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due passi (fare)

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Anna Maria

poesia per un lorenzo
anche stanotte il cielo ci ha tradito
delle stelle promesse neanche una
soltanto una lampara disattenta
e un semaforo giallo permanente
questo è il nostro paesaggio
o meglio era
nel perchè dalle sedie addormentate
guarda è l’azzurro sotto la cabina
e il gabbiano di tutti i mezzogiorno
in pausa pranzo e arriva la controra.
C’era quel tetto forse albero o forma
c’era l’impertinenza della vita
angolo retto lumaca o formica
ecco un veliero con la meridiana
guarda sul ponte è ferma la clessidra
è giorno già da tempo intorno a noi.

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Lorenzo

Il vaso si è infranto
e livide schegge impazzite
corrono urtandosi
lungo pavimenti di pietra
resi tremanti
dall’incombente bufera
che tutto scardina
e divora
avvampando di fuoco
i sensi reclusi
sotto fitta coltre di terra
che ora brama ardere
bruciare svanire
e scintille come lame
si conficcano nella pelle
scavano la carne
che sgretola lenta
penetrano fiamme
entro densi tessuti
fendono muscoli e nervi
consumato il corpo
si purifica il pensiero
si fa anima la carne.

MANCINI

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di Stefania Parmeggiani

Il 13 agosto è la giornata internazionale del mancinismo.
Quest’anno l’esclamazione che accompagna la ricorrenza è scontata: “Yes we can”. A dettarla il presidente americano Barack Obama che prima di conquistare la Casa Bianca conquistò gli elettori “sinistri”. E dire che non era una missione facile: anche il candidato repubblicano John McCain firmava con la mano “sbagliata”.
Il 13 agosto è di quel 10% del mondo, capi di Stato e calciatori compresi, che si appoggia alla sinistra non solo per scrivere, ma anche per saltare o scattare una fotografia, a seconda della gradazione del fenomeno. Nel 1976 l’associazione “Lefthanders International” scelse questa data perché cadeva di venerdì. Come a dire: “Noi mancini pensiamo il mondo alla rovescia, anche per le superstizioni”. Uno scarto deciso rispetto al passato, un invito ad abbattere i pregiudizi, almeno quelli linguistici.

due passi (fare)

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Mariasole

funebre
I raccoglitori di fiori
si atteggiano
all’alba dei vecchi
con carri mascherati,
e cavità
poco profonde.
Celeri messaggeri
dei semi
e delle donne,
ridono
discutono all’infinito
sull’esistenza
dell’acqua.

E il cielo in ombra
e il tempo stretto
e la vertigine
non hanno tempo
per aspettare il peggio.
La terra
è un canto adulto.

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Andrea

Gli anni passati si chiudono qui.
Gli anni iniziati non trovano posto
nel conto di vita che c’è.
Di quanto ho vissuto ridico:
un ago piantato nel piede,
una chiazza di sperma,
una mano sul capo.
Di quanto non vivo vivrò ricontando
ritrovo paure, un abisso, una specie
pietosa di scambio di voglie.
Anima sola, lasciarmi,
ti chiedo e ti dico: non torna.
Passando, passavi, sarà.

Periscoop

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di Giovanni Campi

plotone d’esecuzione

“Mon dieu! Ô mon dieu!” – disse il Signore.
La vita del signore era stata costellata da una serie di avvenimenti a dir poco sconcertanti, l’ultimo dei quali era appunto di trovarsi, tradito da uno, e ancor di più da tutti coloro non l’avevan creduto, dinnanzi dinnanzi ad una platea fatta di persone pronte a tutto sì ma non al perdono. Come se il perdono non fosse fatto per costoro, come se il perdono non esistesse punto.

SIGUR ROS Glósóli

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Sigur Ros
 
Glósóli
 
Nú vaknar þú
Allt virðist vera breytt
Eg gægist út
En er svo ekki neitt
Ur-skóna finn svo
A náttfötum hún
I draumi fann svo
Eg hékk á koðnun?

