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Shock the Monkey

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Welcome to the jungle

di

Giampaolo Simi

Va bene, hai comprato una licenza. Paghi una concessione. Sono soldi, lo sappiamo. Ma c’è chi esce dall’università dopo anni di studio, chi investe in corsi professionali più o meno abilitanti, in lunghi tirocinii, in master costosi o in stage di lavoro non retribuito, chi è obbligato a spendere per aggiornarsi e reinventarsi per stare sul mercato, o semplicemente chi scommette sulla voglia di fare meglio il proprio lavoro. E in mezzo a tutti questi, mi riferisco a persone che si ritrovano oggi a svolgere un mestiere prettamente intellettuale o inerente alla produzioni di beni e servizi culturali. Dai precari della scuola ai ricercatori dell’università, dai musicisti agli sceneggiatori, dai giornalisti e fotoreporter freelance agli organizzatori di eventi culturali, dai restauratori ai librai, dai traduttori alle mille professioni dello spettacolo (l’indotto, potremmo chiamarlo).
Tutte queste persone non hanno investito soldi solo perché non c’è un pezzo di carta timbrato che lo quantifichi nero su bianco? Non mi pare. Qualcuno ha difeso le attività commerciali delle piccole librerie indipendenti dalla concorrenza delle grandi catene? Non mi ricordo. Avete, per dire, visto scrittori sfilare con i megafoni per chiedere che lo Stato finanziasse le traduzioni all’estero di autori italiani invece di pagare le multe  per le quote latte degli allevatori padani furbetti? Neanche.
Del resto, queste categorie professionali iper-atipiche non sono cresciute con la pretesa del lavoro assicurato, hanno sempre sgobbato in regime di naturale concorrenza, abituandosi ben presto a una estrema flessibilità.
Troppo variegati, incapaci a fare lobby, scarsamente coesi e non sindacalizzati, questi lavoratori sembravano l’icona perfetta degli imprenditori di se stessi dell’utopia liberal-individualista, e invece in Italia sono stati i primi a essere colpiti dai governi di centro-destra.
Negli ultimi quindici anni i settori dove lavorano queste persone sono stati infatti sottoposti a un bombardamento costante, iniziato ben prima della crisi economica, in quanto progetto sistematico di de-intellettualizzazione del Paese. Un’offensiva brutale condotta sul fronte economico, con i tagli delle risorse all’istruzione e alla cultura, e su quello socio-antropologico, con la svalutazione forzosa del concetto stesso di intellettuale a piagnone residuale o a ornamento parlante del potere.
Cosa potevano fare, del resto, questi lavoratori? Occupare teatri, scrivere corsivi, suonare per strada, lanciare chilometriche raccolte di firme su internet, ammonire su come sarà triste e deprimente vivere in un Italia senza più teatri, musei e biblioteche (e senza neppure banda larga e wi-fi libero, fra l’altro).
Un violinista o uno scrittore non avevano e non hanno il potere di lasciarvi con il serbatoio a secco, di non farvi arrivare il pane o di abbassare la saracinesca mentre il mal di denti vi tormenta. Non hanno neanche mai minacciato il presidente del Consiglio con frasi del tipo “ci ascolti o sarà l’inferno”. Meno che mai hanno organizzato blocchi stradali, intimidazioni e violenze di stampo mafioso.
Di converso, nessun ministro si azzarda a definire un farmacista o un tassista “parassita” o rappresentante di un’“Italia leggermente schifosa”, come il non rimpianto Brunetta ebbe a sentenziare sul mondo del cinema italiano non più tardi di due anni fa.

Welcome to the jungle
We take it day by day
If you want it you’re gonna bleed
But it’s the price you pay
(Guns ‘n Roses)

D’ora in poi sarà dura per tutti come è stata per noi in questi quindici anni. Non ne sono affatto felice, sia chiaro. E se devo entrare, un po’ alla grezza, nel merito della questione, secondo me l’ondata di liberalizzazioni non servirà a una beneamata mazza. La libera concorrenza non si impone per decreto in due settimane, è un dato culturale che tanti italiani (il tassista come il top manager, l’allevatore come il farmacista) non possiedono, presupporrebbe un cambio di mentalità che abbiamo rifiutato trent’anni fa, quando i soldi giravano e nessuno avrebbe rischiato di finire in miseria da un giorno all’altro.
I tanti lavoratori precari e flessibili della cultura sono stati le cavie, i primi della lista perché al tempo stesso i più fastidiosi e i meno pericolosi. E i meno necessari, perché “con la cultura non si mangia” delirava pochi mesi fa un altro non più ministro. Ma il giorno in cui anche un tassista potrà fallire come un qualsiasi altro imprenditore, la colpa potrà anche essere stata del libero mercato selvaggio, certo. Ma quel giorno anche il tassista finalmente si accorgerà che, nei nostri centri storici sempre più spopolati e spettrali, non c’è più un concerto, una mostra o un teatro a cui portare qualcuno.

Sul concetto di Volto nel figlio di Dio

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di Massimo Marino, Oliviero Ponte di Pino e Attilio Scarpellini

Lo spettacolo di Castellucci deve andare in scena. Un appello

I “se” e i “ma” su uno spettacolo o su un’opera d’arte sono materia del dibattito critico o delle sempre legittime reazioni del pubblico. Ma quando la censura preventiva prende il posto del dissenso e diviene intimidazione, non è più questione di questa o quella interpretazione, è la libertà stessa di interpretare che viene messa in pericolo. E’ quanto sta accadendo con lo spettacolo di Romeo Castellucci “Sul concetto di Volto nel figlio di Dio” in programmazione al Teatro Franco Parenti di Milano: un’orchestrata campagna di minacce e di anatemi lo ha preceduto nel tentativo, sfacciatamente dichiarato, di non farlo andare in scena. Di fronte allo sconfortante avanspettacolo dell’intolleranza che si traveste da diritto di critica e dell’intimidazione che si richiama alla libertà di parola, pensiamo di non potere e di non dovere restare indifferenti. Tanto meno indifferenti nel momento in cui l’offensiva integralista contro lo spettacolo ha rivelato la sua vera natura investendo la persona della direttrice del Franco Parenti André Ruth Shammah con le espressioni dell’antisemitismo più classico ed abietto. Non si tratta di scegliere tra chi dice di aver scritto il suo spettacolo come una preghiera e chi, senza averlo visto, lo accusa di essere blasfemo (due cose che in molte opere d’arte del novecento si sono spesso confuse senza che questo generasse guerre di religione). Si tratta semplicemente di garantire a Romeo Castellucci la prima ed essenziale libertà di ogni arte e di ogni artista: quella di essere compreso o frainteso con cognizione di causa, di essere giudicato secondo la sua opera e non secondo il pregiudizio di un manipolo di fondamentalisti che agita la fede in Cristo come una clava identitaria. Chiediamo ai cittadini, agli intellettuali, agli artisti e a chiunque consideri la libertà dell’espressione artistica un cardine irrinunciabile della nostra esistenza civile, di non lasciare Romeo Castellucci e la sua opera nel cerchio di solitudine che l’alleanza tra il fanatismo di pochi e la reticenza di molti rischia di creargli attorno. “Sul concetto di Volto nel figlio di Dio” deve andare in scena.

La rivoluzione “silenziosa” che ha salvato l’Islanda

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di Corrado Benigni

Luogo dell’anima, sogno di molte infanzie, una sorta di terra sacra. Esploratori, monaci, viaggiatori solitari, artisti e poeti, in tantissimi hanno sognato prima o poi di mettere piede su questa landa piena di fiordi e steppe, elfi e pietre runiche, dove risuonano antiche saghe e una millenaria geometria naturale ogni cosa stratifica. Guardando l’Islanda dall’alto, un’isola sola nell’Atlantico, sfigurata da fessure da cui sono eruttate immense colate laviche, viene da chiedersi com’è possibile che la crisi economica mondiale sia partita da qui, da questa frazione di territorio grande un terzo dell’Italia, abitata da sole 320mila anime, un luogo che sembrerebbe lontano da ogni presenza umana, innocente, incontaminato, quasi inaccessibile a parole come spread, crack, rating. Eppure, il rischio-default che in questi mesi spaventa l’Europa intera ha avuto inizio proprio qui, con l’indebitamento delle banche islandesi verso i paesi esteri, Inghilterra e Olanda, soprattutto. Tre anni fa la situazione era estremamente delicata ed è stata necessaria una “rivoluzione silenziosa” per evitare un disastro sociale. Opponendosi all’ipotesi di un salvataggio da parte della Bce e dell’Fmi, o a cessioni della propria sovranità a nazioni straniere, gli islandesi sono riusciti a convincere le istituzioni che il debito non è un’entità sovrana in nome della quale è legittimo sacrificare un’intera nazione e che i cittadini non dovevano pagare per gli errori di un manipolo di finanzieri. Questo ha portato alle dimissioni del governo e alla nazionalizzazione della maggioranza degli istituti bancari, oltre all’arresto dei banchieri che avevano spinto il paese alla bancarotta.

