di Giancarlo Alfano
Cari amici di Nazione indiana, riprendo qui in forma di lettera alcune considerazioni che ho proposto un paio di mesi fa nel corso del festoso e proficuo incontro del 29 maggio. Lo faccio adesso anche perché si discute in questi giorni in Parlamento il disegno di legge cosiddetto “Gelmini”, che, a mio avviso, umilia profondamente la funzione pubblica dell’insengamento e della ricerca universitaria (limitando di fatto l’accesso all’università pubblica) e perché il dibattito sul mondo universitario mi pare povero, stanco, ripetitivo. Occorre invece tenere alta la guardia su quel che sta succedendo e su quel che ci sembra fondamentale per la formazione intellettuale in Italia.
Durante il dibattitto promosso da Andrea Inglese “Alla ricerca del vocabolario perduto” a me è toccato ragionare sulla “critica universitaria”, nel tentativo di rispondere alla domanda del promotore, e cioè se fosse «possibile individuare un vocabolario condiviso per la critica». Personalmente non sono persuaso che esista una cosa come la “critica universitaria” distinta da altri esercizi critici. Credo invece che si debba capire che cosa fa chi lavora all’interno delle istituzioni accademiche (sia o non sia ricercatore, borsista, dottorando, docente, etc.).