Catalunya #3

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di Antonio Sparzani

Sant Michel de Cuixa
Sant Michel de Cuixa

Non riesco a guardare Barcellona senza che gli occhi della memoria vadano per conto loro in giro per il mondo dietro alle fantasie nuove e anche vecchie che questa città mi suggerisce anche con un solo accenno una sfumatura un guizzo la prima volta a Cuixa che si pronuncia cushà tutto sembrava strano una sola cosa mi era chiara e cioè che quei monaci benedettini facevano una strada che da qualche altra parte stavo percorrendo anch’io che stavo allora uscendo dal mondo cattolico nella babele del dissenso prima leggero e poi come quando una crepa si allarga ed è inevitabile che tutto passi e magari anche il bambino con l’acqua sporca e forse così deve essere la prima fase di queste rotture che se non sono complete non si compiono davvero è solo in seguito che si riaggiustano un po’ i confini e si riprendono le dimensioni realistiche ma qualcosa è saltato per sempre come dev’essere e in Italia c’erano stati l’Isolotto e il Vandalino per quelli che ricordano ancora questi nomi che riemergono subito dal magazzino delle memorie del bello e del vivo degli anni settanta

Cuixa sta sui monti dietro Prada che in francese sarebbe Prades la capitale del Conflent una regione bellissima dei Pirenei Orientali Catalogna del Nord naturalmente tanto belli sono i luoghi e il chiostro del monastero romanico che stava lì che gli americani del nord tanti anni fa se lo sono venuti a prendere

L’ora di religione cattolica

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di Antonia Sani

Con sentenza n. 7076 del 17 luglio 2009 il Tar del Lazio ha accolto due ricorsi proposti per l’annullamento delle Ordinanze ministeriali emanate dall’allora Ministro P. I. Fioroni per gli esami di Stato del 2007 e 2008 che prevedevano la valutazione della frequenza dell’insegnamento della religione cattolica ai fini della determinazione del credito scolastico, e la partecipazione “a pieno titolo” agli scrutini da parte degli insegnanti di religione cattolica.
Il TAR ha affermato che “l’attribuzione di un credito formativo ad una scelta di carattere religioso degli studenti e dei loro genitori, quale quella di avvalersi dell’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche, dà luogo ad una precisa forma di discriminazione, dato che lo Stato Italiano non assicura identicamente la possibilità per tutti i cittadini di conseguire un credito formativo nelle proprie confessioni ovvero per chi dichiara di non professare alcuna religione in Etica Morale Pubblica”.

due passi (fare)

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Bianca

(Per le spose suicide di Kabul)
Siamo gli oscuri fiori affilati cresciuti all’ombra delle chiesefabbriche di bambole, piedi nudi su strade scoscese.

Ascolta le nostre preghiere nell’ora in cui il tuo nome è invocato,
concedici oggi di morire a Kabul, città di poeti e di vergini suicide
polvere tra le macerie del mondo, ceneri in un letto di sale.

Dacci la chiarezza massima, concedici il fuoco,
perché noi ardiamo dal desiderio di vedere,
ardiamo dal desiderio di non sopravvivere
ardiamo di buio nel buio verso il buio.

Dacci oggi il kerosene della nostra morte
amen

small75

Fabio

Figure di soltanto epitèli, corticali
queste ai margini dell’occhio
mobili, agli angoli d’asfalto
dove squallide le ecchimosi:
allumini uomini, storte stagnole,
buste lacere di scarti inabili a
rifarsi suolo, almeno questo, falde
di fossili, di scuri scisti quando qui rinuoteranno
orche e cetacei, le mante immense,
fra i pilastri delle tangenziali
le meduse come folli
fosfori d’abisso

Ecosistemi

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di Gianluca D’Andrea

Imbrattamento

Sporcare per dare un ordine al caos
è già paradosso, sgorgare per dare
senso a una vita in comune
non è un dilemma. Sul versante
della dissacrazione l’azione non è riuscita,
più sobria sarebbe la candida
espressione del tutto si muove come l’autore
vuole o toccare altri tasti, da questo
(«questo» all’infinito) l’errore.
La finzione è già del bambino che gioca
e attraversa il suo tempo.

Il fatto poi che un’idea
debba violentare la primigenia carenza
è il modo di fare in modo
che un mondo s’inventi una speranza,
come vivere in comune un’emozione
o l’emozione di essere fuori di sé,
nell’estasi d’adorazione,
splendore che riluce dove oscuro è.

Catalunya #2

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di Antonio Sparzani

Montpellier - gare Saint Roch
Montpellier - gare Saint Roch

Già quando sali in treno a Montpellier sul Talgo che va dritto a Barcellona cominci a sentire l’odore di questa città mi ricordo che lo sentivo già quando nei ruggenti settanta andavo a Cuixà appostata nei Pirenei appena si arrivava nella foresteria del monastero di quegli antifranchisti benedettini fuori linea estroflessi da Montserrat si sentiva l’odore caratteristico dei barcellonesi che affollavano l’estate di quella Catalunya “compresa nel territorio dello stato francese” così bisogna dire è un odore buono dev’essere il sapone che usano i giovani e le giovani ormai lo distinguo a distanza il Talgo ne è impregnato è un treno speciale che riesce ad allargare la distanza tra le sue ruote in automatico e ad entrare così senza cambiare in Spagna dove il ferrocarril viaggia con uno scartamento più largo che da noi come in Russia del resto idea di Franco l’orrido generalísimo sembra per impedire facili invasioni via binari di tutto il paese che sarebbe stato bello invece cacciare lui e la sua banda di delinquenti non parliamo delle lotte e degli ammazzamenti di allora all’interno della sinistra repubblicana comintern contro anarchici no per carità no