Atterrati al piccolo aeroporto Keflavik, a pochi chilometri dalla capitale Reykjavik, noleggiamo un fuoristrada per muoverci sulle strade sterrate dell’isola. Il paesaggio è lunare: pietre laviche ovunque e fumi di gas che salgono da terra; non c’è un solo albero, solo linee essenziali con geometrie senza angoli che salgono e scendono dolcemente. Il metro di misura è l’infinito. Siamo sulla Ring Road, la strada principale dell’Islanda, l’unica interamente asfaltata, che percorre ad anello l’intera isola e sembra attraversare un paesaggio preistorico. Lungo la strada, tuttavia, in mezzo ad ammassi di rocce scure, appaiono grandi tubi metallici che viaggiano paralleli a noi sputando vapore acqueo. Sono le condutture di una delle tante centrali geotermiche islandesi, precisamente quella di Svartsengi, una delle più importanti, vicino al complesso termale Blue Lagoon: una piscina naturale all’aperto, contornata da nere rocce laviche, frequentata ogni anno da migliaia di visitatori convinti di uscire ringiovaniti da quelle acque minerali dense di silice scivoloso. Incontreremo spesso queste centrali, con quei tubi lucidissimi che sembrano eliminatori di scorie radioattive, ma che in realtà producono solo energia naturale.
Colpisce il contrasto tra la dimensione primordiale della natura e l’avanzatissima tecnologia di cui dispone l’Islanda, che da decenni è riuscita a sfruttare al meglio le risorse della propria terra, senza per questo compromettere l’equilibrio ambientale. L’energia geotermica è una risorsa fondamentale, grazie alla quale quest’isola minuscola, che confina con il circolo polare artico, è diventata uno dei Paesi più ricchi al mondo: dopo lo spaventoso default finanziario, l’indipendenza energetica ha contribuito ad avviare quella rapida ripresa economica che sta diventando un modello per tutto l’Occidente.

Un altro aspetto che colpisce è il legame sottile e profondo che unisce la natura di questo luogo con lo spirito di chi lo abita. Thomas Mann scriveva che la patria ideale del sentimento era “nordica”, ritrosa interiorità sensibile capace di raccogliersi nel minimo e nel vicino, nell’intimità della casa sperduta in un paesaggio solitario. E l’Islanda è proprio questo: una terra che insegna a svuotare la vita di ogni superfluo, a toglierle ogni oncia di grasso sentimentale. Un luogo, in particolare, sembra riassumere questo spirito, uno dei più misteriosi dell’Islanda: il lago glaciale dello Jökulsárlón, dove gli iceberg si staccano ripetutamente dal fronte del Vatnajökull, il più grande ghiacciaio d’Europa. Ci arriviamo percorrendo la Ring Road, a sud dell’isola, poco distante dalla cittadina di Höfn. Massi di ghiaccio si schiantano in acqua spostandosi inesorabilmente verso il mare. La vista lascia senza fiato: una specie di laguna fredda, scura, senza vegetazione. È come se un pezzo di Polo Nord si fosse staccato e avesse deciso di stabilirsi qui. Architetture poliformi abitano questo luogo, il ghiaccio si colora di azzurro quando la luce lo attraversa con una certa angolazione e si annerisce quando la lava entra negli interstizi. Gli iceberg, sospinti dal vento fortissimo, si muovono in continuazione. Si ammassano insieme, collidendo e assestandosi, oppure si sparpagliano all’interno dello Jökulsárlón. È uno spettacolo che rivela tutta la forza misteriosa della natura: un’immensità che sembra volerci risucchiare dentro le sue fauci. Non a caso Leopardi, nel suo famoso “Dialogo”, fa incontrare la Natura al suo islandese, raffigurandola come una figura femminile di enormi proporzioni “di volto mezzo tra bello e terribile”, indifferente all’inerme viaggiatore.
Ai piedi del Vatnajökull la temperatura è polare. Saliamo su una specie di anfibio, ovvero un grosso camion che, a contatto con l’acqua, non usa più le ruote ma pinne retrattili. L’aria è tersa, i colori incredibili. L’acqua vira al turchese, dà un’impressione di assoluta trasparenza. Il camion diventato barca sfiora gli iceberg, alcuni raccolti l’uno accanto all’altro come per proteggersi. Questi massi di ghiaccio, visti da vicino, assumono i colori e le forme più diversi: un bianco folgorante, con profili che ricordano le montagne himalaiane, frastagliati, tozzi, appuntiti e grandiosi. Dall’acqua ogni tanto fanno capolino testoline scure di foche che riposano sulla costa vicina. Benché possa sembrare un prodotto dell’ultima glaciazione, la laguna si è formata soltanto 75 anni fa e cresce a ritmi consistenti a causa del repentino ritirarsi del ghiacciaio. La laguna è piena di turisti, segno che la ripresa economica è in atto, dopo la grande crisi. È come se gli abitanti avessero deciso di uscire dalle difficoltà economiche con il bene più prezioso di cui dispongono, la natura.

Non a caso, qualche mese fa la popolazione è insorta contro un magnate immobiliare cinese che aveva offerto l’equivalente di circa 70 milioni di euro per acquistare 300 chilometri quadrati di deserto islandese: il suo obiettivo era la costruzione di un gigantesco resort fatto di ville, alberghi e campo da golf. Il progetto non è andato in porto. Ma l’Islanda sa che deve tenere sempre la guardia alta: la sua è una posizione strategica, soprattutto a causa dello scioglimento dei ghiacciai, che aprono nuove vie marittime e rendono le risorse minerarie della regione più accessibili. Molti Paesi, in particolare la Cina, vedono nell’Islanda un potenziale hub per il commercio globale delle merci, soprattutto asiatiche. Questo è un altro dei possibili rischi del disastro economico che ha investito l’Islanda: la svendita del patrimonio naturale “per fare cassa”. Ma questo è un Paese abituato alle bufere e ai terremoti e i discendenti degli esploratori vichinghi hanno temprato il loro coraggio e la loro saldezza aggrappandosi a questa terra rude, superando con tenacia colonizzazioni, carestie ed eruzioni. Di recente qualcuno ha definito l’Islanda la “nuova Atene” (paragonandola alla capitale della grande civiltà antica, non certo alla Grecia di oggi), per la straordinaria rivoluzione democratica e pacifica che ha intrapreso, un Paese in cui la nuova carta costituzionale è stata scritta con il coinvolgimento di tutti gli abitanti, usando come mezzo anche i social network: su Facebook, il lavoro della Commissione Costituzionale è stato vagliato, discusso e modificato grazie alla partecipazione attiva dei cittadini che potevano esprimere la loro opinione liberamente. “Ho capito per la prima volta cosa davvero significa la parola democrazia. Avere contribuito a scrivere la Carta, oltre a riempirmi di orgoglio, mi fa sentire molto responsabile verso il mio Paese e verso la libertà della mia gente”, dice una ragazza, dal nome impronunciabile, incontrata in uno dei tanti locali della capitale Reykjavik.
Gli investitori internazionali sono tornati ad avere fiducia in questo Paese, a dimostrazione che le linee economiche dettate da Fmi e le analisi delle società di rating non sono dogmi. In fondo quest’isola, squassata da terremoti e scolpita dalle eruzioni è la terra più giovane del mondo e non ha cessato di ingrandirsi in balia della tettonica e dell’espansione dei fondi oceanici. E i suoi abitanti sono consapevoli di appartenere a un mondo imperfetto, tanto che sono loro stessi i primi a dire di essere solo al quinto giorno della creazione, geologica quanto civile, di quest’isola incompiuta.

Articolo apparso su “Il Reportage”, numero 9, gennaio-marzo 2012 ora nelle librerie.

