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Diario di un luddista senza complessi #1 (La libido.)

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di Andrea Inglese

Vorrei precisare. Ci sono i transumanisti, gli accelerazionisti, i lettori di Baricco e di Paolo Giordano: c’è posto per tutti sul pianeta terra, non per necessità di ragione, ma per brutalità di fatto. Ebbene ci sono anch’io, anzi la tribù di cui faccio parte: i luddisti senza complessi. Ogni tanto ne incontro qualcuno o sopratutto qualcuna. Le donne sono più numerose di gran lunga. Maschi luddisti cercasi disperatamente. Io dico non solo che le tecnologie non sono neutrali e che portano in sé un’ideologia implicita, ma dico anche (Apriti cielo! Santissimo Marx!) che le tecnologie non hanno carattere di necessità, e che quindi il loro dispiegamento nelle nostre vite non è una fatalità irrimediabile, ma soltanto una debolezza del nostro spirito, una pochezza della nostra politica. Ma dopo aver formulato due grandi bestemmioni, due affermazioni che non rientrano nell’ordine dei pensieri pensabili da una mente sana, vorrei scendere su di un terreno più spicciolo, e immediato. Chat-GPT non sollecita in me nessuna libidine. Né il suo uso concreto, né la sua evocazione circonfusa di aloni scintillanti e misteriosi, mi procurano eccitazioni inguinali e tantomeno mentali. Zero festa, zero stelline, zero iridescenze, zero inturgidimenti. In primo luogo non uso, se non raramente, Chat-GPT, e per nessun compito “ordinario”. Consideriamo le due circostanze in cui l’ho usato ultimamente. La prima, per tradurre un articolo, da me scritto, dall’italiano al francese, che ho poi rivisto frase per frase. Un ottimo risultato, ma un’operazione complessivamente “rottura di palle”. (Così è in genere dell’autotradursi, per mia esperienza). E la seconda, per scrivere in interazione con lui (con esso!) un racconto. Non entro nei dettagli, ma anche in questo caso l’operazione è stata soddisfacente. Ma non posso immaginarmi di rivolgermi a Chat-GPT per fare qualcosa che facevo quotidianamente prima. Scrivere una lettera di lavoro, una lezione per i miei studenti, una ricetta di cucina. Fare degli acquisti. Organizzarmi un viaggio. E non so cos’altro. Non so veramente cos’altro potrei farmi fare da Chat-GPT per essere più felice di quanto sia adesso. Non so per altro se sono tanto felice. Ma sono certo che l’uso di Chat-GPT non mi renderebbe più felice. Non solo. Ma per via del mio luddismo senza complessi, ho scoperto anche in me un lato brutto e tenebroso: non sono affatto tollerante. Non sopporto che gli altri usino Chat-GPT. Non riesco a farmi andare giù l’eccitazione mentale o inguinale che provano nell’evocarlo, nel farlo funzionate, nell’usarlo. Quindi anche se io sono felice, per quel tanto che posso (non è tantissimo, soprattutto da qualche anno a questa parte) senza usare Chat-GPT, l’eccitazione e l’uso altrui di Chat-GPT, accompagnato di urletti e gorgoglii di soddisfazione, mi toglie un po’ della mia già precaria felicità. Non è questione di gusti, così come non è questione di come lo si usi (bene o male, da pirla o da genio). Chi lo usa con lo scodinzolamento annesso è colpevole, è responsabile, aggiunge il suo piccolo mattoncino alla muraglia della falsa necessità, della falsa ineluttabilità.

“Ma vecchio boomer!” sento gridare da uno che ovviamente è su-per-giù mio coetaneo (chi altri ha la parola boomer sulle labbra ogni due secondi se non un quaranta-cinquantenne?). Voglio correggerlo un po’ pedantemente: nelle definizioni correnti un “baby boomer” è qualcuno nato tra il 1946 e il 1964, ossia durante il balzo demografico del dopoguerra. Quindi non mi riguarda, non ne faccio parte. Ma forse “boomer” semplicemente è un modo degli over 40 per darsi a turno del “conservatore”. Ci sarebbe, in particolar modo, un conservatorismo “tecnologico”. Non è il mio caso, comunque. Lo ripeto: luddista senza complessi. Io penso che le nuove manifestazioni dell’intelligenza artificiale acquisiscano ancora più fulgore dall’imbesuimento concomitante dell’utilizzatore umano. Non c’è nessuna gara da temere tra l’intelligenza macchinica e quella organica dell’essere umano. La battaglia è già persa in partenza, perché c’è un’intelligenza artificiale che affronta, semmai, uno scoppio di idiozia umana. E quindi il gioco è fatto. Dai recessi abissali della coglionaggine quanto sembra impareggiabile anche una tiepida intelligenza?

Torniamo alla libido. In fondo è tutta una questione di libido. Ho sentito alla radio nazionale francese un conduttore molto entusiasta, per un progetto di ricerca basato sull’intelligenza artificiale che ci permetterà finalmente di “dialogare” con i nostri animali domestici. E qui si è lanciato in una oscura spiegazione per dire che, ad un certo punto, grazie a un dispositivo dell’IA, potremmo tradurre quello che il nostro gatto dice quando ad esempio miagola. Fermiamoci un momento. Vi rendete conto che abbruttiti che siamo? Noi che ci teniamo in casa un gatto? Anzi tutta l’umanità che si è tenuta in casa gatti e cani e criceti per secoli, senza capire un tubo di che cosa volessero e sentissero questi compagni di vita? È davvero un miracolo, certamente uno dei più grandissimi miracoli, il fatto che nonostante questa fitta tenebra tra l’uomo e il suo animale domestico, nonostante questa totale incomprensione, che finalmente solo l’IA potrà dissolvere, noi si continui a vivere ogni giorno con i nostri animali, riuscendo anche a nutrirli, curarli, portarli in giro, giocare con loro. Chissà come tutto questo è stato possibile senza il traduttore? Finalmente il mio gatto, Ulisse, di cui ciò che più ammiro e mi affascina è il suo mutismo, la sua ritrosia a prender la parola, a raccontarmi banalità, magari aneddoti sull’intelligenza artificiale, ebbene questo essere enigmatico e bello verrà ridotto allo stato di un qualsiasi parlante: “Ehi! Capo! Come stiamo a crocchette?” Che bello! Tanti miliardi investiti per ritrovarsi in una sorta di cartone animato Disney, dove il gatto parla finalmente come me, si fa capire come un qualsiasi essere umano nell’era dello sviluppo incontrollato dell’idiozia naturale!

 

Ps

Che cosa mi procura quell’eccitazione mentale che altri provano alla sola evocazione del termine “intelligenza artificiale”? Bè, faccio due esempi recenti. Quando leggo questi due versi in una poesia di Philip Larkin:

 

Next year we shall be living in a country

That brought its soldiers home for lack of money

 

L’anno prossimo vivremo in un paese

che ha riportato a casa i suoi soldati per mancanza di soldi.

 

E mi dico: che bello, che strano, che perfido descrivere così “la pace”. E poi mi dico: ma quand’è che Israele finirà i soldi? O gli USA finiranno i soldi? O la Russia finirà i soldi?

Oppure, altra fonte di eccitazione, questa frase di Carla Lonzi: “Il pensiero maschile ha ratificato il meccanismo che fa apparire necessari la guerra, il condottiero, l’eroismo, la sfida tra le generazioni”. Magari potremmo aggiungere: e l’energia nucleare, e l’intelligenza artificiale. Tutta roba necessaria. Lo dicono maschi molto intelligenti e molto sicuri di sé.

➨ AzioneAtzeni – Discanto Ottavo: Andrea Gobetti

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  Ma chi me l’ha fatto fare? Non sono nato montanaro. Anzi. Fino a oggi i monti li ho visti soltanto sulle carte geografiche, macchie di marrone in tonalità digradanti. Pure astrazioni. Sono creatura di palude, avvezza all’acqua piatta, ai giunchi profumati di marcio, agli stretti sentieri fangosi dove larvare in silenzio per ore seminudo al sole diventando nero come inchiostro e sperando nell’apparizione vespertina del blu smalto delle penne di un pollo sultano a passeggio. dal racconto ‘Arrampicatori di pianura’, di Sergio Atzeni, in Gli anni della grande peste  

L’arrampicatore delle paludi.

di Andrea Gobetti

Conoscevo anch’io quella ragazza, esemplare rarissimo di scalatrice, capace di far arrampicare anche un pinguino, pur di raggiungerla. Lei arrampicava all’inglese, ovvero sapeva usare le dita e le mani come oggetti da incastro tra le fessure che la roccia propone, sapeva allontanarsi alta oltre le protezioni, dal rischio ricavava abilità e non paura. Avevo scalato con lei “a comando alternato”: un tiro di corda a testa su per una lunga parete rocciosa, alternandoci ogni 40 metri nel ruolo di prode condottiero e di fedele secondo. Avventura magnifica anche se ora è passata di moda. Lui non aveva mai visto, né supposto riti di tal genere, non gli era mai passato per l’anticamera del cervello che ci fosse un senso ad aggrapparsi a sterili mucchi di pietre, a dimenarsi tra tagli rocciosi e spigoli vertiginosi, araldi di superbia e di sventura che incombono sul destino di chi non ha saputo ignorarli. Lui era un figlio delle paludi, d’acqua stagnante tra il dolce e il salato gremita di vita nascosta, dove tutto sta attento a non mettersi in mostra. Dal suo punto di vista, bianche, rosse, nere o vermiculate che fossero le rocce esposte a verticale nudità non servivano a niente, né a dar da mangiare agli uomini e neppure a fomentare la rivoluzione. Veniva dall’Arburese, l’arrampicatore delle pianure, regione di miniere, con pozzi e gallerie dove uomini si rovinano la salute fin da ragazzi, dove son di casa rischi di cui il padrone manco si vergogna e sono l’incubo di tutti gli altri. Ma le miniere raccolgono gli uomini e dal lavoro era nata la forza di ribellarsi, di lottare insieme per un destino migliore, non era la Sardegna dei “pocos, locos y malunidos” sudditi di cui si burlava un tempo il governatore spagnolo, era l’anima sarda che pretendeva la riscossa. Il mio amico Maurizio, barbiere in quel d’Oliena, all’ombra del Supramonte, mi canzonava spesso perché chiamavo Sardi anche quelli della capitale: “Quello non è Sardo! – sbuffava – È di Cagliari”. Con Sassari la musica non cambiava, così un giorno, curioso quanto un antropologo, gli chiesi di quelli del Sulcis, dell’Iglesiente e dintorni. Maurizio non scosse la testa, ma l’ondeggiò pensoso. “Sono Sardi. Magari non la pensano come noi, ma sono Sardi.” Lui era arrivato in città non annunciato, che a Torino vuol dire di nascosto ed è il modo migliore per difendersene, perché quando ha fame la mia città è sofisticata, vuol la carne dei suoi figli migliori o anche quella di chi non ha partorito, ma è di particolare pregio. Le cervella, le ama nel fritto misto, non le sopporta se pensano. Annusava con diffidenza gli amici di lei, forse ne temeva l’oltraggio. Noi torinesi, oltre che parlare un pessimo italiano siamo sempre di quella razza che ha tagliato i boschi della Sardegna e ha dato a Pietro Micca micce troppo corte per poter salvare la sua pelle oltre che la nostra città. Lui era un tipo agile e compatto, l’occhio gli brillava come a chi ama ridere spesso, la voce era diretta, non guastata dall’abitudine a dire cazzate. Cominciammo a scambiare tentativi di occhiate complici e monosillabi di circostanza finché lei, con quella voce capace appunto di convincere un pinguino a scalare una montagna, ci esortò a proferire parole e magari organizzarle in frasi. “In fondo fate tutte due lo stesso mestiere.” Concluse. “Il barbone?”, mi scappò di ridere. Rise anche lui e ci siam dati la mano. “In effetti l’ho trovato alla stazione”, giubila lei, felice Nel giro di un paio di cene scoprimmo d’andar d’accordo su alcune cose: il francese ci entrava dall’orecchie e ci usciva dal naso molto meglio dell’inglese, l’andar fuggiaschi ci dava più soddisfazioni che il turisticheggiare indarno. Entrambi gustavamo il piacere di lasciarsi alle spalle una città e tutte le storie là capitate; era un sollievo, una gioia, sparire. In quanto speleologo tale delizia mi era nota, ero felice di venir inghiottito frequentemente dalle viscere della terra, di allontanarmi dai suoi ritmi di superficie in una notte senza fine. A causa di questa passione, semi adolescente m’ero innamorato della Sardegna, avventura di solida tradizione tra gli esploratori delle caverne, considerato che le grotte sarde sono fra le più belle e gradevoli al mondo. Generalmente ci si imbarcava dal continente stipati su un paio di macchine sul far del Natale e si scompariva in codule e nurras tra i supramonti e le coste del nuorese sino all’Epifania. Le grotte erano fantastiche e i personaggi che le circondavano non da meno, fossero pastori, artigiani, studiosi. I Sardi, come pochissimi altri popoli al mondo, non hanno paura delle grotte, non ci tengono recluso dentro il diavolo col forcone: fa loro simpatia che qualcuno le voglia conoscere. Così lo accompagnano, lo sfidano a non rompersi le corna, lo aiutano, lo ubriacano. Quando si prendono assieme dei rischi, va da sé che succede lo stesso con le sbronze. Era una scuola di sincerità quella che m’era stata aperta. Conobbi addirittura le astuzie con cui tenere a bada i piemontesi. “Il bandito Corbeddu aveva uno strumento a corda che, strofinato con l’archetto, emetteva un suono tanto stridulo da fare imbizzarrire i cavalli dei carabinieri, che cadevano e si spaccavano l’osso del collo sulle pietre.” “Bene – ridevo io – come si fa?” “Aió! Ci vuole un budello speciale, il più robusto del mondo.” “E qual è? Quale budello di mitologico animale si presta alla filarmonica del Lanaittu?” “Stomaco di cane, morto di fame.” Che lui fosse Sardo non c’era da chiedere. Parlargli della Sardegna? Errore fatale. Noia scontata, come parlare di spiritualità a un cherubino, per dirla con Rilke, ma neanche a star zitto facevo un gran figura, sembrava d’aver paura di mescolare il mio alfabeto con il suo, quando invece avevo la voglia e l’interesse a far tutto il contrario. Mi sembra di ricordare che esordimmo parlando male di Fofi, uno dei più intelligenti e quotati critici letterari del nostro paese che aveva trattato male un libro suo e non aveva cagato i miei manco di striscio. Rotto il ghiaccio mi misi ad ascoltare le sue storie, le mie le sapevo già. C’era del Nord nel suo recente girovagare, città fredde, equilibri instabili su strade bagnate, talvolta gelate, c’era la capacità d’attirare l’affetto delle donne, la strategia dei far mille mestieri fottendosene che avrebbero portato a mille miserie; era rapido, leggero, non si dava peso e questo è molto utile a un uomo che fugge. Stavolta però aveva trovato un muro, una parete di roccia davanti a sé. Al tempo, cavar sangue dalle rape era il mio mestiere, dovevo mettere insieme ogni mese di giugno un annuario dedicato ai pensieri, le fantasie, le storie del popolo degli arrampicatori, compagine già di grande e gloriosa tradizione che si era appena incastrata sulla secca della competizione sportiva. Il giornale si chiamava Roc, faceva rima con tòc e con balòc, lo editava la Rivista della Montagna. Lei mi aiutava parecchio, scriveva e traduceva, arguta nell’analogia quanto limpida nell’espressione. M’aiutava con altri amici a scegliere luoghi, autori e personaggi un anno dopo l’altro. Si ragionava di sviluppare l’intelligenza motoria, quella che vien castigata sui banchi di scuola, mentre i convertiti allo sport si lasciavano abbagliare da un inutile travestito in gara sperando nei premi appesi in punta all’albero della cuccagna. Abbiamo perso su tutta la linea. Immaginatevi che negli anni Settanta si arrampicava per vivere liberi e oggigiorno il premio per i migliori è poter entrare in Finanza o Polizia. Ma in quegli anni iniziali di malaugurata svolta, con la partita ancora aperta, uno scrittore come lui non si poteva lasciar scappare anche se non aveva mai visto un chiodo da roccia, né tastato un granitico appiglio. Proprio per quello, anzi, era prezioso. Lui non fuggì, con molto coraggio seguì l’esperto passo della sua compagna, e scrisse ‘Arrampicatori di Pianura’, un capolavoro, un codice della sopravvivenza umana. Nacque un eroe contemporaneo in mezzo a cavalieri medioevali, avevamo trovato uno che sapeva le vere parole per ammansire la montagna invece di farla diventare furibonda. Un esempio da seguire. Quando poi finì nel mare la presi malissimo per lei, per lui, per tutti noi, suppongo. Dopo qualche tempo passai con lei a dare un’ultima visita alla sua stanza di Torino. Ritrovai, ormai vuoto, il suo scaffale bello, ricco di libri sulla Sardegna, scritti da Sardi e non c’era più neanche il mucchio accatastato sotto il letto di libri sulla Sardegna scritti da non Sardi. Restavano tre birre nel frigorifero, Sans Souci Icebeer, ne bevemmo una a testa all’anima sua, la terza la portai via. Quella triste sera parlavo di lui col mio amico Franco Cuccu, professione idraulico, e negli intermezzi eroe di quelle domeniche o altre giornate in cui qualcuno rimane bloccato in una grotta, in una tana o sotto le macerie d’una casa crollata e non ci sono più santi. Anche Cuccu viene da un paese di minatori, arriva con la dinamite e lo stemma del Soccorso Alpino e Speleologico: fa saltare quel che deve e salva anche chi più non lo spera. “L’ho visto una volta – disse il mio amico – ma non ci siamo mai conosciuti. Lui era di Arbus e io di Gonnos; abbiamo un modo diverso di fare la pasta con la salsiccia”. Soppesa in cuor suo il differente, una questione più di tempistica nella padella che di ingredienti. “Devi sapere che tra i nostri paesi un giorno hanno fatto una strada diretta con un ponte che solo pochissimi attraversavano. Gli altri preferivano passare da Guspini, anche se la strada era più lunga”.    

* Azione Atzeni- mode d’emploi

di

Gigliola Sulis e Francesco Forlani

‘E scoprirai quello che resta di un uomo, dopo la sua morte, nella memoria e nelle parole altrui’. Sergio Atzeni, Il figlio di Bakunìn Il 6 settembre del 1995, inghiottito dal mare come l’amato Fleba il Fenicio, Sergio Atzeni perdeva la vita nelle acque dell’isola di Carloforte. Sardo, appena quarantenne, era stato militante comunista, anarchico leader studentesco, impiegato insoddisfatto, sindacalista, pubblicista. Dopo la fuga dall’isola, tra l’Emilia e Torino, divenne correttore di bozze, lettore di manoscritti per case editrici, sontuoso traduttore – un testo su tutti: Texaco di Patrick Chamoiseau. Per tutta la vita fu intellettuale rigoroso, poeta e scrittore immaginifico, autore di romanzi-mondo come Apologo del giudice bandito, Il figlio di Bakunìn, Il quinto passo è l’addio, Passavamo sulla terra leggeri, e di una cascata di racconti tra cui Il demonio è cane bianco, I sogni della città bianca, e Bellas mariposas. Come nel Figlio di Bakunìn, pensando oggi a Sergio, ci chiediamo: che cosa resta di uno scrittore, dopo la sua morte, nella memoria e nelle parole altrui? Per rispondere a questa domanda, abbiamo invitato degli autori legati all’opera di Atzeni a dare nuova vita ai personaggi o ai luoghi o alle atmosfere della sua opera. Interpretando, riscrivendo, stravolgendo creativamente, in totale libertà. Un coro di voci diverse per una raccolta di racconti brevi, una rifrazione e moltiplicazione di frammenti post-atzeniani. Assolutamente vietata l’agiografia, e ‘massima penalità per chi si prende troppo sul serio’, come scriveva Sergio in uno dei suoi ultimi articoli per “L’ Unione Sarda”. Nasce così il gioco del discanto*, da intendere sia come far decantare delle buone pagine in nuove storie sia come costruzione di voci in forma di polifonia medievale. * Francesco Forlani ‘Nella Sardegna magica in cerca di Sergio Atzeni, “Reportage”, n.10, 2012, ripreso nel 2017 da Minima Moralia Gigliola Sulis, Chi era Sergio Atzeni?’, “Le parole e le cose”, 22 novembre 2012

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POTENZA CENTRALE. L’uomo più disastroso che io abbia mai frequentato

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di Mina De Sanctis

[18/07/25, 17:18:21] Te ne intendi di bollette del gas?[18/07/25, 17:23:39] Vediamo
[18/07/25, 17:24:15] Se ti mando la bolletta e le foto dei contatori
potresti aiutarmi a fare un calcolo? Io non ho il gas a casa e non ci capisco nulla
[18/07/25, 17:25:30] Ok, manda
Foto bolletta
Foto contatore inizio mese
Foto contatore fine mese
[18/07/25, 21:20:15] che dici quindi? Io nel frattempo ho fatto un calcolo, vorrei confrontarlo con il tuo, così da scrivere alla proprietaria con più cognizione di causa
[18/07/25, 21:21:21] sono a cena, poi guardo e ti dico

Si dice che l’uomo sia finito. Il patriarcato – il sistema ontologico su cui si basa il suo raggio d’azione – va combattuto, abolito e riconosciuto nelle sue manifestazioni più mimetiche. Sono in treno e ascolto il Fandango di Scarlatti, la musica perfetta per sostenere il mio accanimento verso Dario: l’uomo più disastroso che io abbia mai conosciuto. Dario ha studiato Economia e non sa risolvere il problema matematico presentato da una bolletta del gas. Tifa la Lazio ed è di destra ma non lo sa.  Lo trovo innocuo quanto pericoloso. E vedrete voi stessi in cosa consiste la sua pericolosità.