sartorius

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di Massimo Bonifazio

che mi arrivi con crepitii di radio a galena: la sua voce,
dal fondo di depositi calcarei, tufi, che giustifica a fatica
il suo ritorno qui; come se fosse più facile,
esaurita la spinta dell’ossigeno, trasformato
quel poco di carbonio e scissa ogni sua cellula
in elementi estranei, corpi; come se fosse più facile,
così: esplorare, prendere visione.
………………………………………………..la sua voce,
che mi arriva a fiotti: col calore di sorgive termali,
acqua poggiata sulle argille, che filtra fra le rocce,
sfiora nuclei di calore, assorbe; può una voce
avere odore? che mormora, sommessa,
e in quei fiotti, colate,
……………………………..appare in superficie
non è molta la differenza fra basalti e marne,
da questa prospettiva così conclusa in sé
che solo la mia voce registra ancora i moti
delle faglie

Istruzioni per l’uso di miracoli e tamburi

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tamburo
di Giuseppe Rizzo

Scongiuravamo la neve per tre motivi: casa nostra sarebbe crollata, mamma sarebbe morta, papà l’avrebbe ammazzata. Era lei che desiderava la neve. Nelle baracche di Fondo Picone, al fiume Oreto, tutti sognavamo un tetto da quando Gesù aveva inventato le case popolari e il sindaco di Palermo le aveva distribuite come ostie. A noi, niente. Secondo mamma perché eravamo dei peccatori. Secondo papà perché erano dei cornuti. Lei però insisteva: «I morti viaggiano nei fiocchi di neve, e portano miracoli per i vivi». Non era vero, ma era possibile, e ci credevamo perché avevamo un gran bisogno di miracoli.

due passi ( fare )

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Maria Grazia

Come sono sfacciate le rose come sono belle come sono
una efferata moltitudine le rose
ai confini del regno e sotto gli archi
dei paradisi le semprevive
rose – e diseguali
al cuore
disregnato perché
il cuore beve i fondi minerali
della pioggia e gli umori
beve
fino al bagliore della coppa – usura
con interesse altissimo il dolore
fino al lampo segreto
di chi non muore
più: l’immortale
viene nero e segreto come la rosa
dischiusa dai lamenti con la sua bocca
spoglia – slargato
fiore da giardino
con sedili di pietra e scolatoi
rosso e screanzato
fulcro
che disgiungi anche il sole
fermo sulle discariche e sui letti
al mattino, quando siamo più aperti e più chiari e
non crediamo alla morte ma ai colibrì
che tengono in vita le foreste
non crediamo alle docili evidenze ma alle inezie
a parole che sciamano nell’invisibile
destinate
a far splendere il cuore come un bagliore
d’oro nel petto di catrame degli scomparsi e in quello
splende l’oro maiuscolo del mondo – in quello
l’ovunque – in quello
il persempre, la promessa di tutte le rose
e il silenzio caduto poi dalle rose, il silenzio
di nessuno – solo
più amore, solo più rose, mia
deposizione, mia
rosa
immortale.
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Marco
Non ti dimenticheremo mai
rosa

Fabrica di Fabio Franzin

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[a cura di Franz Krauspenhaar]