Vincenzo Consolo

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VIOLA’s knives & αγωγή

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di Orsola Puecher

VIOLA AMARELLI

(prendi un coltello)
 
Prendi un coltello-bambina.
Attenta ai mostri. Ai lupi. Ad amici e parenti.
E sconosciuti.
Prendi le forbici – gioia.
C’è il male e c’è la pazzia.
Attenta a non incontrarli, per ora, ora che è
troppo presta.
Diventa tu folle, affonda le lame,
dentro più dentro coi denti.
C’è la paura e c’è l’orrore. Umano.
Carezza le bestie.
Tua madre ti ama.

 
da  c o n v i v e n z e  –grave
 
in Le nudercrude cose e altre faccende
Edizioni L’arcolaio 2011


SONATA per Viola in tre movimenti
&SUITE finale [c o n g e d i]
ma senza –adagio– [56-58] ché Viola mai s’adagia

c o n v i v e n z e   –grave– [40-42]
Sonata I in RE+ 1.Grave A. CORELLI
 

c u r e  –andante– [60-64]
Concerto in RE- 1.Andante e spiccato A. MARCELLO
 

s t r a b i s m i  -presto- [152-182]
Concerto in SOL- 3.Presto A. VIVALDI

metronome-animated-gif-13

 
Le nudecrude cose e altre faccende porta in ogni sua sezione, accanto ai titoli canonici, assai precise indicazioni di tipo agogico, dal tardo greco αγωγικός agogikόs, aggettivo di αγωγή agogé “condotta, movimento”, notazioni cioè di genere squisitamente musicale, che, indicando quell’insieme di leggerissime ma fondamentali modificazioni dell’andamento, del movimento, della velocità di un brano durante la sua esecuzione, diventano, da semplici numeri della battute del metronomo in un minuto, sfumature interpretative ed emotive basilari: velocità e scansione ritmica dell’ambiente sonoro/poetico.
 
c o n v i v e n z e , il primo movimento, ha l’indicazione agogica di –grave– che in musica è il tempo più lento, quasi marziale. Solenne e vagamente ineluttabile molto spesso nel periodo barocco si trova all’inizio della composizione come introduzione lenta, di contrasto al tempo più veloce che seguirà. E della musica barocca la poesia di Viola ha il gusto di stupire e anche divertire con cambi repentini di tempo e registro, passaggi di grande virtuosismo verbale, accostamenti eclettici, uso del contrappunto, di linee melodiche e compositive indipendenti che si intersecano, di polifonie fugaci e fugate.
 
 

(Giacomo a Fontanelle)
 
L’acqua e il tufo alle cave
nell’ombra delle Vergini, quelle che tutto accolgono
lumini per le offerte, preghiere di promesse,
sonde degli operai in gruppo come oranti
su nove metri d’ossa, nette di
teschi e tibie
l’anime pezzentelle scorrono senza affanno.
L’acqua sulle pareti scandisce respirando
calcare d’algoritmo, gioco sacro d’istante
quello che disperavi, tocco di solo affetto,
stretto ora insieme agli altri
corpo vivo silenzio
anonimo finalmente.
 
 
*Il “Cimitero delle Fontanelle” nelle cave di tufo delle “Vergini” a Napoli, fu luogo di sepoltura di massa sin dal 1500 e sede del culto devozionale alle “anime pezzentelle”. Secondo un’ipotesi plausibile qui sarebbe stato in realtà interrato, anonimamente, anche il corpo di Giacomo Leopardi.

 
 
c u r e , il secondo movimento, che è l’insieme semantico inestricabile di accudimenti ma anche di curae di preccupazioni e affanni che da esse derivano, è un –andante– tempo moderato, ma una moderazione di quantità sensibile e sfuggente, più veloce di un adagio ma più lento di un allegretto: un andare di passi piani e regolari che è forza primaria e regula.
 
s t r a b i s m i, il terzo movimento, che è un guardar storto guardando dritto, con un rapido tocco di visione laterale, occhio a mosaico di mosca, collo a 360° di sacra civetta, è un –presto– un movimento molto veloce che, si sa, il tempo non aspetta e fugge in musica e nelle vite.
 
In c o n g e d isuite– si compendiano tutti i motivi in prose poetiche nette e scandite a piccoli blocchi numerati, dove la parola s’affila ancora di più, per farsi oltre che lirica, epica ed elegiaca. Riflessione della fisica delle cose che si fa involontariamente metafisica.
 

da (le nudecrude cose)
 
l. Ci sono i ciottoli, le schegge, i sassi, i massi, le selci, le rupi, dall’himalaya alla polvere. Per non parlare del borace, della nierite, del platino e del crisoberillo. Una semplice questione di struttura cristallina. Roba solida, all’ingrosso. Le piace mangiare i cibi meno cotti possibili, sentirli sotto i denti, la consistenza. Mai sopportato couscous e semolino. Soltanto una questione cristallina. La fanno così difficile.

 
Il lirismo è sempre comunque narrativo e concreto, mai lamentoso, sempre armato di lame, parole bisturi e coltello, per sezionare lucidamente il sentimento e commisurarlo e comprenderlo: accétta e accètta, insieme [ importanza degli accenti ]. Niente a che vedere con l’evergreen poetica Dei Dolori E Delle Pene, con le parole sempre a far la parte dei conigli neri di Pinocchio che vengono a portar via il morticino, e a subire il riversamento [ recidivo sversamento in versi ] di tutte le provette del Piccolo Chimico con zolfi, fosfori, mercuri, solfiti, bituminoidi sparsi per cielo, mare e terre.
Io e natura sono distinti, le cose sono nude e crude, mai ammantate di criptici ed ermetici significati.
 
 

da c u r e
andante
 
(identità)
non sono petalo
no
liscio o maculato
neanche una farfalla cavolaia
no
né coda di balena o di marsina
ahimé
solo una sciocca come sono in tante
ma il gelsomino guarda e mi profuma

 
 
Nessuna invasione del metaforico bestiario ronzante di grilli, locuste, cicale e altri blattiformi, nessuna inflazione d’aprirsi improvviso di faglie, cretti e crepe che dalla loro propria sfera geologico-edilizia vanno a rendere inagibili e pericolanti righe su righe di anime&cori, a causa delle quali il povero cardiaco muscolo metronomo contiene e subisce in poesia un baccanale arcimboldesco d’ognicché. Le parole dicono le cose, ⇨ raccontano il passato, narrano al presente, ⇨ generano visioni, ⇨ usano soggetti coraggiosi e verbi armati, imperativi e invettive dirette. Non temomo di urtare un certo bon-ton semantico poetichese. Bandito il trito impersonale poetico maiestatis, trionfino ironia e pietas, che son sorelle.
 
 

da s t r a b i s m i
presto
 
(lungario per madri badesse)
 
Scardina
              serenamente
il re da un pezzo è nudo
e sotto scacco il cappellaio matto.
Eccole a lume spento
le lingue delle madri
acciai nella fatica,
quella di pane e acqua,
fatica schiena e braccia.
Scardina
              la tristezza
catena per gli oppressi,
parla con pesci e uccelli
ama, teneramente
nella risata semplice
e non lasciare traccia.
 
 

[ e per chi si trovasse in zona...]
 

Una piccola tabaccheria. 2

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Richard Barnfield

Sighing, and sadly sitting by my Love

Sighing, and sadly sitting by my Love,
He ask’d the cause of my hearts sorrowing,
Conjuring me by heavens eternall King
To tell the cause which me so much did move.
Compell’d: (quoth I) to thee I will confesse,
Love is the cause: and onely love it is
That doth deprive me of my heavenly blisse.

Supernova di Fabiano Alborghetti

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di Francesca Matteoni

“L’implosione di una supernova è caratterizzata da un’emissione luminosa tale che può uguagliare per un periodo di tempo limitato la luminosità della galassia che la ospita.” Dice così la nota di chiusura di questo densissimo libro di poesia di Fabiano Alborghetti, uscito nella collana di plaquette “I nuovi gioielli” per l’edizioni L’Arcolaio di Gianfranco Fabbri. Lo stato di supernova è lo stato della fine in cui si sprigiona l’energia più forte, si rivelano le cose ultime, su cui le parole si affaticano, perdono la loro carica interpretativa per farsi strumento di osservazione. Cosa ultima, luce stellare alla deriva estrema, sono in questo caso la malattia improvvisa di una persona cara ed il percorso che ne segue, oscillando ugualmente tra il nulla e la ripresa della vita. Il dolore, e ancora di più direi l’apparire della sostanziale fragilità dell’umano, producono una lingua secca, concentrata in scatti fotografici, immagini rapide che non chiedono conforto o spiegazione, ma di essere attestate ed accolte in quanto tali. La natura stessa della malattia, un ictus, è fulminea e transitoria: il trauma dell’astante è la presa di coscienza brusca che niente sarà più come prima, che la lentezza non è il processo di scomparsa o guarigione, ma la sospensione degli eventi in cui norma e sconvolgimento si ribaltano l’uno nell’altro. Proprio come gli occhi dei cervi accecati dai fari nella poesia di apertura, il presente è la sorpresa di qualcosa che c’è dove potrebbe tranquillamente non esserci: uno scarto impercettibile segna il passaggio tra il corpo vivo, memore di sé, e il corpo sorpreso dalla sua cancellazione. Se nei suoi lavori precedenti Fabiano ha indagato, mettendosi in gioco come essere umano prima che come poeta, l’invisibilità degli altri (L’opposta riva, opera corale sulle lingue dei migranti clandestini), e la quotidianità della violenza a livello familiare, una violenza difficilmente estraniabile e bollabile come altro da noi (Registro dei fragili), qui fa un passo ulteriore nell’’intimità degli affetti. Scopre in questi testi esatti, niente affatto inclini all’autocompiacimento nella sofferenza o al pietismo, che il paesaggio della nostra esperienza è legato inevitabilmente alla memoria di coloro che la intessono, che siamo responsabili di coloro che ci vedono, tanto più preziosi quanto precari. Il loro venir meno è il nostro.

