la Rosa. Consapevole di vivere il momento più alto della sua parabola artistica. La morte lo ha fatto disertare, anche lui. Eppure, vagando fra le steppe della letteratura, “L’ultima battaglia” è la summa di uno scrittore tutto da scoprire.

 

La risposta

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di Valentina Riva

Sono sicura che questo magma che pulsa nella bocca del mio stomaco è solo l’ultimo segno di una cena troppo pesante; basterà ignorarlo, stringere le coperte più forte e continuare a dormire. Ma per tenere a bada i lapilli che cominciano a sconfinare dalla sacca digestiva, bisogna sollevare la testa, bisogna fare leva sul gomito per raddrizzare il torace, sperando che la forza di gravità aiuti la forza del pensiero a trattenere tutti i liquidi al loro posto. Invece, il magma sale su a infiammare la gola, punta dritto ai denti e faccio appena in tempo a correre in bagno, prima di vederlo eruttare nel water.

La lava acida fatta di brandelli, coaguli e scorze lascia dietro di sé labbra stinte e pupille ingrossate, che tornano a percorrere il profilo della farfalla celeste posata sulla mia mano per inoculare nettari buoni ad accompagnare la coscienza in un posto buio e vuoto. Mi rifaccio la domanda. La risposta è nel grumo di cellule che i camici verdi hanno raschiato dal fondo del mio stomaco.

La pancia adesso è vuota abbastanza per fare largo all’ansia, e di spazio ne serve parecchio perché l’agitazione si gonfia a mano mano che il momento della risposta si avvicina. Ormai, mancano poche ore.

Il sintomo capitale di tutte le malattie è la perdita di connessione tra corpo e mente. Si capisce di essere malati quando la mente diventa una luce bianca appesa in una crosta, polverosa per la maggior parte, umida e scura nell’angolino di cui nemmeno si conosceva l’esistenza, prima che iniziasse a marcire.

Torno a stendermi, ma non mi copro; sento evaporare nella stanza il calore umido della mia pelle, mentre resto immobile e respiro piano (dalla bocca si fa meno rumore) perché, in fondo, penso che la calma possa servire a evitare una nuova eruzione; se non mi muovo, il puntino marcio, semmai esistesse, potrebbe seccarsi e smettere di infilare le sue radici infette nel resto del mio ventre.

Fuori il buio è velato dal vapore di nuvole sfilacciate, come le immagini che si infiltrano nella mia mente e, chissà come, nei buchi del naso: muco di uova crude che cola dai lati di una bocca che non è la mia, odore di stracci umidi, rognoni.

Penso a cosa potrebbe succedere se la risposta fosse quella che non voglio sentire. Il corpo malato è un oggetto fragile e va maneggiato con cura. Il corpo malato non cammina, deambula. Non mangia, si alimenta. Non beve, si idrata.

Nessuno dice che non si parla della malattia perché discutere di vite sottili appese a una flebo e al tempo che resta è fastidioso. La salute prima di tutto. Questo, sì, lo dicono in tanti, lo diceva anche mio padre quando il cancro andò ad annidarsi nel suo stomaco.

Mentre resto in ascolto di ogni segnale dal mio corpo, movimenti e dolori a sconfessare o a confermare la risposta che non voglio sentire, la luce della mia mente si fa più intensa; non è mai stata così tagliente e vasta, è una lastra d’acqua sotto il sole d’agosto. Inizio a sbrogliare il groviglio di affanni che ho sempre portato tra spalle e testa come grappoli di serpenti che mordono, stritolano, succhiano o fanno solo sentire il loro peso; li slego uno a uno: il fiato razionato dalla paura di dire quello che penso, i pugni nel petto a ogni sguardo della gente sulle cicatrici dell’acne. Uno a uno. L’inverno addosso per ogni invito che non ho ricevuto, per ogni lavoro che non ho ottenuto, per ogni persona che mi ha soffiato via come se fossi fumo. Sotto la luce dell’attesa, non sono più serpenti, sono lombrichi, facili da sotterrare nel fango da dove sono venuti. E stendo le labbra in un sorriso che ha lo stesso sapore della lava che mi ha appena scorticato la gola.

Ma il corpo cede ora? No, è sempre la testa la prima a franare. E se la testa perde il controllo, perde se stessa.

Verso lo sguardo sulla mia figura allungata, dalla punta del petto a quella dei piedi. Sono ancora intera, ho ancora forza. Nonostante tutto. Non posso controllare quale sarà la risposta, ma posso controllare il riflesso che avrà su di me, e se dovesse andare bene, userò la memoria di questi giorni come acqua per lavare via i serpenti che cercheranno di strisciarmi addosso da qui in avanti.

L’alba che comincia a dilatarsi nel buio è bianca come la mia mente, mi tiro di nuovo su e spalanco gli occhi alla luce che la notte sta generando. Sento il canto primo degli uccelli, il sudore condensato sulla schiena, la poltiglia masticata e rimasticata delle mie paure, che, invece di avvelenarmi, mi riveste.

Ora non sento più niente. Sono pronta a ricevere la risposta.

*fotografia di copertina: Karl Petzke ‘Uma & Jingle P04’. From the project DANDELION.

Altri animali

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di Giorgio Baiocco

In città nevica polline. Fiocchi incerti risalgono in piccoli vortici appena prima di toccare la strada. Sembra impossibile che obbediscano alla stessa legge che regola la caduta di tutti i corpi. Gaia, di ritorno dal lavoro, segue un percorso altrettanto indeterminato. La fermata e il portone di casa distano appena cento metri in linea retta, ma lei non ha voglia di rientrare. Da un po’ di tempo è mossa da uno strano istinto. Una sensazione simile a quella di una creatura che le si agita in grembo – almeno stando ai racconti delle sue tante amiche che hanno già avuto gravidanze. Le succede ogni primavera. Si sente ancora addosso l’odore di McDonald’s della scimmia in completo da ufficio seduta accanto a lei in metro. Sguardo fisso sulla schermata di Zoom del cellulare, riunione e cena in corso. In passato, i suoi nonni le avevano raccontato spesso del loro viaggio di nozze a Saint Kitts, nei Caraibi. Delle scimmie sempre ubriache, diventate dipendenti dall’alcool a furia di rubare cocktail ai turisti. E di come, quando cinquant’anni dopo avevano deciso di tornare nello stesso resort per festeggiare il loro anniversario, avevano trovato proprio una scimmia ad accoglierli alla reception. A sentir loro, il mondo era cambiato in fretta. Per Gaia, invece, è sempre stato normale vedere scimmie sfruttate in azienda – una vita di lavoro, alcool, sigarette, cibo spazzatura, gocce per dormire – molto più facile che andare in cerca di piña colada in spiaggia, o peggio ancora di banane.