"Fabbrica" di Arch. Giovanni Greppi
"Fabbrica" di Arch. Giovanni Greppi

Fabrica (Atelier, pagg.96, euro 10,00) di Fabio Franzin, nato a Milano nel ’63 da genitori veneti, è una specie di bomba; un ordigno che preme dal cuore e dallo stomaco del poeta e che deflagra sulla pagina, narrandoci una storia, la propria, che è quella del duro quotidiano degli operai di oggi. La storia di un lager come mille altri, Una giornata di Ivan Denisovic in versi, dove il protagonista di una giornata nel gulag è qui il poeta stesso, operaio nel Nordest operoso e disperato, disperso nell’assenza di valori, chino sulla fresa e sul piatto di minestra nelle stanche sere della tregua. Si tratta di un vero poema della fabbrica, del canto agonizzante di un girone infernale del lavoro, scritto nel dialetto veneto praticato dall’autore e con un testo a fronte in italiano, così che possiamo leggere i versi nelle due maniere e accostare non solo due lingue ma anche due modi d’intendere; Fabrica è qualcosa di doloroso e importante che ci riporta ai tempi nei quali i nostri migliori scrittori e poeti si occupavano di questi problemi, quando scrivere era spesso trasferire esperienze personali difficili, rianimare un passato o un presente di bisogno, riscattare e innalzare, col potere della letteratura, il basso dai propri sotterranei e spesso imprendibili cunicoli. Ora ci si rifugia nell’alienazione della vita privata, spesso scopiazzando il nostro cinema minimale e anemico, come se il mondo della fabbrica, le aziende coi loro organigramma del potere rozzo e prefabbricato, il lavoro nudo e crudo che impasta e sporca e spesso annienta un giorno dopo l’altro non fossero materia di poetica denuncia e attenzione incisiva, non fossero più artisticamente trattabili. Fabio Franzin colma un grosso vuoto in Italia in campo letterario. Fabrica l’ho letto d’un fiato, senza interrompermi, col fiato sospeso dall’emozione che dà solo la verità sporca, nuda, inaccettabile. (f.k.)

Napoli’s Trivial

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di
Francesco Forlani

jazz

Se cerchi il silenzio te ne vai in campagna. Le città parlano. Sussurrano, gridano, fin dalle prime luci dell’alba. Anzi, pare che suonino. Ogni città ha lo stile inconfondibile di un vecchio musicista jazz, di una leggenda venuta da altrove – certamente una città, New Orleans, Parigi, Londra, Bruxelles- e sbarcata dovunque ci fosse la vita. Dove ci sono grandi fabbriche o un porto.
Quando Torino si sveglia, la luce sembra fare a botte con l’oscurità: piazza Castello, piazza Vittorio, avvolte nella bruma rimangono deserte fino a tarda mattinata, e che ti sembra che i suoi abitanti abbiano trascorso la notte in ufficio. Ha un suono freddo e incalzante, dove ogni strumento si aggiunge strada facendo, alternandosi alla maniera di viali e controviali, con il senso che è direzione dei flussi. Note lunghe, alla Jan Garbarek, e incedere pieno di ritmo e potenza. O il basso in movimento di Jaco Pastorius in Slang, l’armonia progressiva di chitarre alla Pat Metheny Group, It’s For You. E infatti Torino è per te, anche se non ti saluta per strada.
A Milano invece la vita al mattino brulica, in un caleidoscopio su cui rimbalzano luci dei neon delle metropolitane e dei negozi di corso Buenos Aires. La vita sgorga da terra e la gente è un fiume in piena, allertato dai primi raggi di sole. La sua voce è cool. È il Miles Davis Quintet di Round Midnight, con Miles Davis accompagnato da Wayne Shorter e Herbie Hancock. O il suo duet con John Coltrane in So what.
Roma ha due suoni alle prime luci del giorno. Quello monumentale di Gershwin, la Rapsody in Blue, e l’altro, un tipico bebop. Con i suoi volumi ampi e le architetture improvvise, che alla maniera di vecchi cartelli stradali ti dicono dove e perché sia passata di lì la Storia. Il suo risveglio ha lo stesso respiro di Charlie Parker &Dizzy Gillespie in Hot house.

A Napoli, nuova cosa, i raggi di sole sono colpi di clacson nervosi, con gli attraversamenti di strada improvvisi di gente a piedi poco disciplinata e le vespe e i motorini a sfrecciare tra le auto in coda come in un assalto alla diligenza. La sua alba ha il suono free di Ornette Coleman, l’irruenza di John Coltrane, il disordine metafisico di Sun Ra di Space is the place o la scomposta poesia di Archie Shepp in Things Ain’t What They Used to Be. I suoni di una città possono capirli solo i poeti. Di tutti i quartieri, variazione temporale dell’unico tema dell’inizio, ne riconoscono le tonalità, la frase, non necessariamente urlata per strada e che si indovina dalla lunghezza delle luci che tagliano in due vicoli e strade per poi scavare buchi di vita tra i riflessi dei vetri delle finestre, ficcate a ritmi regolari sulle facciate dei palazzi.

Pizzofalcone

Non so esattamente ciò che sto cercando, qualcosa

che non è stato ancora suonato. Non so che cosa è.