Mi piace il suo marcato accento del centro Italia: caldo e squillante. Sto viaggiando per incontrarlo. Lo chiamo alle 8 di mattina per accertarmi che stesse partendo anche lui.  Dice che ha fatto tardi ed è distrutto. Mi innervosisco, va bene che è fidanzato ma almeno vorrei incontrarlo intero.

Immagino già un mare di frustrazione ma parto lo stesso. Non ne posso più di stare qui, è pieno di comitive arroganti con passeggini, donne giovani al 2°-3° figlio, credo non lavorino. Gli uomini lavorano, fanno i gradassi, tozzi e torniti. Le donne sedute tutte da uno stesso lato parlano tra loro di bambini, parti etc. Sembra di stare nel sogno meloniano inoltrato. Non vedevo così tante persone aggregate con bambini da quando ero piccola negli anni ‘80 ma le mamme allora erano tutte un po’ Lady D.: oltre allo stesso taglio di capelli avevano la stessa espressione sul volto, appesantite dal matrimonio, annoiate e tristi.

Questi invece incedono orgogliosi e spavaldi prendendosi tutto il marciapiede.

Insomma evado. Se Dario dormirà in hangover io passerò il tempo continuando a scrivere di lui e quando mi annoierò di scrivere di lui, gli farò un ritratto. Cosa c’è di meglio di un modello che dorme? Titolo del ritratto: L’uomo più disastroso. La bocca un po’ aperta, il mento proteso verso il nulla, un occhio mezzo aperto, la mano chiusa sul cuscino. Per non sentire i versi osceni che forse farà, ascolterò un altro Fandango, quello di Boccherini rinforzato con le nacchere. Tutto ok, tutto organizzato, andiamo avanti.

Una conoscente esperta di epistemologie femministe già 15 anni fa mi disse: l’uomo è finito. Lo disse con accento fermo del centro Italia e io annuii timidamente come se dovessi obbedire ad un ordine. In questo momento mi direbbe che sto dando troppa attenzione a Dario, e avrebbe ragione.

Il suo essere un traditore lo rende affettato e manierista.  Il dramma che recita consiste nel restare lì perché queste cose si fanno gradualmente (traduzione 1: aspetto che lei se ne renda conto e mi lasci; traduzione 2: non so dove andare a vivere; traduzione 3: in realtà voglio stare con lei ma dico in giro altro per far presa sulle possibili vittime).  Dice di essere in crisi, ovviamente da mesi, vorrebbe un figlio ma lei è troppo grande. Sadicamente gli do dell’idiota a diverse tornate. Gli spiego come funzionano la procreazione umana e quella artificiale, ma sono solo perle ai porci. Lui si incanta incrociando gli occhi e lo fa proprio letteralmente perché è strabico. In quella perdita di messa a fuoco pensava forse alla cicogna o si perdeva nel mio volto. Non mi restava che riprendere la sua attenzione con vari insulti.

Nel suo scenario fatto di una fidanzata, una famiglia di origine lontana che gli manca, subentro io dichiarando di:

1) non voler sentir mai parlare delle sue vicende di coppia
2) non voler avere una relazione con lui
3) non volere dei figli con lui

Continuo il mio viaggio in treno con analisi che oscillano tra il sadismo e masochismo di tutti i personaggi coinvolti. Lo chiamo per sapere se è effettivamente in viaggio e mi chiede se ho un Oki…

L’avevo visto per l’ultima volta due mesi prima, poi era stato in grado di:

1) darmi appuntamento
2) rendersi conto di aver dimenticato impegni presi
3) quindi dare disdetta inventando scuse
4) fare la vittima del suo stesso fallimento e compiacersi di esserne l’attore principale
5) dirmi di voler stare con me e convivere con me (sono proprietaria di casa) prima di partire per un viaggio regalato da lei
6) inviarmi video di spettacoli di danze dal sopracitato viaggio

La disastrosità di Dario mi faceva quasi sentire a mio agio, mai inferiore. Lui avrebbe voluto fare il calciatore ma entrambi siamo stati costretti ad impegnarci in altro, ed eccoci qui. Ieri gli ho chiesto di aiutarmi a fare dei conti per una bolletta, di darmi la sua versione della risoluzione del problema matematico visti i suoi studi universitari. Io l’avevo già risolto e volevo confrontare il risultato. Mi risponde che il calcolo non si po’ fare.

[18/08/25, 17:18:21] Dai seriamente?

Dimostrami che sei intelligente dai che se no mi deprimo!

[18/08/25, 17:18:25] Sforzino dai
[18/08/25, 17:30:39] Io odio fare queste cose
[18/08/25, 17:32:23] Che volevi fare da grande? Per curiosità

Ascolto un Fandango più recente, del funesto 2020 – che ebbe comunque una bella luce primaverile – e questo Fandango è proprio scuro, netto, tutto organo, un organo talmente senza sfumature che sembra sintetico. Non ha nulla di festoso del Fandango, sembra essere l’altra faccia della medaglia: i conti impossibili sulla bolletta, l’hangover di Dario, il suo teatro tragico. Youtube mi suggerisce di proseguire con una passacaglia palindroma ma fermo tutto perché, a questo punto del viaggio, un palindromo potrebbe portare sfortuna.

Infatti. Dario mi chiama mentre sto per arrivare e mi dice con voce squillante e scocciata: “è successo un casino, è successo un casino”. Già mi sento messa da parte, o meglio, nella parte del personaggio che riceve una disdetta. È morto uno zio e deve tornare per il funerale. “Che casino, devo partì domattina presto”.

“Ma scusa devi andare per forza? Inventa qualcosa no? Non è grave se non ci vai, no? Non se ne accorgerà quasi nessuno.
“Macché! i miei genitori stanno tornando e se non mi trovano è un casino”
“Ma dai inventa qualcosa, che sei andato a trovare degli amici al mare”
“Ma quali amici, non posso inventarmi nulla”

Scopro dunque che al di fuori della sua città di origine e di lavoro, non conosce nessuno, che al di fuori della sua famiglia di origine e della convivenza non ha relazioni significative e mi sento caduta proprio in basso (a frequentare uno così).

è un casino, l’ha saputo anche lei”
“vabbè ma lei è lontana, non verrà mica al funerale”
“tutti si chiederanno dove sono, è un casino”
“ma scusa, tutti penseranno al morto, non a te, non è grave, si tratta di uno zio anziano acquisito dai”
“No no, devo andare per forza”

Sono le ore 14 e vuole andare insieme all’hotel prenotato a fare il check-in e ripartire poi l’indomani mattina presto. Nessun altro programma è menzionato né io sono menzionata, né i tre giorni che dovevamo trascorrere lì insieme. Che schifo.

Sono andata via. Non prima di uno speech-manifesto:

Non voglio avere più a che fare con te, mi sento veramente caduta in basso. Io ho scelto di essere onesta con me stessa e con gli altri, pago le bollette da sola, le tasse e tutto quanto, se capita pago anche bollette per due case, non convivo con nessuno per convenienza a Milano. Quando ho tradito, dopo poco ho lasciato e sono stata in grado di trovarmi una casa tutta per me. Non sono ricca e non ho il posto fisso. Non voglio far parte del tuo teatrino. Addio Dario

Rientro nella stazione e guardo il tabellone: Potenza Centrale ore 15.21 binario 3. È la cosa giusta da fare (il nome della città, il costo della vita, l’aria fresca). Potenza: capoluogo della regione Basilicata, una città in uno stato perennemente coevo e senza turisti. Ha subito diversi terremoti, camminando non si capisce se si è a Cinecittà o nel capoluogo dell’arcaica Lucania descritta da De Martino. Di molto bello ha il suo ergersi sul resto, ma mai compatta. Organizzata per ascensori e scale mobili, è un insieme di pezzi.

Prendo un ascensore barcollante che dicono sia “nuovo”, ovvero rifatto dopo l’ultimo terremoto (Irpinia 1980, magnitudo 6.9, X° scala Mercalli). Vado all’Hotel Miramonti, il proprietario mi accorda una camera con vista e letto singolo (io sto bene nel contenimento offerto dai letti singoli, al netto di un’esistenza che di contenimento ha ben poco).  Mi consiglia un posto per mangiare “Vai al restaurante Absurd, a 200 mt da qui, dopo l’arco, dile che te ho mandato io”. “Ok, andrò all’Absurd”.

Mi sento come se mi fosse passato un treno sulla testa, ancora presa dalla nausea data dal mio insano divertimento (la frequentazione con Dario) vado all’Absurd e la cena all’Absurd è così buona che mi rimette al mondo: cucina accorata di Lucania con accorati funghi dei boschi lì intorno e risoluto cameriere con sindrome di down, cui chiedo entusiasta un secondo secondo. All’Absurd c’è anche la Gaza Cola e sono tutti adorabili.

Fuori, lo sono un po’ meno. Ho freddo a causa dell’altitudine e ho messo i calzettoni con delle finte Birkenstock-Prada. Mi guardano tutti: ci sono famiglie che passeggiano goffe con passeggini, persone di mezza età a coppie di amici. Anche qui il sud di questa estate 2025 si conferma come la fase inoltrata del sogno meloniano. Le donne abbronzate, vestite nell’idea di avere un aspetto gradevole. Gli uomini invece non se ne preoccupano, hanno pantaloncini corti e maglie ben attillate sulla pancia, il borsello, camminano portando i piedi a destra e sinistra e così occupano tutta la strada.

A colazione al Miramonti, il proprietario mi prepara due caffè perché il primo non mi piace. Dice che ha paura di me perché parlo piano e sono gentile, dice che non riesce a capirmi, che sono una persona particolare.  Lui si definisce invece una persona giornaliera, perché vivere nel passato porta solo brutti ricordi e tristezza”. Non replico. Vado al museo Archeologico, evviva il passato! Non c’è nessuno, mi aggiro nell’epoca precoloniale (il sud Italia è stata una colonia greca), non c’è niente di pacchiano ed è tutto ben allestito con un certo senso della misura. Più avanti ammiro delle teche con assemblaggi di personaggi disposti frontalmente (sime, antefisse, gronde, pinax). Ad un certo punto appare un urlo acutissimo di una bambina. Attenzione: non un urlo di richiesta, di pianto, di rivendicazione ma un urlo astratto, assoluto, perfetto, isolato, per se (come si dice in inglese). Mi affaccio e trovo i genitori che mi guardano un po’ imbarazzati e si scusano. Mi avvicino per curiosità: Letizia ha 8 mesi ma ha un corpo di 12, mi scruta in silenzio. Fa un altro urlo, ha una voce incredibile, i genitori mi dicono ridendo che da grande probabilmente farà la cantante. Io mi appassiono all’idea del canto: “Sì assolutamente sì, fatele studiare canto!! Se la voce crescendo non sarà bella, mal che va potrà insegnare, se invece sarà bella farà la cantante. Pagano bene eh, tra ensemble, cori, opere classiche e contemporanee etc., è un ambito per sua natura internazionale, non c’è solo la nostra piccola Italia eh”.

I genitori si guardano negli occhi quasi approvando. Continuo: “Ah, a Potenza c’è anche il conservatorio, è dedicato a Gesualdo da Venosa: principe, madrigalista, assassino della moglie e dell’amante (colti in flagranza), nato l’8 marzo, del segno dei pesci. Fu assolto per giusta causa (all’epoca e fino a qualche decennio fa) e si racconta che visse poi sempre nel tormento, componendo madrigali dai titoli come Moro, lasso, al mio duolo – O dolorosa sorte, chi dar vita mi può, ahi, mi dà morte –. Morì ricco e giovane nel suo castello in Irpinia.”

E qui la conoscente esperta di studi di genere, con accento del centro Italia mi direbbe che sto dando troppo spazio all’uomo Gesualdo, e avrebbe ragione… Dunque, la mia gita inaspettata a Potenza è stata più interessante e serena del giorno, o giorni, che avrei trascorso con Dario, l’uomo più disastroso che io abbia mai frequentato. In treno verso Potenza Centrale avevo fatto un ritratto di Dario, a memoria perché non ho sue foto. Penso che non lo rivedrò mai più, le linee sono leggere, il volto va a zone, è quasi lui ma mi viene da piangere perché non riesco a fare quegli occhi strabici che mi piacevano tanto. Anche qui la mia conoscente avrebbe ragione ma non posso ignorare il divario ancora non colmato tra ciò che dà del calore sbagliato e ciò che è interessante e sereno. Nelle cuffie ascolto il Fra’ Martino Campanaro in minore di Mahler (Sinfonia n°1, terzo movimento) che ha trasformato l’allegra canzoncina folk in una marcia funebre. E con questo sono passata da una pericolosità di Dario, all’Absurd fino ad un certo Unheimlich freudiano (che per essere unheimlich vuol dire che un tempo fu heimlich, cioè familiare).

Per dovere di cronaca, riporto in conclusione il mio calcolo della bolletta (non ho studiato economia né matematica), poi approvato dalla proprietaria di casa e dalle conoscenti interpellate:

Cara Miriam, 
dal calcolo che ho fatto l’importo a me spettante per la casa al mare a Giugno dovrebbe essere diverso da quello che mi indichi.  Da un lato perché ci sono i costi fissi (la seconda voce) di spesa da dividere in due –perché la bolletta è relativa a due mesi – e dall’altro perché gli mc sono meno, stando alle letture.
Gli mc consumati da me sono 4 e non 9 come scrivi (3666 – 3662 = 4, i numeri dopo la virgola non si contano). Quindi, scorporando i costi, il conteggio è questo:
11,30 (spesa per la vendita di gas 16,97 ricalcolata su 4 mc e non 6 mc totali della bolletta)
+10,45 (spese fisse 20,9 diviso 2 perché la bolletta è su due mesi)
+ 5,29 (2,75 tasse su 4 mc + 2,54 tasse sui costi fissi): questo l’ho calcolato guardando un po` online in cosa consiste quella parte di bolletta.
= il totale dovrebbe essere di 27,05 € e non 47 € come indicavi.
Resto a disposizione per chiarimenti, quando mi dai l’ok te li invio tramite bonifico, grazie e un caro saluto.

L’uomo dall’altro mondo. Storie da un’Italia (im)possibile

1

di Daniele Comberiati e Eugenio Barzaghi.

[È appena uscito per i tipi di Machina DeriveApprodi L’uomo dall’altro mondo. Storie da un’Italia (im)possibile, di Daniele Comberiati e Eugenio Barzaghi, un’ucronia che propone più di venti schede di film di fantascienza che ovviamente non sono mai stati girati, ma che mostrano l’evoluzione di una storia parallela diversa e al tempo stesso simile alla nostra. Qui di seguito, una breve presentazione, tratta dalla quarta di copertina, e due schede dei film, con le locandine concepite da Eugenio Barzaghi]

Nell’Italia degli anni Sessanta, la possibilità di un colpo di stato militare era reale, come dimostrano fra gli altri il tentativo di golpe Borghese (1960) e il Piano Solo (1964). Ma che cosa sarebbe successo se fosse accaduto davvero? Sulla scia dell’America nazista di Roberto Bolaño, e con in testa le narrazioni ucroniche di Philip K. Dick e Robert Harris, abbiamo immaginato come sarebbe stato il cinema di fantascienza sotto questo regime, proponendo un’antologia corredata da schede dei film, locandine, fotogrammi e immagini di scena. Ci ritroviamo così in un paese autoritario, dove il 1968 non c’è mai stato, che possiede ancora le colonie, e in cui si proiettano film sugli italiani che vanno sulla Luna, sugli alieni ad Asmara e su militari che sconfiggono mostri venuti da altre galassie. Ma anche in cui si girano film di fantascienza clandestina, da far circolare all’estero per testimoniare quello che sta davvero accadendo. L’uomo dall’altro mondo è un’ucronia che mostra una storia alternativa che però, per molti aspetti, si ricongiunge inquietantemente al nostro presente.

Dopo la bomba (1965)

Regia: Francesco Billotti
Sceneggiatura: Angelo Patriarchi
Attori: Benicio Polani (Claudio), Gennaro Macrì (Rosario), Angela Lanzi (Elettra), Elisa Martinelli (Francesca)
Produzione: Italia Film
Musiche: The Dual Band
Montaggio: Angelo Sacchi (Roberto Perpignani)

In una Roma devastata dall’esplosione atomica, la popolazione decimata si è rifugiata nel sottosuolo, potendo uscire solo l’ora successiva al tramonto, quando le radiazioni sono minori ma rimane ancora un po’ di luce. La società del sottosuolo è divisa in due fazioni opposte che si spartiscono il territorio. La prima, capitanata da Rosario (Gennaro Macrì) crede nella fine dell’umanità e vede nella bomba la prova della punizione divina. La seconda, composta da soli uomini e diretta da Claudio (Benicio Polani), è alla ricerca disperata di donne per far sopravvivere la specie umana. All’indomani di una lotta cruenta, sarà la banda di Claudio a gestire il sottosuolo. Le poche donne vengono così divise fra i vincitori all’interno di una società rigidamente patriarcale e violenta, ma non riescono a rimanere incinte e con uno strano rituale, indotte dalle loro leader, si suicidano. Gli ultimi sopravvissuti, ormai sfigurati dalle radiazioni, decidono di morire in superficie, per vedere la città per l’ultima volta. È lì che si accorgono che non tutte le specie viventi hanno subito negativamente gli effetti della bomba: una nuova forma vegetale, infatti, si è appropriata della città.

Il film, essendo stato progettato nel 1964, ebbe diversi intoppi produttivi perché la Rai, che avrebbe dovuto co-produrlo, si tirò indietro all’ultimo momento su pressione del ministro della ricerca scientifica. Egli vedeva nel lavoro di Billotti una critica esplicita al Grande Piano Energetico Nazionale che, grazie alla giunta Paoloni, avrebbe presto iniziato lo sfruttamento delle centrali nucleari. In realtà il Piano Energetico vide la luce solo nel 1970, ma fu uno dei primi progetti proposti ufficialmente da Paoloni dopo il colpo di stato, una sorta di “presentazione”, anche mediatica, della giunta militare. Il film venne comunque presentato a Venezia fuori concorso, ma ebbe una distribuzione limitata. Rimase nelle sale solo cinque settimane, per poi essere velocemente rimosso. Il montaggio fu a cura di Roberto Perpignani, che però non venne mai accreditato. Lo scrittore Emilio de Rossignoli ne rimase colpito e ne trasse ispirazione per il suo romanzo H come Milano (1966 per la traduzione francese, visto che il libro fu inizialmente censurato in Italia), su un’apocalisse post-atomica nel capoluogo lombardo, che verrà pubblicato nella versione originale italiana solo nel 1981.

Billotti per la sceneggiatura si era ispirato al racconto di Henry Slesar alla base di The Old Man in the Cave (Il vecchio nella caverna, del 1962), della quinta stagione di Ai confini della realtà. Un riferimento indiretto a Dopo la bomba è contenuto anche in L’altra faccia del pianeta delle scimmie (Beneath the Planet of the Apes, del 1970) di Ted Post, che condivide con l’immaginario del film di Billotti diverse idee.

Bibliografia
Cremonini, Le dittature del futuro. Cinema di fantascienza, Peter Lang, Berna 2011, pp. 25-27.
Crovi, Roma capovolta. Memorie dal sottosuolo nel cinema distopico italiano, «Science Fiction Studies», n. 13, 2016, pp. 65-79.
Mussgnung, Science Fiction Italian Cinema, Palgrave Macmillan, New York 2013, pp. 89-92.

 

La Fabbrica (1965)
Regia: Carlo Sacci
Sceneggiatura: Carlo Sacci
Attori: Carlo Sacci (operaio), Ada Crespi (operaia), Francesco Sacci (bambino)
Montaggio: Carlo Sacci, Giuseppe Vitale
Musiche: Giuseppe Vitale

Girato nel 1965 con mezzi di fortuna, La Fabbrica rappresenta probabilmente il primo film di fantascienza contro il regime, anche se giunse nelle sale il 3 gennaio, tre giorni prima dell’arrivo al potere della giunta militare. Del lungometraggio, inizialmente concepito come un film di 98 minuti (così è segnalato anche nei titoli di coda, che espongono esplicitamente il progetto politico del regista e della troupe), sono stati ritrovati solo 70 minuti, ma ciò non toglie nulla né al messaggio di libertà della storia né all’atmosfera cupa che si respira durante la narrazione.

La giunta militare di Paoloni sta per prendere il potere, ma dal film si capisce che la situazione in Italia era già molto complicata e che il colpo di stato è una conseguenza di una lenta erosione delle libertà individuali e collettive e di un mutamento del contesto culturale. La storia è ambientata in un ipotetico 1999, anno in cui l’Italia non esiste più, inglobata in un’alleanza transatlantica che fa pensare alla Nato e che è riuscita a conquistare anche il blocco sovietico. Il mondo è un’immensa megalopoli, gestita dai padroni della Fabbrica, l’impresa dell’alleanza transatlantica che organizza il lavoro globale. Gli operai sono costretti a lavorare in un ambiente umido e malsano, senza vedere mai la luce del sole. Alcuni di loro non hanno mai visto il mondo esterno. Un bambino debole e malaticcio, figlio di una coppia di operai, inizia a raccontare i propri sogni: immagina la luce del sole, i prati, delle cascate. Dopo la sua morte, avvenuta a causa delle difficili condizioni di vita, la coppia aizza un gruppo di lavoratori e con loro riesce per la prima volta a superare le barriere elettriche e ad uscire dalla fabbrica, vedendo finalmente la luce. La loro rivolta sarà repressa nel sangue dalla polizia, ma un raggio di sole illuminerà, nell’ultima scena, il cantiere dove stanno lavorando altri operai, lasciando allo spettatore un messaggio di speranza.