La strada verso casa si apre su uno spiazzo verde. A Milano esistono ancora degli angoli di natura – era stato il commento entusiasta dell’agente immobiliare che gliel’aveva affittata al suo arrivo in città, e Gaia aveva annuito, sorridendo, lei che si stava trasferendo lì proprio per studiare la Natura all’università. All’epoca nessuno avrebbe potuto prevedere una stagione di ondate migratorie così intense. Il suo quartiere è sempre stato popolato da una fauna variegata, ed era lì che si ammassavano tutti i nuovi arrivi, stazionando giorni, settimane. Ma in particolare nell’ultimo anno, quel verde natura, e ogni altro spazio aperto in città, sono diventati bivacchi perenni di numerosissimi nuovi animali, scuri e diversi. Articoli di giornale, comitati di quartiere, l’allerta è massima, ma le oasi d’accoglienza straripano e il Comune non riesce a far fronte al fenomeno. La gallina del piano terra non si dà pace. L’ha incontrata stamattina – “Una volta era un lusso avere quest’angolo davanti casa, guardi ora signorina, guardi, che schifo!” – e Gaia ha annuito, sorridendo: “Se ne andranno, vedrà, è solo questione di tempo, la maggior parte non vuole restare ma proseguire verso il nord Europa, lo dicono anche al tg”. Non si è neanche tolta gli occhiali da sole. Aveva dormito malissimo, fortuna almeno che era riuscita a farlo uscire di casa presto, con una scusa, e che quella ficcanaso della vicina non li ha visti insieme. Anche con lui, ieri sera, aveva annuito e sorriso a quel – Ti è piaciuto? – detto con tutta la tenerezza a cui può lasciare spazio una dieta di integratori proteici. Al risveglio, si era resa conto di avere addosso la sua chela posticcia, rossa e grossa. Sapeva che ad alcuni granchi tropicali poteva succedere, che potevano perdere la chela in combattimento e farsene crescere una nuova, più debole e meno mobile, ma a prima vista indistinguibile dall’originale. Con la nuova imparavano ad ingannare, continuavano a minacciare i propri pari e attrarre le femmine per l’accoppiamento. Ma era la prima volta che le capitava di scoprirlo a letto. Gaia frequentava esemplari di ogni specie, esplorando l’infinita varietà zoologica delle app di dating. Eppure, nessun incontro la rendeva felice. Molti maschi erano capaci soltanto di chiedere attenzione, prendere il meglio degli altri, a proprio uso e consumo, senza sforzarsi di dare nulla in cambio. Come l’ultimo gatto con cui era uscita per un po’. Sempre inarrivabile, con l’aria insoddisfatta di chi vuol farsi cercare, pur mantenendo le distanze. Pronto a passare lievemente su tutto, soffiare e graffiare in caso di contatto troppo intimo e ravvicinato. Altri invece erano così insicuri, fragili – tutti, in fondo, erano drammaticamente bisognosi di conferme – Signorina, mi stanno bene questi pantaloni? –. Almeno in università, dove aveva prima studiato e poi lavorato a lungo, nessuno si preoccupava dei vestiti. Ormai annuiva e sorrideva sempre, Gaia, perché di no ne aveva detti troppi, e di certo non l’avevano aiutata a far carriera. Dopo la laurea, il dottorato, anni di post-doc, borse e contratti precari, era stato un cane – il protetto del Professore – a vincere il concorso da ricercatore al posto suo. A detta di tutti il cane era molto meno titolato di lei, ma più accomodante, più servile, e il sistema l’aveva premiato esattamente per questo. La Natura originaria, quella a cui Gaia aveva dedicato tutti i suoi studi, funzionava diversamente – premiava la capacità di adattamento, certo, ma sceglieva, selezionava, anche in base alla forza, all’unicità. Se il mondo fosse stato ancora così, Gaia avrebbe potuto avere tutto – lei che era forte, intelligente e bella. Ma la Natura in sé e per sé non esisteva più, se non come una lontana materia accademica. Non si era guadagnata il posto in università, se n’era andata minacciando di fare ricorso e chiudendosi ogni porta alle spalle, ed era finita a fare la commessa in un negozio d’abbigliamento.