***

Il panico esplode, irradia
ti ferma: congelata sei ferma
in ascolto della paura

gli occhi fissi come i cervi
di notte, colpiti dai fari.
L’immagine è chiara:

ma il cervo accecato non vede
aspetta qualcosa che non accade.
E’ cieco, interrotto

resiste alla fuga o aspetta il momento migliore.

***

Il sonno pieno dentro il farmaco
perché il farmaco sostiene, protegge, cura.
Esplosioni, lampi: è tutto lontano ora

anche l’ombra nera che ti mangia il fiato
il battito mancato quando tutto torna indietro:
il farmaco l’hai preso come fosse una preghiera.

Il tuo altrove
è un respiro d’incoscienza. Notte piena.
Dono, anche. Il tuo essere serena

contrastando la deriva.

nel buio ogni cosa

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di Maria Angela Spitella

La copertina non annuncia nulla di buono e anche il titolo, Soli, riporta alla mente una canzone di Adriano Celentano del 1979, ma se queste sono le premesse esteriori del romanzo di Giovanni D’Alessandro Soli, il racconto sovverte del tutto la prima impressione.

Un impatto immediato con quella che sembra essere la storia; un intreccio di vite e di vicende che ruotano attorno ad un ateneo del nord. I protagonisti sono due ragazzi, non più giovani, più verso i quaranta che i trent’anni, che si vedono costretti a combattere con le baronie da cui la nostra università è sopraffatta. Sembra un racconto delle ingiustizie che i due ricercatori subiscono nel loro ateneo, per poi essere scalzati da qualcuno raccomandato, ai quali non viene riconosciuta la evidente competenza nelle loro materie. Una storia del precariato nella generazione di mezzo. Medievista lui alla cattedra di Storia dell’arte, ricercatore alla sola età di 33 anni, associato a 37 anni,  e “precaria contrattista” lei nello stesso campo, vivono una situazione al limite del paradosso, dovendosi fare largo attraverso un mondo accademico viziato dallo strapotere del rettore dell’Università, Gianandrea Zentilomo, e dei suoi adepti. La storia inizialmente sembra raccontare questo. Ma già dalle prime pagine c’è dell’altro; il racconto si distende attraverso eventi che nessuno si aspetterebbe di trovare in un romanzo che appare di denuncia.

I due protagonisti Luca e Manuela (Manu), sposati da qualche anno, combattono per la loro affermazione, non nel mondo scientifico, perché da tutti sono riconosciuti come intelligenti e preparatissimi ma, in quello delle carriere facili senza titoli accademici e competenze. Luca poliglotta e studioso capace, Manuela donna intelligente, studiosa attenta e raffinata, hanno una padronanza delle loro materie profonda; nell’Università che, anziché appoggiarli e sostenerli, li tratta come docenti di serie b, tentano un percorso naturale: lui come professore ordinario, lei come ricercatrice scontrandosi con la protervia dei più forti.

E’ qui che il romanzo prende una strada inaspettata: Giovanni D’Alessandro, con la sua scrittura colta, accompagnata alla passione per la storia, interseca due mondi apparentemente diversi e lontani: l’attuale e il Medioevo: lo fa con un racconto che diventa quasi psicologico, attraverso l’estraneazione dal contesto del XXI secolo. Due storie vissute dagli stessi protagonisti ma che hanno risvolti completamente diversi; è da quando i ragazzi salgono sul Monte Monaco, luogo vicino L’Aquila, dove sorge un monastero solitario, per degli studi commissionati loro dal professore Sinibaldi, titolare della cattedra di storia dell’arte medioevale, ed escluso dai giuochi di potere dell’ateneo, che il romanzo diventa forte, immaginifico, trascinante; non perde un colpo D’Alessandro, mentre accompagna il lettore in un altro tempo, dove altre verità alloggiano.

Un mondo che si avverte in maniera strisciante sin dall’inizio del romanzo; c’é un’inquietudine sotterranea, preludio di quello che sarà il cuore del racconto. Un filo rosso che sottende e trattiene il lettore in una sorta di allerta continua. I sensi rimangono vivi nella lettura, mai c’è un calo d’interesse, anche nelle pagine nelle quali D’Alessandro, con estrema cura e puntualità, si lascia andare a descrizioni tecniche di affreschi e reperti storici, entrando nella specificità delle materie studiate ed insegnate dai due protagonisti e dal loro mentore.

Le scene di vita si intrecciano con un cambio di paesaggio continuo; la storia che D’Alessandro ambienta nel Medioevo, epoca storica cara ai due protagonisti e al professor Sinibaldi, loro alleato, ha il volto della Madonna Triste; ma non venga tratto in inganno il lettore dalla definizione che viene data del soggetto dipinto negli affreschi che Luca e Manu vanno a visionare sul Monte Monaco, perché la Madonna Triste ha il volto di una madre; la storia è pulsante. Le descrizioni sono vertigini di dolore, che attraversano i protagonisti e il lettore, uno strazio che avvolge e accomuna gli uomini di oggi e quelli di dieci secoli prima. I colori vivaci degli affreschi si miscelano con quelli cupi, la solitudine di quei luoghi, lontani secoli dal nostro tempo, si diffonde nelle pagine del libro e come una macchia d’olio si allarga sino a permeare i giorni a noi prossimi.

Ed è facile per il lettore entrare ed uscire da secoli così diversi, come nella strada a curve che i due ragazzi percorrono per arrivare al Monastero. La speranza, la compassione, la pietas, sono i sentimenti che affiorano e si intrecciano nel racconto; quando poi si corre velocemente verso le pagine conclusive del romanzo, per sfuggire alle immagini cupe e dolorose, si ha l’impressione di stare all’interno di un’arena dove lo scontro tra i protagonisti e i baroni dell’Università diventa dialettico; presente e passato combaciano attraverso il riscatto di Luca e Manu; viene spontaneo fare il tifo per loro e per il professor Sinibaldi.

Riaffiorano nello scontro tra cattedratici del XXI secolo, le figure rarefatte che abbiamo trovato nel tempo Medioevale.

Ritorna D’Alessandro con questo romanzo ad incantare il lettore; si ha la sensazione che i protagonisti che si affacciano e compaiono nell’ambientazione del Medioevo, siano stati sempre presenti nelle pagine del libro; anche una volta finito di leggere il romanzo, si avverte una sorta di vivida presenza, come se il lettore stesso fosse entrato in quei luoghi e in quelle situazioni descritte. Il pragmatismo degli avvenimenti universitari si miscela con gli eventi metafisici, che attraverso lo studio degli affreschi dell’oratorio di Monte Monaco, dove si recano i due studiosi Luca e Manu per fare le loro ricerche storiche, si frappongono tra la vita reale e la vita percepita, forse anch’essa vissuta ma in un altro tempo.

Giovanni D’Alessandro sonda il bene e il male, ce li sbatte in faccia con ferocia ma anche con garbo, in questo modo permette a ciascuno di noi di avventurarsi nel proprio abisso al quale mi piace dare il nome di inconscio con un artificio molto astuto: il buio di un pozzo che segna il punto di non ritorno. “La luce si ritirava piano piano dalla parete più alta delle pareti del pozzo. Tra un po’ sarebbe scomparsa del tutto e avrebbe fatto ricadere nel buio ogni cosa”.

Soli riporta al secondo romanzo dello scrittore abruzzese, I fuochi dei Kelt, uscito per Mondadori nel 2004, altra ambientazione sempre storica, la guerra tra i Celti e i Romani vista da un auriga al servizio del cugino di Vercingetorige, dalla parte dei celti, che scava nell’umanità dei protagonisti, e nelle loro sensazioni di uomini, se pur guerrieri e in una ferocia per noi inusitata.

G. D’Alessandro, Soli, San Paolo (2011), pp. 328, 18 euro.

L’articolo 18: la vera posta in gioco

10

di Sergio Chibbaro

Nella concitazione creata da una crisi bancaria rapidamente addossata ai cittadini, e in particolare ai lavoratori dipendenti, in Italia si è ritornati a parlare con vigore di flessibilizzazione del mercato del lavoro (ovvero di ulteriore facilitazione al licenziamento) e dell’eliminazione del famigerato art. 18 dello statuto dei lavoratori. Queste discussioni si svolgono all’interno di un più ampio dibattito a livello europeo incoraggiato dai grandi gruppi finanziari e industriali e ripreso nelle varie istituzioni che di fatto li rappresentano a livello politico, BCE, Commissione Europea, FMI (la Troika). Interventi in tal senso sono già stati realizzati nei paesi ora più indeboliti, quali Spagna (riforma del 2010: Ley n. 35/2010) e Grecia.

