Home Blog Pagina 44

La “Testa anatomica”: vittoria postuma di Filippo Balbi

0
foto di Cristina Bianchini
Foto di Cristina Bianchini

di Tarcisio Tarquini

La Testa sembra sospesa nel vuoto e i corpi che ne rappresentano i muscoli e le ossa si protendono in rilievo dando l’impressione di trovarci di fronte a una scultura sorretta da fili invisibili, invece che – come in realtà è – a un dipinto su tavola di pino, dalle dimensioni piuttosto ridotte (59×47), frutto di una geniale intuizione figurativa, di una straordinaria perizia artistica e di un’approfondita conoscenza dell’anatomia umana, assorbita nell’accurato apprendistato delle accademie artistiche napoletana e romana della prima metà dell’Ottocento.

Il titolo del quadro è “Testa anatomica”, ne è autore Filippo Balbi, conosciuto per sua stessa volontà come “pittore storico”, vocato cioè alla composizione di tele e teleri raffiguranti personalità della storia o episodi della secolare vicenda dell’ordine dei monaci certosini, suoi protettori e committenti, che possono ammirarsi, prevalentemente, in alcune grandi basiliche romane e nella piccola chiesa settecentesca della Certosa di Trisulti, alle pendici dei monti Ernici nel comune di Collepardo, in provincia di Frosinone.

“La Testa anatomica” è ora esposta – e lo resterà fino al prossimo 29 ottobre – nel refettorio di questa antica abbazia medievale, prima certosina poi cistercense e oggi tornata nella piena disponibilità dello Stato, dopo l’oscuro interregno di una Fondazione ispirata al fondamentalismo, politico più che religioso, di Steve Bannon e della variegata ciurma dei suoi sodali europei.

Foto di Cristina Bianchini

La Mostra (Il Corpo e l’Idea. La Testa anatomica di Filippo Balbi), curata dal pittore e storico dell’arte Mario Ritarossi (che del quadro aveva scritto in un saggio del 2006 su “Capitolium Millennio, la rivista d’arte del comune di Roma), promossa e organizzata dall’Associazione Gottifredo di Alatri, ha registrato un successo inaspettato con un flusso incessante di visitatori che scoprono, insieme, un monumento nazionale di rara suggestione e un capolavoro misterioso, un “unicum” nella pittura europea del XIX secolo ma anche nella personale produzione dell’artista che l’ha concepita e composta.

Alcune singolari circostanze hanno gettato una luce imprevista sulla tavola di Balbi, una serie di coincidenze troppo curiose per essere casuali: più realisticamente, forse, il manifestarsi di una congiuntura in cui tutti gli astri benevoli al pittore, quasi a risarcimento suo che in vita non ne aveva mai potuto godere, si fossero allineati creando una corrente ascensionale propizia per riportare lui e la sua opera all’altezza del merito, finalmente riconosciutogli con consenso unanime e in modo definitivo.

Alcune di queste circostanze sono legate a immagini, foto, fotogrammi vaganti captati nell’etere della comunicazione.

La prima è un’immagine televisiva, un servizio sull’apertura al pubblico di un’ala della Galleria degli Uffizi dedicata agli autoritratti degli artisti: in una delle dodici sale in cui si sono volute raccogliere queste pitture (omaggio ai maestri che in esse si sono rappresentati ma anche al Museo al quale sono state affidate, perché se ne celebrasse la gloria di “Memorial” dei più grandi di tutti i tempi) spicca per dimensioni e per la posizione in cui è collocato l’autoritratto di Balbi, ripreso dai telegiornali e da lì scivolato nelle prime pagine di tutti i quotidiani. La figura è la stessa che vediamo in una foto scattatagli da un fotografo di nome Rainaldi nello studio della casa di Alatri, dove il pittore soggiornò dal 1864 fino alla morte avvenuta il 27 settembre del 1890. C’è Balbi con accanto, incorniciata da un cavalletto, la sua Testa anatomica, come se il quadro fosse la sua carta di identità, il segno riconoscibile della sua arte, l’esemplare da tramandare ai posteri e da tenere sempre con sé perché racchiudente l’anima della sua opera.

Rainaldi: Il pittore Filippo Balbi

Un’immagine ancora più pervasiva è un fotogramma del film premiato a Venezia, nello scorso settembre, con il Leone d’oro. La si scopre con stupore, persa dentro un vorticoso mulinello di allucinate citazioni artistiche (tale, per lo meno, è sembrato nel trailer che precede l’uscita italiana del film nel prossimo gennaio). In “Poor Things” di Yorgos Lanthimos, a dilatare l’urlo del sempre straordinario Willem Dafoe nella parte di nuovo Frankenstein costruttore in laboratorio di corpi umani da avviare alla vita, compare per un attimo la Testa anatomica, quella “Testa anatomica” che la Mostra di Trisulti ha riproposto restaurata allo sconcertato godimento di tutti.