Il film è girato in bianco e nero e lo stile riprende il genere gotico-espressionista. Il direttore della fotografia, Antonio Rinaldi, qui al suo primo lavoro, fu d’altronde per lungo tempo collaboratore di Mario Bava. L’evidente simbolismo fallico dell’ultima scena rimanda proprio a uno dei principali temi del film, il sistema industriale che reprime la sessualità dell’uomo-operaio.

Presentato fuori concorso al Festival di Cannes nel 1968, seppur con un montaggio non definitivo, il film fu al centro di una polemica perché alla sua proiezione giovani studenti francesi organizzarono una manifestazione contro l’assenza di libertà di espressione sotto la giunta militare italiana. Ispirato in modo evidente a Metropolis di Fritz Lang, il film nonostante i limiti tecnici fu considerato un’opera fondamentale dai contestatori del 1968, anche se in Italia fu proiettato ufficialmente per la prima volta solo negli anni Ottanta.

Bibliografia
Sussi, La Fabbrica. Brevi note su un capolavoro ritrovato, «The Italianist», n. 21, 2007, pp. 65-76.
Fromër, Betrete und Verlasse die Fabrik. La Fabbrica und Metropolis, «Horizon», n. 2, 2009, pp. 14-31.

Vita immaginaria di Immanuel Kant

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Un ritratto immaginario (AI) di Kant

di Diana Napoli

Alla morte di Kant nel 1804, l’editore Nicolovius promosse, con il titolo Su Immanuel Kant, una «raccolta di cenni biografici»[1] scritti da persone che avevano conosciuto il filosofo. L’intento era quello di celebrarne e attestarne le virtù, anche per contrastare alcune biografie tempestivamente date alle stampe (come quella anonima ma attribuita al collega, professore di medicina, Johann Daniel Metzger) che miravano, al contrario, a metterne in dubbio «la benevolenza, l’onestà e l’affabilità».[2] Vennero così pubblicate tre vite destinate a costituire quasi dei vangeli sinottici dell’esistenza di Kant: la prima, rivista in parte dallo stesso Kant, a opera di Ludwig Ernest Borowski,[3] la seconda, in forma di lettere, firmata da Reinhold Bernhard Jachmann[4] e la terza, scritta da Ehregott Andreas Christoph Wasianski.[5]

Borowski e Jachmann: biografie preparate “in vita”

I primi due avevano preparato, si direbbe oggi, un “coccodrillo”. Borowski, che si premura di esprimere il proprio desiderio di raccontare la vita del «filosofo più umano e più modesto» (86)[6], aveva composto in gran parte il proprio testo mentre Kant era ancora in vita, a partire dal 1792. In quella che a suo avviso era in tutto e per tutto l’epoca kantiana (fidandoci del titolo di una conferenza da lui tenuta quello stesso anno che recitava Sui progressi della cultura erudita in Prussia fino all’epoca kantiana) aveva pensato di scrivere la biografia del grande pensatore con lo scopo di stamparla e darne pubblica lettura in occasione di una lezione presso la Regia Società Tedesca di Könisberg. Kant, pur grato per il gesto, aveva espresso il proprio imbarazzo e pregato l’amico di desistere, apportando tuttavia qualche correzione al manoscritto affinché Borowski lo potesse utilizzare dopo la sua morte.

Jachmann aveva iniziato a scrivere, come egli stesso ci riferisce, nel 1800 e proprio su suggerimento di Kant. Per cercare di essere il più fedele possibile agli avvenimenti, aveva persino inviato al suo vecchio professore un «abbozzo dei fatti più interessanti della sua vita, sotto forma di domande» (120), a cui tuttavia non erano seguite le risposte a causa della malattia che aveva colto il filosofo, costringendo tutti ad assistere al «fatto, così strano per l’umanità, che anche un Kant dovette sopravvivere alla sua mente pensante» (123).

Wasianski: il filosofo “in vestaglia” e il racconto della morte

Assai dettagliato si presenta poi lo scritto dell’amico Wasianski che, dando conto con abbondanza di particolari del progressivo avvicinarsi alla morte di Kant, la cui figura e la cui filosofia si potevano ormai osservare come un monumento, appare quasi una meditazione su nostra “sora morte corporale”. L’autore si giustifica per aver presentato, come egli stesso si esprime, Kant «in vestaglia» (220) con la necessità di fugare ogni dubbio su una eventuale non coincidenza tra la vita e l’opera, quasi a «garantire che il cervello e il cuore non siano in contrasto tra loro» (218), dato che «sovente, gli scrittori descrivono egregiamente il bene, eppure agiscono male».

Tra elogio e quotidianità: il modello biografico del Settecento

Queste vite di Kant per un verso non si discostano dal tradizionale modello dell’elogio, rimandandoci – così come altre opere pubblicate alla sua morte e sulla base delle tipiche motivazioni utili a giustificare la biografia degli uomini illustri – la rappresentazione confortante di un innocuo e virtuoso uomo di scienza; per un altro si inseriscono in un contesto di diffusione e tipizzazione, iniziato a delinearsi nella seconda metà del XVIII secolo, del genere biografico come racconto di vite non più orientato alle grandi azioni, ma rivolto alla rappresentazione dell’individualità, che per quanto esemplare, rimaneva irriducibile e irreplicabile perfino nella sua ordinarietà.[7] In questo senso rispondono, quindi, anche a una sensibilità romantica, a un paradigma che indirizzava l’interesse all’uomo più che all’autore, poiché in effetti l’autentica opera dell’uomo di genio è la sua vita.[8]

De Quincey e la reinvenzione letteraria degli ultimi giorni

I testi di Borowski, Jachmann e Wasianski – quest’ultimo in particolare, così attento a descrivere l’ambiente domestico del filosofo, con pochissimi riferimenti al suo pensiero – hanno finito per costituire quasi un tutt’uno che si è trasformato nella nostra vita immaginaria di Kant, probabilmente grazie anche alla fortunata trasposizione letteraria di Thomas de Quincey (1785-1859) che, nel 1827 diede alle stampe una prima versione del suo Gli ultimi giorni di Immanuel Kant.[9] I tre autori si soffermano non solo sulle qualità esemplari di Kant, ma anche – e forse soprattutto – sulla sua quotidianità, sulle sue consuetudini alimentari, i suoi gusti culinari, le sue opinioni in merito alla moda e all’abbigliamento, le sue manie e ossessioni, come quella per il silenzio che, in una delle sue abitazioni, veniva disturbato dai canti provenienti dalle vicine carceri e per cui a nulla erano valse sue lamentele volte a far cessare quello che lui definiva – secondo il racconto di Borowski – uno «scandalo» (52).

Mescolando aneddoti e testimonianze di attestazioni di virtù, i tre antichi scolari di Kant sarebbero riusciti nell’impossibile compito di scrivere una vita in verità impossibile da scrivere essendo che, come aveva osservato Heinrich Heine, Kant – il grande demolitore nell’ambito del pensiero, colui che aveva superato in terrorismo, secondo il poeta tedesco, persino Robespierre – non aveva né vita né storia. E del resto le nostre tre vite, nel restituirci un Kant “buono e giusto”, ottimo insegnante, amico premuroso, filosofo geniale eppure senza alcun interesse per gli onori, preoccupato per l’immancabile Lampe che deve, anch’egli, avere un Dio, hanno avuto l’effetto paradossale, nel tempo, a forza di ripeterne, noi, gli aneddoti e le presunte stranezze, di cristallizzare nell’immaginario collettivo l’esistenza di Kant come un’esistenza quasi senza alcun interesse, segnata dalla meticolosità, l’abitudine e la ripetitività, come ben rappresentato dalla fatidica pomeridiana passeggiata sul cui orario gli abitanti dell’unica città in cui ha vissuto avrebbero – riferisce fedelmente la manualistica – regolato i propri orologi.

Forse è anche questo il motivo per cui Thomas de Quincey, più conosciuto per le sue Confessioni di un mangiatore d’oppio, scegliendo di narrare gli ultimi giorni di Kant, è riuscito ad utilizzare le “vite” di Kant narrate dai suoi discepoli per elaborare una meditazione e una riflessione sugli “ultimi giorni” e la fine (e questo malgrado la dichiarazione iniziale per cui appare «evidente che tutte le persone di una certa educazione ammetteranno di avere un qualche interesse per la storia personale di Immanuel Kant»).[10] Come se Kant, in fondo, fosse troppo filosofo per vivere e la sua vita si prestasse invece ad essere quasi solo un pretesto, un epifenomeno, utile a concentrarci sulla (sua) morte, sul (suo) disfacimento. Oppure, detto altrimenti «tra le cose belle del libro di De Quincey c’è la sua capacità di tracciare un ritratto di Kant in fin dei conti vivo in quanto disturbato dalla prossimità della morte (morire, dice de Quincey, risulta “particolarmente sgradevole per gli uomini dalle abitudini regolari”). […] Come un’ulteriore rivoluzione inaudita nel suo approccio al mondo, Kant percepisce i cambiamenti di stagione non più come dei fenomeni strettamente prevedibili. Arriva perfino a identificare l’estate con il tempo dei viaggi. Lui, che non aveva mai lasciato Könisberg nemmeno per andare nella città più vicina, non smette di proporre lunghi viaggi. Il tempo non ha più una misura oggettiva; lo spazio ha la potenza attrattiva dell’ignoto; le immagini dei sogni finiscono per perseguitarlo durante il giorno».[11]

Il modo in cui lo scrittore inglese usa le tre biografie è in linea, peraltro, con la sua particolare e creativa interpretazione della filosofia kantiana: una filosofia che aveva fallito nello stile e che, pur avendo elaborato gli strumenti per farlo, non aveva saputo restituire il mondo trascendentale (inteso qui come il mondo pensabile al limite, grazie alle categorie) come ciò che avrebbe dovuto essere: una finzione del mondo reale che restava increato, ed era il mondo non realizzato della letteratura.[12] Si tratta certamente di una lettura di Kant – e in particolar modo della Critica della ragion pura – parziale quanto sorprendente (e che non è questa la sede per approfondire), ma alla cui elaborazione il più famoso mangiatore d’oppio si era dedicato con una certa costanza, all’interno di una riflessione ampia e articolata sulla teoria romantica, come testimoniano i numerosi riferimenti a Kant nella sua opera.[13]

Da Wellcome Collection, un sito web gestito da Wellcome Trust

Una “vita minuscola”

Non è un caso, quindi, che de Quincey abbia deciso di glossare questi testi. Queste pagine degli amici e discepoli di Kant, al di là del “genere” più o meno diffuso all’epoca, del progetto editoriale sotteso alla loro contemporanea pubblicazione, della riproposizione, che ritorna su se stessa e si auto-conferma, della vulgata su Kant noioso e metodico, riescono, mescolando abilmente il grottesco del quotidiano con il calco iperuranico del filosofo illuminista, il tenore di vita casalingo e il saldo attaccamento alla verità, a fingere il mondo reale. E d’altro canto, proprio come certe pagine sospese di de Quincey, le tre vite di Kant, malgrado l’intimità (come recita il titolo di una traduzione francese delle tre opere: Kant intimo), malgrado la vicinanza fisica che consente quasi di sentire i rumori del corpo, un corpo descritto minuziosamente – il corpo che muore, che si rinsecchisce, in cui tacciono a poco a poco i battiti vitali –, offrono al lettore uno sguardo “distante”, provocano un effetto straniante: più che priva di interesse, frammentata tra mille particolari, la vita di Kant, immersa nel silenzio, per la scientificità con cui viene esposta, potrebbe apparirci quasi aliena.

Una vita, per certi versi, anche “minuscola”, per come si svolge nello spazio geografico di una città, di una casa, di un paio di stanze, o dello sguardo costante, negli ultimi anni, dell’amico Wasianski, eppure capace di far convergere – da questo punto di vista sono molto interessanti i brevi documenti che Borowski allega in appendice al suo scritto – tutta un’epoca in una piccola cittadina prussiana che, per la sola presenza del filosofo, doveva sembrare il faro dell’illuminismo, il luogo in cui era stata rifondata la filosofia moderna, per usare le parole di Foucault, come risposta alla domanda «Che cos’è l’Illuminismo?», come «lavoro sui nostri limiti, ovvero fatica paziente che dà forma all’impazienza della libertà».[14]

La lettera di Maria von Herbert e la risposta morale di Kant

Borowski riporta una lettera a Kant da parte di una donna di cui omette il nome, ma che era, com’è noto dalla sua corrispondenza, la baronessa Maria Regina von Herbert (1769-1803). Maria von Herbert conosceva bene la filosofia di Kant ed è proprio a lui che si rivolge, all’autore della Metafisica dei costumi, a colui che aveva elaborato la nozione di imperativo categorico, nell’agosto del 1791, da Klagenfurt, in Carinzia, per sciogliere un dilemma morale e per «ottenere aiuto, conforto o commenti alla morte». Aveva mentito a un uomo che amava e, una volta rivelatagli la menzogna, lo aveva perso. Così si esprime l’autrice della missiva «Se non avessi letto tante cose Sue, avrei già posto una fine violenta ai miei giorni: mi trattiene invece la conclusione che ho dovuto trarre dalla Sua teoria secondo la quale non devo morire a causa della mia vita tormentata, ma dovrei vivere a causa della mia esistenza. Si metta perciò nei miei panni e mi dia conforto o condanna».

Possiamo leggere la minuta della risposta di Kant, scritta durante la primavera del 1792[15] e che, direttamente da Könisberg, a più di 1200 chilometri di distanza, conteneva, usando le sue stesse parole, «un insegnamento, una punizione e una consolazione».  Kant si pronunciava a favore della scelta dell’amico della donna, giustificandone in qualche modo l’allontanamento, essendo l’assenza di sincerità un male assoluto. In aggiunta, domandava alla destinataria quale fosse il motivo del suo rimorso. Se quest’ultimo traeva origine dalle conseguenze dell’atto, non presentava alcun carattere morale. Se invece era il frutto di un sincero giudizio morale sul proprio comportamento per aver mentito, da un lato era necessario serbare il ricordo della cattiva azione, come un giudice che non distrugge il contenuto del fascicolo di un imputato e, in caso di recidiva, si mostra pronto a emettere una legittima sentenza di condanna. Dall’altro non era opportuno crogiolarsi nel rimorso e castigarsi da sé: sarebbe stato un comportamento, tipico di certe religioni, che nell’autopunizione crede di attirarsi la grazia delle potenze superiori senza bisogno di sforzarsi per diventare migliori.

Un’esistenza come opera d’arte: la vita di Kant tra immaginario e memoria

Quest’esistenza di Kant così come emerge dalle penne di Borowski, Jachmann e Wasianki, raccontata così pazientemente, al ritmo delle fasi scandite e sempre uguali a sé stesse della giornata è quasi «un’opera d’arte, come una stampa giapponese dove si vede eternamente l’immagine di un piccolo bruco visto una volta in una certa ora del giorno»; assomiglia, infatti, a una di quelle Vite immaginarie di Marcel Schwob all’insegna del fatto che «le idee dei grandi uomini sono il patrimonio comune dell’umanità; ognuno di loro non possedette realmente che le proprie bizzarrie».[16]

Note

[1] M. Kuehn, Kant. Una biografia, Il Mulino, Bologna 2011, p. 23.

[2] Ivi, p. 19. Nel Prologo l’autore ricostruisce dettagliatamente le vicende che portarono alla pubblicazione dell’opera citata Su Immanuel Kant, l’attendibilità delle ricostruzioni biografiche proposte e la loro fortuna editoriale.

[3] Borowski era nato a Konisberg nel 1740 e vi era morto nel 1831; teologo e alto funzionario della chiesa prussiana, era stato tra i primi discepoli di Kant.

[4] Anche Jachmann (1767-1843) era stato uno scolaro di Kant e ne divenne in seguito amico, svolgendo per il filosofo anche le funzioni di amanuense. Pastore, si era occupato di pedagogia e di educazione.

[5] Come Borowski e Kant, Wasianski (1755-1831) nacque e morì a Könisberg. Anch’egli studente di Kant, ne fu un amico molto stretto, assistendolo negli ultimi anni di vita.

[6] Le citazioni senza altra indicazione che il numero di pagina sono tratte da L.E. Borowski, R.B. Jachmann e A. Ch. Wasianski, La vita di Immanuel Kant, con una prefazione di Eugenio Garin, Laterza, 1969.

[7] Cfr. un classico studio come quello di D. Madelénat, La biographie, Puf, Paris 1984, p. 52 e ss.

[8] Cfr. J.-L. Diaz, L’homme et l’œuvre, Puf, Paris 2011, in particolare il capitolo 5.

[9] Il testo, con alcune successive modifiche, venne poi inserito in altre raccolte di scritti dell’autore pubblicate nel 1853 e nel 1854 (T. de Quincey, Gli ultimi giorni di Immanuel Kant, Adelphi, Milano 1983).

[10] Ivi, p. 11.

[11] C. Thomas, L’Opiomane et le philosophe, «Critique» 486 (1987), p. 987

[12] Cfr. É. Dayre, Thomas de Quincey: sur le style transcendantal de Kant, in «Littérature» 93 (1994), pp. 99-112.

[13] A questa tematica ha dedicato molti studi Éric Dayre ; cfr. in particolare il suo Les Proses du Temps, Thomas de Quincey et la philosophie kantienne, Honoré Champion, Paris 2000.

[14] M. Foucault, Qu’est-ce que les Lumières?, in Id., Dits et écrits, coll. «Quarto», Gallimard, Paris 2001, vol. II, p. 1507.

[15] I. Kant, Epistolario filosofico (1761-1800), Il Melangolo, Genova 1990, pp. 282-287.

[16] Marcel Schwob, Vite immaginarie, Milano, Adelphi, 2012, p.14. Non caso Schwob era stato anche il traduttore francese del libro di De Quincey, Gli ultimi giorni di Immanuel Kant, nel 1899.

Ordine del Sud

1

Di Roberto Minardi

 

Vacanza

1.

Portaci in provincia di Ragusa
dove il caso tormenta
il tuo animo da pecora volitiva,
uomo che sei la donna
di cui si muove il labbro superiore.

 

2.

Dalla calce segata si stacca
la miniatura di un uragano.
Tu fai lo gnorri:
non esitare o sputa
come l’armadio d’uomo
che scaccia il cane.
O sii quel cane.

 

3.

«Se a uno che tortura, ammazza,
lo arrivano ad acchiappare,
lo dovrebbero appendere
a testa in giù
e farlo roteare vivo dalle vespe».
Così il bambino che eri pensava.

 

4.

Durante gli anni della bicicletta,
la lentezza edilizia omaggiava
la pubertà con deserti macchiati,
fumo che s’innalza, io lo seguo,
che arriva a un punto, io lo perdo.
La luce stona chi guarda diretto
e ci impartisce lezioni sul sacro.

 

5.

Piano piano il tutto prende forma
abominevole in quanto a innocenza.
La strada sterrata cede
alla pece,
lo stridore balza di stabile
in stabile, schizza come la saliva
dell’ambulante –
gli rubano le arance,
le lanciano al buddista
che suona il tamburino per la pace.
E tu potresti morire, circondato
dai palazzi giallini.

 

6.

Le mamme avevano guance cascate,
si preoccupavano per le piastrelle,
per i loro figli inquinati.
I padri parlavano per strada – tu cercavi
di confonderti ai cespugli
ma quel pezzo di merda
vi stritolò il pacchetto.

 

7.

«Ti sfondo il culo, se parli ancora…»
«Tu me la succhi!»
«Vediamo un’altra volta!»
«Tu me la puoi solo succhiare!».

 

8.

Ti ritroviamo, rosso,
in Via G punto Ungaretti
che a otto anni sprintavi
verso il vialone;
tu che volevi sparire
e volevi restare,
essere uno che conta nelle strade
o avere la meglio almeno una volta,
tu che ora ti abbracciamo…

 

9.

Il cane lupo sferraglia avanti e indietro,
s’appende al recinto di ferro, rimbalza.
I rombi della rete tremeranno nello spirito
dopo il colpo di carabina
il maiale pende da una trave, capovolto.
I grandi discutono della quantità di sale,
tu con tua cugina vai a esplorare i terreni
e fai di un ramo lo strumento di difesa.

 

10.

«Liberi di spampanare rovinerebbero tutto
i figli della gran puttana» –
gli fa l’amico al padre e tossisce,
scatarra, manda la sigaretta
a fare in culo, abbassa
il finestrino, leva
la sicura, punta
la canna. La Ritmo avanza
a cinque all’ora
i fari puntano i saltelli
– niente luna, due spari, stop.

 

11.

Sei il sedicenne che accelera sul basolato,
la ruota che sgomma. Prendi Via Edison,
poi Via dei Roveri, via,
col diritto di non voltarti. Segui l’ombra
che monta e storce, lungo il viale che spacca
il paese – negli occhi porti i ricami
dei muri a secco, le chiuse.

 

12.