Le succede ogni primavera, ma quest’anno la visione dei nuovi animali scuri di fronte a casa non fa che aumentare la sua irrequietezza. La fatica compiuta per arrivare fino a là sembra aver scavato i loro corpi, come l’acqua lenta modella la roccia, lasciando muscoli e nervi emergere decisi e orgogliosi. Di quegli animali, sembra rimasto soltanto l’essenziale. Gaia è ormai arrivata. Nota subito un nuovo cartello – Si prega di fare la MASSIMA ATTENZIONE e accertarsi che il portone non rimanga MAI APERTO che tradisce la psicosi maiuscola, da assedio dilagante – non è sempre così che hanno inizio i conflitti? Nella sua tesi di dottorato, che le era valsa grandi lodi e la pubblicazione su un’importante rivista di studi sulla Natura, Gaia aveva tentato di ricostruire da materiale d’archivio l’origine e le dinamiche dei comportamenti violenti tra consimili, prima che gli animali si mescolassero agli umani. Gli scimpanzé erano stati il caso di studio principale. Le sue ricerche avevano dimostrato che sin dall’inizio gli scimpanzé, anche quando vivevano isolati, si ammazzavano tra loro: aggressioni di gruppo, ma sempre e solo ai danni di esemplari maschi adulti. Eliminare un maschio, in fondo, era un modo per avere di più. Da diversi decenni ormai in città abitava ogni sorta di animale, e ora che le migrazioni diventavano sempre più di massa, le cose non potevano che peggiorare. Gaia apre lentamente il portone, si affaccia appena nell’androne del condominio, e subito fa per ritrarsi – eccoli lì riuniti, ecco il comitato anti-degrado – galline, maiali, pecore, cani, vacche – poveri illusi, come se riunirsi al sicuro, prendere decisioni in ridicole stanze del potere, potesse davvero servire a qualcosa, quando fuori tutto è in continua evoluzione. “Ma lo sapete che ieri hanno importunato la maialina del quinto piano, quella che abita nella scala A!”, “Ma quella è una ragazzina, va ancora a scuola!”, “Mi fanno schifo!” – è tutto quello che riesce a sentire, prima di allontanarsi. La prima reazione di Gaia è quella di non riuscire a crederci, neanche un po’. Non tanto per l’età – quell’adolescente viziata è una stupida scrofa con tanto di unghie finte, trucco e vestitini volgari per uscire la sera con le amiche.  È vero che tra i nuovi animali sembra che ci siano solo maschi – saranno partiti da soli, in avanscoperta? Le femmine li raggiungeranno una volta cresciuti i cuccioli? O saranno partiti insieme, e solo loro sono sopravvissuti al viaggio? Ma se davvero vogliono accoppiarsi di nuovo, dovrebbero ambire a qualcosa di più di quella scrofetta. Diversi zoologi da talk show, invitati a parlare dell’emergenza migratoria, sostengono la teoria di un salto evolutivo. Pur mantenendo tutti i tratti somatici di animali di terra, sembra che i nuovi arrivati abbiano sviluppato un sistema di branchie per sopravvivere ai viaggi via mare. Troppo a lungo il Mediterraneo, con i suoi pesci e altri animali marini, si è cibato dei loro cadaveri. Ma le frontiere chiuse non fermano la Natura. Gaia, ogni sera alla stessa ora, è di ritorno verso casa dal negozio – la regolarità, in fondo, è una delle poche cose che ama della sua vita da commessa: niente scadenze da rispettare, bandi per finanziamenti, conferenze e lezioni da preparare di notte. Non è stata forse la Natura stessa ad aver inventato per prima i giorni che si ripetono calmi e tutti uguali, non è forse Lei la grande madre di ogni routine? Gaia, ogni sera alla stessa ora, è tentata dall’avvicinarsi un po’ di più ai nuovi animali. Non è stata forse la Natura stessa ad aver superato ogni grado di separazione con l’uomo? Con il capannello dei vicini riuniti nell’androne non può certamente rientrare a casa – non ha voglia di salutare, farsi largo sentendo i loro sguardi addosso. Allora si allontana, a passo rapido dal portone. Presa da mille pensieri, non guarda dove sta andando e finisce dritta addosso a uno di loro, perde l’equilibrio e quasi cade. L’animale la afferra – la mano chiara di Gaia si aggrappa e affonda sul suo dorso scuro e tonico. La sua zampa callosa la tiene in piedi, all’altezza del seno. Gaia chiude e riapre gli occhi in un momento – sente un odore ispido, è il fiato dell’animale, che sa di cibo vero. Un fotogramma del suo collo: eccole, sotto il pelo corto – le ha immaginate a lungo e finalmente le vede – un’infilata di piccole fessure, ipnotiche come un graffio su tela, vive, umide e socchiuse a promettere rivincita. Per un istante, ha voglia di avvicinarsi col volto, con la bocca. Ha voglia di leccare le sue branchie. Scossa da un fremito, Gaia si ricompone e si allontana in fretta, quasi scappa – portano malattie, dicono – mentre l’animale la segue con lo sguardo vivace, sembra preoccupato di averla spaventata, ma bloccato, incapace di comunicare. Chissà se qualcuno è stato testimone della scena. Le succede ogni primavera, ma non ci mette molto a capire che quello scontro ha già cambiato tutto. Anni passati a studiare la Natura sui libri, per capire e per sapere, per conoscere le regole del gioco, ed ora che non ci sono più argini, ora che la Natura è ovunque, ora che gli animali sono ovunque, è lei stessa, nel bel mezzo della città, ad essere preda della pulsione più primordiale, dell’unica che davvero conta: sopravviversi. Il calore che sente tra le gambe è un segnale, quello che si agita nel suo grembo è un vuoto che va colmato. Vuole accoppiarsi, e vuole un figlio, forte, intelligente e bello come lei, ma diverso. Un figlio che non si stancherà, che non imparerà ad annuire sorridendo, che avrà se necessario la forza di attraversare deserti e mari. In questo mondo ormai così misto, questi nuovi animali sono il vantaggio in partenza di cui ha bisogno – fuori dalla probabilità di match nel Tinder zoo, fuori da ogni canone dell’esemplare maschio medio di città, viziato al punto da aver perso di vista il valore stesso dell’essere in vita, viziato al punto da rischiare l’estinzione.

Gaia interrompe la sua fuga. Quella stessa primavera, Natura permettendo, inizierà un’attesa di nove mesi, poi crescerà e difenderà il suo cucciolo, con le unghie e con i denti – grazie a lui, è sicura che continuerà ad esserci, ancora a lungo. Di nuovo, cambia direzione all’improvviso, come un fiocco di polline, che decide all’ultimo di non toccare terra – soltanto a prima vista, una piccola disobbedienza alla legge di gravità. Stavolta, punta decisa verso lo spiazzo verde davanti a casa, verso il bivacco dei nuovi animali scuri.

Andùm?

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di Greta Bienati

Matricula dos Immigrantes, numero 77.314. Data di sbarco: 6 marzo 1888.

Sul registro degli arrivi al porto di Santos, Brasile, il suo nome viene per ultimo. Prima c’è il capo famiglia, poi la sua mulher, il suo irmão, come là chiamano i fratelli, e quarta lei, sul cui grado di parentela il funzionario non è tanto sicuro: sarà la cunhada?

Anche il nome è sbagliato: Luigia al posto di Letizia. Ma come si fa a sentire bene in un giubileo di spintoni e fagotti, bambini che piangono e sacramenti in cento lingue differenti?

È appena scesa dal Provence, il piroscafo che parte da Genova e fa tappa a Marsiglia e Barcellona, per riempire ben bene le stive prima delle due settimane di traversata. Nacionalidade: Italia. Profissão: Agricultor, scrive il funzionario, che, per fare più svelto, mette le virgolette e non sta neanche a guardare se il registrato ha ottant’anni o sei mesi.