Nella storia narrata da Lanthimos si parla della crescita di un corpo non “sincronizzato” con la mente, di una sorta di dolorosa e comica divaricazione che si ricompone alla fine facendo esplodere in tutta la sua totalità la bellezza della protagonista, dal suo creatore nominata Bella, a incidere subito la finalità e l’esito del suo progetto creativo, ma anche la sua tenerezza di padre senza figli.

E, in effetti, la Testa anatomica è una “povera creatura” che è riuscita a ricomporre la sua unità “corpo-mente”, per volontà dell’artista e della proporzione geometrica su cui il quadro è disegnato, scoperta con il lungo studio preparatorio del curatore della Mostra. Rivela così in modo inequivocabile l’allusione a una crisi che solo l’arte riesce a risolvere, riconducendo la tensione del molteplice alla compostezza irenica, astratta e indifferente, dell’unità.

La presenza della “Testa” in un’opera cinematografica, che segnerà l’anno venturo (che è anche quello del centosettantesimo anniversario del dipinto) con i suoi prevedibili successi, suona conferma di una intuizione di cui la Mostra di Trisulti, e del modo in cui essa è stata realizzata, è in un certo senso il risultato. La percezione di un’energia del quadro ancora non spenta e capace, perciò, di generare nuova arte ha portato non solo all’originale e suggestiva collocazione della “tavola” in una nicchia all’interno di una sorta di “camera delle meraviglie” costruita replicando il rapporto tra le sue misure, ma anche alla produzione di nuove opere d’arte da parte di giovani artisti formatisi nella sempre generosa fucina del Conservatorio di Frosinone.

Francesco Marsili: Testa anatomica

Le opere multimediali da loro installate, infatti, si pongono come fossero un fermento, alimentato da linguaggi d’arte contemporanei, dell’immaginario di Balbi: quella parte che egli ha tenuto congelata, in un angolo della sua attività creativa prima e dopo il biennio cruciale della composizione (1854) e del battesimo all’Esposizione Universale di Parigi (1855) e che, dopo un lungo percorso sotterraneo, sembra oggi essere arrivata ai creatori d’arte delle nuove generazioni che ne hanno riproposto la dirompente modernità.

Insieme con le visioni che passano sui grandi schermi posti nella “camera delle visioni” (dove è ospitata la multimedialità) irrompe, per esempio, dentro gli oculus, rigonfia di tutte le suggestioni provocate da un viaggio compiuto in realtà immersiva e mosso dall’intelligenza artificiale, una lunga teoria di corpi che reclamano la loro autonomia, si staccano dall’universo in cui fluttuano, si avvicinano allo sguardo di chi li osserva, gli protendono la mano e, se sono toccati dalla proiezione di quella dello spettatore che riconoscono umana, pronunciano oscure e inquietanti sentenze prima di dissolversi ancora nel nulla, sconfitte nella loro disperata ricerca di individualità, che resta tutta consegnata a noi chiamati a scuoterci dall’irrigidita dimensione della nostra misera realtà.

È la vittoria postuma di un artista orgoglioso e scontroso che, per vivere, dopo essersi allontanato dalla Roma papalina di cui sentiva l’imminente caduta, fece disegni, ritratti di monsignori, nature morte, pitture murali a olio dalla composizione che ancora nasconde i suoi segreti, e che tutto provò a vendere tranne la “Testa anatomica” che probabilmente gli avrebbe dato da mantenersi con maggiore agio. Preferì portarla con sé, custodita in una solida cassettina di legno, in ogni suo spostamento. Quel quadro, secondo lui non sufficientemente apprezzato a Parigi nel suo esordio internazionale, non apparteneva al presente: doveva essere affidato al futuro.

Collettivo Keiron: Ludicranzia onirica

***

LA MOSTRA
“Il Corpo e l’Idea. La Testa anatomica di Filippo Balbi” è una Mostra dell’Associazione Gottifredo con la collaborazione del Museo di Storia della Medicina dell’Università La Sapienza di Roma, custode del quadro, e grazie alla concessione degli spazi da parte della Direzione dei Musei del Lazio. La curatela è di Mario Ritarossi, la direttrice esecutiva è Silvia Moretti, il comitato scientifico è composto, oltre che dallo stesso curatore, da Maria Conforti, docente e direttrice del Museo di storia della Medicina della Sapienza, Alessandro Aruta, conservatore dello stesso Museo, Marco Bussagli, docente di anatomia artistica dell’Accademia di Belle Arti di Roma.