So che lo sentirò nel momento in cui me ne impossesserò,

ma anche allora continuerò a cercare.
John Coltrane

Durante la libera uscita si scendeva lungo la via di Monte di Dio sfiorando con le mantelle nere le sbarre fissate lungo i marciapiedi stretti, irregolari. Bisognava fare il giro largo, con il divieto assoluto di scendere molto più in fretta attraverso il Pallonetto. Per via della reputazione che s’era fatto il quartiere e del pericolo che ogni allievo in divisa storica avrebbe corso. E su quella strada tortuosa, su cui la levità della discesa si accompagnava alla felicità di essere liberi, fuori, usciti da dentro, si faceva vedere la cartografia degli amici, dei piccoli gruppi di allievi che rompevano le righe dell’ordine imposto dalle sezioni, le squadre, i plotoni, per formare una compagnia all’insegna del comune sentire. Io e Ciccio della terza C, nona squadra, terzo plotone, terza compagnia.
E con noi Nicola del classico A, un paio dello scientifico A, e due o tre cappelloni, allievi del primo anno che ci portavamo in giro per la città.

Napoli ci appariva sempre diversa da come la vedevamo dai finestroni della sala convegno, vetrate della malinconia, più viva e per certi versi più inafferrabile. In divisa si arrivava fino alla piccola piazza in fondo a via Gennaro Serra, e imboccando la prima stradina, quella di Brandi, si entrava, ben attenti che non vi fossero ufficiali nei paraggi, nel portone subito dopo la pizzeria. Una volta dentro, l’odore di naftalina delle decine di divise storiche e kepì, appesi lungo tutto il perimetro di una camera annerita dalla polvere, sorvegliata da un’unica poltrona rosicchiata dai topi, ti assaliva naso e bocca, come un bacio improvviso, inatteso. Lì se ne stavano le sacche con gli abiti borghesi -ufficialmente non si poteva affatto uscire senza divisa e meno che mai lasciare gli spadini incustoditi- e con la stessa foga di giocatori di calcio imberbi, alle prime armi, si sostituivano le giacche con doppia fila di bottoni argentati, con non meno vistosi Monclair, mentre i Levi’s neri e aderenti scalzavano i pantaloni celesti con la banda viola sui lati. Si abbandonava la divisa per indossare l’uniforme, anche se la diserzione riusciva soltanto a quelli che con strane alchimie di pettine e gelatine erano riusciti a farsi crescere i capelli; gli altri, tutti gli altri, visti da dietro, ce l’avevano scritto sulla nuca, nuda: Collegio militare Nunziatella.

Ecco perché, oltre Brandi, via Chiaia -quella parte di via Chiaia- era la spiaggia. Così camminavamo io e Ciccio, rinchiusi nei giubbotti a proteggerci dal vento, quasi a sfiorare l’acqua.
“Ciccio, ma per te cos’è l’amicizia?”
“Aspè, mò non so concentrato”.
“Dai, è importante. L’altra sera in camerata ne parlavi con
Marco Pelliccia. È la lealtà, rispettare la parola data?”
“È un po’ di tutto”.
“Di tutto cosa?”
“Francè, lascia stare, t’ho detto che non ci sto con la testa.
Te lo dico più tardi”.
“Quando?”
“Ma perché c’hai un’ora precisa?”
“Sì, entro le sette di stasera”.
“E che ore sono?”
“Le cinque e un quarto. Diciamo alle sei, ok?”
“Magari prima…”
“Lo sai che è proprio bona?”, mi aveva detto Ciccio mentre
salivamo su per via dei Mille.
“Chi?”
“La sorella del cappellone”.
“Quale?”
“Dai, dici tu: a chi stai pensando? Mò proprio, però, senza
che ci rifletti…”
“E perché ti viene in mente lei?”
“Perché sono amico tuo, no?”
“E tu cosa pensi di lei?”
“Fermo restando che non è il caso…”
“Certo che è il caso”.
“Grande scopata”.

Non l’avevo mai sentito dire da lui, forse da altri. Solo una volta arrivati a piazza Amedeo, prima di scendere fino alla sala del cinema di via Crispi, mi ero reso conto che a partire dalla ‘scopata’ non c’eravamo più detti niente. Abbiamo fatto il biglietto militari e ragazzi. Ci siamo guardati intorno, e visto che c’erano tante ragazze, sicuramente attratte dal nome di Richard Gere sul cartellone, è stato Ciccio a rompere il ghiaccio.

“Ma è possibile che siamo così coglioni? Per una volta che potevamo esibire la divisa con orgoglio e rimorchiare come marines ce ne veniamo vestiti da chiattilli!”