Chi si avvicina nell’altra direzione
ha la guardata strafottente,
la bocca aperta, è ossuto.
Tu hai il costume sotto e sei nessuno,
sei nessuno mischiato col niente.
Ti scansi, non sai cosa gli dice la testa,
quegli occhi in quale orbita sono.
Ti rechi in spiaggia.
Guardi all’altezza dei bagnanti,
fanno la fila per sciacquarsi.
Andare a piedi ci rende uguali
ma fino a un certo punto
subiamo tutti l’umidità.
Sopra le teste ci stanno i governi
che fanno fare gli incroci
ed emanano leggi sui vilipendi.

 

13.

Da queste parti molti parlano, parlano,
fanno del mondo quel che vogliono.
Pieghi il giornale, raddrizzi la schiena,
ti dedichi alla comanda.
Caffè, cannoli, sonnolenza,
dei pomeriggi resta la bianchezza,
il ventre di un fico spolpato,
una biografia impregnata
di appartamenti,
contrade di campagna.
Davanti a cittadini inermi
la costa brucerà,
serenamente. Assisterai alle nubi nere
come si assiste a una commedia.
Da queste parti non verrà l’apocalisse,
sta arrivando il latte di mandorla.
Resti seduto e la cosa balorda
è che vorresti elargire del bene.
La cameriera con l’ustione
procede a testa alta,
schiocca le labbra per attrarre l’animale
e mette a terra una ciotola d’acqua.

 

___________________

Testi tratti da Ordine del Sud, di Roberto Minardi (Industria&Letteratura 2024).

Anne Carson: «Tra te e me ci sia la verità»

0

di Anne Carson

 

È uscito per Crocetti Come l’acqua. Saggi e poesie di Anne Carson.

Ospito qui una selezione di testi in anteprima.

***

 

da Parte I. Mimnermo: dipinti eroticocerebrali

 

Per quanto bello possa esser stato

 

All’orizzonte scorge la vecchiaia.

 

Sì bella mia oggi è per sempre ora cos’è quell’ombra che

apre la cerniera

di ogni tuo da-dove dalle dita bambine?

 

***

 

Tra te e me ci sia la verità

 

Nonostante il suo dichiarato culto della giovinezza e del piacere,

non ignora la preoccupazione morale.

 

Nell’attraversare il confine non potevo sentire che il tuo

battito

e il vento che mi accarezzava l’osso dell’orecchio

come antimateria.

 

***

 

Che mi colga la morte

Lui canta i compleanni.

 

Nessuna malattia nessuna carestia solo un colpo alla porta

all’età di sessant’anni: fatto.

 

***

 

da Parte II. Discorsi brevi

 

Introduzione

Una mattina presto le parole vennero a mancare. Prima di allora, le parole non esistevano. Esistevano i fatti, esistevano le facce. In una bella storia, raccontata da Aristotele, tutto ciò che accade è mosso da qualcos’altro. Tre vecchie erano chinate nei campi. A che serve porci delle domande? dissero. Ben presto fu chiaro che sapevano tutto quello che c’era da sapere sui campi innevati, sui germogli verdeazzurri e sulla pianta chiamata “audacia”, che i poeti scambiano per le viole. Iniziai a trascrivere tutto ciò che fu detto. Questi segni costruiscono gradualmente un istante della natura, senza bisogno di un noioso racconto. Lo voglio sottolineare. Farò di tutto per evitare la noia. È il compito di una vita. Non si sa mai abbastanza, non si lavora mai abbastanza, non si usano mai gli infiniti e i participi abbastanza stranamente, il movimento non è mai ostacolato abbastanza duramente, non si abbandona mai la mente abbastanza in fretta.

 

Sull’Homo Sapiens

Con piccole incisioni l’uomo di Cro-Magnon registrava le fasi lunari sui manici dei suoi attrezzi, pensando a lei mentre lavorava. Gli animali. L’orizzonte. Una faccia in una bacinella d’acqua. In ogni storia che racconto arriva un punto in cui non riesco a vedere oltre. Odio questo punto. È per questo che chiamano ciechi coloro che raccontano le storie: uno scherno.

 

Su Gertrude Stein alle 21:30 circa

Che curioso. Non ne avevo idea! Oggi è già finito.

La caduta di Genova

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di Francesco Segoni

Alle dieci e quarantacinque tutto era finito. La città era occupata, i difensori abbattuti e la guerra conclusa. L’invasore s’era preparato per questa campagna con la stessa cura che per altre di maggior ampiezza.[1] In cima alla facciata bruciacchiata di Palazzo Tursi sventolava già il Nuovo Tricolore. Mentre ancora i militari bonificavano il municipio da trappole e ordigni piazzati dalla resistenza poco prima della caduta, negli uffici si sostituiva la carta intestata del Comune con quella della Nuova Repubblica dell’Italia Sovrana.

Questo, almeno, è quanto si raccontava nei vicoli del centro storico.

Alla stessa ora di quella mattina, un tizio al bancone della Compagnia del Calice sbottò: «Questa città non si riconosce più». Gli rispose il bar in coro: «Belìn, Ringo, smettila». Genova infatti era riconoscibile anche coi blindati per strada; proprio in quel momento ne videro uno manovrare impacciato in piazza delle Erbe, un militare fece capolino dal portello per chiedere indicazioni a un anziano che portava a spasso il cane.

Ringo era facile alle iperboli e questo era il suo difetto. Ma non fu il solo che aveva continuato a bere mentre le sirene strillavano e la sindaca Salis ordinava agli abitanti di correre a prendere un’arma presso la sede della polizia municipale per difendere la città.

«Non hanno retto a Firenze e Bologna», diceva la gente, «vuoi reggere qui?»

La Nuova Informazione scrisse che da Voltri a Nervi, gli unici colpi sparati all’arrivo dell’esercito italiano erano stati di festa, intervistò qualche genovese. «Ormai avevo paura a uscire da sola», diceva un’insegnante di Albaro. «Mi hanno rapinato due volte quest’anno», faceva un negoziante di via XX settembre. «Se ci vogliono i militari per ridare sicurezza alle città italiane, ben vengano», concludevano entrambi. Era propaganda stravagante: ma di certo, durante la caduta di Genova, nella Compagnia del Calice la musica non aveva smesso di suonare.

Le voci correvano per i caruggi: Tizia resiste, Caio collabora, Sempronio è indeciso. Non ti potevi più fidare della persona che ti aveva sempre offerto da bere. Ringo era prudente, si limitava a dire «un biancamaro, grazie» (con Ada, invece, era lui a offrire). La scelta, per lui, la fece uno sgabello: quello all’estremità del bancone, riservatogli fin dal giorno in cui aveva aiutato il povero Manciafugassa a rimettere in piedi il suo bar dopo un incendio, vent’anni prima – guadagnandosi una lombalgia immortale e biancamaro gratis fino alla tomba. Da quello sgabello, Ringo raccoglieva le poche parole che rotolavano fino a lui da un tavolino in fondo al locale, dove una mezza dozzina di facce forestiere aveva preso l’abitudine di riunirsi sul tardi, intorno a baccalà fritto e farinata.

«… se gira la voce che paghiamo…»

«… se gli facciamo credere che anche la sindaca collabora…»

Una sera, Ringo notò un paio di occhi verdi che lo invitavano al tavolo: uniforme militare, capelli rossi legati in uno chignon basso, qualche lentiggine. Quando la donna gli parlò, Ringo sentì abbassarsi il volume delle voci nel locale.

«Cosa ti posso offrire?»

«Un biancamaro, grazie» rispose lui.

«Hai l’aria del cliente abituale. Non ti spiace se passiamo subito al tu? Da fuori non gli dai due lire, a questo bar, ma la farinata è eccezionale.» Si presentò: capitano Renata Vesperi, primo reggimento dei Granatieri di Sardegna. «Sto scoprendo Genova. Da piccola andavo in vacanza a Varazze ma non ci fermavamo mai in città.»

Ringo aveva già scolato il biancamaro. Lei gliene ordinò un altro.

«Mi hanno detto che sai come gira il fumo da queste parti.»

Ringo alzò le spalle, lei proseguì.

«Volevo combattere i russi in Ucraina, non i miei connazionali. Ma il nostro lavoro è fatto, Genova è tornata vivibile, è ora di riappacificarci. Voglio essere franca: la resistenza non ha scampo, sta prolungando il dolore per tutti. Puoi fare un favore alla città. Non tocchiamo le persone, il tempo della violenza è finito. Sappiamo muoverci in maniera meno frontale».

Ci vollero un paio di altri incontri e qualche biancamaro in più, Ringo aveva bisogno di pensarci e di essere rassicurato, ma rimandare la scelta era solo un modo per abituarsi all’idea, la sua carriera da collaborazionista era decisa. Iniziò un venerdì sera con la rivelazione dell’indirizzo di un nascondiglio di armi. Il capitano Vesperi ascoltò, annuì, si alzò.

«Hai fatto bene. Questo è per il conto.»

Si allontanò con un sorriso appena sfiorato. Lui non ebbe bisogno di contare i soldi per capire che sarebbero bastati per il conto suo e quello di tutti i clienti della giornata. Rimase a canticchiare a bocca chiusa With A Little Help From My Friends, come faceva quando aveva dei pensieri: è per questo che lo chiamavano Ringo.

Con la prima ricompensa comprò al mercato nero un cellulare criptato per sé e uno per Ada, regalo utile: un gioiello gli pareva troppo frontale, come avrebbe detto il capitano. Ada accettò con onesta gratitudine. Il primo messaggio che ricevette, il giorno dopo, era di Ringo.

«Ti va un tè da Bellucci?»

Accettò subito. Si videro un’ora più tardi, entrando nella pasticceria lei gli indicò un tavolino di fronte a una grande vetrata che dava su Piazza Fossatello.

«C’era bisogno di criptare l’invito per un tè?»

«Volevo provare il telefono», le rispose spianando la tovaglia bianca con la mano.

Il capitano Vesperi gli dava appuntamento alla Compagnia del Calice senza orari fissi. C’era in lei la semplicità della persona modesta che si è ritrovata per caso a fare cose importanti. Friulana, vegetariana, Ariete e divorziata senza figli. Appassionata di sci e letteratura francese.

«Sto rileggendo tutto Zolaper la terza volta, ma non ho tempo», gli disse senza un’ombra di ostentazione; facevano colazione con cappuccino e farinata.

Il Manciafugassa spolverava il bancone, si era avvicinato al loro tavolo.

«Oh belìn, Ringo, guarda che ‘sto anno il Doria o torna in Serie A, vedrai.»

Rimase lì a fissarli, Ringo capì che non sarebbe andato via senza una risposta.

«Per carità, fammi toccà i ballin.»

Ringo si chiese se i clienti del bar origliassero le sue chiacchiere col capitano. La donna aveva tatto, lui si sentiva libero di accettare o rifiutare, quindi finiva per accettare sempre: un nome, un orario, un numero di targa. Ogni volta lei lasciava sul tavolo una busta marrone.

Le ricompense si fecero più consistenti. Ringo portò Ada a vedere la Sampdoria in tribuna d’onore. Dopo la partita cenarono al San Giorgio con pesce crudo e capesante, provarono il piccione arrosto e bevvero champagne.

«Ti piace?»

«Il pesce sì», rispose Ada, «ma non credo che rimangerò il piccione in vita mia.»

Risero debolmente.

«Però è bello provare un posto così, quando puoi permettertelo», disse lui, pentendosi subito dell’allusione ai soldi.

«Riempimi il bicchiere, devo dimenticare la partita. La prossima volta andiamo al cinema.»

L’aveva detto con un sorriso, ma Ringo arrossì. Le luci erano basse, la sala era piena ma non rumorosa. I clienti avevano l’aria degli habitué, c’era qualche faccia da ufficiale della Nuova Repubblica Sovrana.

«Sei sicuro di voler stare con questa gente, Ringo?»

Nessuno l’aveva più chiamato per nome dopo sua madre. Neanche Ada.

«Fa’ piano. Non stiamo con loro», le disse, fissando il piatto sporco di sugo. «Sono tutti egoisti in questo momento.»

Il cameriere tornò con la lista dei dessert, Ada disse che era stanca. Abitava a Pegli, Ringo l’accompagnò in taxi. Gli mancò il coraggio per chiederle di salire da lei, ma ebbe l’impressione di avere superato una soglia psicologica anche più importante. Aspettò che Ada sparisse dietro il portone e rientrò a piedi, ci mise quasi tre ore. Passando vicino alla stazione di Principe trovò un camion-friggitoria aperto e comprò un cartone di verdure in pastella perché il ristorante l’aveva lasciato affamato.

I rettori delle università italiane si giravano fra le mani la lista dei termini proscritti nella ricerca, i giornalisti imparavano un’altra maniera di raccontare le cose, i magistrati si aggiornavano sulla riforma del diritto penale: la Nuova Repubblica Sovrana era una realtà. Un pomeriggio di ottobre Ringo guardava un documentario sui geyser, il capitano Vesperi chiamò.

«Puoi venire adesso?»

Al solito tavolo, accanto al capitano sedeva un giovane abbronzato, elegante, rasatura fresca: lei glielo presentò solo come Ermes, li lasciò dopo un caffè. L’uomo sbirciò il pataccone che portava al polso, piantò gli occhi in quelli di Ringo: sguardo deciso ma affabile, forse provato davanti allo specchio.

«Facciamo due passi?»

Finirono al Porto Antico a godersi il tepore del primo autunno. Fumavano una sigaretta dietro l’altra lanciando i mozziconi in mare. Fu Ermes a parlare.

«Renata dice che ci sai fare. Io posso aiutarti a fare anche meglio.»

Gli parlò di un mondo fatto di lusso vero e passaporti falsi, champagne a casse, cocaina a domicilio come ordinare la pizza. Ermes aveva creato una rete di collaborazione fra Torino e Cuneo, ora toccava alla Liguria.

«Hai capito di cosa sto parlando?»

«Credo di sì.»

«Moltiplicatori. Far fare ad altri quello che stai facendo tu. Smettere di fare il postino che consegna le lettere sotto la pioggia e iniziare a dirigere l’ufficio postale.»

«Ci devo pensare» rispose Ringo.

«Pensaci in fretta, questi si muovono rapidi.»

Ringo andò a zonzo tutta la notte per i caruggi canticchiando With A Little Help From My Friends. Per esserne capace, ne era capace: contatti ne aveva, da Levanto a Savona. L’idea di fare di meno e gestire di più non era malvagia. Quella sera, lavandosi i denti, s’immaginò in un bagno tutto marmo e cristallo, forse quello di una suite a Manhattan: un weekend con Ada a New York, una partita della Nba seduti accanto a Spike Lee (questa, allora, era la portata della sua immaginazione). L’indomani chiamò Ermes.

Le sue riunioni non si tennero più alla Compagnia del Calice: una volta alla settimana, Ringo passava sotto la bandiera della Nuova Repubblica Sovrana che sventolava all’ingresso di Palazzo Tursi per raggiungere l’ufficio del colonnello Vesperi nella sede del Comune commissariato: erano stati promossi entrambi.

I giorni a dicembre si fecero freddi e lividi come un cadavere. Una sera, uscendo dal Carlo Felice, Ringo aiutò Ada a infilare il cappotto di cashmere che le aveva regalato per i quarant’anni. Alzò il braccio verso un taxi, lei lo fermò: «Per una volta che non piove, camminiamo un po’.»

«Martedì sono a Chiavari», le disse mentre scendevano verso il Porto Antico.

Le montagne di cocaina e le casse di champagne non erano comparse, Ringo praticava l’arte della prudenza, si concedeva i lussi della gente normale: scarpe di marca, un gioello per Ada, una sera a teatro. Aveva scelto L’elisir d’amore perché Il Secolo XIX l’aveva definito «imperdibile», ma si era annoiato. Ada aveva lodato i costumi e le voci, ma Ringo l’aveva vista sbadigliare.

«Quanto bisogna andare avanti?» gli chiese lei.

«Non volevi camminare? Possiamo prendere un taxi in Caricamento.»

«Quanto bisogna andare avanti con questa gente.»

«Ci trattano bene.»

«Un giorno arriverà il conto.»

«Li abbiamo giudicati in fretta, Ada.»

«Ah! E invece?»

«La Vesperi è onesta.»

«Non è una questione di morale, Ringo, questa gente non la conosci.»

«Genova è migliorata. Io vedo questo.»

Lei accelerò il passo, non disse altro.

Verso Natale Ringo fu invitato a cena da Renata Vesperi. Il colonnello viveva nell’attico di un palazzo elegante, ma era evidente che non aveva il tempo di pensare a mobili e piante. Gli offrì del vino, Ringo chiese una birra.

«La prossima volta» gli rispose. «È già tanto se ho una bottiglia di vermentino in frigo.»

«Finché è vino ligure ed è fresco…» sorrise lui.

«Sono riuscita a finire Teresa Raquin. Forse è il mio preferito, di Zola.»

«Non l’ho letto.»

«Te lo presterò», disse. E poi, come a proseguire lo stesso pensiero: «Non sei stanco di vivere delle paghette dall’esercito come un adolescente, Ringo? Scusa, io non giro intorno alle parole.»

Lui guardò la distesa di stuzzichini sul tavolino. Notò che non c’era un televisore nella sala.

«Ora che ci conosciamo meglio, vorrei offrirti qualcosa di serio.»

«Belìn… scusami, colonnello, io mi accontento, non cerco roba seria.»

«Non ti chiederei una cosa per cui non sei tagliato. Non sarebbe nel mio interesse.»

Gli parlò di un laboratorio chimico-farmaceutico sopra Sestri Levante. Ringo lo conosceva: il prestanome per la struttura l’aveva trovato lui.

«E chi lo sapeva che il nome era prestato alla Nuova Repubblica», rise, forzando il tono leggero. «Cosa ci fate con una roba del genere?»

«Non è un banale laboratorio, Ringo, è un’avanguardia: ricerca, sperimentazione. Ha un valore strategico.»

«La chimica non è il mio genere.»

«Lo so qual è il tuo genere. Mi serve qualcuno per gestire la sicurezza.»

«Tipo ditta di vigilanza?»

«Non voglio Rambo, voglio una persona discreta. Uno sveglio e con le orecchie tese, non coi muscoli e le armi. È un’opportunità.»

Aveva avuto paura che il colonnello gli chiedesse di dirigere il laboratorio, o peggio, di fare da cavia per le ricerche. La vigilanza era alla sua portata. Soprattutto con l’esercito alle spalle. Accettò con sollievo.

Dopo la cena, Ringo andò alla Compagnia del Calice a pensare. Sempre più legato a quella gente, avrebbe detto Ada. Lei faticava ad accettare la sporcizia sotto il tappeto nella loro vita comoda, ma per lui non era una questione di vile denaro. Non solo. Renata Vesperi era di parola e a Genova si stava davvero meglio. L’esercito era venuto per soffocare caos e criminalità e l’aveva fatto. Per come la vedeva lui, non era collaborazionismo, era partecipare alla costruzione di una nuova Italia. Andò a sedersi al suo sgabello.

«Oh», gli fece il Manciafugassa, «ci vai a Marassi domenica?»

«Dammi un biancamaro, dai. Anzi, dammi un whisky scozzese di quello buono.»

L’altro lo guardò strano.

«Buono? Ti darò l’unico che ho, se ne rimane.»

«Di’, Mancia, tu rimpiangi la Salis?»

«Chi?»

«Il sindaco.»

Il barista fece una smorfia.

«E chi se ne ricorda.»

Lo servì, uscì a fumare. Ringo annusò il suo drink, sapeva di dolce e di legno bruciato. Si mise a giocare con il blocco-sblocco dello schermo del telefono, vide due chiamate perse di Ada, un messaggio: «Non dovevi passare dopo cena?»

«Cazzo.»

«Opportunità», aveva detto il colonnello. Per i media era «un’emergenza socio-sanitaria». Fin dal primo giorno, Ringo si rese conto di esserci finito in mezzo. Il Fentanyl era solo uno degli oppioidi sfornati dal laboratorio, dove «ricerca e sperimentazione» erano accompagnate da una generosa produzione. Il governo della Nuova Repubblica Sovrana parlava della crisi degli oppioidi come si parlava dell’aids quando Ringo era ragazzino: una storia di degenerati che si risolve da sé, basta darle tempo. Sapevano, a Palazzo Chigi, del laboratorio? Eravamo di nuovo all’eroina di Stato? Era un’iniziativa clandestina del colonnello o di qualche dirigente locale? Ringo si perdeva nei pensieri. Fino a poco tempo prima, il suo tradimento si era consumato all’interno dello scontro fra due belligeranti: per lui era uguale, esercito e resistenza a modo loro avevano entrambi a cuore Genova. Ora s’immaginava come un globulo rosso in un sistema circolatorio con diramazioni in tutta Italia. Pensò di tirarsi indietro, si diede del tempo per decidere.

Arrivarono ancora più soldi. Comprò casa con un prestito agevolato grazie all’interessamento del colonnello. Non una casa lussuosa, ma in centro e abbastanza grande da accogliere una cucina con isola centrale, un salotto con un caminetto inutile e un secondo bagno: il minimo, per proporre ad Ada di andare a vivere insieme.

«Un passo alla volta», disse lei. «Cominciamo con qualche weekend, vediamo».

La convinse a lasciare da lui qualche ricambio e il necessario per l’igiene.

Per la prima cena con Ada nella casa nuova si era fatto recapitare sushi dal miglior giapponese in città, ce n’era per cinque persone. In mezzo a loro, qualche candela e una bottiglia di Moët & Chandon nel secchiello del ghiaccio. Un’altra bottiglia era in frigo. Il cibo era ottimo, Ringo aveva comprato uno speaker Bose per ascoltare un po’ di musica, ma Ada non diceva niente, mangiava senza gusto.