Il Catalogo è edito dalle edizioni Gottifredo, si può trovare in Mostra o direttamente all’Associazione (0775440105) e sulle maggiori piattaforme di vendita di libri. Contiene saggi di Mario Ritarossi, Alessandro Aruta, Michele Campisi, Ettore Del Greco, Giovanni Fontana,  Natalia Gurgone, con appendici di Maria Gabriella Combusti e Sara Sarandrea (l’allestimento), Luca Salvadori (la trama sonora), Valerio Murat (la realtà virtuale), Alba Lisa Mazzocchia (la traduzione tattile), la cura redazionale è di Eugenia Salvadori. Il sito www.mostregottifredo.it

Inaugurata il 5 agosto, resterà aperta fino al 29 ottobre alla Certosa di Trisulti, Sala del Refettorio e Foresteria. La Mostra, a ingresso libero, è un “progetto comunitario” che si è realizzato grazie al lavoro volontario e gratuito dei soci dell’Associazione Gottifredo che vi hanno partecipato coprendo tutte le mansioni, compresa quella della sorveglianza, alle aziende e ai cittadini che lo hanno finanziato con le loro donazioni, agli enti, alle università e alle accademie che hanno concesso il loro patrocinio non oneroso, ma di prestigio, agli studenti e ai docenti delle scuole e degli Istituti di Alta formazione che hanno preso parte alla progettazione e a fasi della realizzazione, agli artigiani e ai professionisti che hanno ideato e operato. La Mostra, a due settimane dalla chiusura, ha registrato oltre quattordicimila visitatori, provenienti da ogni dove e di ogni condizione sociale. Indubbiamente attratti, oltre che dalla vastissima eco dell’iniziativa amplificata da giornali cartacei e su web e dalla segnalazione, con un lungo servizio sul magazine “Art e Dossier” come una delle grandi mostre dell’anno, anche dalla circostanza che si è trattato della prima iniziativa “all’altezza del luogo” dopo la “riconquista” della Certosa all’uso pubblico e alla sua vocazione spirituale e culturale – per breve tempo compromessa da un’illegittima appropriazione – consacrata da una sentenza dei tribunali della nostra Repubblica, per cui tanto si sono prodigate le associazioni – tra cui la Gottifredo organizzatrice della Mostra – oggi riunite nella Rete Trisulti Bene Comune. (T.T)

Les nouveaux réalistes: Davide Gatto

0

L’onda ti ha preso e ora tu sei morto

di

Davide Gatto

 

L’onda è invisibile, l’onda uccide, è disciolta nell’aria e nessun ostacolo la può fermare, passa con gli spifferi sotto porte e finestre, penetra impercettibile tra le particelle dei materiali più duri, l’onda vola invisibile e si insinua dappertutto, è nelle case, è negli uffici, scorre da un’antenna all’altra e dentro i cavi, hanno inventato l’onda per ucciderci.

Dicevano che era iniziata più o meno così, un tizio o una tizia che la mattina presto stava percorrendo lo stesso scampolo di tragitto a piedi che la sera precedente aveva percorso di ritorno dal lavoro – un impiegato di banca o una giornalista, una giovane regista o un elettricista-antennista, le versioni erano contrastanti – aveva intravisto da lontano sull’asfalto nero una specie di riquadro più chiaro, poteva sembrare la tipica rasoiata di luce del primo sole quando si getta pancia a terra sotto le fronde degli alberi, ma il colore diventava passo dopo passo più bianco che luminescente, il pensiero intanto faceva a gara con lo sguardo per arrivare primo a decifrare l’arcano, Avranno segnalato con una mano di pittura l’area di scavo per gli operai dell’acquedotto? Oppure si tratta di una nuova segnaletica orizzontale, per una pista ciclabile per esempio, o per un itinerario turistico?, ma mentre la mente passava in rassegna tutte le ipotesi verosimili di questo mondo erano stati gli occhi spalancati per lo stupore a riconoscere nel riquadro un cartiglio perfettamente squadrato di parole scritte con la vernice bianca, le lettere erano in maiuscoletto e sembravano quasi stampate sulla lavagna nera del marciapiedi, ora che il tizio o la tizia si era avvicinato abbastanza poteva leggere nitidamente l’ultima riga e il suo folle contenuto, Hanno inventato l’onda per ucciderci.