Inizialmente, queste riforme sono state difese da Confindustria e accoliti in quanto considerate necessarie per liberare un mercato descritto come eccessivamente rigido, e la cui rigidezza incideva in modo esiziale sulle capacità economiche del paese. Prescindendo dal fatto che la flessibilità del lavoro non è mai stata dimostrata essere un fattore né di crescita né di miglioramento della qualità della vita (almeno sul medio-lungo termine), questo quadro è smentito dai fatti e dai dati. La visione dei paladini del licenziamento è talmente grottesca e irrispettosa del dramma inflitto alla vita di migliaia di persone licenziate negli ultimi anni (senza che in alcun modo essi avessero una qualche colpa nel cattivo andamento economico) che anche gli ideologi più estremisti stanno cautamente abbandonando questa strada. Luciano Gallino (uno dei pochissimi studiosi con una certa visibilità rimasti a difendere la verità e i diritti dei lavoratori) ha descritto argutamente e in maniera stentorea, con chiare cifre, questa situazione in due recenti articoli su Repubblica (L. Gallino, I paladini dei diritti cancellati — 31 ottobre 2011; Licenziamenti falso problema — 05 gennaio 2012). Per essere più precisi ed esaustivi, ci si può riferire a documenti redatti da studiosi di diritto anche in merito all’annosa questione del “contratto unico”, e in particolare il Seminario ELLN di Francoforte sul licenziamento individuale in Europa: una sintesi a cura dell’ufficio giuridico CGIL che si può trovare in rete. Nella sintesi si sottolinea con chiarezza che l’Italia è uno dei paesi più flessibili d’Europa, superata praticamente solo dalla Danimarca (perciò presa a campione come modello d’eccezione). L’Italia risulta addirittura caratterizzata da un mercato del lavoro più aperto di paesi quali l’Ungheria, Repubblica Ceca e la Polonia! Dunque, la diffusa convinzione che quello italiano sia un regime iperprotettivo è totalmente smentita dai dati dell’OCSE; nonché dal licenziamento perentorio di centinaia di migliaia di lavoratori a causa di motivi economici avvenuti in questi ultimi anni. Questo spesso a fronte di enormi benefici per gli azionari alla fine dell’anno, sovente ottenuti proprio grazie ai licenziamenti.

La nuova tattica per ottenere l’eliminazione dell’art. 18 consiste nel sottolineare come tale articolo sia di fatto utilizzato in pochissime vertenze giudiziarie e sia un unicum italiano. Questi due punti sono stati drammaticamente integrati anche da parte del centro-sinistra.

Il secondo punto è semplicemente falso. In altri paesi europei il lavoratore può chiedere al giudice di reintegrarlo nel posto di lavoro a seguito di un giudizio “sommario” di bilanciamento degli interessi in gioco (così in Germania e, in termini simili, in Austria, Grecia, Belgio e Irlanda). In molti altri paesi questo non è possibile, ma delle tutele speciali sono previste contro il licenziamento illegittimo. Si legga la sintesi del seminario CGIL per informazioni più precise.

Il primo punto è più sottile. E’ vero che in pochi casi si fa riferimento all’articolo 18 in cause tra lavoratori e imprese e che talora, in Italia come all’estero, il procedimento di può concludere ugualmente con un indennizzo anche qualora il reintegro sia formalmente possibile. Ciò che si rileva, in realtà, è la funzione di deterrente che la sanzione della reintegrazione prospetta: e questa non appare diversa in Italia rispetto agli altri paesi che la prevedono. Al contrario ciò che è anomalo in Italia è la soglia che caratterizza le piccole imprese, la quale risulta ben troppo elevata: 15 dipendenti, cifra basata sullo stabilimento e non sull’intera impresa. Negli altri paesi questa soglia è o assente o molto inferiore, per esempio in Francia è 10, considerando l’impresa. Del resto, se veramente l’art. 18 non fosse che un orpello ideologico del sindacato vuoto di senso, perché tanto accanimento nel volerlo eliminare?

Riassumendo, le imprese in Italia hanno la possibilità di assumere in un mercato del lavoro tra i più flessibili dell’occidente, in cui il ricorso a contratti atipici è la regola dall’approvazione della cosiddetta “legge Biagi” 2003. I licenziamenti si fanno in maniera massiccia, sia grazie alle inesistenti coperture di legge sui contratti atipici, sia grazie ai motivi economici, veri o presunti tali.

Perché allora le istituzioni finanziarie, la Confindustria e i loro rappresentanti politici (governo Monti) continuano a martellare sulla necessità di eliminare l’articolo di 18?

Ecco la risposta. Una sola cosa, sostanzialmente, non è ancora possibile nella giungla del lavoro italiano, licenziare individualmente: nome e cognome.

E’ vero che questo grande passo in avanti sarebbe possibile grazie a quell’obbrobrio giuridico che è il famigerato art. 8 inserito nella c.d. manovra-bis di agosto (in tal senso, si veda il sempre lucido L. Gallino che riassume l’effetto di questo articolo con “A ben vedere, il legislatore poteva condensare l’intero articolo 8 in una sola riga che dicesse “i contratti collettivi nazionali sono aboliti e con essi tutte le norme concernenti il diritto del lavoro” in “Come abolire il diritto del lavoro”, Repubblica 5 settembre 2011; si veda anche “La minaccia dell’articolo 8” Repubblica 15 settembre 2011). Tuttavia, tale norma rimane solo una bomba a orologeria, in quanto il suo impatto dipende dall’attuazione che di esso ne verrà data nelle singole aziende e nei singoli contesti territoriali. E le parti sociali con l’accordo del 21settembre 2011 hanno escluso di volere attuare la norma proprio in relazione a tale materia.

Quindi per il momento le aziende non possono licenziare tranquillamente un singolo individuo perché “rompiballe”, senza il timore di rivederselo tornare reintegrato da un bieco giudice. Questo è quanto è successo, per esempio, nel famoso caso dei tre operai sindacalisti dello stabilimento FIAT di Melfi. Si comprende allora il vero interesse intorno a tale questione. Pur in un momento di globale crisi della classe lavoratrice, con un arretramento continuo e, per ora, inesorabile delle condizioni di vita e di lavoro, alcuni sindacati e alcuni sindacalisti tentano di difendere quel poco che rimane dei diritti dei lavoratori e aiutano i loro compagni a non piegarsi ai diktat delle aziende.

Eliminando l’art. 18, le imprese potranno finalmente “dar sfogo alla loro turpe voglia” e licenziare in tronco tutti gli operai ritenuti indomiti (sindacalizzati e non) per poi attuare una dura politica antisindacale; come del resto fanno le grandi aziende europee quando si trasferiscono in paesi dalla legislazione più arretrata, quali gli Stati Uniti. In tal modo avranno stroncato ogni tipo di residuale opposizione alla loro politica neo-schiavistica e la regressione a condizioni di lavoro da inizio 1900 sarà finalmente ultimata. Probabilmente con il plauso del Pd.

(Sergio Chibbaro è “Maître de conférences” all’Università “Paris 6”, e è delegato della Confédération Générale du Travail, CGT)

Nota per il compagno di viaggio Francesco Marotta

43

Nulla è più impreciso di una Carte del mondo della poesia. Anche quando ci sembra perfetta, autorevolmente compilata per salvarci dal mare aperto del tutti sono poeti (una palude, un sottobosco, una corte dei miracoli), ad una pratica del territorio che non sia quella dei festival o dei premi di poesia, pare ogni volta indicarci dei mondi altri da quello in cui ci si trova. Il lettore di poesie è un esploratore che pur ricordandosi dei segni lasciati un tempo lungo i sentieri scoperti per caso, in parte quelli indicati sulle mappe, si deve lasciare portare da una intuizione verso mondi abitati da cose mai viste, paesaggi ignorati dagli uni, per qualche motivo, dagli altri per semplice mancanza di curiosità. Francesco Marotta da anni raccoglie ogni cosa, reperto, traccia, per rendere meno difficile il cammino. Per sè e per gli altri. Sulle mie cartes che agli occhi dei più appariranno irrilevanti, immaginarie, bizzarre, la poesia di Francesco è segnata da tempo. effeffe

da Esilio di voce  
di
Francesco Marotta
Edizioni Smasher 2011

 

I

Imago 

si inciampa in un grido
che si dissangua in luce
ogni volta che guardiamo le stelle
nessuna soglia ci separa dall’assenza
nessuna parola così profonda
da poterla tacere

#

così è la grazia delle immagini
rovesciate nel palmo venute via dall’ombra
che ora ricordi accampata da sempre
alla tua soglia ma
si trattava di attese esercizi
privi di simboli come adornare sbrinati
specchi col battito salino
di una pupilla naufragata

II
Speculum
sarà parola solo l’incompiuto legame
che irrompe dalla cruna delle labbra
e allarma gli specchi del risveglio
indossa l’arte di contarsi ferita
e di affidarsi al flusso interminato
che spazza il sangue in refoli di nebbia
parvenze animate a farsi voce