«Cosa c’è?», le chiese. «Non c’è nessun obbligo, ho capito che dobbiamo fare le cose con calma.»

«Non è quello.»

Lui faceva sparire bocconi di sushi dopo averli inzuppati nel misto grigiastro di soya e wasabi.

«Non sono scema, Ringo. Quanto ti possono pagare al laboratorio? Non abbastanza per quello che spendi. Mi vuoi dire?»

Lui deglutì, bevve, sospirò.

«Cosa cambia?»

«Niente, appunto: prima o poi me lo dirai, quindi fallo subito.»

Ringo sbuffò di nuovo.

«Il sistema è semplice, non ci vuole un genio, anche perché altrimenti io non ce la farei», disse, senza riuscire a farla ridere. «In teoria, gli scarti di produzione sono distrutti. In realtà li rivendiamo in nero attraverso dei prestanome.»

«Siete pazzi.»

«Sono le nostre stock option

«E la Vesperi?»

«Non sa dei traffici, ovvio. Sono io la sua security

«Prima ti affidi a lei, poi la fotti.»

«Prima ero in serie B», disse lui stappando la seconda bottiglia. «Ora gioco in Champions».

Gli incontri a Palazzo Tursi proseguivano cordiali, ma in presenza del colonnello Ringo provava ora lo stesso disagio che aveva avvertito alla Compagnia del Calice, all’inizio della sua collaborazione. Nell’aria si sentiva ormai il profumo della primavera, ma infuriavano le mareggiate, il rumore arrivava fino a Bolzaneto. Ada si svegliò a casa di Ringo un lunedì mattina dopo una notte insonne, lui le portò una spremuta a letto, le fece compagnia mentre bevve.

«Oggi ho una riunione con la Vesperi al laboratorio, c’è anche un generale da Roma.»

«Lo so, me l’hai detto l’altro giorno. Vai piano, fammi sapere quando sei arrivato. Prevedono una bufera su tutto il Levante.»

«Sta’ tranquilla.»

«Sul serio, chiama quando sei arrivato. Dammi un bacio.»

Scendendo in garage, Ringo ripensò al giorno in cui le aveva regalato il telefonino criptato. Lei gli aveva detto ridendo che non sapeva cosa farsene, lui aveva risposto che avrebbero potuto inventarsi una doppia vita per renderlo utile.

Su Genova cadeva una pioggia ventosa, il sole era sorto ma sembrava notte fonda. Le strade erano intasate, i pedoni stringevano l’ombrello con due mani. Ringo accese la radio, regolò la temperatura, si dispose a ignorare la rabbia del traffico. Fece i primi chilometri senza quasi vedere la strada, ma passato il promontorio di Portofino il cielo si schiarì, i tergicristalli si ritrovarono a stridere sul parabrezza asciutto.

Uscì dall’autostrada a Sestri Levante, puntò verso l’interno. Poco più tardi vide il grigio del muro dell’impianto affacciarsi fra gli alberi. Entrò nel parcheggio degli ufficiali, privilegio dovuto alla riunione col colonnello e il generale, era proprio sotto gli uffici e la sala riunioni. Spento il motore, stava per scendere dall’auto quando si ricordò: prese il telefonino, chiamò.

«Come va? Sì, sono arrivato. Dopo Portofino il tempo è migliorato. Sì. Sì, sono qui, ti dico. Devo andare, dai. Mangiamo al San Giorgio stasera? Bacio.»

Si guardò nello specchietto, imprecando fra sé per essersi dimenticato di radersi. Nessuno può sapere se Ringo avesse fatto in tempo a sentire il clic che precedette l’esplosione, che lo colse mezzo dentro e mezzo fuori dell’auto, né se avesse avvertito il peso diverso del veicolo, dovuto alla carica che portava inconsapevolmente nel vano motore: fece saltare per aria l’intera ala della palazzina dove gli ufficiali stavano bevendo un caffè in attesa della riunione. Oltre a Ringo, rimasero uccisi il colonnello Renata Vesperi e il generale Scagni, venuto da Roma.

Quella sera Ada andò alla Compagnia del Calice, prese lo sgabello che era di Ringo.

«Avevi ragione che veniva giù tutto», le disse il Manciafugassa.

«Con tutte le volte che Ringo mi ha descritto quel posto», disse lei.

«Hai fatto sparire il tuo telefono?»

«Mille pezzi. E il tuo?» «Idem. Il biancamaro lo offre la casa.»


[1]    È l’incipit di La luna è tramontata, di John Steinbeck.

Le sale operatorie di esistenza

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di Mariasole Ariot

*scritto in occasione della festa di Nazione Indiana 2025 per “La scena del tempo – tra passato e presente”

“Lei non voleva stare, la misero a gambe all’aria
con la baionetta e la squarciarono”
Costanza C. 1944

(Guerra Totale, Gribaudi)

Precipitano dai cieli come collassi, arterie che si tacciano a un futuro ancora incerto ma deciso:
le nubi che non sanno i temporali ci crollano dall’alto, di gambe spalancate per un bimbo già
morto solo morto già nel prima di arrivare a compimento.

Ai nomi è tolto un nome, strappato come vesti in ospedali senza porte senza tetti, persone con
le teste mutilate, l’elenco delle case a sparizione delle cose: tagliare una ferita a cielo aperto,
affinano le buche collinari di una donna, s’infettano del sangue già ammalato: non sono
baionette sono uncini. Che strappano i presenti dalle costole del tempo.

E dicono scavare proprie fosse, un ultimo dei letti che non porta che terriccio e sassi e nuche, le pietre si trasformano a giacigli, il fango nella bocca che prega le sementi: ma quanto è vuoto un mondo, ma quanti sono i mondi che sappiamo ricordare.

Rottami disperati si rifugiano alla notte, arrivano macerie di insepolti, rosicchiano per fare delle donne un fiorellino, profanano minuscole esistenze e le corolle, saccheggi massacri e bruciature, le masse non comportano una resa.

Elaborano le morti come albe già calate, i soli puntellati sono occhi – lo spreco di due cieli, le
piccole cellette in cui si attendono le corde. E quante corde non conoscono le teste, quante
teste nascondono una tomba.

Picchiate con la canna dei fucili già pronti forti eretti per violare. La terra si insinua a stringere le stelle che non fanno le stellate: esplose le scintille si salvano cordoni ombelicali, la pioggia incastonata nella sete non dice il perdonare: dice il giorno della morte di una presa: dice basta per bastare alla condanna: dannati sono gli altri che non siamo, le figlie non protette dalle scure, le madri che si prestano per fare dei collari un nuovo collo.

Hai visto lo straziare di uteri ammalati, hai visto dire prendimi non prenderla, giacere per dare un nuovo posto, al posto di una vergine che presta le sue buche.
Hai visto le sale operatorie di esistenze, ostetriche che avvisano gli aperti rovinati.
Hai detto che è impossibile parlare, silenzi ricuciti e poi slabbrati.
Hai detto che t’infrangono un sigillo: ti sfrangi come il resto di uno straccio.

Il cranio di un uccello e la sanguigna si schiudono alle ossa: è questa la domanda del passato: lo iato che si scuce, i corpi dilaniati da due tempi.

  • fotogragia di Michal Jarmoluk

➨ AzioneAtzeni – Discanto Settimo: Bastiana Madau

1



«Mia madre pregava, ma mio padre ripeteva

spesso la frase di un anarchico russo

“ Il lavoro è la nostra preghiera”…»

 

da Il figlio di Bakunìn di Sergio Atzeni

 

Ritorno a Nascar
di
Bastiana Madau

A Nascar, nelle notti d’autunno, si sentono le case che parlano. Dicono i nomi di chi le ha lasciate. Quando Mimìa e Rosario Moro camminano per il paese, sembrano ombre uscite da un tempo senza orologi, ma i loro occhi brillano ancora come brace sotto la cenere. Anche se nessuno torna, anche se la voce dei figli è solo un’eco al telefono, loro restano. Perché qualcuno deve tenere il fuoco acceso. Qualcuno deve ricordare il nome delle pietre. Qualcuno deve parlare con le ossa degli alberi che scricchiolano e che a Nascar si odono bene, in mezzo a tutto quel silenzio che avvolge le case, le cose, le strade, il tempo.            
Il tempo è silenzioso, a Nascar, come la nebbia di novembre, che entra nei cortili senza bussare. Una nebbia che non passa e si attacca ovunque. Ai vicoli e al loro labirinto. Alle pietre e agli anfratti che forma il vento. Ai vetri e alle macchie della ruggine lasciate dal lavorìo della sottile pioggia d’autunno. Alla voce dei vecchi, che non chiamano più nessuno, ma parlano ancora con i vivi lontani e con i morti. Confondendo, a volte, gli uni con gli altri.
Mimìa e Rosario Moro vivono nella grande casa, costruita per essere piena, e invece è ogni giorno più vuota. Le scale, che un tempo cantavano con i piedi dei figli, salendole e scendendole come capre allegre, ora gemono sotto i passi lenti dei due vecchi coniugi.
I figli sono partiti uno alla volta, come i passeri quando il vento cambia.
Prima Ruggero, che sognava di aggiustare le cose rotte nel mondo. Poi Caterina detta Cate, che voleva ballare, e ora insegna danza in una grande città, ma non ha più gambe di cerva giovane alla fonte; ha ginocchia dolenti e nostalgia negli occhi. Infine Mariano, il più piccolo, che non voleva andarsene ma se n’è andato lo stesso, con una donna dagli occhi blu e la lingua del Continente.
Mimìa ha ancora il loro respiro nelle orecchie. A volte li chiama piano, come si chiama un sogno prima del sonno. A volte li maledice piano, come si maledice il vento che porta via la terra buona.
Rosario no. Lui non maledice mai. Parla poco. Parla col fico, col pozzo, con i crisantemi dell’orto, con la sedia che cigola. La sera beve un bicchiere di vino e guarda la finestra chiusa. A volte apre un libro. Poi lo chiude e si guarda intorno.
– Non torna nessuno.
E lo dice come se lo sapesse da sempre, come se fosse scritto nel fumo del camino, davanti a cui talvolta si ferma a leggere i poeti nella sua lingua o in quella del Continente. «Gli immortali conoscono la strada della cappa del camino», legge. E sorride. Gli immortali sono vivi, pensa. Forse torneranno.
 
A volte, di notte, Mimìa si alza e apre la porta. Guarda fuori, verso la valle grande, verso il mondo che ha inghiottito i suoi figli.
Rosario Moro la guarda in silenzio.
– Li hai visti?
– No – dice lei. – Ma li ho sentiti. Passavano nel vento che viene da oriente.
E lui annuisce, come si annuisce alla pioggia che piega le querce.
Una volta all’anno, forse due, arrivano le telefonate. Le voci sono lontane, gonfie d’ansia e di fretta.
– Come stai, ma’?
– Tutto bene, babbo?
E loro rispondono sempre sì, tutto bene, anche se il tetto perde, se le dita delle mani sono sempre più rigide e dolenti, se la notte il cuore fa rumore.
 
Passano gli inverni. Rosario si alza ancora alle prime luci dell’alba con il freddo, prima del sole, prima del pensiero. Va in cucina, accende il fuoco. Non perché abbia freddo. Ma perché accendere il fuoco è una preghiera. Ed è un modo per dire: siamo ancora qui.
Lei resta a letto un poco di più, e come sempre ascolta i rumori: il cane che sbatte la coda sulla porta, il gallo del vicino che canta sempre in ritardo, il clic del fiammifero, il rumore dell’acqua, il gatto che salta dal tavolo quando Rosario vi poggia il pentolino con il latte caldo.
Poi scende le scale, come sempre lenta, con la dignità di una regina. E inizia il suo lavoro. Perché il lavoro è una preghiera. Lavare i piatti, pelare le patate, piegare la coperta: tutto è un modo per dire sì alla vita, anche se la vita è stanca.
Qualche volta Mimìa e Rosario Moro litigano per i fiori dell’orto. Lui sostiene che il crisantemo sia il fiore più bello del mondo ma lei insiste a coltivare soltanto le rose antiche e a portarle a casa insieme a qualche orchidea selvatica, che raccoglie sul ciglio del sentiero, al ritorno.
– I crisantemi portali in cimitero –, dice al marito.
– Vedi che per i giapponesi sono questi i fiori della vita.
– Ma noi non siamo giapponesi –, tronca in corto lei.
 
Litigano solo per i fiori.

Un giorno d’agosto, l’auto tossisce polvere davanti al cancello di Rosario e Mimìa.
Scende una donna ancora giovane, con una valigia mezza vuota. Rosario la fa entrare. Mimìa la riconosce dal modo in cui stringe le spalle: come faceva da bambina quando aveva paura.
Cate non dice perché è tornata. E loro, al solito, non fanno domande.
La casa ricomincia a respirare piano, con tre cuori lenti e un silenzio diverso, non più vuoto ma in attesa.
Fu dopo Capidanne, quando l’aria sa di mosto e promessa, che Caterina disse:
– Voglio imparare a fare il pane di Gonare.
Mimìa la guardò.
– Adesso, Cate?
– Adesso, è l’unico tempo che abbiamo.

Il pane rituale, quello per la festa di Nostra Signora di Gonare, non è un pane qualunque. Ha la forma delle sirene che un tempo cantavano tra le rocce, prima che giungesse su quel luogo il capitano Gonario di Torres, che nel pieno dei travolgenti flutti del mare di Orosei, quando un fulmine squarciò il cielo illuminando la cima di una piramide blu, promise alla Madonna che se si fosse salvato dalla burrasca sarebbe andato sin lassù per costruirvi una piccola chiesa bruna. Prima ancora, sì. Prima dei pellegrini che per devozione si inerpicano sul sentiero roccioso con le ginocchia nude. Prima di ogni cosa, c’erano le sirene e il loro canto.
Fu Tzia Annesa, l’ultima donna che sapeva fare il mistico cibo, a insegnare a Mimìa che il pane di Gonare non è solo farina e cibo. È forma. È gesto. È memoria. È fede.
– Fede in chi? – ha chiesto Mimìa.
– In chi resta a vivere in questi luoghi.
 
Caterina era tornata a Nascar spinta dai suoi fantasmi, che le erano rimasti sempre accanto, nonostante la lontananza dalla terra che li aveva generati. Guardarli in faccia avrebbe fatto meno paura, pensava. Li avrebbe addomesticati. Ora saliva con circospezione le scale della sua grande casa, meravigliandosi del proprio stupore. Sentiva la suggestione del tempo raccolto, ma dilatato dal silenzio della casa, mentre i pensieri fluivano piano e calmi. Respirava l’aria gelida delle stanze. Tra quelle pareti i pochi oggetti evocavano ricordi, scavavano cunicoli, trovavano acque carsiche. Squarci. Quando sentì arrivare l’antica vertigine, aprì con forza la grande finestra del terzo piano. Da lì poteva abbracciare con lo sguardo l’intero borgo di Nascar, esclusa la parte a ovest, con la collina sventrata dalle cave di steatite. E da lassù vedeva correre il labirinto dei vicoli, e i tetti e i campanili di tredici chiese. Al limite del borgo si alzavano le pareti delle colline che avevano linee come grandi rilievi caucasici. Ombre e sassi, erba e cielo. La poesia assorbita nelle infanzie.
C’è qualcosa di misterioso nell’amore per la propria terra che non va rivelato. Una piccola fiamma che bisogna riparare con cura, dal vento che arriva da ogni dove.
 
Ora Cate ha sistemato le sue poche cose nella stanza che un tempo aveva il sole del pomeriggio. Parla poco. Percorre gli ambienti domestici, sale e scende le scale con lentezza, come se ascoltasse. Una notte chiama sua madre nella sua stanza e le dice:
– Mamma, io ricordo. Qui arrivavano le voci delle sirene dal Monte Gonare. Le sentivo da piccola.
Mimìa tacque, ma sapeva bene. Le sirene di Gonare cantavano nei sogni dei suoi bambini. E quando smisero qualcosa si spezzò.
Fu proprio alla luce di quel ricordo – il canto delle sirene, il pane votivo, la festa di settembre – che Mimìa cominciò ad esercitarsi a muovere piano i polsi – prima in un senso, poi nell’altro –, e le dita delle mani, in una sorta di auto fisioterapia domestica.
Aveva settantanove anni, le dita gonfie, la vista che sfumava come un disegno lasciato sotto la pioggia. Ma voleva farlo. Per Cate ritornata. Per le sirene. Perché c’è un punto nella vecchiaia in cui si impara di nuovo come una bambina.

Il pane di Annesa, l’ultima che sapeva. Il pane rituale per la festa del Monte Gonare. Non un pane qualunque. Pane con la forma del fiore del vento che muove le querce. Pane con le code delle sirene. Pane col sole inciso al centro, come un occhio che guarda il passato.
Chiamò sua figlia per impastare all’alba, quando il mondo tace e le ombre sono piccole. Cate la guardava senza dire nulla. Poi, le si mise accanto e disse:
– Le sirene canteranno anche per te.
Mimìa sorrise, con le mani colme di farina e gli occhi pieni di acqua vecchia.
– No – disse. – Canteranno per chi ha il cuore rotto e la voglia di tornare.

Il giorno dopo portarono il pane al santuario del Monte Gonare. Mimìa, Cate e Rosario Moro, in silenzio. Il cammino era lungo e pietroso, ma non pesava. Ogni passo sapeva di terra, di fede, di poesia.
Arrivati in cima, le campane suonavano piano. E qualcuno giurò di sentire un canto, tra i rami, tra le rocce.
Un canto di donna.
Un canto d’acqua.
Cate chiuse gli occhi.
Rosario le prese il braccio.
Mimìa lasciò il pane sull’altare come si lascia un figlio che parte.
 
Dicono che da quel giorno le sirene del Monte tornarono a cantare.
Non forti. Non per tutti. Solo per chi sa ascoltare.
E Mimìa, quando si siede al sole con le mani vuote, dice ancora:
– Non tornano tutti.
Ma poi guarda Cate, che impasta piano, e aggiunge:
– Ma a volte una sola basta per far tornare anche gli altri. Perché anche se il mondo è lontano, anche se le case si svuotano come conchiglie, qualcosa resiste.
Il canto.
Il pane.
Le mani che ricordano.
E le ossa degli alberi, che scricchiolano piano per non disturbare gli altri ritorni.

 


   

* Azione Atzeni- mode d’emploi

di

Gigliola Sulis e Francesco Forlani

‘E scoprirai quello che resta di un uomo, dopo la sua morte, nella memoria e nelle parole altrui’. Sergio Atzeni, Il figlio di Bakunìn Il 6 settembre del 1995, inghiottito dal mare come l’amato Fleba il Fenicio, Sergio Atzeni perdeva la vita nelle acque dell’isola di Carloforte. Sardo, appena quarantenne, era stato militante comunista, anarchico leader studentesco, impiegato insoddisfatto, sindacalista, pubblicista. Dopo la fuga dall’isola, tra l’Emilia e Torino, divenne correttore di bozze, lettore di manoscritti per case editrici, sontuoso traduttore – un testo su tutti: Texaco di Patrick Chamoiseau. Per tutta la vita fu intellettuale rigoroso, poeta e scrittore immaginifico, autore di romanzi-mondo come Apologo del giudice bandito, Il figlio di Bakunìn, Il quinto passo è l’addio, Passavamo sulla terra leggeri, e di una cascata di racconti tra cui Il demonio è cane bianco, I sogni della città bianca, e Bellas mariposas. Come nel Figlio di Bakunìn, pensando oggi a Sergio, ci chiediamo: che cosa resta di uno scrittore, dopo la sua morte, nella memoria e nelle parole altrui? Per rispondere a questa domanda, abbiamo invitato degli autori legati all’opera di Atzeni a dare nuova vita ai personaggi o ai luoghi o alle atmosfere della sua opera. Interpretando, riscrivendo, stravolgendo creativamente, in totale libertà. Un coro di voci diverse per una raccolta di racconti brevi, una rifrazione e moltiplicazione di frammenti post-atzeniani. Assolutamente vietata l’agiografia, e ‘massima penalità per chi si prende troppo sul serio’, come scriveva Sergio in uno dei suoi ultimi articoli per “L’ Unione Sarda”. Nasce così il gioco del discanto*, da intendere sia come far decantare delle buone pagine in nuove storie sia come costruzione di voci in forma di polifonia medievale.

* Francesco Forlani ‘Nella Sardegna magica in cerca di Sergio Atzeni, “Reportage”, n.10, 2012, ripreso nel 2017 da Minima Moralia

Gigliola Sulis, Chi era Sergio Atzeni?’, “Le parole e le cose”, 22 novembre 2012

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Materiali per due mostre: Gianluca Codeghini a Siena e a Firenze

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di Andrea Inglese

Raccolgo qui testi e immagini relativi al lavoro artistico e musicale di Gianluca Codeghini, amico, collaboratore, e soprattutto protagonista di due recenti mostre personali dedicate al rapporto tra la dimensione visiva e quella sonora.