Non c’era tempo di fermarsi in quel momento della giornata, le strade cominciavano a affollarsi di traffico e di persone che in pochi minuti sarebbero scivolati dentro l’imbuto di qualche passaggio obbligato e avrebbero bloccato tutto, certo non si poteva arrivare in ritardo a timbrare il cartellino o all’appuntamento programmato ma quell’avvertimento stampato su un vialetto pedonale di grande transito come fosse la pagina di un libro meritava comunque una piccola sosta, sparuti capannelli dunque continuamente si facevano e si disfacevano dopo quel primo tizio o quella prima tizia, accigliate e frettolose le persone leggevano, si lanciavano l’un con l’altra ammiccamenti di compatimento e di sollievo per non essere loro come quello squinternato là, mentre già riprendevano di slancio la loro rotta feriale ordinaria si concedevano il veleno di qualche battuta che quasi sempre però si perdeva solitaria nell’aria, Bisogna proprio non avere un cazzo da fare e da pensare, Lo manderei dove so io questo scemo, così vede se è l’onda o sono le bombe di quei terroristi là a uccidere, Hanno voluto chiudere i manicomi ed ecco cosa succede, fortuna che questo usa il pennello e le parole invece di un coltellaccio da macellaio, da quello che si racconta e dai successivi sviluppi della vicenda appare chiaro che tra i molti che ebbero la ventura quella mattina di assistere in prima persona a quell’evento dovette esserci qualcuno meno istintivo e più avveduto che tirò fuori lo smartphone e scattò tre quattro fotografie, aveva pensato forse che l’Amministrazione avrebbe fatto cancellare quelle parole e lui voleva invece rileggerle e rifletterci meglio, più probabilmente voleva intestarsi lo scoop su tutti i social e magari anche su qualche giornale, fatto sta che notizia e iscrizione cominciarono a circolare di bocca in bocca e di display in display fino a penetrare in ogni casa e in ogni coscienza, è così a volte che avvenimenti che neppure meriterebbero un trafiletto sul giornalino della scuola media curiosamente scatenano vere e proprie indagini collettive.

Il solito nemico del progresso e per giunta complottista!, è nell’ordine delle cose che quando ci si interroga su qualcosa deve sempre spuntare fuori un saputello che sale in cattedra e impartisce la lezione, pare dunque che anche in questo caso uno studente fuori corso di ingegneria che faceva nome Tommaso e che si aggirava con il cappello e l’impermeabile alla Heisenberg sulle stesse tratte dei pensionati avesse preso a catechizzare tutti i derelitti che incontrava, Ma per favore, ma quale onda assassina!, avete idea di quante persone si sono salvate grazie alle onde di una TAC o di una PET?, avesse saputo prima questo Tommaso quello che si sarebbe saputo solo qualche giorno più tardi sarebbe stato forse più prudente nell’affrontare la questione, e invece sferragliava spedito e tutto soddisfatto lungo i binari delle sue certezze, Non avremmo TV né radio senza le onde elettromagnetiche, non avremmo il cellulare e il computer, e neppure i radar e il forno a microonde, e dopo aver dichiarato scandendo e sillabando che l’autore di quell’insulto scritto al decoro della città e all’intelligenza umana non poteva che essere un I-GNO-RAN-TE, molto teatralmente puntava il dito e gli occhi verso il sole finalmente un po’ stanco di ottobre e licenziava la sua classe improvvisata, Anche il sole ci riscalda con le onde elettromagnetiche, forse qualcuno sta cercando di ucciderci fin dalla notte dei tempi anche con il sole?

Non sarà stato magari un mostro di simpatia questo Tommaso con tutte le arie che si dava, che anzi si diceva che anche i vecchi più sgangherati quando lo vedevano arrivare tiravano su le loro quattro ossa dalla panchina e biascicando bestemmie cercavano di allontanarsi, ma diceva cose così vere e così sperimentate da tutti che alla fine in città ogni bocca non faceva che ripetere sulla questione i suoi stessi argomenti, Ca chistu è scemo, a me con l’onda mi hanno visto una pietra accussì nel rene e con l’onda l’hanno fatta polvere polvere, e di rinforzo forse un altro compare di acciacchi e di panchina che se ne stava tutto curvo e con il sorriso beffardo a scrollare lo schermo del cellulare – non avesse parlato poteva sembrare uno di quei ghignanti mostriciattoli scolpiti della chiesa cattedrale -, Ma va in mona lu’ e l’altre ‘gnoranti com’a lu’, che qui con l’onde ghel disen chiaro chi l’ha ‘niziata la gherra e chi se defende, cossa gh’è giusto e cossa gh’è sbagliato, non c’era storia dunque e poteva sembrare che la partita in qualche modo aperta da quel messaggio d’allerta graffito sul marciapiedi fosse già chiusa, non fosse stato per le notizie che avevano cominciato a circolare sull’identità dell’anonimo graffitaro, girava voce infatti che parole e concetti come quelli che a vernice bianca si erano trovati stampigliati davanti agli occhi ancora assonnati i lavoratori più mattinieri da un pezzo venivano ripetuti a cantilena da un giovane che sporco e trasandato bazzicava la zona del parco, se ne parlava diffusamente pare ma con un misto di rispetto e di commiserazione perché quel giovane era molto conosciuto, aveva avuto innanzi spianata la strada dell’università ed era dunque tutt’altro che ‘gnorante o I-GNO-RAN-TE.