Oltre alle tre parole del registro, di lei è rimasto poco e niente: nessuna foto, poche briciole di ricordi, qualche carta, firmata da mani che, con la scrittura, dovevano avere ben poca pratica. Atti di nascita e di matrimonio, registri di immigrazione, schede individuali nei fogli di famiglia.

Ma a seguir le briciole e a leggere tra le righe, puoi immaginarla in una sera di gennaio, qualche giorno prima dei santi della neve, seduta vicino al camino, in una cascina di San Silvestro di Curtatone. Cinque case e una chiesa, in terra mantovana, lungo la strada che viene da Buscoldo, e tutto intorno nebbia e galaverna a nascondere i campi.

In san Silvestro, la Letizia è venuta a stare da poco, sposina da quattro settimane, ma già con la pancia tonda. Il posto dov’è nata è fatto alla stessa maniera: una cascina in Cesole di Marcaria, dove l’Oglio si butta nel Po. Una dinastia di falegnami e filandere, contadini per forza, in campi dove puoi star sicuro che, prima o poi, il Fiume rompe l’argine e si porta via tutto.

A Cesole come a San Silvestro acqua e formentone formano un mare piatto, che fa correre lo sguardo fino all’orizzonte, e ti pare di vedere la curvatura della terra. Nei campi tagliati dai canali e cuciti dai filari di gelsi, le case sono isole, e gli occhi si aggrappano ai campanili per non perdersi nel niente, verde o grigio a seconda della stagione. Il niente non è posto da confini precisi: la terra e l’acqua si mescolano che quasi non le distingui, e si vede bene che mica tanto tempo fa era palude e terra di coccodrilli. E prima ancora mare vero, con l’acqua salsa e i pesci, roba che gli aratri scavano ancora fuori conchiglie pietrificate del tempo del Diluvio.

Forse è mare anche adesso, a guardare quanto l’acqua viene vicina alle case. Una volta con la piena, un’altra con la nebbia, che non sembra ma sempre acqua è, e viene anche lei dal Po, a far umide le lenzuola, che non riesci a dormirci se non le asciughi con lo scaldino.

Visto che la Letizia è venuta al mondo di Venerdì Santo, han pensato bene di metterle un nome di buon augurio, a esorcizzare la data triste: Letizia Pasqua, un nome che più contento non si può.

Nella pancia, non lo sa ancora, ma c’è una tusa, a portar fortuna alla sposa, come si dice in tutta la Lombardia. Di nome le metteranno Maria Giuditta, per avere la protezione della Madonna (e sicuro la Letizia è andata a accendere un cero alle Grazie, per proteggere il primo parto), e quella della suocera, che è morta prima di vedere la nipote. Ma non basteranno né l’una né l’altra, perché, sulla Matricula dos Immigrantes, Maria Giuditta non c’è. E i fratelli che verranno dopo di lei non sapranno neanche che è mai stata al mondo.

Chi avrà avuto l’idea di partire? Una voce corsa a una fiera? Oppure un compaesano intraprendente (c’è sempre uno che la sa più lunga degli altri)? E magari, dopo averli convinti, lui è rimasto lì, a San Silvestro, nell’oceano di formentone e nebbia.

A chiudere gli occhi, puoi quasi vederli, nella sera di gennaio, baffi gli uomini e capelli raccolti le donne, seduti nella cucina un po’ scura, che il lume a petrolio è meglio risparmiarlo. E i due fratelli a scambiarsi le parti, uno a fare quello convinto e l’altro lo scettico, che essere contadini vuol dire esser diffidenti, perché ho mai visto girare il mondo dalla parte giusta.

– Ti dico che pagano il viaggio e danno la terra gratis, ca ‘t gnìs ‘n càncar!

– Eh già! E io ci credo!

Poi da capo, a ruoli invertiti, quello convinto che adesso ha i dubbi, e l’altro che si è deciso e torna lui a convincere il fratello. Tutto in dialetto, è ovvio. Perché l’italiano è un parlare forestiero uguale al portoghese.

Magari la Letizia tira fuori le carte, come han sempre fatto a casa sua quando c’era una decisione importante. Solo tre, scelte con la mano del cuore. Una è sicuro di quadri, a promettere ricchezza, ma forse c’è anche un picche, a dire che non saranno solo rose e fiori.

La bambina tira un calcio, per dire anche lei la sua, che qua i temperamenti sono infiammabili come zolfanelli già prima di venire al mondo, e l’intercalare che augura un canchero dice già tutto sui rapporti col prossimo. La Letizia accarezza la pancia e guarda le carte. Di lì a poche settimane, vedrà robe che, in vita sua, non si era mai neanche immaginata: il porto di Genova come un formicaio, la nave a vapore più grande della chiesa della Madonna, e poi l’Oceano, che chissà che impressione per lei che non ha mai visto il mare. E la traversata, con intorno solo acqua, in un tempo senza sapore, senza neanche un campanile a cui aggrappare lo sguardo.

E poi il Brasile, e Campinas, e avevi ragione, davvero davano la terra, ma quale terra, che qui c’è da tirar giù una foresta intera, ca ‘t gnìs ‘n càncar! E la piantagione di caffè, i serpenti e le tigri, l’ananasso e lo scimmione.

Poco cielo, che gli alberi e le colline chiudono la vista, tutto al contrario di Cesole, dove gli alberi li vedi solo sul viale che va al cimitero, e le montagne compaiono lontane lontane solo un paio di volte l’anno, nei giorni freddi di vento. E niente inverno, che qua si vive senza le scarpe anche quando vai sul calesse col vestito della festa, e i bambini non riescono a immaginarsi come sono fatte la neve e la galaverna.

E quando sei lì bene, con una fazenda, cinque figli e quello dei sei lì lì a venire al mondo, non capita mica un furto di cavalli? Lo so chi è stato, adesso vado a prenderlo. E la voce del ladro che digrigna: quando vengo fuori di galera, ti pago io.

E adesso? Adesso non puoi mica dormire tutta la vita col fucile di fianco. Lo penso io, lo pensi anche te: forse è meglio se andiamo a casa. Coi soldi che prendiamo dalla fazenda, sai quanta terra ci comperiamo a Cesole? E poi, un domani, si può sempre tornare qua, ormai sappiamo la strada, e i figli sono mezzo brasiliani.