Come al solito aveva ragione lui. Davano Ufficiale e gentiluomo, e quando mai si sarebbe ripetuta un’occasione del genere? In borghese ci vai a vedere i porno, mica un film così, tagliato su misura per noi come le nostre divise bianche estive. Quelle che avremmo messo di lì a un mese. Magari in moto, con la moto di Ciccio, che il papà gli aveva regalato per la promozione in quinta liceo. Terza C. I paesaggi evocati dal film erano tutti orizzontali. Deserti, e in mezzo ai deserti le caserme. Oltre le caserme la città. Che quasi sembrava Caserta-città-deserta, canticchiavamo ogni volta che si andava in stazione a prendere il treno per Napoli, la domenica sera, alle 9 e 10. Tutto piano, case basse, camerate altezza uomo, dove l’unica scena verticale è quella dell’amico di Maionese, Mayo, Gere, che si impicca per amore. E tutti gli spettatori ad alzare lo sguardo, manco stesse decollando un caccia. Quando usciamo ci prende come il nervoso e l’ansia di rimettere le uniformi. Chiedo da accendere a una ragazza che ci stava poco distante, facendogli segno con la sigaretta e la mano. A Ciccio gli stava venendo in mente di attaccare bottone, di dire che noi eravamo esattamente come loro, cioè nel film, non noi come ci vedevano adesso, ma militari, annerchiati e cazzuti. Io gli ho fatto segno che però dovevamo andare, che era ora. Così lui ha lasciato perdere, per fortuna sua, mia e della ragazza. E siamo scesi lungo via dei Mille, fino a Chiaia. Ci siamo fermati all’altezza del ponte, massiccio, sospeso come un’insegna di un mondo totalmente verticale, con l’ascensore e le scalette per salire fino a Monte di Dio, su un lato. Sull’altro, subito dopo il ponte, le strade in salita d’imbocco all’inferno, ai quartieri, anche loro a noi interdetti al pari del Pallonetto.
“Questo mi piacerebbe fare, sai?”
“Cosa?”
“No, è che tu prima mi hai chiesto cos’è l’amicizia. Al cinema
non potevo dirtelo, ma ora che ci ho pensato, ci pro –
vo, se ti va”.
“Ho ancora un quarto d’ora”.
“Ma per che cosa?”
“No niente, poi ti dico, un appuntamento”.

Ciccio mi aveva sorriso e, tutto soddisfatto, quasi mi faceva cadere con una spinta.
“Insomma, mi lasci solo”.
“Questa volta. Ma la prossima le dico di portare un’amica, vedrai”.
“Vabbuò, facciamo finta che è così. Comunque ti dicevo dell’amico che è proprio come quello che sta lì dentro. Non le scale che puzzano, che la gente ci va a pisciare”.

Dalla nostra posizione, accanto all’edicola, bisognava sporgersi un poco per guardare dentro l’atrio delle scalette e scorgere l’ascensorista seduto al banchetto protetto da un vetro, proprio accanto ai due ascensori. Ce ne sono una ventina in tutta Napoli, di ascensori pubblici. Il più famoso è quello che dalla Marina sale fino a piazza del Plebiscito. Certo che se non è verticale questa città, che tiene gli ascensori perfino nelle piazze…

“…allora l’amico deve stare là, a darti la possibilità di scendere o di risalire. Non è vero che un amico te lo trovi soltanto al
momento del bisogno. Un amico lo cerchi e lo trovi nei sogni”.

Non gli avevo mai sentito dire delle cose così. Ero rimasto senza parole e talmente sorpreso che non l’avevo vista arrivare.
“Ciao, io sono Olga”.
“Lui… è Ciccio”.
“Beh, Francè, la chiave ce l’hai, no?”
“La chiave?”
“Sì, la chiave dello stanzino, lì da Brandi. Io devo andare, ci vediamo poi. Voi proseguite, no?”
“Noi?”
“Sì, voi”.
“Ma veramente ancora non si era deciso. Olga voleva fare due passi, magari in via Caracciolo”. Torniamo verso piazza dei Martiri.
“Bene, io prendo l’ascensore. Io salgo. Marò, non fare quel la faccia, te l’ho detto che avevo da fare. Olga, piacere di averti incontrata. Sicuramente non mancherà occasione di conoscersi meglio, mò però devo andare. Tanto a quello lì lo lascio in buone mani, mi sa”.