 

Si sentiva dire che a passeggiare per i viottoli del parco poteva capitare di vederlo uscire dalla cortina di fronde pendule del grande carrubo con la risoluzione di un messaggero che avesse finalmente intravisto il destinatario designato, la persona in questione naturalmente si spaventava a vederlo avvicinarsi con il bianco degli occhi che scoppiava fuori da un casco folto e riccio di capelli che sembrava Caparezza o Lenny Kravitz, impietrito non poteva fare altro che ascoltare con le avvisaglie di un sudore freddo sulla fronte e una corrente sottile lungo la schiena il messaggio che suo malgrado gli veniva recapitato, L’onda è invisibile e ci mette niente a entrarti nel cervello e a spappolarlo, come poteva non sentire uno strazio senza rimedio chi a un certo punto lo aveva riconosciuto e constatava che brutta fine stava facendo quel ragazzo studioso e di assai belle speranze?, non c’era voluto poi molto a quanto pare perché diventasse di pubblico dominio la nomea di piccolo genio che fin dalle elementari si era guadagnato, sempre tra i primi della classe, massimo dei voti alla maturità e poi messo sotto l’ala del famoso prof. all’università, era proprio vero che a studiare troppo si finiva per sbarellare, il brillante dottor Alberti matematizzava gli enigmi più sfuggenti della natura e ora eccolo lì, a spaventare a morte il malcapitato di turno con quegli occhi sbarrati di un pazzo, L’onda ti ha preso e ti ha ucciso, l’onda ti ha preso e ora tu sei morto.

Colpiva in particolare nel racconto che circolava che il dott. prof. Alberti si era occupato con successo nel suo ateneo proprio di fisica delle particelle e di meccanica quantistica, spiegava chi un po’ se ne intendeva che erano queste le discipline che più avevano a che fare con le onde incriminate e così dicendo aveva probabilmente fatto venire a qualche sfaccendato il capriccio di andare al parco e di sentire con le sue orecchie quante e quali fesserie potessero uscire dalla bocca di uno altrimenti destinato a guardarti dall’alto in basso e a dire l’ultima parola su ogni questione, sembra però che neppure nell’ampio spazio circolare chiuso come una casamatta dalle foglie e dai rami del carrubo centenario ci fosse la minima traccia del giovane fisico impazzito e del suo presunto bivacco, chi era andato alla caccia aveva piuttosto incontrato molti che tra le panchine e al chiosco dei gelati non la finivano più di riferire dettagli e parole deliranti che però anche a loro stessi erano stati riferiti, partiti dunque con un ghignetto di scherno prestampato sulla faccia se ne erano tornati con un discreto bagaglio di aneddoti secondari e con una certa inquietudine nel cuore, si era venuto a sapere allora che l’esperto di onde non a caso si era rifugiato nel bunker vegetale del carrubo e si era fatto crescere intorno alla testa una zazzera corrispondente, che aveva fissato con la sua leggendaria precisione di calcolo la distanza di sicurezza da antenne e da ripetitori, che usciva a volte urlando come un forsennato e con i suoi stracci da spaventapasseri al vento per allontanare gente al telefono o con il tablet sottobraccio, che forse alla fine aveva abbandonato la sua postazione magica nel parco per rifugiarsi dentro i più sicuri cunicoli sotterranei delle fogne o, a fantasticare un po’ più in largo, in qualche profonda grotta sotto le montagne.