#

è acqua che si acquieta
quando smette memorie di sorgente
al richiamo di un varco veloce
sopra mappe di sete è lingua
che si oscura votata nel segreto
a immaginari spiragli di luce
un astro che perde peso
risvegliando sensi agli amanti
è questo corpo che insiste
e nell’urto nebbioso dei giorni
libera sangue dagli argini
dalle dita qualche piuma invernale
il sigillo infranto di un nido

III
Vulnus

ci vuole la luce violenta di un rogo
per accostare l’abisso di volti che migrano
immaginare una sosta tra fioriture di imbarchi
liberare le tue labbra dal gelo
madre che parli l’infanzia dei giorni

#

di notte ti protegge il ricordo
di una casa in piena luce il labbro
stretto in un suo silenzio e il corpo
che quasi cede su un fianco
senza impurità senza più sogni
ma sono attimi che ti riguardano
come l’acqua un sasso
immobile nel suo deserto
azzurro privo di varchi
come la voce fulminata in gola
la misura esatta del respiro
ora che l’attesa pare una specie
di vento la curva che gli occhi fanno
nel dolore

Scarpe rosse

10

di Marilena Renda

Il mio lavoro di insegnante ha pochi piaceri. Uno di questi, lo ammetto, è dare vita alla scena che segue. Arriva sempre un giorno, di solito alla fine dell’anno scolastico, in cui decido di leggere alla classe Scarpette rosse, la mia fiaba preferita di Andersen. La prima volta che decisi di raccontarla le portavo proprio, le ballerine rosse (forse volevo inconsapevolmente incrementare l’effetto cruento). Dunque, quel giorno lessi la fiaba, e una bambina dal volto perfettamente innocente guardò il libro, poi guardò le mie scarpe ed esclamò, con aria di vero spavento: “Stai attenta, professoressa!”.

Questo per dire che da qualche anno a questa parte Scarpette rosse è la mia favola identitaria: mi identifico perfettamente in questa fiaba, e quasi solo in questa. La mia passione per questa storia ha un carattere maniaco ed esclusivo che per un certo periodo ha pressoché escluso che io potessi provare un interesse dello stesso genere per qualsiasi altra storia. Questa mia identificazione assomiglia alle convinzioni che ho formulato nel corso degli anni sulla mia natura e sul mio destino: incontrovertibili, a prova di esperienza, a volte incrollabili senza alcuna giustificazione. D’altra parte, non è così anche nelle fiabe? Per quale ragione una storia in cui una fanciulla si incapriccia di un paio di scarpe rosse e le indossa deve finire con un boia che le taglia i piedi? Non ha logica, eppure va bene così.

La fiaba inizia con una situazione di perfetta povertà in cui la fanciulla si sostenta a malapena ma c’è un principio femminile buono (la vecchia calzolaia) a darle il poco che le serve (le scarpe rosse goffe ma fatte a mano con i materiali a disposizione della vecchia). Una situazione di autarchia emotiva in cui il bisogno è sempre naturale, il corpo soffre per l’azione del vento e della pioggia, lo stomaco soffre la fame, ma esistono solo bisogni primari, che vengono soddisfatti in modo semplice e naturale, il desiderio è misura di se stesso e non si perde mai.

Tutto si ribalta (in questa fiaba di doppi opposti, o di personaggi che appaiono e ricompaiono all’improvviso, vagamente minacciosi, nella foresta o di fronte a una chiesa) allorché entra in scena la vecchia signora imponente e ricca; al desiderio-in sé subentra il desiderio fuori-di-sé, soddisfatto dall’esterno, dettato dal denaro. Non un  vero desiderio, piuttosto una sua contraffazione commerciale. La situazione cambia di segno: alla povertà si sostituisce la ricchezza, e la fanciulla, abbacinata dal nuovo, dimentica ciò che le era proprio e trascura il desiderio che le somigliava tanto. Attratta dall’idea di una vita facile in cui siano gli altri a provvedere alle sue necessità accetta di seppellire le scarpe vecchie e di lasciare agli altri la cura di sé.

Ma gli altri conoscono i suoi desideri? La fanciulla, che vede il luccichio della bellezza nello specchio che riflette la sua immagine, si illude di sì, crede a chi promette cibi sopraffini, si affida al baluginio della ricchezza. Il desiderio delle scarpette rosse, che le si accende nel cuore fino a sopraffarla, la porta fuori di sé e la spinge alla coazione del movimento. Se non puoi fermarlo, però, non può essere un movimento buono. Da un lato all’altro del piccolo mondo della fanciulla rimbalzano figure maschili vagamente demoniache: il boia, il vecchio soldato con le stampelle e la barba rossa che le fa i complimenti cercando una complicità fuori dall’umano (non è sano, non ti fidare, direbbe la vocina interiore, se la fanciulla la potesse sentire); in un’altra versione c’è addirittura un vecchio calzolaio zoppo (anche qui, la vocina dovrebbe suggerirle: come può un calzolaio zoppo fare scarpe in cui si cammina senza farsi del male?).

Per il tormentato Andersen la dismisura era peccato, dannazione, promessa di morte. Avrà pensato, il rosso può portarmi fuori di me e dalla grazia e farmi perdere per sempre la strada e la ragione, tanto che alla fine del viaggio non troverò più niente di familiare. Eppure, cos’è familiare? Cosa posso sopportare? Fin dove mi posso spingere? Cosa mi può realmente uccidere? Il tintinnio delle scarpette diaboliche riporta per un attimo sulla tomba della vecchia signora, che nel frattempo è morta. E in effetti come non danzare sulla testa dei morti? Come non festeggiare l’esultanza di essere vivi? E chi non ha mai danzato sulla testa di un cadavere non sa cosa voglia dire la colpa (la gioia è fatta sempre di piccole stringhe rosse).

Quando usciamo fuori di noi per incontrare il desiderio degli altri pensiamo: sarò forte abbastanza da sopportarlo, non mi ucciderà, imparerò a sopportare il dolore semmai, perché è così che si fa. Sopporterò i segni rossi che mi fanno le scarpe nuove, perché ballare mi piace troppo, e di ballare non posso fare a meno. L’ultimo pensiero che pensano i piedi prima di essere separati dal corpo e andare in giro come lucertole tagliate a metà, è un pensiero di forza, un’illusione di forza. Solo che Andersen lo sapeva, che superato il limite che le nostre stesse mani hanno stabilito possiamo solo rimanere schiantati.

*****
Scarpe rosse

di Anne Sexton

traduzione di Marilena Renda

Abito nel cerchio
della città morta
e mi allaccio le scarpe rosse.
Tutto ciò che era calmo
è mio, l’orologio con la formica,
le dita dei piedi, allineate come cani,
il fornello, molto prima che bollisca il rospo,
il salotto, bianco d’inverno, molto prima delle mosche,
la cerva distesa sul muschio, molto prima della pallottola.
Mi allaccio le scarpe rosse.

Non sono mie.
Sono di mia madre.
Sua madre prima di lei
le lasciò come cimelio
ma le nascose come lettere vergognose.
La casa e la strada a cui appartengono
sono nascoste e le donne, anche le donne
sono nascoste.

Tutte quelle ragazze
che indossavano scarpe rosse
salirono su un treno che non si fermò.
Le stazioni fuggirono come spasimanti e non si fermarono.
Danzarono tutte come la trota all’amo.
Furono tutte ingannate.
Si strapparono le orecchie come spille da balia.
Le loro braccia si staccarono e diventarono cappelli.
Le loro teste rotolarono e cantarono per la strada.
E i loro piedi – o Dio, i loro piedi al mercato –
i loro piedi, due scarafaggi che corsero verso l’angolo
e poi danzarono orgogliosi.
La gente esclamava: sicuramente,
sicuramente sono meccanici, altrimenti…

Ma i piedi andarono avanti.
I piedi non si fermarono.
Tesi, come un cobra che ti vede.
Erano un elastico tirato,
erano isole durante un terremoto,
erano barche che si scontrano e affondano.
Tu e io non contavamo.
Non potevano ascoltare.
Non potevano fermarsi.
Quello che facevano era la danza della morte.

Quello che facevano li avrebbe ammazzati.
Qui l’originale.

*****
Altre fiabe

Azzurra D’Agostino, L’arte è una bestialità. Una lettura de “I musicanti di Brema”

il principe è morto cantando

1

di Andrea Caterini

Ho sempre pensato che la critica fosse a modo suo un’irrimediabile autobiografia. Penso anzi che il critico letterario sia inguaribilmente malato di autobiografia, poiché non essendo in grado di parlare di sé sa che il solo modo per farlo è tentare di leggere, quindi conoscere, e successivamente scrivere di quei libri che il sé glielo svelano di volta in volta. Questo non significa che il critico sia una personalità più complessa dello scrittore primario (quello cosiddetto d’invenzione) – tutt’altro; è perlopiù una persona impacciata, poco abile nell’esprimere ciò che di sé più lo farebbe esporre al mondo – per questo parla di altri e attraverso altri. È costretto a raccogliere l’espressione altrui e farla propria; meglio, si serve di altre espressioni per capire la sua, quindi per capire cosa e chi è. È certamente una questione mimetica, ma sarebbe meglio dire che si tratta d’un vero e proprio nascondimento. Non so, parlo attraverso la mia esperienza, ma non credo sia così distante dalle motivazioni che spingono ogni critico a fare quello che fa – nonostante la mia esperienza abbia così poca storia, a dire la verità.