Avremmo camminato a lungo. Dal lungomare si poteva vedere il collegio. Rosso, a picco sul mare, che da Pizzofalcone sembrava quasi dominare l’altro castello alla deriva. Le mani di una donna sono onde e nessuna pietra riesce a difendersi dall’acqua, che stacca pezzi dapprima minuscoli poi pesanti come scogli. L’avevo lasciata entrare con me nella stanza buia e fredda. Non c’erano le divise appese ma solo i borsoni ricolmi di abiti borghesi. Lei aveva socchiuso la porta di metallo e mi aveva baciato ficcandomi la lingua fin dentro ai pensieri. Ogni città ha i suoi baci. Con schiocco mortale, o morbidi di lingua e palato. Strappati al tempo che sembra arrestarsi, poi torna. Ogni giorno un bacio diverso, con lei che aspettava lungo i gradini delle scalette che puzzano che la gente ci va a pisciare e tu sentivi solo il suo profumo. Baci, rubati, rapiti, scippati all’unico amico che avevi. Che ti guarda andare dritto agli ascensori di Montedidio, mentre lui scende insieme agli altri lungo l’unica strada maestra, che sembra cadere in un unico corso fino al mare. “Gente, passiamo noi!”, pare che cantino. E vi osservate un attimo, quasi all’ultimo, proprio all’incrocio che vi separa, dove il cuore ha deciso che sarà di lei, e lo sai che ai tuoi amici ritornerà soltanto quando non ne rimarrà più niente. Come ora. Che aspetto l’amico di sempre, Ciccio, anche lui meno giovane, ora padre. Seduto ad un tavolo della nuova saletta di Brandi, il ristorante. Con un passaggio elegante di vetro attraverso il cortile, si sono ingranditi prendendo quell’ala del palazzo. In quel punto preciso, della stanzetta in cui avevo provato la paura del volo. Se cerchi la vita, è qui.

QUESTO RACCONTO FA PARTE DEL VOLUME MISCELLANEO “NAPOLI PER LE STRADE” CURATO DA MASSIMILIANO PALMESE PER LE EDIZIONI AZIMUT. Gli autori inclusi sono:
Alessio Arena, Luigi Romolo Carrino, Stella Cervasio, Fabrizio Coscia, Carla D’Alessio, Maurizio de Giovanni, Luca De Pasquale, Peppe Fiore, Francesco Forlani, Antonio Iorio, Simone Laudiero, Marilena Lucente, Giusi Marchetta, Marco Marsullo, Paolo Mastroianni, Rossella Milone, Davide Morganti, Marco Palasciano, Massimiliano Palmese, Angelo Petrella, Massimiliano Virgilio.

Il convito [Eracle #4]

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convito_3
di Ginevra Bompiani

In realtà non era venuto lì per banchettare. Doveva occuparsi del cinghiale; ma traversando la terra dei centauri si era fermato con loro, vinto dall’ospitalità. Gli avevano cotto le carni, che di solito mangiavano crude. Avevano conversato con lui, e messo a tacere la metà animale: per una volta che potevano trattarsi da uomini.

le rire 1°: La vita del filosofo Kant

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©,\\’ Orsola Puecher

Joseph Haydn [ 1732 – 1809 ]
dalla Sinfonia n. 101 in re maggiore
Hob. I: 101 “L’orologio”

 
   di Cesare Zavattini
 
   Quando a mezzogiorno preciso Kant usciva a prendere una boccata d’aria, i cittadini di Koenisberg regolavano gli orologi: Invece del colpo di cannone a Koenisberg c’era il critico della ragion pura. I forestieri, visitando Koenisberg non mancavano mai di assistere alla tradizionale uscita di Kant. Appena Kant socchiudeva l’uscio, i presenti applaudivano calorosamente: Kant, astratto e solitario, con un libro sotto il braccio, lento lento si avviava verso la circonvallazione.

Piazza Fuga

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napoli-per-le-strade

di Peppe Fiore

Quando facevamo il liceo nessuno di noi s’azzardava a parlare di rivoluzione, avevamo tutti cose più importanti da fare. Eravamo un gruppetto di sei o sette persone che si erano trovate insieme più che per affinità per una certa strana congruenza a incastro delle reciproche storture caratteriali. Non so perché, ma se oggi ripenso agli anni della mia adolescenza l’impressione è quella di una lunga vacanza non cercata e non richiesta. Una di quelle vacanze senza fine dove si sta costretti a forza in un posto di mare, è sempre senza scampo dopopranzo, e pertanto ogni cosa che si fa sembra sempre la cosa sbagliata.

Sarà che ormai sono vent’anni che mi confronto con la natura intimamente letteraria del posto dove sono nato, sempre uscendone massacrato. In tutti questi anni, la mia città è stato un argomento di conversazione universale. Tutti gli sconosciuti che ho incontrato ovunque – università, lavoro, vacanze, treno, baretto di spacciatori a Monteverde – si sentivano in dovere di entrare in confidenza con me appena sapevano che ero di Napoli. Come se essere di Napoli mi garantisse automaticamente una forma di percezione delle cose più laterale e, in qualche modo, più fina. Perché poi? Boh.
Naturalmente dopo cinque minuti di conversazione sciolta, il commento a mezza bocca dell’interlocutore di turno era sempre lo stesso, e sempre un po’ deluso: – Cazzo però, non ci sembri proprio. Sicuro che sei di Napoli?