Sì, va bene, ma cosa l’ha fatto impazzire?, quello era uno scienziato delle onde e forse ha scoperto cose che noi gente semplice neppure riusciamo a immaginare, chi invitava alla riflessione l’andirivieni pigro ma in realtà molto ben disposto di avventori nel suo locale pare fosse una certa Mary che attirava ogni giorno nell’Antico forno sciami di uomini e donne, gli uni con la sua bellezza procace di pasta bel lievitata, le altre per la sua testa fina e per il suo punto di vista sempre originale, di lei si diceva che nel tempo libero dipingeva tele con un unico soggetto, dalla superficie piatta degli squallidi casermoni popolari dove abitava faceva partire con i suoi pennelli strade che di notte si snodavano all’insù tra stelle vicine e galassie lontane, ebbene questa Mary aveva dato la stura a commenti e sentimenti che forse se ne stavano ammucciati per la soggezione davanti all’impermeabile di Heisenberg ma che il buon profumo del pane e il tepore del forno contribuivano a liberare, A me il pensiero che ci sono ‘ste cose nell’aria che passano attraverso i vestiti e la pelle e entrano nel corpo e nel cervello mette proprio i brividi, diceva forse un sessantenne ancora prestante per fare colpo sulla bella fornaia, parlava magari con gli occhi involontariamente incollati ai capezzoli sfrontati di lei questo tizio mentre lei con i suoi bucava le sue pupille e scendeva in profondità, avesse saputo il sessantenne cosa lei aveva visto là in fondo se ne sarebbe scappato faccia a terra per la vergogna e non si sarebbe fatto vedere mai più.

Incoraggiati dunque da tutte le buone cose semplici che si offrivano là dentro ai sensi con tutta la loro consistenza – le pesanti volte di tufo che comprimevano all’altezza delle narici il profumo della focaccia con le cipolle e del pane caldo, la confidenza e le braccia nude e morbide della giovane femmina al bancone -, donne pensionati e persino qualche lavoratore di passaggio sembravano aspettare solo il momento di passare dall’Antico forno per dare sfogo alle loro paure irrazionali, chissà come qualcuno di cui con il passaparola si era smarrita l’identità pare che una volta avesse raccontato un incubo ricorrente di quando era bambino, Giravo di sera per queste strade e non c’era nessuno, poi ho visto dietro di me una luce che mi seguiva sul marciapiedi e non proveniva da nessuna parte, io correvo e lei dietro, e ancora più forte correvo con il cuore in gola perché sapevo che nessun muro o nascondiglio l’avrebbe fermata, da un racconto così che come avrebbe insegnato Tommaso “Heisenberg” una connessione evidente con l’onda ce l’aveva potevano scatenarsi catene associative davvero imprevedibili, È brutto quel ripetitore e mi fa paura, tutte quelle antenne tonde e biancastre sembrano tante zecche sul pelo di un randagio, Là fuori è pieno di cose schifose che ci vogliono entrare dentro, ci sono microbi, virus, batteri, e l’altra sera ho visto in TV che a un esploratore in Africa mentre dormiva sono entrati degli scarafaggi nell’orecchio per farci il nido, insomma sotto gli occhi di Mary attenti ma anche a tratti persi forse nelle lontananze di quelle sue strade stellari sopra i tetti avventori stabili e occasionali potevano avere l’impressione che l’introvabile dottor Alberti con tutta la sua pazzia non doveva essere stato in partenza granché diverso da come erano loro.

Era accaduto poi a qualche giorno di distanza dal rinvenimento del primo cartiglio pennellato a stampa sull’asfalto che proprio davanti al ripetitore e non molto lontano dall’Antico forno comparisse un secondo riquadro scritto, l’uno e l’altro sembravano a questo punto due capitoli dello stesso libro come chiunque poteva verificare confrontando tratto grafico, tema e ossessione psicotica dell’autore, stranamente infatti l’Amministrazione di solito efficiente non aveva ancora provveduto a mandare i suoi operai e a fare cancellare quella prima bruttura, oltretutto questa seconda iscrizione a pennello aveva tipica del capitolo di un libro anche la progressione e una più precisa messa a fuoco del contenuto che nel caso specifico finì però per spiazzare tanto Tommaso “Heisenberg” e i suoi seguaci quanto la cricca sempre più compiacente che si incontrava nella panetteria di Mary, L’onda entra nel cervello e lo svuota dei suoi pensieri, l’onda cancella  e poi subito riscrive, e non smette mai di parlare e di dettare l’onda, non lascia nel cervello interlinee, margini o spazi bianchi, l’onda ripete, e ripete, e ripete cosa è giusto e cosa è sbagliato, se ti raggiungono con l’onda tu non ci sei più, certo si sentiva dire che erano le parole di uno che aveva sbiellato e non si poteva pretendere che una persona normale capisse bene come virus e batteri potessero scrivere nel cervello cos’era giusto e cos’era sbagliato, almeno però era chiaro ed evidente che il fantomatico dottor Alberti non ce l’aveva affatto né con la luce del sole né con la radioterapia.