La prima mostra, intitolata Blast: From Dust to Noise, è a cura di Elio Grazioli presso la galleria Frittelli Arte Contemporanea a Firenze (26 giugno – 28 settembre 2025). La seconda mostra costituisce un progetto più ramificato dal titolo NoiSe >< Derive ed è a cura di Stefano Jacoviello all’interno di Derive della Chigiana International Festival & Summer Academy 2025 (Siena, 8 luglio – 14 settembre 2025). Quest’anno l’istituzione ha realizzato un focus ispirato all’opera del compositore francese Pierre Boulez, di cui ricorre il centenario della nascita. Il progetto ha diversi livelli di complessità e complicità in quanto è il risultato di collaborazioni tra diversi istituzioni, coordinate dal direttore artistico della Chigiana Nicola Sani. Codeghini ha così potuto confrontarsi attivamente con tre sedi diverse, dentro e fuori le mura di Siena: con l’Accademia Chigiana promotrice del progetto, con il Complesso Museale S. Maria della Scala e con lo spazio InnerRoom space concept ospitato nel negozio di coppe e medaglie Fusi&Fusi nella zona fuori mura Open Toselli, insolita sede periferica in un’area di transito.

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Cosa ascoltiamo quando vediamo un rumore o cosa vediamo quando lo ascoltiamo? Quale è la sua consistenza, la sua natura e il suo punto d’incontro o è più un luogo di scontro, di rottura e provocazione? Non è così semplice decodificare quanto accade in una mostra di Gianluca Codeghini, gli elementi in gioco sono molteplici e accadono sempre un momento prima o poco dopo, risultando volutamente tanto assertivi quanto sfuggenti. Anche la materia con cui esercita il suo punto di vista non è mai la stessa, così che queste sue mostre tra Firenze e Siena sembrano avere più autori, a volte uno e in certi nessuno e questo perché Codeghini gioca a forzare i limiti dei concetti, a muoversi sui bordi delle cose, a confondere se stesso e gli altri al punto tale, cito da un suo testo, da lasciare nella memoria il dubbio di aver ascoltato altro o di non aver ascoltato affatto, una condizione che declina su tutto il suo operato che sia linguistico, performativo, visivo o musicale.

Piecemeal, 21 luglio chiesa di Sant’Agostino in Siena (ph. Roberto Testi)

Piecemeal (2008/2025) una partitura per coro dalla doppia natura: installazione sonora diffusa lungo il percorso del Complesso Museale di Santa Maria della Scala per tutta la durata della mostra, e performance dal vivo eseguita il 21 luglio nella chiesa di Sant’Agostino a Siena dal Coro della Cattedrale di Siena “Guido Chigi Saracini”, diretto da Lorenzo Donati. L’opera è una semplice e al tempo stesso improbabile azione vocale, in cui i coristi cercano di dare forma a un’idea andando oltre il proprio ruolo. Si trovano confrontati con una condizione in cui ogni tecnica non serve più, è annullamento, perché si entra in uno stato di sospensione, aleatorio, fatto di rumori, un piacevole “rumore bianco”, che invita alla condivisione e crea complicità tra esecutori e ascoltatori.

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Nella sede della Chigiana troviamo l’installazione al neon NoiSe (2003), la stanza è totalmente avvolta da una luce azzurra.

Noi se (scritta neon azzurro) 2003.

La materia di Codeghini, in effetti, è il rumore: non quello assordante che copre, ma quello impercettibile che rivela. È il sussurro che disturba l’inerzia, lo scarto che interroga il visibile, il dubbio che ci obbliga a guardare e a pensare lateralmente. Le sue opere ci disarmano: non offrono soluzioni, ma ci restituiscono il senso della complessità e del limite.

Don’t Stop Smiling. 2005-2025.

Si tratta di opere dall’apparenza innocua che producono processi attivi al punto tale da lasciare nella memoria il dubbio di aver prodotto altro o di non averlo fatto affatto. C’è sempre una via di fuga nell’interpretazione di un’opera, un gesto o suono di Codeghini; è come se la loro funzione non dipenda da ciò che sono ma dalla possibilità di essere altro. In un testo del catalogo, Cristiano Leone focalizza quanto siano disarmanti queste opere che in apparenza non offrono soluzioni, ma ci restituiscono il senso della complessità e del limite, perché: “come ci insegna Codeghini, è proprio là dove il linguaggio si inceppa, che comincia il vero ascolto. E anche una deriva, se accolta con fiducia, può diventare un’origine.”

Entrée (colore nero non fissato su vetro), 1991/2001

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Non abbiamo compiuto un passo importante, semplicemente stiamo provando.

Alessandro Broggi, Noi, Tic, Roma 2024

Alessandro Broggi, scomparso di recente, è una presenza costante e imprescindibile di questa mostra. Tra i due è nata una collaborazione costante e intensa dopo il loro incontro nel Parco di Veio alla Fondazione Baruchello per Roma Poesia nel 2007. Questa frase la troviamo sia esposta in mostra che sul catalogo, insieme ad altre che accompagnano e introducono molte riflessioni del curatore Stefano Jacoviello.

Scrive quest’ultimo, nel suo intervento intitolato Se noi :

Noi non è dunque affatto un’espressione pacifica. Diverso dall’io, dal tu, dall’essi, deitticamente stabili, noi contiene una comunità con le sue inevitabili turbolenze[1]. Perché dentro quel noi nascono le individualità dei sé: si sottraggono all’ omogeneità per un miraggio di indipendenza, confidano nel sentirsi autonomamente proprie, si incontrano e confrontano, si rispecchiano e si rinfacciano. La scissione continua delle identità – che non sono mai date di per sé ma nascono congiuntamente nella relazione che le interdefinisce –, questa rigenerazione dell’insieme scaturita dal dividersi testardo in elementi più piccoli, rapidi, apparentemente slegati, provoca la vitalità della comunità e il rumore che ne deriva.

Un rumore che è il resto di una continua trasformazione: invade infinitamente lo spazio neutro che ci circonda, impedisce di tracciarvi una rotta e sulla spinta di una indefinibile mancanza ci conduce alla deriva. Il rumore è il fuori-campo che cerca disperatamente l’orizzonte del fuori-senso. È l’insignificante che si sottrae alla forma per restare disponibile a prenderne un’altra, e poi eventualmente lasciarla sotto l’impulso di un contatto improvviso, di un gesto inatteso. Il rumore è il sintomo della presenza imminente del senso, che resta sulla soglia della comprensione, in attesa che qualcuno ne senta la pressione oppure la convogli nell’indifferenza silenziosa.

[1] Paolo Fabbri, “Identità: l’enunciazione collettiva”, in aut aut, 385, 2020.

Crudeltà unite, 2025

In mostra troviamo anche una selezione di video. Ne ricordo almeno tre che hanno una valenza sia installativa che documentale. Il primo ha come titolo Dalle stalle alle stelle (1993) ed è un’azione rumoristica durata tre giorni e tre notti tra i sassi di Matera, una performance dissipativa realizzata grazie al supporto di G. Magnabosco al sax giocattolo. Il secondo video dal titolo Crudeltà inaudite (2007), realizzato al Mart di Rovereto in collaborazione con D. Bellini, ha come protagonisti due gatti che abbattono delle armate di soldatini bianchi (oltre seimila) in uno scenario metafisico con una colonna sonora realizzata appositamente dall’autore, utilizzando gli intonarumori di Luigi Russolo. Il terzo video Theres still for a bit (2017) ha sempre la stessa natura e documenta alcuni concerti ad personam in cui Codeghini, con l’ausilio di caramelle effervescenti, si avvicina all’orecchio dello spettatore, offrendogli un concerto in esclusiva della durata di circa un minuto.

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Sulla mostra Blast: from dust to noise alla Galleria Frittelli di Firenze, vale la pena di citare questo passaggio del curatore Elio Grazioli, presente nel catalogo:

La polvere è della materia, e con essa dell’immagine, della realtà e del linguaggio, quello che il rumore è del suono, dell’armonia, del canone in quanto polveroso. Non si tratta di un elogio della distruzione, di un discorso nichilista, tutto va in frantumi, polvere alla polvere, bensì di un blast, una esplosione, cioè di una strategia nientemeno che rivelatrice anzi, di una polvere che diventa figura, benché e anzi propriamente altra, differente – nel duplice senso della parola – e di un rumore che evidenzia i caratteri del suono invece che darli per scontati e in tal modo subirli. Naturalmente c’è anche della trasgressione, senza la quale è ormai impossibile aprire gli occhi e gli orecchi…

Elusive void of pleasure, 2019

Concludo con un riferimento a Flaw order, uno dei miei pezzi preferiti. Ognuno ha sognato di vedere concretizzata la frase fatta: un elefante in una cristalleria. Codeghini ci offre la sua versione rock di questa frase. Si tratta di un’azione performativa consistente nel “suonare” una batteria allestita con oggetti di vetro e ceramica (vasi, tazzine, caraffe, statuette, ecc.), che sostituiscono rullanti, piatti e charleston. L’uso di questa baterria-scultura coincide con una composizione specifica per rumori di porcellana e vetro in pezzi, ma una volta terminata la distruzione, rimane comunque una forma sparpagliata e residuale, che non cessa di esistere anche se sono ormai subentrati il silenzio e l’immobilità.

Flaw order

Testamento

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Di Adele Bardazzi 

Nota

Gli eredi ci tengono a rendere noto al lettore che un secondo documento che reca lo stesso titolo, Testamento, firmato successivamente al presente, è stato rinvenuto in data 6 settembre 2023. Fatti i necessari accertamenti sull’auten­ticità del documento che riscontra una lingua per lo più straniera. Gli eredi promettono che lo renderanno pubblico al fine di rispettare il desiderio dell’autrice: pubblicare postumo il suo ultimo testamento.

Per il momento, gli eredi anticipano che nel faldone del testamento ritrovato, si trovano anche una lettera (allegata in Appendice B), delle bucce, alcune bozze di poesie che sem­brerebbero legate a Jimmy Saville e la sua vita in Inghilterra (riportate qui in Appendice A) e le seguenti parole:

Se è un errore, La prego, lo corregga
prima che sia troppo tardi.
M.C.

Le iniziali M.C. suggeriscono la dubbia au­torialità del testo a cui studiosi ed esperti dell’opera di Adele Bardazzi stanno lavorando incessantemente al fine di portare chiarezza. Si spera che un altro libro di Bardazzi potrà essere tenuto nelle mani dei suoi lettori e che essi vogliano portare pazienza e attendere la pubblicazione di questo ultimo documento di una delle voci di più valore del nostro secolo: una cultural icon. And the world is a shitshow. And the show must go on.

 

 

 

 

L’ultimo testamento
doveva essere
precedente
imperfetto
– per questo pure ti penso
Per te, farei tutto
pure rovinare questo prato
e renderlo tutto presente

 

 

 

 

Non basta ora una parola,
abbisogniamo di virgole
per prendere respiri corti –
ti accompagno per mano
senza io.

 

 

 

 

Questa lettera la penso
vicina al tu sotto la scrivania
un giorno in cui senza questo io
spia amica, ape regina,
sarà diversamente nuda.
Ancora in nero, come a un concerto
chiedendo sottovoce di essere
aperta

 

 

 

 

Leggila, non il quattro,
ma un dodici maggio,
prima del prossimo anno,
prima di fine luglio,
prima che faccia troppo caldo
prima che sia ancora tempo
d’estate che cade
sul niente che ci
cade addosso

 

 

 

 

L’Irish Poetry Centre o è
Irish Centre for Poetry Studies
condivide la notizia di valore:
Unpublished Ted Hughes poems
about lover Assia Wevill to be sold.
Da te, il nome nel testamento,
se importa a qualcuno un foglio
firmato chissà dove, quando
secondo la legge
sarà due volte tanto un Basquiat
trattandosi di morte al quadrato,
amore e morte, come piace a teatro?

 

___________

Testi tratti da Testamento, il nuovo libro di Adele Bardazzi, appena uscito per Industria&Letteratura nella collana Obtorto collo, diretta da Riccardo Frolloni.

 

Adele Bardazzi (Firenze, 1991) vive a Utrecht, dove insegna Letteratura italiana e comparata all’Università. Ha pubblicato la raccolta I nomi di Emanuele (Arcipelago Itaca, 2023). Suoi testi sono apparsi in riviste e antologie («Nuovi Argomenti», «Formavera», «Inverso», St Anne’s ReviewPoeti nati negli anni ’80 e ’90 a cura di Giulia Martini, Sesto repertorio di poesia italiana contemporanea). Ha tradotto OBIT di Victoria Chang (Interno Poesia, 2024) e alcune poesie di Cristina Campo (The High Window, 2021).

 

 

I poeti appartati: Tommaso Foscarin

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Due poesie

di

Tommaso Foscarin

 

Il Bottegaio

Li salutava mio padre,
con occhi fissi e denti stretti.
Ma, con sorrisi quieti e voci di miele,
mi sfioravan i ricci con dita di seta.
Ospiti di casa, parenti in divisa.
Ma nello sguardo cortese,
traspariva un inverno sottile.
S’insinuavano quelle serpi gentili,
oltre l’uscio non chiesto.
Frugavano i miri nidi di cuscini,
spalancavan cassetti.
E a mio padre stringevano i polsi,
tra spire di gelido acciaio.
Così rimase nuda la casa.
Tempio dissacrato,
bottega senz’artigiano.
Ed io, non scolaro né apprendista,
ma schiavo d’una scuola senza perdono.
Allora mutaron i loro visi.
Si disfecero le maschere,
sotto lingue come fruste,
occhi che scortavan ogni passo.
E tornò il gelo di quelle spire,
su quella carne mia già corrosa.
La bottega di nuovo vuota.
Ma oltre il sole lacerato dalle grate,
mio padre.
Canuto e stanco,
custode del mio stesso silenzio.

 

*

L’uomo che inseguiva la luce 

Cresciuto tra mille fratelli,
venditori di sogni,
spacciatori di morte.
Le guardie scelsero me,
rendendomi cieco
alla vista del sole.
E dietro le sbarre
sognavano i miei occhi innocenti.
Ricordavano corse,
immaginavano cieli,
solo libertà dovuta.
Quando si aprì la porta
i fratelli gioirono,
gli amici m’accolsero.
Ed ecco la luce
che mi esplodeva in mano,
si faceva respiro,
illuminando notti
non più oscure.
Felice mostravo i denti
a chi con me scambiava parole
senz’esser capito.
Partivo spensierato per mete ignote,
viaggiando su improbabili arcobaleni,
a lungo sognati, mai posseduti.
Ma quelle notti da re
si sbriciolarono in fretta,
come scritte sulla sabbia
spazzate dall’onda del giorno.
E ancora inseguo quella luce,
d’una felicità sempre più breve,
sempre più fragile,
sempre più spenta.
Ora sul qui marciapiede
elemosino una luce.
Luce che non illumina,
luce che sfama e disseta.
Ora qui sul marciapiede,
rincorro arcobaleni.

Vi avverto che vivo per l’ultima volta

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Gianni Biondillo intervista Paolo Nori

Paolo Nori, Vi avverto che vivo per l’ultima volta, Mondadori, 2023

Paolo, volevi scrivere un libro su una grande poeta russa, l’irruzione della guerra in Ucraina ha stravolto il tuo progetto.

Dopo il 24 febbraio 2022 mi è sembrato chiarissimo che la vita di Anna Achmatova, la società crudele, orribile e insensata nella quale viveva erano molto simili alla nostra. Leggevo di cose successe cento anni fa e mi sembrava di leggere di quel che stava succedendo nel 2022. È stata un’esperienza abbastanza stupefacente alla fine della quale, però, Vi avverto che vivo per l’ultima volta a me sembra ancora un libro su Anna Achmatova.

Contro la tua stessa volontà ti sei trovato al centro di una polemica rimbalzata in tutto il mondo. Cosa siamo diventati?

Quando mi hanno mandato una mail per dirmi che le quattro lezioni che mi avevano chiesto di tenere su Dostoevskij erano sospese «per evitare tensioni» io non riuscivo a crederci. L’ho riletta tre volte, quella mail. E poi ho risposto «Non ho parole. Ma credo che ne troverò». Quando poi, il giorno dopo, ho acceso il Pervyj kanal, l’equivalente di RaiUno in Russia, dopo cinque minuti ho sentito parlare di me, del fatto che avevano vietato le mie conferenze su Dostoevskij. Non è stata una mossa tanto intelligente, secondo me.

Che popolo commovente è, come racconti, un popolo pronto a rinunciare al cibo ma non alla poesia?

Se qualcuno dice di me che sono filorusso ha ragione: la lingua russa, la cultura russa, la letteratura russa, il popolo russo, sono straordinari, e questo, credo, è il momento in cui vale la pena di dirlo a voce alta.

Sciascia diceva che non poteva stare né con, né senza, la Sicilia. Il tuo libro ci insegna la stessa cosa, per tutti noi, nei confronti della Russia.

Ho cominciato a studiare russo nel 1988, quando la Russia era parte dell’Unione Sovietica; non avevo nessuna inclinazione per il regime sovietico, e la cosa non mi ha impedito di innamorarmi, sempre di più, della Russia e dei russi. Credo che nessuno pensi che i molti studenti stranieri che vengono ogni anno in Italia siano attirati dai nostri governi. Mi piacerebbe, però, conoscerlo, qualche ragazzo o ragazza che è venuta in Italia perché affascinata da Giorgia Meloni, o da Matteo Renzi, o da Giuseppe Conte. Anzi forse no, non mi piacerebbe.

Possiamo augurare all’Europa “salute e pace”?

Io credo che riusciremo, alla fine, a costruire un mondo dove non sarà più necessario augurarsi la pace. Ci credo.

(precedentemente pubblicato su Cooperazione, nel 2023)

Per una lettura biopolitica dell’Anoressia

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di Lucrezia Lombardo

Nel 1997, la filosofa femminista Susan Bordo pubblicava Unbearable Weight: Feminism, Western Culture, and the Body, un saggio che rappresenta ancora oggi una delle più lucide analisi sociologiche dei disturbi del comportamento alimentare (DCA), in particolare dell’Anoressia nervosa. L’autrice interpreta tali fenomeni non come mere psicopatologie individuali, ma come effetti sistemici di un assetto biocapitalistico in cui il corpo delle donne diviene oggetto di controllo, disciplina e marginalizzazione politica.

Bordo evidenzia come, nelle società occidentali a capitalismo avanzato, il corpo femminile sia al centro di dispositivi simbolici e materiali di potere, che ne condizionano l’esistenza. Le immagini veicolate dai media – pubblicità, televisione, cinema, moda, web – costituiscono un vero e proprio regime visivo disciplinante, capace, cioè, di produrre modelli di bellezza, magrezza e perfezione, che vengono interiorizzati dagli individui e dalle donne in particolare, agendo come imperativi morali più che estetici. In questo contesto, la magrezza non è più una semplice preferenza fisica: essa diventa piuttosto una categoria etica, un criterio di autovalutazione, una modalità di appartenenza sociale.

Non sorprende, quindi, che l’Anoressia nervosa sia oggi diffusa in misura significativa tra le donne dei Paesi occidentali. Secondo gli studi più recenti, infatti, la percentuale di donne affette da Anoressia nervosa varia dallo 0,9% al 4,3%, con punte che arrivano fino al 6,3% tra le giovani adulte, a seconda dei criteri diagnostici adottati (DSM-5) e del contesto analizzato[1]. Tali percentuali, apparentemente contenute dal punto di vista numerico, corrispondono a milioni d’individui; ciò ne fa un problema sociale strutturale.

Il riferimento al pensiero di Michel Foucault permette di comprendere ulteriormente la natura di questi meccanismi. Il potere, difatti, nel biocapitalismo non si esercita più in forma verticale e repressiva, ma si diffonde capillarmente attraverso dispositivi tecnologici, pratiche discorsive e forme di autogestione dell’esistenza. In questa prospettiva, l’Anoressia può essere letta come una forma di assoggettamento volontario: la donna si sottomette alle regole del potere senza coercizione diretta, ma attraverso la progressiva interiorizzazione dei valori imposti dalla società in cui vive.

Il corpo anoressico si presenta, così, come luogo di una soggettivazione alienante. L’ossessione per il controllo, la restrizione calorica, l’esercizio fisico estenuante e la negazione della fame si configurano come modalità disciplinari attraverso cui il soggetto tenta di raggiungere l’ideale normativo della magrezza assoluta e della bellezza femminile promossa dai media. Questo modello, apparentemente individuale, è in realtà il prodotto di una logica collettiva di controllo, che esclude le donne dalla dimensione politica, pubblica e decisionale, per relegarle nella cura del corpo e nella riproduzione dei canoni estetici dominanti. In tal senso, i DCA non possono essere compresi unicamente attraverso categorie psicologiche o sociologiche. Essi chiamano piuttosto in causa una dimensione ontologica e simbolica: il corpo che si affama e si consuma è spesso l’unico linguaggio possibile attraverso cui il soggetto femminile esprime un dolore muto, invisibile, e che chiede riconoscimento. La ferita autoinflitta diventa perciò un atto comunicativo estremo, un tentativo di uscire dall’anonimato imposto da una società che trasforma l’identità in merce e la soggettività in performance.

In questa cornice, la fame torna a occupare un ruolo centrale nelle società opulente. Donne benestanti scelgono – o sono spinte a scegliere – di patire la fame, non per mancanza di risorse, ma per conformarsi a un modello di bellezza che, in realtà, cela una volontà di potere e annientamento dell’individuo. Il controllo del cibo e del corpo diventa pertanto un dispositivo biopolitico di controllo sociale, che impone autodisciplina, rinuncia, docilità e conformismo come criteri di legittimazione esistenziale.