Avanti e indietro, attraverso l’Oceano, che è sempre grande e noioso uguale. E uguale è anche Cesole, e la piana, e il Fiume. Così uguale che non facciamo in tempo a comperare la terra, che l’acqua arriva a portarla via, con la piena del Novecentosette. E giusto perché gli anni neri sono neri fino in fondo, pochi mesi e la Letizia, dopo due traversate dell’oceano e sette figli, muore di parto insieme a quello che avrebbe fatto otto.

Ma, in questa sera di gennaio, il domani sono tre carte. Qui ci sono solo la galaverna, le braci nello scaldino, la campana di San Silvestro che batte le nove. E due voci:

–  Andùm?

– E andùm, ca ‘t gnìs ‘n càncar!

Su “Scritture verticali. Pizzuto, D’Arrigo, Consolo, Bufalino”

2

Gualberto Alvino, Scritture verticali. Pizzuto, D’Arrigo, Consolo, Bufalino prefazione di Pietro Trifone, Roma, Carocci 2024.

di Mariano Bàino

Riguarda la prosa di quattro grandi “irregolari” della letteratura italiana contemporanea questo studio di Gualberto Alvino: quattro autori «d’eccezionale competenza linguistica e consapevolezza estetica», i quali «lavorano al trivio fra prosa, poesia e speculazione lato sensu filosofica, mirando alla rifondazione dell’arte narrativa in direzione antagonistica e di ricerca, ergo trasformando in capitale questione stilistica ogni minimo dettaglio del loro operare». Difficilmente si potrebbe dir meglio, a voler cingere in un unico cartiglio i nomi di Antonio Pizzuto, Stefano D’Arrigo, Vincenzo Consolo, Gesualdo Bufalino. Certo, l’orizzonte oggidiano della scrittura, per semplicismo stilistico, per colluvie digitale, appare perlopiù disinteressato, se non proprio avverso, alla parola inquieta, non comune, e a combinazioni retoriche raffigurabili come letterarietà radicale. Nondimeno, Gualberto Alvino, che ha dalla sua una lunga fedeltà di stilcritico ai quattro scrittori siciliani, in Scritture verticali procede con forte inclinazione ad aggiornare e sviluppare l’ermeneutica testuale già affidata a saggi e articoli linguistico-stilistici, guidando il lettore alla genesi di complessi procedimenti onomaturgici, alle preziose materie laboratoriali emergenti da carteggi privati, in generale a potenti tensioni espressivistiche.

In apertura del volume, due studi sul lessico pizzutiano, il primo dei quali apre con una citazione da Lessico e stile dell’autore palermitano riguardante il neologismo «più temerario da lui forgiato»: «L’aggettivo […] mi è rimasto impresso dalla lettura di Tucidide, compiuta quarant’anni fa, e guizzatomi dentro come un ago inghiottito che torni alla luce dopo una circolazione innocua di decenni nelle viscere […]. Lamprà: che voce meravigliosa; quel rotacismo vi mobilita il lampo infondendovi arcana vibratilità. […] Nessun’altra voce direbbe, secondo me, altrettanto». Negando alla parola la mera funzione di tramite comunicativo, privilegiandone il lato ambiguo e sfingeo, l’autore di Paginette fonda la sua nozione di narrare in contrasto a raccontare, che è il campo del solo «fatterello», un «antico sistema» del ridurre, in cui i personaggi sono «documenti», mentre nel narrare essi sono «testimoni»; qui la rappresentazione «non è più offerta ab extra, come una planimetria sottoposta al lettore, ma scaturisce intuitivamente da ciò che legge, con una compartecipazione attiva, direbbe un tomista in contuizione». I principî compositivi di Pizzuto, come ognuno sa, hanno suscitato anche commenti dubbiosi, come in Cesare Segre e in altri, per l’ipotizzata propensione a un artificio insistito fino al punto di sottrarre la parola alla sua naturale circolazione, tout court al suo agire comunicativo. Ma il controverso dibattito intorno all’autore, da qualunque parte lo si voglia vedere, non rende meno benemerite le ricerche e le scoperte di Alvino, il cui scopo dichiarato — nell’inseguire l’«estro neologico» di Pizzuto e il suo tentativo «d’occupare uno spazio unico nel mondo, battezzando la cosa e transustanziandosi in essa» — è quello «di contribuire alla riapertura d’uno dei casi letterari più formidabili del secondo Novecento». In Onomaturgia pizzutiana II vengono in particolare esaminati gli scritti più tardivi: Giunte e virgole e Spegnere le caldaie, quest’ultimo dettato dall’ottantenne scrittore alla figlia poco prima di morire. Qui la decrittazione dell’«ordigno neologico» deve fare i conti con «un’evasività semantica e […] un’ambiguità figurale senza confronti nella storia dell’italiano letterario». La prospettiva è tale da dischiudersi a «innumerevoli fughe, nell’infinita circolarità». Fra primo e secondo scrutinio Alvino rileva 666 coniazioni originali. Qualche specimen: «Desertudine […]: ‘silenzio d. tosto banditi’. Da deserto secondo il rapporto solo-solitudine»; «Giambicardia […]: ‘riccioli, g., compatto magdeburgismo’. Da giambo e cardìa. ‘Pulsazione cardiaca a ritmo giambico’»; «Verseggevoli […]: ‘notari v. in clausola’. Da verseggiare col suff. –evole. ‘Che si dilettano a scrivere versi’».