Raccontavano piuttosto che già dalla mattina del ritrovamento chi era entrato al solito nell’Antico forno come si va alla messa o a quelle sedute di alcolisti anonimi che si vedono in televisione aveva subito percepito una nota stonata, la fidata Mary che aveva fino ad allora presenziato silenziosa e comprensiva al rito della confidenza e della complicità era diventata di punto in bianco molto loquace e aveva negli occhi la luce brillante di chi ha appena fatto un’importante scoperta, ora una ora l’altra avevano ripreso con la consueta spontaneità il filo sospeso delle chiacchiere sulle proprie e sulle altrui ossessioni a commento dell’impresa del graffitaro pazzo, Bella mi’, dammi mezza pagnotta, ma lo sai quanto sapone e quanto disinfettante stiamo usando a casa?, e di rincalzo magari l’altra che aveva chiesto un panzerottino per il nipote che teneva per mano e che per conto suo non staccava gli occhi dal cellulare, nonna e bambino quasi irriconoscibili dietro grandi mascherine che li facevano sembrare rapinatori per scherzo o turisti giapponesi, L’aria è piena di germi, noi quasi quasi neanche a casa ci togliamo la mascherina, ma Mary stavolta era impaziente, diceva Sì, sì, insaccava e faceva il prezzo, Sei euro, ecco il resto, tagliava un trancio di pizza e dava l’impressione di non ascoltare e di avere anzi lei qualcosa da dire, in capo a quella sola giornata si era resa così antipatica che a quanto pare un signore maturo che vestiva jeans e felpa come un diciottenne si era messo a raccontare proprio fuori dal forno come cosa certa di un incubo che perseguitava la bella fornaia e non la faceva dormire, Appena si addormenta si vede nel letto nuda con tanti serpenti intorno che bussano a tutte le sue porte…, se mi avete capito…, e intanto faceva una smorfia eloquente con tutta la faccia, niente di strano che questo bel soggetto e il sessantenne arrapato di cui è stato detto sopra fossero la stessa persona.

Carpendo dunque brandelli di testimonianze di chi era entrato e uscito dall’Antico forno si era potuto ricostruire che la Mary quel giorno era stata tutta una catena di distinguo e di obiezioni, Ma non è dello sporco che dobbiamo avere paura, ci hanno inculcato questa paura dello sporco e tra un po’ vivremo dentro piccole cellette sterili di metallo tutte uguali e separate, bombardati notte e giorno dalle immagini e dalle voci della TV, e intanto sembrava ci provasse un gusto speciale a servire senza guanti brioches e focaccine, ad aprire sacchetti con uno schiocco secco e con le dita unte, Il lievito è fatto di animaletti piccolissimi, guarda quante cose buone facciamo con il lievito, ma come ci difenderemo dalle cose sempre uguali che tutti sentono e tutti ripetono?, non c’è bisogno di dire che il popolino vario che volentieri indugiava sotto la volta familiare e protettiva del locale si era fatto di colpo più freddo e più sbrigativo, tradita in particolare nelle sue aspettative e quindi più propensa al rancore e alla vendetta si era rivelata la clientela maschile dell’Antico forno quando Mary aveva attaccato a raccontare un film americano degli anni Cinquanta, abitualmente gli uomini quando lei si girava verso gli scaffali del pane le palpavano con gli occhi il culo e le cosce, nell’andirivieni che la stoffa leggera del vestito faceva su quelle curve da capogiro sognavano l’intera gamma delle pratiche hot e hard che avevano visto su questo e quello schermo, che avevano letto su questo e quel giornale, era stato dunque come una secchiata d’acqua ghiacciata nel pieno montare dell’eccitazione venire a scoprire che invece lei, la fornaia superaccessoriata, la sera sul divano amava guardare pellicole in bianco e nero di complicati film d’autore.