L’Anoressia -alla luce di quanto sostenuto sin qui- non è dunque solo una psicopatologia, ma un sintomo politico: essa manifesta, nel corpo, le contraddizioni di un sistema che produce soggettività obbedienti e corpi plastici, privati di unicità, autonomia di pensiero e progettualità. La logica tanatopolitica del biocapitalismo contemporaneo si altresì rivela nell’economia simbolica della magrezza: un modello in apparenza estetico che, in realtà, produce esclusione, sofferenza e autoannientamento. L’interiorizzazione d’ideali irraggiungibili e il rifiuto del sé corporeo sono infatti effetti diretti di un dispositivo di potere che si legittima tramite la seduzione, non più tramite la coercizione, poiché promette alle donne che, se raggiungeranno il modello promosso dal sistema sociale e mass-mediatico, saranno finalmente riconosciute e realizzate.

Potremmo dunque sostenere che i DCA rappresentano una forma di resistenza rovesciata: nel tentativo estremo di controllo, il soggetto femminile denuncia involontariamente la disfunzionalità del sistema in cui è immerso. Ed è proprio in questo paradosso – tra ribellione e assoggettamento – che si manifesta la natura profondamente politica della sofferenza femminile contemporanea.

L’anoressia nervosa, pertanto, al pari degli altri disturbi del comportamento alimentare, non può più essere interpretata esclusivamente alla luce di fattori clinici o psicologici individuali. Essa rappresenta, piuttosto, la manifestazione estrema di un dispositivo di potere che, agendo nel cuore delle società occidentali tardo-capitaliste, plasma le soggettività femminili attraverso l’illusione dell’autodeterminazione. Tant’è che nel corpo che si assottiglia fino a sparire, s’inscrive la traccia visibile di un consenso costruito, non imposto. Un consenso ottenuto attraverso la seduzione estetica, la normatività dell’immagine, l’autodisciplina elevata a virtù. È qui che il biocapitalismo contemporaneo raggiunge la sua massima efficienza: allorché la vittima si fa carnefice di se stessa, in nome di un ideale che non le appartiene. Pertanto, se la magrezza è oggi il sigillo simbolico dell’accettabilità sociale femminile, l’Anoressia diventa il volto tragico di una cultura che riduce la donna a corpo sessualizzato, il corpo a merce, e la libertà a performance. Denunciare questa dinamica significa non solo restituire dignità alla sofferenza silenziata di milioni di donne, ma anche smascherare il volto più raffinato – e perverso – del potere contemporaneo: quello che si nasconde dietro alle immagini, ai desideri indotti, e alla libertà apparente di scegliere di scomparire.

Bibliografia essenziale:

Bordo, S., Unbearable Weight: Feminism, Western Culture, and the Body, University of California Press, Usa 1997

Orbach, S., Fat is a Feminist Issue, Arrow Books, London 1978

Bartky, S. L., Femininity and Domination: Studies in the Phenomenology of Oppression, Routledge, New York 1990

Foucault, M., Surveiller et punir. Naissance de la prison, Gallimard, Paris 1975

Foucault, M., Histoire de la sexualité I: La volonté de savoir, Gallimard, Paris 1976

Agamben, G., Homo Sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino 1995

Baudrillard, J., La société de consommation, Denoël, Paris 1970

Gill, R., Gender and the Media, Cambridge Polity Press, Usa 2007

*

Note

[1] I dati riportati sono stati elaborati dall’Istituto Superiore di Sanità, nello specifico, sempre ricorrendo a tale fonte, si evince che, In Italia, vi è una presenza di Anoressia nervosa femminile pari allo 0,2% e lo 0,8% e di Bulimia pari all’1-5%, in linea con i dati forniti dagli altri paesi. Una ricerca condotta su un campione complessivo di 770 persone di età media di 25 anni, tutte diagnosticate con disordini alimentari e che si sono rivolte alla “Associazione per lo studio e la ricerca sull’anoressia, la bulimia, i disordini alimentari e l’obesità” a Roma e Milano, presieduta dalla dottoressa Anna Maria Speranza, ha rilevato una percentuale del 70,3% di Bulimia nervosa, il 23,4% di Anoressia nervosa, il 6.3% di “disturbi alimentari non altrimenti specificati” o di altra condizione, perlopiù corrispondente a obesità. Nel campione analizzato, la data di esordio del disturbo è mediamente tra i 15 e i 18 anni, con due picchi (15 e 18 anni), età che rappresentano due periodi evolutivi significativi, quello della pubertà e quello della cosiddetta autonomia, o passaggio alla fase adulta, che sono stati rilevati anche in molti altri studi sul tema.

Il club del lettore: Enzensberger, Pintor, Susani

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New York Public Library Archives, The New York Public Library. "Books discharged here, Books charged here" The New York Public Library Digital Collections. 1875. https://digitalcollections.nypl.org/items/b5def120-c5b2-012f-2487-58d385a7bc34
New York Public Library Archives, The New York Public Library. “Books discharged here, Books charged here” The New York Public Library Digital Collections. 1875. https://digitalcollections.nypl.org/items/b5def120-c5b2-012f-2487-58d385a7bc34

di Davide Orecchio

Diceva il saggio: “I refuse to join any club that would have me as a member”. Ma questo club di lettura ha un solo membro, e mi tocca accettarlo. È lui a dettare le regole riguardo la scelta dei libri dei quali brevemente e intempestivamente (una volta al mese… una volta all’anno…) parlare; e non è detto che siano freschi di stampa.

Hans Magnus Enzensberger
La breve estate dell’anarchia. Vita e morte di Buenaventura Durruti (1971), Feltrinelli 1973 (e varie, altre edizioni)

Un classico che volevo leggere da anni ma è stato un programma radio dedicato a Goffredo Fofi, dopo la sua morte, a ricordarmi di farlo. Fofi si lasciò ispirare dal saggio narrativo di Enzensberger e ne adottò il metodo in L’avventurosa storia del cinema italiano. In effetti Enzensberger è un maestro (anche) di un genere, la letteratura documentale, il racconto della Storia attraverso tessere, testimonianze, materiali editi, interviste, che trova un pilastro in questo ritratto dell’eroe anarchico spagnolo Durruti: la sua vita e morte raccontate da una miriade di voci. Se le fonti sono per forza datate, quel metodo è ancora esemplare, e molti anni dopo Enzensberger l’avrebbe replicato in Hammerstein oder Der Eigensinn (2009). Non solo una grande lettura, ma un manuale di scrittura.

Luigi Pintor
La vita indocile (2015), Bollati Boringhieri 2025

Dieci anni fa l’editore raccolse in un solo volume le prose autobiografiche del fondatore del manifesto, da Servabo (1991) a I luoghi del delitto (2003). Una lunga vita attraverso la guerra, la Resistenza, il comunismo, la politica, il giornalismo, le passioni e i lutti del privato, ma raccontata in levare, senza fare un solo nome. Un resoconto per allusioni. Ora, nel centenario​​​ della nascita di Pintor, il volume torna in una nuova edizione. Sulla rarefazione e l’ellissi della prosa autobiografica in Pintor proverò a ragionare ancora, con più spazio e tempo, qui o altrove, perché l’opera mi sembra storicamente, e non solo letterariamente, cruciale. Se ci pensate bene, questo libro è un extraterrestre. Lo è in quanto memoria comunista, sin dal primo momento in cui è uscita negli anni Novanta. I comunisti hanno molto frequentato il genere autobiografico, credo mossi dalla convinzione di essere protagonisti della Storia, anzi portati e portatori di Storia, quindi una storia da esporre, e facendo tutti i nomi, indicando le date, raccontandola tutta. L’operazione di Pintor è opposta e quindi, ancora oggi, perturbante e misteriosa. Ma l’extraterrestre parla anche all’autobiografismo e all’autofiction di questi anni, e oppone l’argomento del proprio pudore. Guardando nello specchio di questa scrittura molti autori potrebbero verificare la propria.

Carola Susani
Il dio delle genti, minimum fax 2025

A proposito di extraterrestri, Susani conclude la trilogia nella quale appare sempre il misterioso Italo Orlando con un affascinante romanzo (non il suo primo di questo genere) scritto dal punto di vista dei bambini, o meglio di una bambina che poi diventa ragazza e che racconta (rievoca) una storia sì di bambini (le vittime) ma anche di adulti (gli assassini). Un terremoto, il crollo di una palestra, il cemento mescolato alla sabbia, la morte di molti ragazzini… Non c’è nulla che si possa davvero spiegare. Come se questo Paese, con le sue storie, avesse un fondo, una feccia, inesplicabile. Se costruisci un edificio sulla sabbia, e condanni a morte i tuoi stessi figli, sarai per sempre un enigma, e solo una fiaba potrà raccontarti, e solo la presenza fantasmatica di una creatura extraterrestre potrà illuminare la tua oscurità. È un libro profondamente italiano. “Attaccati ai miei capelli, i bambini morti pendevano, tutti in fibrillazione”.

Le parole “mondo” dei Greci

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ph. Josef Koudelka, Grecia, Tempio di Poseidone

 

ph. Josef Koudelka, Grecia, Tempio di Poseidone

 

di Neil Novello

Noi ritorniamo da dove siamo venuti. L’adagio figura due immagini di un medesimo fenomeno culturale. Anzitutto narra che la «parola», la vivente parola greca, allo scopo di fondarla risale la via della cultura occidentale. E racconta che la stessa parola, ogni qual volta è richiamata in altra lingua da sé, emana un riverbero orientato verso la sua origine naturale. Da una tale parola, che viene dal mondo greco e al mondo greco ritorna, siamo tutti abitati. Soprattutto, la greca è incarnata in noi. Ne siamo posseduti perché è il codice culturale della nostra civiltà, il nome stesso della nostra esistenza quotidiana. Chi allora voglia riandare al suo «cuore» ripercorrendo la virtuosa selezione operata da Giulio Guidorizzi nel Lessico dei Greci (Raffaello Cortina, 2025), in un minimo vocabolario di trenta lemmi, ritorna appunto dove tutto è iniziato, nel luogo in cui nasce la cognizione di occidente.

L’origine, o meglio il nome proprio del nulla prima di ogni evidenza, per la mitologia greca, non per la ionica filosofia presocratica di Talete, Anassimene e Anassimandro, è il cháos. Esso è il primordiale vuoto, l’abissale nulla dell’universo. Qui il silenzio coabita con l’idea stessa di assenza. In tale mancanza, si edifica la realtà mitologica greca. E appare, quale originaria presenza nell’assoluta vuotezza del cháos, già qualcosa di più umano. In origine, il mito è un momento vitale che irrompe e genera un atto di fondazione, di pienezza: Éros. Non si può donare forma di creazione senza l’empito di un’erotica. Anzi, in essa si identifica la fondamentale legge di ogni nascita, così nella storia dell’uomo come nella mitologia primordiale. Appartiene dunque alla storia erotica dell’inizio la vicenda mitologica di Gea, la terra, e Urano, il cielo. Qui la Terra è contenuta in un resto di mondo: la totalità del Cielo. Così il loro amplesso, l’amore desiderante tra il Cielo e la Terra, sarebbe stato eterno se proprio un figlio della Terra, Crono, il Tempo, come racconta Esiodo nella Teogonia, non avesse evirato e dunque estinto la brama erotica del padre. Le «forze primordiali», dunque. E il lessico relativo al mito delle origini. Perché la Grecia, il suo sostrato magico-religioso, ciò che dà luogo a una siffatta visione del mondo, sta nel nome, nella cognizione di inizio.

Dopo il cosmo, viene l’uomo. Così dopo il mýthos viene il lógos. La parte del Lessico riguardante l’«io interiore» è un cammino tra quattro meravigliose parole: psyché, enthousiasmós, manía, óneiros. E psyché, che si può tradurre con la parola anima, richiama un celebre frammento di Eraclito: «Per quanto tu cammini per ogni via, i confini dell’anima non li troverai». L’anima allora sconfina. È la sua natura sia interiore sia esteriore che la fa essere quella che è, anima appunto. Dalla Grecia omerico-arcaica, quella studiata da Gilbert Murray ne Le origini dell’Epica greca, fino al Fedone platonico, a maturare è dunque la cognizione di «vita interiore», qualcosa che con l’anima richiama l’identità «spirituale» dell’uomo. Anzi, a leggere La cultura greca e le origini del pensiero europeo di Bruno Snell, il luogo culturale in cui lo spirito inizia a manifestarsi è la tragedia di Eschilo, il luogo di incontro di due diverse idee dell’infinito, il mitologico e la scoperta dell’interiorità. Così la parola enthousiasmós ci giunge come la reale testimonianza, l’effetto di un fenomeno che si produce propriamente a livello dell’anima. Un «dio entra nel loro corpo» scrive Guidorizzi a proposito delle baccanti del Coro nella tragedia di Euripide. Qui troviamo la radice interiore dell’enthousiasmós, un’essenza divina che viene a risvegliare l’essere, a proiettarlo nel suo stesso infinito. E così si è éntheos, si è in Dio, ciò che nella poesia occidentale durerà fino all’indiarsi di Dante nel Paradiso. L’iniziazione ai Misteri (eleusini, orfici ecc.), con l’obbligato e particolare riferimento ai Misteri dionisiaci, nella Grecia antica traccia dunque la via all’esperienza estatica dell’enthousiasmós. È la via a una condizione di divinità umana. Pure però un’incursione nelle più remote tra le terre ontologiche. La parola greca si presta così a sconfinamenti, deviazioni ed elevamenti, poiché si defila dai centri correnti del significato conquistando inediti spazi immaginari. In tale maniera, si disancora e diverge seguendo alternativi meridiani di senso.

Della «vita interiore» dell’uomo, anzi quale sua espressione perturbante, è anche la manía. Se è vero che Dioniso figura l’anello di congiunzione tra l’«annientamento» e la «rinascita», la parte più catastrofica del dionisiaco richiama l’immagine della «follia» come caduta. Nel Fedro di Platone, una particolare interpretazione della «follia» riguarda il cosiddetto «divino straniamento». La condizione folle, oltre a essere una malattia, è anche qualcosa di più, è essere appunto éntheos perché la manía, lo stato di iniziatica follia, equivale, in termini moderni, a un dérèglement de tous les sens. Non si tratta di afferrare un’idea di deragliamento verso l’astrazione. La parola qui esperisce l’universale perché esprime e rivela un’occulta profondità di mondo.

L’uomo greco, pensatore dell’origine, è anche un infaticabile indagatore del limite. Il luogo di massima attrazione, sia che l’indagine riguardi il mondo materiale o l’immateriale, richiama la forza più dirompente, più annientante della vita: il destino. E nel destino, nel Fato, è inscritto il futuro, proprio il tema del vissuto quando esso balena, come peraltro insegna Eric Dodds ne I Greci e l’irrazionale, nei sogni notturni. L’esperienza onirica greca equivale a un «oracolo personale». Esso richiama un tópos della spiritualità ellenica, la passione consapevole per ciò che viene. Così conoscere il tempo futuro è divinarlo, come si legge nella tradizione greca in Artemidoro, mentre in Aristotele il sogno notturno appare un’entità inattingibile, isolata nella sua realtà fenomenica.

La parola greca ammette una cognizione dell’aperto, anche quando la parola è pólis, la città. Con Díke e nómos, la giustizia e la legge, l’interiore conosce l’esteriore, e la città si salda al più profondo spirito greco. Díke non è la mera giustizia della legge. Un’idea interna alla civiltà greca, già presente in Omero e ancora più in Esiodo, anzitutto la interpreta come legge non scritta. Essa non rinvia solamente al qui e ora. Va al di là di sé stessa. Díke può vendicare l’ingiustizia, può esercitare un’occulta violenza quando il colpevole, l’ingiusto, si macchia di hýbris, di tracotanza. Ciò perché lo stato di colpa (anche se colpevole e colpa non sono nozioni pertinenti), volontario o involontario che esso sia, sta nel non aver addomesticato la violenza della pulsione. Il nome della trasgressione è áte:

Áte è un meccanismo autodistruttivo che opera inibendo la normale lucidità di giudizio e destrutturando gli schemi di pensiero e i codici di comportamento che rendono possibile una corretta vita di relazione. Chi è vittima di áte smarrisce la mente, e lo smarrimento è una forma provvisoria di perdita di coscienza.

L’identità etico-religiosa di áte, che dunque è un formidabile alleato della hýbris, poiché spesso l’invalicabile limite che determina la colpa di hýbris è proprio áte a infrangerlo («Áte porta a hýbris»), di áte come smarrimento della facoltà razionale, evoca, per così dire, un antidoto al suo demoniaco, incontrollabile innesco. Nel Paradiso perduto di Milton, Lucifero esemplifica la colpa di áte. Più in generale, qui si può risalire ad Anassimandro, al suo celebre frammento (nella traduzione di Giannantoni):

Da dove infatti gli esseri hanno l’origine, ivi hanno anche la distruzione secondo necessità, poiché essi pagano l’uno all’altro la pena e l’espiazione dell’ingiustizia secondo l’ordine del tempo.

L’idea di díke, come il suo opposto, l’adikίa, ingiustizia, si salda all’idea di thymós come luogo in cui alberga una nuova cognizione. Guidorizzi parla della «consapevolezza di un sistema pubblico di valori», qualcosa di determinato, necessario a controllare l’indeterminato. Ora il tratto comportamentale che separa l’uomo dal commettere hýbris senz’altro è il controllo, la repressione di áte. L’originario antidoto al tremendo accecamento viene proprio da díke e dalla sua coscienza culturale: nómos, la legge. A un primo grado di lettura, l’interpretazione originaria del nómos non riguarda propriamente la legge scritta ma qualcosa che somiglia ai nómina di Antigone nella tragedia sofoclea. Più che altro, esso è un tópos che richiama il sentimento di appartenenza dell’individuo alla comunità (il retroterra della politiké). È la nozione di politiké, concepita come categoria culturale, a proiettarsi nella legge, in un orizzonte in cui la grecità sembra transitare dall’umanità all’uomo, dal singolo (eroe, agonista…) all’idea di comunità democratica.

Anche nel sacro ritroviamo l’identità aperta della parola greca. La móira figura una potenza superiore, perché superiore è la stessa forza degli dèi: móira è il destino. Se essa figura la parte di ciascuno nella vita (parte di ricchezza, parte di gioia, parte di dolore…), móira è anche la parte di vita, la parte di tempo vitale. Accettarla significa compiersi in un destino terreno.

I Greci usano parole anche per fissare la forma dell’essere in azione. La parola ménos indica un semplice aumento di vitalità. Nel mondo omerico fatto di dèi ed eroi, di sovrannaturale e sovrumano, la superumanità eroica appare un tangibile effetto della volontà divina. Proprio come il kýdos, qualcosa di più del ménos. L’eroe che ne è insufflato è istantaneamente ammantato, non di una maggiore vitalità, ma addirittura di un’«aura di invincibilità». Achille, come scrive Jakob Burckhardt in Storia della civiltà greca, è il suo archetipo. E a proposito di Omero, il mondo epico-eroico esprime altri due modelli culturali: il kléos e l’aidós, la gloria e il suo contrario, la vergogna di non essere gloriosi. Una proiezione del kléos, una sua traslazione in ambito sportivo, come ricorda Burkhardt è la cultura della vittoria nell’agón olimpico. A Olimpia, attraverso la prova agonistica, l’atleta partecipa per sconfiggere l’avversario, per primeggiare come un eroe omerico. E l’agonismo olimpico è solo un aspetto di quell’umanità agonale, centrale nella poesia di Pindaro, che riguarda lo spirito greco fino alla fine del VI secolo a. C., spirito che riveste un significato esemplare nell’intera civiltà occidentale.

La parola greca incarna lo spirito greco. La sua ampiezza di significato rimanda a un’origine culturale in cui è possibile cogliere la profondità del mondo, il mondo fisico e il metafisico. E ciò sia nel reale spazio della vita umana sia nel campo della speculazione più immaginaria.

 

Il giovane, la manifestazione e il futuro (opinioni di un disadattato)

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di Giorgio Mascitelli

Tra tutti gli scrittori che in Italia contribuiscono a costruire la narrazione attuale dominante, insomma quella che nel Novecento si sarebbe chiamata ideologia, il più abile e il più intelligente, spregiudicato solo per quel che serve senza cedere in nulla alla vanità, è Alessandro Baricco. Lo avevo già notato ai tempi delle vaccinazioni per il covid, quando aveva ricordato, unico tra i commentatori main stream, che criminalizzare una minoranza che non si vaccinava, per paure superstiziose o per motivi di altro genere, non era utile sul piano sanitario e in compenso avrebbe prodotto una scia di rancore, ma lo conferma con il suo intervento sulle manifestazioni per Gaza (si può leggere qui: https://www.repubblica.it/cultura/2025/10/09/news/alessandro_baricco_l_addio_al_novecento_dei_ragazzi_nelle_piazze-424900624/?ref=RHLF-BG-P1-S1-T1-s367). Infatti negli stessi giorni in cui assistiamo al linciaggio mediatico di Francesca Albanese, colpevole di lesa maestà per aver detto che le argomentazioni della senatrice Segre su Gaza sono inconsistenti, a interventi di autorevoli commentatori che, compunti con il ditino alzato, spiegano che il milione di persone che ha partecipato alla manifestazione di Roma sostiene Hamas perché dieci persone hanno gridato delle sciocchezze, e al tintinnare per i manifestanti di manette, promesse e mantenute, Baricco constata  che queste manifestazioni erano inevitabili perché su Gaza per la sensibilità giovanile si è andato oltre. Dunque queste manifestazioni non sarebbero politiche, ma rappresentano l’addio dei giovani a un modo novecentesco che sta tirando gli ultimi colpi di coda, e qui Baricco è particolarmente abile perché in realtà non è specificato esattamente in cosa consista il novecentismo di Gaza (certo le violenze israeliane, ma anche i concetti di colonialismo e imperialismo che ci servono per analizzare quelle violenze), alla fine tutto diventa novecentesco e quindi da buttare via. Si tratterebbe quindi per i giovani di buttare via definitivamente quel mondo, come se potessero decidere da soli, come se non ci fosse un potere politico economico che decide per loro, per tornare al loro mondo libero, iperconnesso e gamificato della globalizzazione, sbarazzatesi di queste scorie. Credo che in Baricco operi anche una preoccupazione specifica legata alla sua iniziativa della scuola Holden perché con sensibilità si rende conto che queste manifestazioni di Gaza sviluppano un immaginario giovanile non governabile con le narrazioni holdeniane (ed ecco perché le critiche alle narrazioni belliciste dell’apparato mediatico ufficiale).

