di Stefano Zangrando
Ho conosciuto tardi la scrittura di Marino Magliani e ho letto solo una piccola parte dei suoi libri. Pure ho la sensazione, che avranno avuto in molti, di essermi imbattuto in uno scrittore, come si dice, di razza. Di solito non uso quest’espressione stereotipata, “scrittore di razza”, ma quando leggo Magliani mi torna in mente spesso, per conto suo. Con ciò intendo forse uno scrittore che asseconda la propria vocazione, o scelta, senza grilli accademici o aspirazioni mondane, inseguendo invece un proprio demone molto terragno, forte, che solo dopo, per virtù riflessa, si specchia con sognante vaghezza nel firmamento dei propri modelli. Probabilmente questa impressione è corroborata anche dal percorso esistenziale di Magliani, che se ho capito bene è quello di un cercatore di felicità passato per terre e calori diversi, un migrante irrequieto stanziatosi infine in un canto defilato d’Olanda, dopo aver lentamente appreso, guidato dagli anni, un altro edonismo, più puro e nascosto.