Over Booking

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“I libri aiutano a leggere il mondo”, manifestazione itinerante a cura dell’associazione culturale Malik, (qui è possibile scaricare il programma completo) dedicata alla creatività letteraria, dopo aver fatto il giro dell’isola fra Oristano, Fonni e Norbello termina il suo viaggio a Cagliari, il 20 e 21 gennaio,  con una due giorni molto intensa nello spazio della MEM (Mediateca del Mediterraneo) in via Mameli, tappa finale di tour durato tre mesi. Ogni anno l’associazione prende spunto da un diverso personaggio e, studiando e valorizzandone le opere  cerca di creare sinergie tra autori, lettori e istituzioni.Dopo il fortunato esordio dello scorso anno, dedicato alla straordinaria creatività  di Bruno Munari, quest’anno si è scelto di dedicare la manifestazione al genio di Italo Calvino. Cardine attorno al quale il progetto ruota è quello delle biblioteche, spazi preziosi del sapere che con questa iniziativa si aprono all’esterno cercando un legame con la comunità. (Un saluto alla poetessa Alexandra Petrova presente nell’ultima giornata, da parte mia effeffe)

Una piccola tabaccheria. 1

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Ezra Pound

The Lake Isle

O God, O Venus, O Mercury, patron of thieves,
Give me in due time, I beseech you, a little tobacco-shop,
With the little bright boxes
piled up neatly upon the shelves

Nuovi autismi 13 – Baudelaire e le patologie della terra

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di Giacomo Sartori

 Io per mestiere studio la terra. La terra sono le zolle lasciate dagli aratri e i campi desolati l’inverno, la  mota sotto le scarpe da lavoro, le pianure, le colline, i vigneti in pendenza, i fianchi delle montagne, i boschi, le torbiere d’altitudine, gli orti e i giardini: tutto quello che non è stato irrimediabilmente cancellato o abraso dall’uomo. È la terra che fa crescere le piante che mangiamo (noi mangiamo piante,

Stammtisch

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Segnalo la bella iniziativa di Germanistica.net, dove una comunità di lettori sta scegliendo un testo della letteratura tedesca da leggere o da rileggere insieme. Invito tutti a partecipare al gioco.

Chi salverà i pastori?

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di Gaetano Bellone

Camminiamo sulla cresta sempre uguale del monte Gorzano. Da quota 1800 dobbiamo raggiungere quota 2400, la vetta con la croce e il manto di neve anche d’estate. I gradoni d’erba che dalla fine della strada dividono il camminante dalla quota sono sempre uguali e ogni 10 metri creano un gioco di prospettive che fa sembrare la vetta a vista. Miraggi continui e cadenzati. Il Gorzano è un monte arcaico, poco frequentato, che ha un tanfo di muschio simile a quello dello scatolone del presepe in cantina. Si supera un gradone e si comprende che la vetta è ancora lontana, è una montagna che ti prende per scoramento. Tra un gradone e l’altro incontriamo Romeo, un giovane pastore macedone. Ci segue da un po’, cerchiamo di evitarlo ma conosce palmo a palmo le traiettorie di chi cammina su questo suo giardino stagionale.

Romeo ha voglia di parlare perché da maggio a settembre non vede anima viva, fatta eccezione per gli altri pastori del rifugio e del capò, il vecchio che dorme in quota con loro per seguire le operazioni e controllare l’operato. Romeo racconta che per tre mesi porta a spasso le pecore e ha una radiolina che porta con sé per compagnia. È felice dell’incontro e vuole assolutamente che restiamo a dormire. “Ammazziamo una pecora, ce la mangiamo sul fuoco”. Io sono restio, Romeo è insistente, ci ha seguiti per un’ora e l’insistenza mi infastidisce. Ho in mente certe storie sui pastori e cerco una via di fuga ma il mio compagno d’escursione vede nell’invito una rara possibilità di applicare gli studi di antropologia. Accettiamo, mio malgrado. Romeo felice trotterella fino allo stazzo: “Devo chiedere il permesso al vecchio”. Aspettiamo osservando il ragazzo che scende fino al rifugio. Torna dopo poco, con la faccia grave. “Dovete andarvene”, ci dice. Siamo perplessi, la faccia non ha più l’entusiasmo dell’incontro, l’espressione è seria e risoluta. Prendiamo la strada verso la vetta. Vediamo che dal rifugio in basso qualcuno ci fissa. È il vecchio: controlla che ci allontaniamo.

Torniamo al rifugio in autunno, quando i macedoni sono ripartiti e il vecchio è tornato a casa, in qualche paese della provincia teramana.

Il rifugio è chiuso malamente con una catena. Entriamo. La stanza è di circa 4 metri per 3. In poco più di 12 mq ci sono tre materassi, coperte di lana ed un pitale, un secchio di latta da 10 litri, sporco di escrementi.

È autunno, facciamo un giro verso Valle Piola, sopra Torricella Sicura. Il borgo, fino a poco tempo fa era in vendita. Ci sono: una chiesa, un casale a due piani ristrutturato e riabbandonato, una specie di scuola più o meno degli anni 60 ed alcune piccole case da contadino, quelle con la stalla al piano terra e le stanze sopra. Qui i pastori stanno fino all’inverno perché non siamo in quota. Venendo abbiamo visto due ragazzi dell’est con le pecore ed un pick-up salire da basso. Il pick-up di solito è il mezzo dei titolari delle pecore o comunque di coloro che salgono a prendere il latte e controllare l’operato dei macedoni. Facciamo un giro nell’edificio di quella che sembra una scuola, la porta è aperta, la struttura sembra reggere. Non ci sono luce e acqua corrente. In una stanza c’è un grosso camino, c’è legna bruciata, asciutta perché il fuoco è recente. C’è una porta chiusa, entriamo. Due bottiglie di pomodoro, un fiasco di vino a metà, dieci litri d’acqua nei fiaschi, un pitale sporco al centro della stanza, due brandine con materassi sottili di lana a righe – quelli che si usavano una volta dalle nostre parti. Fa molto freddo, le tavelle del soffitto hanno il cemento sbrecciato, alcune sono fracassate. Il freddo è pungente, le finestre non chiudono bene. Una stanza ha la porta chiusa a chiave, sentiamo un rumore dentro e ce ne andiamo. Dallo spiazzo dove abbiamo lasciato la macchina si vede una delle finestre della stanza chiusa, è buio e non si vede niente, ma forse da dentro vedono.

Ripartiamo ed incrociamo il pick-up a mezza via. I due proprietari stanno parlando con i due pastori, ci guardano con la faccia seria, come se volessero appuntarci sulla testa un’espressione minacciosa. “Da queste parti non siete desiderati”, questo dicono quelle facce.

Nella Val Chiarino ci sono due rifugi, uno per gli appassionati di montagna, l’altro per i pastori che ci fanno il cacio. Sono dell’est pure loro. Due miei amici hanno pernottato al rifugio di sopra. I due pastori li hanno seguiti per un po’. Si sono fermati a chiacchierare, tante domande, voglia di comunicare. Uno dei pastori è ubriaco, è il suo compleanno. Invita i due amici ad entrare per un bicchiere nel loro rifugio. Una stanza, due brandine con materasso, coperte. Da un lato c’è l’attrezzatura per fare il cacio, il resto del latte lo vengono a caricare per portarlo a valle. Dal lato opposto del rifugio, c’è un pitale di latta, l’odore si mischia a quello forte del formaggio di pecora. Il tizio ubriaco è insistente, i miei amici sono una coppia, forse in virtù del compleanno si è messo strane idee in testa. Tornano al loro rifugio e si chiudono dentro che non si sa mai…

O una volta in Valle Vaccara, raccoglievamo “mazze da tamburo”. Veniva sempre un pastore, ci aiutava a raccogliere, anni fa. In cambio chiedeva monete per telefonare, ne aveva un sacco pieno, ci parlava di un vecchio che dormiva con lui, un capo. Il vecchio non voleva che il pastore telefonasse in Romania e non dava soldi al ragazzo fino a che la stagione non era finita. In buona sostanza gli avevano pagato il viaggio dalla Romania all’Italia, quando era arrivato aveva lasciato i documenti a casa del vecchio ed era salito alla prima quota del pascolo. Una volta a settimana il vecchio veniva col pick-up e lo portava a valle con l’altro pastore per fargli comprare il pane e qualcos’altro, allora il ragazzo cercava di chiamare in Romania perché la giovane compagna era incinta. “Perché il vecchio non vuole che telefoni?”, cambiava faccia.