Ora non credo che occorra l’intelligenza comunicativa di Baricco per comprendere che le narrazioni belliciste e nazionaliste sono perdenti e che sarebbe auspicabile averne una più accattivante, penso che qualsiasi operatore mediatico lo sappia. Il problema è che le narrazioni belliciste si sviluppano perché siamo in un tempo di guerra: per esempio la nuova UE a trazione polacca che si va costruendo sotto i nostri occhi non ha come epicentro l’euro, ma il riarmo e in prospettiva la guerra e, se anche la Germania vorrà riprenderne il controllo, lo farà in questa direzione. A sua volta la guerra è arrivata alle nostre porte perché quello straordinario periodo pacifico della globalizzazione, a sua volta, era un periodo in cui le guerre semplicemente avvenivano lontano (non necessariamente in senso geografico, basti pensare a quella del Kosovo, ma in senso semiotico, lambivano l’immaginario perché al massimo ci indignavano ma non ci coinvolgevano sentendoci, erroneamente, in pace) perché l’Europa stata spendendo i soldi che aveva accumulato durante il cattivo Novecento e, circolando qui ancora i soldi, non c’era ragione di guerra.

Il movimento per Gaza non ha nessuna prospettiva politica, se intendiamo questa cosa nell’accezione novecentesca: infatti il movimento non ha nessuna sponda politica con cui incidere nelle scelte. Chi dovrebbe essere questa sponda? Il centrosinistra con metà dei suoi rappresentanti che su Gaza hanno su per giù le stesse posizioni di Meloni? Non so se mi trattenga il riso o la pietà dal commentare questa prospettiva. Ma proprio questa frustrazione svilupperà consapevolezza e quindi politicizzazione. Infatti Gaza non è solo Gaza, un posto lontano che subisce un tormento inaccettabile contro cui protestare, Gaza per i giovani è l’ingiustizia assoluta che illumina e dà un nome a tutte quelle ingiustizie minori che caratterizzano la loro vita e che in una cultura gamificata non possono avere nome. Cip, cip fa il passero e il poeta traduce “quel prodigio della vostra società. Fuori cemento armato e dentro frolle ossa”.

 

 

Da “Esempi del dominio”

1

[Questi testi sono una selezione di “Esempi del Dominio”, silloge in uscita nel XVII quaderno di poesia di Marcos y Marcos.]

di Giuseppe Nibali

 

 

È in noi che cresce il male

non negli altri che passano la strada e dalla piazza

fino al tram malgrado questo vivere vivono si baciano scopano

solo in noi. E io mi vedo nel fuoco, guardo il corpo che si fa gas

e fiamma che lo irrora, il calcificarsi vedo dell’ascesso nel nero.

Nel fondo troverete il buio, nel buio troverete

gli òmeri, le tibie. Passateci sopra, rompetele

ascoltate il loro canto di coleottero.

*

 

In banchi ci muoviamo nel buio quando salgono

il primo e il secondo, il primo dietro al secondo

e questo che dice io sterza

e l’altro che dice io prosegue.

Stiamo andando verso un punto preciso

vogliamo trovare la foce, risalire verso

il tetto del dove siamo eppure quando

cambiano il primo e il secondo è la vita

nuova per tutti quelli che dicono io.

Una moltitudine ci sembra da dove

possa farsi buono il mondo

possa ricostituirsi il dominio.

*

 

Baracche e alloggi provvisori cambiano

Viale Argonne, Ronchetto, Baggio, Pero.

Dobbiamo avere una grande pazienza, legarci alla base

dobbiamo mettere per iscritto gli accordi.

Razionare: pane secco, un pezzo di piattone

conservato nella tasca del giubbotto.

Alle suole il pianeta è morto, spuntano

i cervi, due maschi adulti, le loro bocche, la pelle

spaventata dai boati si contrae.

Poi ci sono i corpi contro i marciapiedi

abbiamo risposto con quindici mila uomini,

diciassette divisioni. Dobbiamo militarizzarci

diventare indigesti, diventare i nemici,

ci chiameranno violenti e per questo

ci schiacceranno i crani. Chi sopravvive

sarà un muscolo umano senza un corpo

che lo muova. Qualche scossa elettrica.

Poche.

*

 

Ci hanno convocati per vedere il corpo

per guardare le mani la stazza

capire cosa fosse un cadavere quanta vita

quanta forza lo attraversassero.

La pallottola ha colpito l’òmero e si è bloccata

l’altra ha squarciato vetri e plastiche

ficcandosi in cuore, una femmina ha tolto

il lenzuolo ha mostrato i tagli simili a ustioni

Sembrava un pullo, era morto il giorno

prima ma è servito un lungo viaggio per trovarlo

così i viventi lì convocati abbiamo preso a oscillare

ne è nato un pianto breve poi hanno richiuso

su di lui il lenzuolo, alto fino alla fronte.

*

 

 

Cresce nel mio stomaco, si allarga, di notte lo sento

che fa i versi come di un pappagallo che in gabbia

col becco provi a rigare i ferri che lo stringono.

Ne avevo uno, Melopsittacus Undulatus un evidenziatore

azzurro sopra un trespolo e ogni notte gli accendevo

la luce della stanza perché mi pareva fosse morto

e ogni notte lui era più spaventato e io più spaventato

ancora che morisse.

*

 

Il sito è stato preso dagli animali

ne arrivano di nuovi ogni giorno:

lontre passere mattugie cardellini,

i tulipani ospitano api, vespe,

si avvicinano alle rocce nelle caverne

i chirotteri, anofeli riempiono il laghetto

oche dall’Inghilterra poi lupi alci

e più verso il sarcofago hanno avvistato i bisonti.

Controllano sotto il becco dei passeriformi,

gli uomini del parco, nessuno uguale all’altro

ogni animale qui è sempre uno soltanto

differente, distinto dalla specie.

*

 

Immagine: Ettore Sottsass, da “Metafore” (1972-1979)

➨ AzioneAtzeni – Discanto Sesto: Giovanni Dettori

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Che Otis sia poeta non c’è dubbio, ecco i motivi:

Se lo incontravi e dicevi: — Buongiorno rispondeva: — Mare e monti o — Città e sottoscala, a seconda se quel giorno gli eri simpatico oppure no.

  dalla poesia XXI, in Sergio Atzeni, Due colori esistono al mondo Il verde è il secondo    

Otis di Giovanni Dettori

    per Sergio   Atzeni  

Nao me podia a Sorte dar guarida por nao ser eu dos seus. assim vivi, assim morri, a vida, calmo sob mudos céus, fiel à palavra dada e à ideia tida. Tudo mais è com Deus !

Fernando Pessoa, Mensagem.
… la poesia a che serve  - dicevi –
ti pare
siano domande da fare   la poesia
non serve a nulla  la coperta
non la rimbocca a nessuno  e i conti
forse ignara di libretti bancari
non sa farli levitare
                                  
se  allora la poesia  in due parole
ancora meno è
strumento di scasso  aggeggio  servo
fosse anche un servosterzo che  qualche volta  serve
solo a farti perdere la strada
correggendo direzione alla domanda
ecco
la poesia cosa è   come accade

accade  per esempio  diserti
un cavaliere d’industria o che so io
certo sempre del giorno e dell’ora
giocando borsa  mercato  finanza  
a profanare le stelle                          

e può accadere  - come a certe donne -
gratuita
puttana di rispetto
si conceda  a caso  nella notte  
a un marinaio sconosciuto che scova  alla fonda
tra misure vuote e misture
fumo e carte a chiudere angoli amari
a riempire la sera 
e a volte stringa dentro bettole e trivi
lacci che durano nel tempo 
                                     
                                        …  l’uomo
s’imbarca nelle stive della notte 
riveste  
        tutti i colori della pelle del mondo … 

memoria dei valori del vento
provenienza e nodi
da dove levante e vento córso
se dopo il vento ci sarà bufera
quanto forte e dura
come nelle infanzie   avere il tempo  
di pensare il vento
ancora prima che il cielo si spalanchi
ancora prima che la brina geli
che l’albero esploda

… o pensare l’onda
forza e urto del mare …

                                           poesia è  allora  
questo accadere che non serve
nelle manovre della vita a nulla

                                         - fuori intanto leva l’ancora la notte 
                                           anici e vino                                          
                                           stazioni e porti
                                           entrare e uscire
                                           ristagnare e passare
                                           dentro muri  fumo voci gutturali … -

serve a nulla  e pure
tutte le volte che questo fare puttanesco accade 
fra trivi e angiporti
quel marinaio sconosciuto in cuore suo
celebrando
accoglie la poesia
grazia  notturna  preghiera di silenzio
nessuno che li senta

        
  serve a nulla  - ripetevi  -

Lui
soltanto Lui - il Signore! ... – che nel morire
distrusse la morte in questi luoghi
restituisce poesia a ogni giorno    
diverso  identico che muore


                                                           … e Tu
tu
cuore africano  danzatore
delle stelle  a chi mai 
sarai utile   ora
ombra distaccata dalla terra   cosa
in questo sempre mancarti
vorrai 
mai celebrare
in questo a sempre sottrarti   fratello di
passo  uccello migratore 
che fino al limite  allo scoglio  all’onda
fino a quel dato punto e mai più oltre
mai più oltre
hai potuto procedere  al mio fianco

e divisi
ora   separati     andando
per Mai-Più   Mai-Dove
vedersi in questa terra
per Mai-Oltre trovarsi

… o 
non è anche questa  - questa tua  -
poesia che servendo  a nulla  
fessura   varco   assenza    pure
tuttavia resiste
tuttavia  senza più essere  sta
come ciottolo  pietra
come solo la pietra sa stare

… nostro mai trovarsi  - pure  siamo ancora
siamo stati?   uno qua uno là forse altrimenti 
diversamente viviamo –
oltre il Momento  
oltre il Punto dello Spazio-Tempo
orizzonte dell’Evento  oltre il quale
sempre in forse 
                                   l’Ombra …
Nota dell’autore
carissimi,
sempre  un ben ritrovarsi, nonostante  le assenze che dolgono… Nessuno ha mai scritto.. inventato  ecc., se non per uscire di fatto dall’inferno (Artaud). Sergio e Marc avevano tentato questa fuga.
In allegato, vi faccio avere “Otis” , stampata da la Passe du vent e letta a Lione con Marc nel 2005. Sono scivolati vent’anni. Il titolo riprende la poesia XXI del poemetto di Sergio “mi basta saper suonare a malapena una tarantella”…Otis è pianista e cantante, come tutti sanno, eccetera. Spero che testo e traduzione rispondano a quanto desideriate.
Buona fatica,
Giovanni
Verrua s., 20 settembre 2025
     

* Azione Atzeni- mode d’emploi

di

Gigliola Sulis e Francesco Forlani

‘E scoprirai quello che resta di un uomo, dopo la sua morte, nella memoria e nelle parole altrui’. Sergio Atzeni, Il figlio di Bakunìn Il 6 settembre del 1995, inghiottito dal mare come l’amato Fleba il Fenicio, Sergio Atzeni perdeva la vita nelle acque dell’isola di Carloforte. Sardo, appena quarantenne, era stato militante comunista, anarchico leader studentesco, impiegato insoddisfatto, sindacalista, pubblicista. Dopo la fuga dall’isola, tra l’Emilia e Torino, divenne correttore di bozze, lettore di manoscritti per case editrici, sontuoso traduttore – un testo su tutti: Texaco di Patrick Chamoiseau. Per tutta la vita fu intellettuale rigoroso, poeta e scrittore immaginifico, autore di romanzi-mondo come Apologo del giudice bandito, Il figlio di Bakunìn, Il quinto passo è l’addio, Passavamo sulla terra leggeri, e di una cascata di racconti tra cui Il demonio è cane bianco, I sogni della città bianca, e Bellas mariposas. Come nel Figlio di Bakunìn, pensando oggi a Sergio, ci chiediamo: che cosa resta di uno scrittore, dopo la sua morte, nella memoria e nelle parole altrui? Per rispondere a questa domanda, abbiamo invitato degli autori legati all’opera di Atzeni a dare nuova vita ai personaggi o ai luoghi o alle atmosfere della sua opera. Interpretando, riscrivendo, stravolgendo creativamente, in totale libertà. Un coro di voci diverse per una raccolta di racconti brevi, una rifrazione e moltiplicazione di frammenti post-atzeniani. Assolutamente vietata l’agiografia, e ‘massima penalità per chi si prende troppo sul serio’, come scriveva Sergio in uno dei suoi ultimi articoli per “L’ Unione Sarda”. Nasce così il gioco del discanto*, da intendere sia come far decantare delle buone pagine in nuove storie sia come costruzione di voci in forma di polifonia medievale. * Francesco Forlani ‘Nella Sardegna magica in cerca di Sergio Atzeni, “Reportage”, n.10, 2012, ripreso nel 2017 da Minima Moralia Gigliola Sulis, Chi era Sergio Atzeni?’, “Le parole e le cose”, 22 novembre 2012

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«La papera» – Elio Pecora riscrive Giambattista Basile

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Giambattista Basile

Nota

Per gentile concessione dell’editore, pubblico una fiaba da Elio Pecora riscrive Giambattista Basile, Lo cunto de li cunti, Bibliotheka Edizioni, 2025.

Scrive Pecora nella sua Avvertenza al volume: “Nel 2003 pubblicai, nelle edizioni Mondadori, una mia riscrizione di venticinque racconti da Lu cunto de li cunti di Giovan Battista Basile. Negli anni successivi, più volte, mi sono promesso di completare l’impresa e, nella scorsa primavera, la spinta mi è venuta dalla mia amica Daniela Marcheschi e dagli editori di Bibliotheka. Così ho trascorso l’estate e l’autunno dedicandomi interamente a quel libro mirabile che, in una lingua colma di umori e di invenzioni, attrae ed esalta, consola e atterrisce per un gioco inesauribile. Vale qui far chiaro sui limiti e le finalità che mi sono posti. Non sono poche le traduzioni-riscritture del Pentamerone: tutte più che doviziose di note e di annotazioni, tutte filologicamente accorte. Non potevo e non volevo competere con quei testi e con quelle curatele. Volevo e voglio soltanto consegnare al lettore di oggi il mio godimento per quelle straordinarie narrazioni e, di sicuro, sminuendo la straordinaria vivezza del testo originale, fidando nel piacere, peraltro illimitato, che travalica la napoletanità barocca e i dotti riferimenti, al fine di una più ampia e comune appartenenza. (…) Se ho svestito l’originale della sua forma ineguagliabile, credo e spero di averne rispettata la meravigliosa sostanza. Ho fatto, insomma, quel che vale da sempre per la fiaba che, passando di paese in paese, di secolo in secolo, ogni volta si rinnova nella lingua viva e prossima”.

Buona lettura (d.o.)

***

La papera

C’erano due sorelle così mal ridotte che campavano sputacchiandosi, da mattina a sera, le dita per fare un po’ di filato da vendere. In tutta questa vita misera non c’era possibilità che la biglia della necessità spingesse fuori quella dell’onore. Per la qualcosa il cielo, così prodigo nel remunerare il bene e così attento a castigare il male, fece sì che queste due povere figliole si recassero al mercato per vendere alcune matasse di filato e, con quel poco ricavato, comprassero una papera. Le due sorelle portarono la papera a casa e le rivolsero tanto amore: la curavano come fosse una sorella carnale e la facevano dormire nel loro letto.

Venne l’alba e portò una buona giornata, che la buona papera cominciò a cacare monete d’argento; così che, di cacata in cacata, ne riempirono un cassone. E fu tanto abbondante quel cacatorio che le due sorelle cominciarono a tenere alta la testa e si videro rilucere la pelle del volto e delle mani. Accadde che certe comari, trovandosi a chiacchierare, si dissero: «Hai visto, comare Vasta, Lilla e Lolla? L’altro ieri non avevano dove cadere morte e, oggi, si sono ripulite e sfoggiano da signore! Nelle loro finestre si vedono galline e rotoli di carne che ti saltano in faccia! Che può essere? Hanno dato mano alla botte dell’onore o hanno trovato un tesoro?».

«Io non so come! – rispose Vasta – Le vedevo piegate e ora le vedo dritte e risolute. Pare un sogno!».

Dicendo questo e altro, spinte dall’invidia, le comari scavarono dalla loro casa un buco che corrispondeva alle stanze delle due sorelle, per spiare e poter saziare la loro curiosità. Tanto fecero la spia che, una sera, quando il Sole, con la spalmata dei raggi sulle barche nel mare dell’India concede il riposo alle ore del giorno, le comari videro Lilla e Lolla mettere un lenzuolo sul pavimento e posarci sopra la papera. Quando poi videro che la papera metteva fuori mucchi di monete d’argento, a quella vista alle comari uscirono le pupille dalle orbite e il gozzo dalla gola.

Il mattino seguente, quando Apollo con la verga d’oro scongiura l’ombra di ritirarsi, Vasta andò a casa delle sorelle e, dopo mille giravolte di chiacchiere e tirandola alla lunga, venne al dunque: chiedeva in prestito la papera per far prendere amore alla casa da parte di certe paperelle che aveva comprato. E tanto disse e pregò che le sorelle, due sempliciotte, sia per essere bonaccione sia perché non sapevano negarsi, sia per non creare sospetti nella comare, le prestarono la papera a patto di riportargliela presto.

La comare, con le altre comari, subito stese a terra un lenzuolo e ci depose la papera che, invece di metter fuori la Zecca che nel suo ventre coniava monete, rilasciò un’intera latrina che macchiò la biancheria di quelle sciagurate con una materia gialla il cui fetore si sparse per tutto il quartiere, come succede di domenica con le zuppe di carne e verdura. A questo punto le comari pensarono che, nutrendola bene, avrebbe fatto sostanza da pietra filosofale per soddisfare le loro voglie. Perciò le diedero tanto cibo – le usciva dalla gola – e la posarono su un lenzuolo pulito. Ma, se prima la papera si era mostrata abbondante di escrementi, stavolta quel che mise fuori fu senza limiti giacché la digestione abbondante fece la sua parte. Le comari sdegnate s’incollerirono così tanto che torsero alla papera il collo e la buttarono dalla finestra nel vicolo chiuso dove si gettava l’immondizia.

Il caso, che dove nemmeno credi fa spuntare le fave, volle che passasse da quelle parti un figlio di Re che andava a caccia e, proprio lì, gli si smossero le viscere tanto da non potersi trattenere. Affidati la spada e il cavallo a un servitore, il Principe entrò nel vicolo per scaricare il ventre.

Finita la faccenda, e non trovando nelle tasche carta per pulirsi, vista per terra la papera morta di fresco se ne servì come uno straccio. Ma la papera, che non era morta, si attaccò col becco e di tale maniera alle natiche del Principe che questi cominciò a strillare.

Accorsero tutti i servitori e volevano staccare la papera dalle natiche del Principe, ma nessuno ci riuscì. La papera s’era attaccata come la ninfa Salmace a Ermafrodito. Di modo che il Principe, non potendo resistere al dolore e vedendo gli sforzi dei servi gettati al vento, si fece portare in braccio al palazzo reale dove furono chiamati tutti i medici. Questi, accorsi immediatamente, provarono in tutti i modi e ricorsero a tutti i rimedi per un tale accidente, usando e adoperando tenaglie e oli e polveri. Ma la papera era come una zecca, non si staccava nemmeno con l’argento vivo e, come una sanguisuga, non veniva via nemmeno con l’aceto.

Esasperato, il Principe fece emanare un bando, secondo il quale chi fosse riuscito a liberarlo da quella morsa al tafanario, se uomo, sarebbe stato ricompensato con la metà del regno, e, se donna, il Principe l’avrebbe presa in moglie.

Si videro fiumi di uomini e di donne venire a metterci il naso, ma più cercavano di risolvere, più la papera stringeva il becco come una tenaglia al didietro del Principe. Si ricorse all’intero ricettario di Galeno, a l’Aforismo di Ippocrate, piuttosto che al Posteriore di Aristotele, e tutto per il tormento dello sventurato Principe.

Volle il caso che fra i tanti venuti a provarci arrivò Lolla, la minore delle due sorelle. Lolla, appena vide la papera, la riconobbe e gridò: «Cicciottella mia, Cicciottella!».

La papera, udendo la voce di quella che le voleva bene, lasciò subito la presa e le corse in grembo fra mille carezze e baci, non preoccupandosi di lasciare il culo di un Principe per la bocca di una poveraccia.

Il Principe, sbalordito da quel che vedeva, volle sapere com’era andato il fatto e, saputo del comportamento delle comari, le fece frustare in piazza e le mandò in esilio. Quindi prese Lolla in moglie e per dote la papera che cacava tesori di continuo, diede marito a Lilla e furono i più contenti del mondo, a dispetto delle comari che, volendo chiudere la strada alle ricchezze mandate dal cielo, aprirono la strada che fece di Lolla una Regina; e capirono infine che:

Ogni impedimento è spesso giovamento.