Al di là di una naturale, comprensibile Familienähnlichkeit tra i profili dei quattro autori, Scritture verticali rivolge il suo focus soprattutto all’arte personale di ognuno. Nel caso di D’Arrigo molto si evince dalle lettere indirizzate all’amico ragusano Cesare Zipelli lungo l’arco di quasi mezzo secolo, contraddistinte da «un’assoluta — e, si badi, affatto involontaria — negligenza estetica», con la superficie della carta insaziabilmente inondata dall’inchiostro, e con l’evidenza di una «rapidità esecutiva e un malgoverno linguistico poco meno che traumatizzanti» se riferiti a un autore divenuto per l’opinione invalsa «l’incarnazione stessa dell’amletismo e dell’incontentabilità». L’epistolario smentisce tali miti, ci dice di uno scrittore che lungo il ventennio che va dal primo abbozzo di Horcynus Orca alla pubblicazione mondadoriana nel 1975 ha lavorato saltuariamente e senza una precisa strategia di revisione, oppresso dalla sua malattia, la sindrome bipolare. Per Alvino questo è il fil rouge che attraversa, salvo trascurabili differenze formali, tanto il modus epistolandi quanto il romanzo. La parola, «risucchiata nel gorgo infinito della coazione a ripetere, si fa motore d’una sorta di borbottio paranoide, di mantra ipnotico privo di motivazione tematica, sicché la corrente diegetica vacilla, si smorza, cede alla libera fulgurazione associativa, sotto specie d’impetuosa proliferazione, di ingovernabile narcisismo verbale schiacciato in una pressoché totale intransitività». Il furor linguisticus darrighiano, nello scrutinio di Scritture verticali, trascina con sé «forme e costrutti ai confini della grammatica», «ripetizioni non funzionali a distanza ravvicinata», «filze di subordinate del medesimo tipo», soprattutto «relative e causali, come negli scritti dei semianalfabeti». L’insieme, nel contribuire alla formazione della lingua orcinusa, determina la scommessa di D’Arrigo: il conseguimento «di un valore e di una ‘verità estetica’ senza precedenti». Epperò, se di reale scarto dalla norma e di autentico sperimentalismo linguistico si può parlare circa Horcynus Orca è essenzialmente in virtù di un lavoro che resta al di qua di un confine rigidamente lessicale, restando gli svii di natura sintattica di modesta entità. Com’è scritto in un saggio degli anni Settanta del Novecento di Ignazio Baldelli, citato da Alvino, «il genio insistentemente deformante di D’Arrigo ha la sua più evidente manifestazione stilistica nel gusto derivativo ed etimologico: lungo tutta l’opera si svolge una festa sfrenata di denominali, di deverbali, di parasinteti verbali, di parole composte e ripetute». Centralità assoluta, nello scrittore messinese, e non solo in senso squisitamente onomaturgico, del profilo lessicale, dal quale sono escluse del tutto coniazioni riconducibili al greco, poche quelle che rinviano al latino, mentre prevalgono le basi concrete e dialettali. Dal glossario allegato al secondo studio su D’Arrigo, fra le 956 voci scrutinate vi sono 554 neologismi d’autore, fra cui: «Abbranchiante […]: ‘la membrana grisposa, a. e sditata delle manuncule’ Part. pres. d’un supposto *abbranchiare, da branchia col pref.a(d) – illativo. ‘Simile a una branchia’. Ma anche da abbrancare ‘afferrare’, ‘ghermire’»; «Orcinato […]: “il suo essere orcinuso aveva pigliato la via dell’aceto degenerando in o., dall’essere la Morte e passare per immortale all’essere un mortale, a essere un morto”. Part. pass. d’un supposto *orcinare, dall’agg. lat. orcinus ‘dell’averno’, ‘dei morti’»; «Pomponellaro […]: “in gran pomponella, s’ammassarono là, […] quelle pomponellare s’allontanarono”. Dal sic. pumpinella ‘sfottò’ col suff. –aro di mestiere».

Nelle pagine di Scritture verticali dedicate all’arte della parola di Vincenzo Consolo si incontra, per sottolinearne la furia combinatoria, l’immagine dell’«olla podrida», antica pietanza della cucina spagnola, a dire di un calderone dove cuociono i più svariati ingredienti. In effetti, nei testi esaminati, da La ferita dell’aprile al Sorriso dell’ignoto marinaio, fino a L’olivo e l’olivastro, «l’amministrazione della cosa linguistica» mette in moto «sperimentalismo convulso», «esuberanza dell’elemento retorico», mescolio di codici, «esaltazione del livello fonosimbolico». Un’olla podrida che ribolle di tensioni discordanti ed esposte al rischio del feticismo lessicale, dell’acrobatismo sintattico. «Un itinerario — annota Alvino — discontinuo e talora eclatantemente contraddittorio, tenendo fermo che scrittori come Consolo — pur tutt’altro che inappuntabili […] da ogni rispetto — costituiscono una risorsa preziosa e vitale per la prosa letteraria italiana». Nell’espressivismo consoliano, «cruento ed estremistico», spicca per originalità il particolare valore dato alla metrica, con la preminenza dell’endecasillabo, in solitario o in gruppo. Gli eventi fonetici si arricchiscono di rime e quasi-rime, di assillabazioni, risonanze allitterative, fin quasi a «un’adorazione estenuata del significante». Il comparto lessicale mostra una notevole vivacità, sia in sede onomaturgica che dialettale, con l’uso di parole antiche o desuete, di neoformazioni d’autore, e soprattutto di rielaborazioni di vocaboli dialettali. Le coniazioni originali computate sono 57, con alta frequenza di univerbazioni, composizioni e forme pre- e suffissali, mentre arrivano a 184 i dialettalismi. Fra questi, «Calasìa […]: ‘Bellezza’, ‘non improbabile grecismo’, ‘si tratta sicuramente di una parola del lessico familiare dello scrittore», che non ha riscontri lessicografici siciliani né calabresi; «Cuffiesco […]: “torture, angeliche muffoliche cuffiesche”. Da cuffìa del silenzio, ‘antico strumento di tortura’»; «Incastronare […]: “sciortivano gli acini o cocci per fare, infilando o incastronando con l’oro e con l’argento, paternostri”. Incastonare + incastrare».