A ritroso. È aprile 2009, a L’Aquila c’è stato il terremoto. L’Esercito e la Protezione Civile hanno montato le tende, la confusione sta scemando e hanno cominciato a censire la popolazione. È sera, è passata più o meno una settimana dal sisma. L’autostazione di Teramo è piena di ragazzi dell’est, vestiti male e con le facce distrutte, le scarpe logore.

È strano che ci sia tanta gente dell’est, sopratutto è strano in questo momento di confusione, i teramani riempiono le piazze con le macchine piene di piumoni, i posti pubblici sono affollati di famiglie terrorizzate dal sisma. In mezzo ad un tale caos, un assembramento come quello dell’autostazione passerebbe inosservato, se non fosse per i vestiti logori. Mi siedo accanto ad uno molto giovane. Racconta che stava in montagna, sopra L’Aquila, dopo il terremoto lui ed altri non sapevano che fare, se scendere a valle dai proprietari del gregge. Alcuni allora sono scesi nei campi e rimasti fino a che non è iniziato il censimento. Poi sono scappati e hanno avvertito gli altri. I documenti qualcuno ce li aveva pure ma li aveva lasciati al proprietario del gregge. Nell’autostazione ci sono almeno 100 persone, ci sono ancora le vecchie panche di legno al piazzale. Chiedo quante persone ci saranno sparse per le montagne…sgrana gli occhi, alza la fronte come se fosse una domanda sciocca: “Pieno, pieno”.
Qualche tempo fa in provincia di Teramo è morto un giovane pastore, quasi un ragazzino. L’hanno trovato sulla brandina, morto di freddo. Il vecchio proprietario delle pecore, il datore di lavoro, è una brava persona, un lavoratore, quella vita da bestie l’ha fatta pure lui da giovane. Adesso quella vita la fa fare ad altri. Queste cose non si sanno oppure si ignorano, perché quelli lassù non sono uomini, sono pastori.

Nell’immagine: Campo Imperatore, Abruzzo

L’albatros

15

di Gianni Biondillo

Venerdì pomeriggio osservavo dagli spalti della piscina comunale mia figlia nuotare, avanti e indietro, vasche su vasche, dorso, libero, delfino. Pensavo, sorridendo, che se si fosse trovata naufraga al largo, a riva ci sarebbe arrivata salva. Non sapevo ancora nulla della Concordia. Vedere alla sera in televisione la nave spiaggiata, come un cetaceo che aveva perso la sua rotta naturale, lì, a poco più di cento metri dalla costa, mi aveva fatto vergognare del mio pensiero così futile, per quanto innocente.
Sono un architetto di formazione. Leggevo da ragazzo le pagine di Le Corbusier che esaltava la vita nei piroscafi, città galleggianti, logiche, macchine da abitare, dove la vita associativa, la comunità, trovava la sua libertà nella convivenza. Un mito macchinistico che nascondeva il risvolto della medaglia: la potenza della modernità, il suo sguardo verso il futuro, assomigliava troppo alle ali dell’albatros della poesia di Baudeleaire: al largo, in volo, tutto pare poesia. Ma è partire, è attraccare, è lì l’impedimento, la gravità del corpo, la difficoltà dell’esistenza.
Prima ancora di Le Corbusier è un altro il mito che ci portiamo dentro, che ha segnato il nostro immaginario collettivo: “Sembrava di essere sul Titanic” ha detto una sopravissuta. Esattamente cento anni fa, prima delle certezze positiviste del razionalismo francese. E cento anni dopo ancora dobbiamo fare i conti con questa dolorosa allegoria. C’è qualcosa di illogico, di innaturale, nella enorme dimensione della Concordia a pochi metri dagli scogli. Sembra quasi un modellino abbandonato, un giocattolo smarrito. La conta delle vittime e dei dispersi, ancora in divenire, ci riporta alla realtà delle cose.
“Quando abbiamo fatto le simulazioni di evacuazione della scuola” mi ha detto mia figlia, di fronte alle immagini della tragedia del Giglio, “il vigile ci ha spiegato che più dell’incendio, può fare il panico.” Le indagini della magistratura ci racconteranno come sono andate davvero le cose. Ma a sentire i superstiti sembra evidente una inadeguatezza, da parte del personale di bordo, a gestire l’emergenza. A gestire il panico. Inadeguatezza dovuta a mille ragioni, ma sembra soprattutto causata da una impreparazione di base: marinai che neppure parlavano l’italiano, incapaci di assistere i passeggeri, cavi che si spezzavano, giubbotti salvagente insufficienti. Tanto non affonda. (Penso a tutte le volte che ho snobbato il personale di volo mentre mi spiegava come comportarmi in caso di emergenza: tanto non cade). La fiducia che riponiamo nella tecnologia, di questi pachidermi dei quali nulla sappiamo – come volino nel cielo, come attraversino i mari – è al limite dell’incoscienza.
Colpisce, fra le tante, l’immagine di un capitano che abbandona la nave prima che tutti vengano messi in salvo. Non poteva accadere, non doveva. Ci sono regole che non possono essere infrante, doveri che non possono essere elusi. Ne va della nostra civile convivenza. Non basta aver simulato in qualche corso d’aggiornamento una emergenza, bisogna dimostrarsi degni del ruolo. Non sopporto l’idea che questa tragedia si dimostri la facile metafora di una società, quella italiana, capace di creare una meraviglia cantieristica come la Concordia ma che allo stesso tempo permetta poi venga governata da addetti manchevoli, inadeguati. So di storie di eroismo, su quella nave, e di egoismi spiccioli. Per ora contiamo le vittime, ma non dimentichiamo troppo in fretta questa lezione.
“In caso di incendio” ha proseguito mia figlia “il vigile mi ha assegnato il compito di capo fila. Porterò io l’intera classe nel punto di raccolta.” So che farai bene il tuo compito. Ho fiducia nelle nuove generazioni. Mi fido di te, capitano. Oh, mio capitano.

[pubblicato ieri su L’Unità]

Su “Coffe-table book” di Alessandro Broggi

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di Andrea Inglese

Alessandro Broggi fa parte di quel drappello di autori che, in questi ultimi anni, hanno riflettuto criticamente sulla nozione di genere poetico e hanno approntato delle strategie per neutralizzare molte delle sue pretese tematiche, stilistiche e lessicali. Broggi, per utilizzare una metafora del poeta e teorico francese Jean-Marie Gleize, è uno scrittore intento ad “uscire” dalla poesia. Questa scelta appare già evidente nella predilezione per le prose brevi, che costituiscono, ad oggi, la parte più cospicua della sua opera edita.

caro sindaco, parliamo di biblioteche

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(Di seguito due pezzi usciti rispettivamente a mia firma su l’Unità e a firma di Christian Raimo su Il Manifesto riguardo la questione biblioteche, diffusione della cultura ed enti locali. Lo spunto è stato il libro pubblicato nel dicembre scorso da Antonella Agnoli per Editrice Bibliografica)

di Chiara Valerio e Christian Raimo

#1 (Chiara Valerio)

“La biblioteca è un servizio di base, trasversale, che offre qualcosa a tutte le categorie di cittadini: vecchi e giovani, professionisti e disoccupati, casalinghe e immigrati. Copre un arco di interessi vastissimo e quindi è un sostegno vitale anche per altre strutture culturali come i musei, i teatri, i cinema. Occorre promuovere il coordinamento e l’integrazione fra tutti questi servizi.” Caro sindaco, parliamo di biblioteche (Editrice Bibliografica, 2011) è un altro tassello che Antonella Agnoli, bibliotecaria et alia in un paese in cui (quasi) nessuno legge, sottrae al muraglione ideologico che sta intorno all’idea di cultura, di intellettuale e di privilegio culturale e che è il principale fortilizio che soffoca la mobilità tra le classi sociali nel nostro paese. Ed è quindi un altro tassello aggiunto al concetto di democrazia. Se ne Le piazze del sapere.

La manutenzione della sega elettrica

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di Francesco Permunian

la casa del sollievo mentaleGirolamo Toppi (paròn Giro, come era noto nel paese e in tutto il circondario) aveva perciò l’abitudine di passeggiare in casa con passo felpato e guardingo, fidandosi poco anche di transitare da una stanza all’altra. Il semplice atto di aprire una porta costituiva un problema, visto che poteva spalancargli d’incanto abissi sconosciuti.

Le finestre erano chiuse da anni, il portone d’ingresso sbarrato e apribile soltanto dall’interno. Per uscire, sua moglie era costretta a sgusciare da un pertugio che dava sul retro della casa. Al rientro, doveva suonare il citofono e pronunciare, con voce chiara e squillante, la formula scaramantica Chi non vigila è perduto!

Ombra tra le ombre, Girolamo vagava inquieto nella sua fortezza impugnando una piccola pila che dirigeva con sospetto verso il soffitto e nei cantoni più bui. A rovistare tra sporcizia e ragnatele, titubante eppur smanioso di scoprire chissà quale minaccia, chissà quale macchia o infamia oscura.