Fatima e il Brembo

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di Helena Janeczek

Aveva ventisette anni e il suo corpo è affiorato ieri sera dal fiume Brembo. È stata riconosciuta dal fratello che aveva denunciato la sua scomparsa. Mohamed poteva permettersi un comportamento secondo logica e legge, perché a differenza di Fatima, clandestina, lui, ventidue anni, era un extracomunitario regolare. Così riferiscono i giornali, che fin qui non dicono granché d’altro, tranne che – stando al fratello- il “folle gesto” di Fatima sia da attribuire al fatto che non fosse in nessun modo riuscita a regolarizzarsi. Era, secondo Mohamed, terrorizzata dalla data di domani in cui diventerà legge il “pacchetto sicurezza” per cui la clandestinità diventa reato perseguibile con l’espulsione più una sanzione da 5.000 a 10.000 euro.

Non mi va di fare “facile retorica” su questo fatto, né commentare più di tanto che altre notizie su altri “folli gesti” di disperazione, però commessi da italiani contro italiani, ottengono contemporaneamente un ben diverso “onore delle cronache” (e tuttavia la parola “onore”, persino in questa espressione fatta e frusta, acquista un retrogusto amarissimo). Probabilmente domani almeno i giornali più o meno di sinistra un po’ sulla vicenda si soffermeranno. E poi arriveranno altri fatti a riempire le pagine estive del loro macabro intrattenimento.

Non so nemmeno io come, e quindi lo chiedo anche a voi tutti: in un caso come questo, oltre a denunciare a parole, schifarsi, indignarsi ecc., si potrà cominciare a fare qualcosa? Tipo costituirsi parte civile contro coloro che hanno promulgato una legge che ha spinto una ragazza nata in Marocco a uscire dalla casa condivisa col fratello e andare ad affogarsi in un fiume vicino a Bergamo? Incriminarli di “istigazione al suicidio?” Ve lo domando molto seriamente…

Intanto, se mi è concessa una minima dose di parole all’aria, mi andrebbe solo di esprimere un sentimento passeggero, contrario alla pietà e al buon gusto. Preferirei che questa povera crista musulmana non riposasse in pace, ma come vuole la tradizione molto nordica del racconto gotico riaffiorasse in certe notti dalle acque rapinose del fiume Brembo con il suo velo e la sua lunga veste. E non importa se li avesse veramente (fotografie finora zero), l’immaginario di chi ce l’ha cacciata dentro, è comunque questo.

Victor Baruch, La poetessa diffamata

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Intervista di Angelo Petrelli a Fabrizio Lelli.
La poetessa diffamata di Victor Baruch, Besa 2009.

Tradotto in italiano da Alexandrina Djeneva, La poetessa diffamata di Victor Baruch è stato recentemente pubblicato dalla casa editrice Besa. Il romanzo, ambientato nella quiete solenne del Monastero di Latrun, presso Gerusalemme, è la storia di uno scrittore ebreo bulgaro che s’interroga sulle questioni fondamentali dell’esistenza. S’immerge così in una conversazione con quattro personalità intellettuali dell’Italia seicentesca tra cui spicca la poetessa ebrea veneziana Sara Copio Sullam. L’esperienza di queste anime immortali si sviluppa in una complessa narrazione d’amori carnali e spirituali, intrecciandosi con quella autobiografica dello stesso Baruch, vissuto durante la generazione della Shoà e testimone di quel tragico momento della storia occidentale.

Abbiamo colto l’occasione per intervistare il curatore del volume Fabrizio Lelli, docente di Lingua e Letteratura ebraica dell’Università del Salento.

due passi (fare)

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Viola

Vendeva specchietti, lucciole e perline
(ma li vendeva lieve)
Lustrava reboanti panzane da lattante
(il desiderio onirico che vero fosse il magnifico)
Ruffiano, aduso a darlo via il sedere
(semplicemente quello era il suo mestiere)
Pensava di essere furbo
(come qualunque giocatore al gioco)
Grugno di similporco, neanche porco vero
(umano il tentativo di travestire il trivio)
Copiava diligente battute e frasi altrui
(mai avuto pretese di essere intelligente)
Cavava il suo buon senso dal noto
manuale del perfetto banale
(la cifra del felice)
Non mi ha mai amato
(l’unica, concreta, flagranza di reato).

tango-scarpe-uomo-copy

Pasquale

Voluta
la vita
come una volta;
e invece piantata
come un arco scosceso,
una vanga,
un’insegna stradale
verso la soglia;
dentro una buca
da risalire
pianto dopo pianto
fino alla balta del cielo.

Le ambigue risonanze dei pasti in piedi.

Poesie di Viola Amarelli e Pasquale Vitagliano