Nell’«universo monologico, unilingue, graniticamente atemporale» dell’opera di Gesualdo Bufalino — qui esaminata non solo attraverso Diceria dell’untore, ma anche ripercorrendo i testi poetici, gli scritti saggistici e gli elzeviri — Alvino riconosce «lo statuto d’una scrittura duttile, densa, sorprendentemente viva e vitale, capace di contrastare la dilagante mediocrità espressiva» e di offrire all’esegeta, più di ogni altra, ricchi stimoli critici. «Comparata al modulo ordinario, è certo che la lingua di Bufalino si connota per una insaziata ricerca d’inattualità, una fuga dal presente posta in essere mediante vistosi sovvertimenti topologici affatto incomprensibili fuori dell’istanza ritmica, tale intendendo non già l’edificante laccatura d’una sonorità additiva e tutta esteriore, ma signoria della misura sull’impulso, equilibrio architettonico e tonale, desiderio di rifondazione d’una civiltà letteraria». È Bufalino stesso, in Essere o riessere, a suggerire per le sue pagine una lettura musicale, «un’attenzione al ritmo, alle andature melodiche […] ai campi metaforici, alla prosodia nascosta nei meandri del periodo». Circa il lessico, tra recuperi di varianti arcaiche e ricerca di fascinose sonorità, spicca il comparto neologico, con i suoi 120 neologismi d’autore. Fra le formazioni avverbiali: «Annakareninamente […]: “finita poi suicida, a., sotto le ruote di un treno”. Da Anna Karenina, protagonista dell’omonimo romanzo tolstojano». Nel settore delle formazioni pre- e suffissali: «Irraggiunto […]: “libri amati e irraggiunti”. Da raggiunto col pref. in- negativo». Fra le procedure univerbizzanti: «Madreterna […]: “Scadendo […] dal suo trono di m.”».

Il percorso seguito da Alvino, buonissimo esempio di consapevolezza metodologica e di indagine linguistica, è provvisto di una qualità che a buon diritto lo rende imprescindibile nello studio dei quattro autori siciliani.

I giorni di vetro

1

di Mauro Baldrati

La purina (poverina, che carina). E’ una delle parole che ricorrono frequentemente nel testo, come babina, bagattare (rovinare, distruggere), svettole (sberle) e altro ancora, in un particolare slang romagnolo tradotto che ci invita a tuffarci nelle acque antiche della Romagna anni Trenta. Una Romagna arcaica, patriarcale, popolata da contadini, pastori, segnata da una miseria inimmaginabile, dominata dalle superstizioni, dalla paura, dai fantasmi.

L’incipit è uno shock anafilattico immediato, siamo già dentro:

Era molto meglio prima, quando io non c’ero e non c’era nessuno dei miei fratelli, né i vivi né i morti. C’era solo mia madre che si rivoltava sul materasso del camerino e urlava: “Ammazzatemi, osta dla Madona” e la Fafina rispondeva: “Sta’ zeta ché chiami il Diavolo”, e andò avanti così per tre giorni e tre notti, finché mia madre lanciò un grido feroce e venne fuori Goffredo, il primo dei miei fratelli morti. Quando gli diedero lo schiaffo per farlo piangere lui non pianse, allora la Fafina scosse la testa e disse: “E’ segno che a Dio Cristo lassù gli bisognavo un angiolino”.
Ne vedeva tanti di bambini nati morti, e quello era uguale a tutti gli altri, anche se era suo nipote.
Mia madre la guardò avvilita. “Perché?” chiese.
“Perché hai mangiato troppo cocomero. Il cocomero fa acqua nello stomaco e il bambino si è annegato, il purino”.

La madre, Adalgisa, ne partorisce altri due, Tonino e l’Argia, tutti morti. Una maledizione. La madre dovrebbe rivolgersi al dottore di Castrocaro – una cittadina termale della provincia di Forlì – ma qui si tratta di un caso speciale, per cui va dal fattucchiere, “erudito di piante e radici e intrugli che Dio sa cosa”. E’ un santone che possiede un bastone appartenuto a Sant’Antonio, nonché “Aveva guarito anche donna Rachele, che dopo avere avuto Bruno si era ammalata di malinconia, e il Duce era venuto di persona da Milano, una mattina, a ringraziarlo con dieci casse di Albana di Predappio”.

Questa la “cura” di Zambutèn:

Dovete aspettare che vi venga il mestruo. Il primo mestruo dopo la bambina morta è quello buono. Dovete stare seduta su un pitale d’argento e raccogliere il sangue, quindi dovete farne bere dieci gocce a vostro marito, diluite nel Sangiovese. Dopo dodici giorni lui deve prendervi, e anche il giorno dopo e quello dopo ancora. Poi non dovete guardarvi più. Voi dovete dormire in un letto e lui in un altro. Vi nascerà una figlia che ancora addosso la scarogna, ma camperà.

Infatti nascerà Redenta, l’eroina principale di tutto il romanzo, la babina, la ragazzina, la donna segnata dalla scarogna, per di più storpia (avrà la polio, raccontata in un capitolo impressionante in cui ci sembra di vivere di persona quella tragedia) e “inscimunita”.

In realtà non lo è affatto, scimunita, è solo piegata, rassegnata dalla sua sorte imposta da un ambiente spietato, che non ammette deroghe, quasi si trattasse di un biotopo di animali dei boschi, o del deserto, o dei pesci di un fiume, dove chi soccombe viene semplicemente abbandonato, o mangiato, perché sono le dure regole della sopravvivenza.

E così comincia il viaggio in questo multiverso antico, popolato da una folla di personaggi ammantati da un che di leggendario, di folle, di barbarico, con storie talvolta divertenti e paradossali – come un ballo popolare in una sala soprastante un porcile, poi il pavimento crolla e i ballerini precipitano nel troiaio dei maiali. Compaiono i personaggi che seguiremo nel racconto, partecipando alla loro crescita e alle loro scelte, che in realtà non sono tali, perché sono imposte, dalle famiglie, dalla storia.

Ma non si immagini un romanzo di tipo antropologico o folkloristico. Certo, il folklore romagnolo, unico nel suo genere in tutti i folklori nazionali, filtra, ma anche se non ne abbiamo consapevolezza siamo già stati avvolti dalla elaborata ragnatela che un astuto ragno letterario sta tessendoci intorno. E’ iniziata la storia, con una quantità di dettagli che ritroveremo nella progressione, quando le vicende si complicano, o precipitano nella violenza e nella guerra.

Ecco un esempio perfetto di quel meccanismo ad alta precisione che costituisce l’intreccio: dopo il “balzo della belva”, ovvero la brusca accelerazione del flusso narrativo, inciso sulla pietra in questa riga finale della parte seconda (Giovinezza): Se non fossi mai nata, non avrei mai incontrato Vetro, quando siamo già scesi negli inferi della violenza fascista, abbiamo un’illuminazione, e soprattutto un risarcimento. Vetro, il gerarca della milizia fascista, un uomo bello, affascinante, prende in moglie Redenta, anche se ha la scarogna, ed è sciancata e scimunita (più avanti scopriremo il vero motivo). Non la chiede, lo comunica. Naturalmente i genitori sono entusiasti, che fortuna! E qui siamo già sprofondati nell’abisso oscuro dell’orrore, pubblico e privato. Vetro è stato un criminale di guerra in Etiopia, ha partecipato a orrori che se non superano – perché forse è impossibile superarli – quelli delle Tontenkops SS tedesche e ucraine, quanto meno li eguagliano. Lo stesso orrore sadico lo rivolge a Redenta, poi a una misteriosa donna nazista alla quale, all’inizio, appare sottomesso. Ma anche lei diventa una vittima, torturata lentamente, finché Redenta, che fino a quel momento ha accettato la sua sorte senza lamentarsi, la porta via, in fin di vita. Poi si prepara a essere uccisa da Vetro. A questo punto  ci chiediamo chi era quella donna, e vorremmo sapere che fine ha fatto. Perché se sparisse nel nulla, mentre il racconto avanza, resteremmo con un fastidioso senso di insoddisfazione. Tranquilli, lo sapremo. Anzi, lo sappiamo già. Perché l’autrice sta lavorando al personaggio, lo sta sviluppando, lo sta conducendo da noi, finché come nei più grandi noir esclamiamo: Santo cielo, allora era lei quella donna! E per lo stupore abbiamo una piccola vertigine.

Vetro, che dà il titolo al libro, è il Male, il fulcro su cui si appoggia la svolta narrativa, quando dopo la deflagrazione della violenza fascista entriamo nella resistenza, ritrovando i nostri personaggi che sono usciti dall’infanzia e corrono a tappe forzate verso l’età adulta. E qui entra in campo la seconda eroina, Ines. Forse per “una questione privata”, per seguire il tenebroso, nervoso ragazzino Bruno (diventato il comandante Diaz), di cui sia lei sia Redenta sono innamorate, diventerà una comandante partigiana

Le pagine sulla resistenza sono intense, avventurose. Nicoletta Verna ovviamente non ha vissuto quell’esperienza, per cui, oltre a una accurata ricerca storica (l’eccidio del villaggio di Tavolicci, pagine brucianti di atroce violenza nazifascista, è realmente accaduto per mano di un battaglione di SS italiane) è inevitabile la lezione di Fenoglio, del Partigiano Jonny e, appunto, di Una questione privata. Ma non vi è nulla di retorico o didascalico, le anime dei personaggi sono vive, sempre all’erta, segnate dalle contraddizioni e dai desideri e dalle speranze, quella questione privata che costituisce la forza motrice di ogni evento. Ines sente di avere una missione che la spinge, la domina, ma l’autrice ce la rappresenta in tutta la sua debolezza umana: quando sta per giustiziare il gerarca criminale di guerra Graziani, in una formidabile azione gap, la mano si rifiuta di premere il grilletto. E per questo sarà divorata dal rimorso.

Coraggio, rassegnazione, sprezzo del pericolo, paura, amore totale e disperato, tutti questi sentimenti ricorrono nel racconto epico, che, come in una sinfonia quando gli strumenti iniziano a preparare il finale, vira inesorabile verso la grande tragedia della storia.

 

 

Πόθος e altre poesie

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di Maddalena Claudia Del Re

 

Πόθος

Predispongo,
da luoghi lontani,
invisibili ad altri,
la mente,
l’animo,
le mani al fare.

Staccando dall’esile fusto del Πόθος
la foglia ingiallita,
do ordine al mondo.

***

Funerali accanto

Figli, morti, funerali accanto.
Fosse comuni. No benedizioni.
No riti funebri scanditi
da ritmi consolanti forgiati nei millenni.

Mariti, mogli, funerali accanto.
Padri, madri, funerali accanto.
Fosse comuni.

Tutto si invola.
Tutto si contorce.
Le mani, dita ossute, occhi, strabismi.

Amici, amiche, funerali accanto.
Il gatto del vicino. Funerale accanto.

Campane, muezzin, il sacro Gange.
Sassi sul marmo. Fiori sul marmo.
La croce, mezzaluna, stella di Davide.

Ingenuo Ganesh con i colori sgargianti delle spezie profumate.
Macabro Cristo col tuo corpo nudo martoriato e offeso e sanguinante,
esposto,
accessibile,
anestetizzato nelle infinite ripetizioni.

Potente Madonna di misericordia.
Potente Madonna di salute.
Potente Madonna della serpe. Schiacci il male col piede di tuo figlio.

Distanti stelle. Non insegnate più la via.

Mare. Ricoprimi. Spuma nel naso e acqua nei polmoni.

Sole. Riscaldami. Bruciami. Inceneriscimi. In un parcheggio d’asfalto bollente dove non trovo più la mia auto.

Vento. Vertigine di foglie secche e cartacce.
Stracci,
gomiti consumati nell’attesa della tua venuta.
Vento. Violento, sollevami
1000 piedi da terra
e poi rallenta,
calmati,
chetati,
tranquillizzati,
fermati, fermami,
lasciami precipitare,
guardami precipitare,
sfracellare
ossa umane
sul marciapiede dissestato di questa Roma disgregata, disordinata, degradata, maltrattata, abbandonata, sozza e irrecuperabile.

Non vi trovo più.
Non mi trovo più.

***

Funerali accanto – seguito

Le ossa impattate sull’asfalto del parcheggio
il brecciolino lacera lo zigomo già frantumato
sangue e saliva dal labbro spaccato
copertoni di auto e tubi di scappamento
i miei occhi si schiudono appena.
Rumori di tacchi scolpiti nell’aria.
Aspetto qualcosa.
La morte o un camice bianco

La pelle respira avida
il bello della terra.
Ancora mi nutro.
Ancora mi nutri.

Castel del Monte,
le sue geometrie.
Il falcone si posa sul braccio,
protetto dal cuoio oleato, inciso, traforato,
del rosso imperatore.
Rivolge lo sguardo alla piana
il rosso imperatore.
Io poso lo sguardo alla piana
compresa e sopraffatta.

San Giorgio Maggiore
sorgi dalle acque
innalzata con gesto magico
di serenissime simmetrie.

Mi emoziono
e forse mi ritrovo.