Ma questa è proprio strana, si è messa a parlare marziano come quello dell’onda, Va là, bestiùn, fa’ due più due, fa’ due più due, che la seconda scrittura l’ha trovata lei per prima fuori dal suo forno e poi sogna i serpenti che le van su per i buchi, mentre dunque montavano queste chiacchiere di frustrazione si vociferava che Mary a più riprese aveva raccontato in quattro e quattr’otto la trama di questo film, in un paese qualsiasi che poteva anche essere il loro a un certo punto un figlio non riconosceva più la madre, la moglie il marito e viceversa, le fattezze erano le stesse, i comportamenti esteriori anche, ma era come se la persona dentro fosse stata sostituita, si era poi scoperto che in ogni casa erano stati nascosti enormi baccelli ciascuno con la copia esatta di un membro della famiglia, la sostituzione era del tutto indolore e avveniva senza violenza né costrizione, bastava solo attendere che la persona si addormentasse e l’originale scompariva per lasciare posto alla sua copia incolore, anzi garantivano amici e familiari già cancellati e poi subito riscritti ai due protagonisti che strenuamente si opponevano che la vita dopo sarebbe stata finalmente felice, senza discordie, ansie e sfibranti emozioni, non tralasciava la bella mugnaia di rimarcare con una nota di commento qualche passaggio del suo racconto, Tolto il pensiero impastato delle emozioni uniche di ciascuno di noi, cosa resta di noi, cosa resta della vita?, e a dimostrazione riferiva del tentativo fallito dei due personaggi di fuggire confondendosi con gli altri e simulando il loro stesso distacco, era bastato che un cane venisse investito in mezzo alla strada per fare urlare la ragazza di raccapriccio e per farli scoprire, chiudeva infine la Mary allargando le braccia e con un sorriso sghembo di intesa che a quanto pare non venne raccolto, E dove mai potevano cercare scampo quei due fuggiaschi solitari se non in fondo a una miniera abbandonata?

Ma la gente a questo punto non la seguiva più, avevano continuato per un po’ le donne e altra clientela varia a scambiarsi informazioni scabrose e confidenze personali sugli assalti quotidiani di vermetti invisibili e altri microorganismi alle profondità più nascoste del corpo prima di tornare ai convenzionali pettegolezzi di corna e di spettacolo, avevano continuato anche sessuomani e guardoni a fingersi interessati a qualunque discorso venisse fatto là dentro pur di poggiare gli occhi su quelle forme da cui le mani erano interdette, ma di fatto ai loro occhi la Mary aveva come varcato una porta invisibile e era entrata in un’altra dimensione, era stata liquidata con un’alzata di spalle e con qualche occhiata di compatimento anche la notizia della terza ed ultima iscrizione del dottor Alberti o – chissà – della stessa Mary sotto mentite spoglie, il terzo e definitivo capitolo di quel libro sull’onda che come tutti i libri strampalati era destinato al macero era stato vergato questa volta nientemeno che davanti al portone settecentesco del Palazzo di Città, Quando non vedrete più le mie parole scritte su un marciapiedi, quando io non ci sarò più e nessun altro avrà preso il mio posto, sappiate che ormai l’onda vi avrà preso tutti, quando nessuno più parlerà dell’onda, non ci sarà più altro che l’onda, tanto estranea agli interessi della gente era ormai tutta questa faccenda dell’onda che come un rivolo secondario che presto va spegnersi nell’aridume di qualche campo si era diffusa la leggenda che la Mary si era innamorata di un amore malato e anche lei non ci stava più con la testa, ci creda pure chi vuole ma per un certo tempo si era sentito raccontare che la bella fornaia saliva ogni notte sul tetto del suo casermone e si incamminava veloce lungo una delle vie siderali dei suoi stessi dipinti, lontana davanti a lei nella controluce delle stelle si intravedeva la sagoma di uno spaventapasseri con un elmetto di capelli africani in testa e i lembi della camicia fluttuanti come tentacoli a perlustrare la materia oscura del firmamento.

 

 

 

 

La solitudine pensante della lettura

0


di Romano A. Fiocchi

Francesco Permunian, Tutti chiedono compassione,
Editoriale Scientifica, 2023

È una scena tra il grottesco felliniano e l’apocalittico di Bergman del Settimo Sigillo. Su una strada bianca di polvere avanza un grosso carro trainato da un cavallo bardato a lutto. L’aria è infuocata. Il carro procede a sobbalzi con un lamento inquietante delle ruote sgangherate. Lo guida un pagliaccio travestito da angelo equestre, da dietro le spalle gli sbucano due ali di cartapesta. Accanto a lui, una sorta di segretario con i capelli lucidi tirati all’indietro e due baffetti alla Amedeo Nazzari, un lapis infilato dietro l’orecchio «come certi alimentaristi di paese». Il carro è stipato di ombre: i morti della lotta partigiana in Polesine. Ebbene, di tutto il libro credo che sia questa la scena che rimane più impressa nella memoria visiva del lettore. Così come del Don Chisciotte, nonostante le miriadi di disavventure narrate in diverse centinaia di pagine, il lettore ricorda la scena dei mulini a vento scambiati per giganti.

E qui è il primo aspetto curioso di Tutti chiedono compassione: la scena del carro dei morti della lotta partigiana appare nella Seconda Parte, che inizia ben oltre i due terzi del libro e si chiude con l’Epilogo appena trentasei pagine dopo. Aspetto curioso anche la collocazione di un incipit in seconda battuta: l’attacco narrativo non si trova in prima pagina – dove invece Permunian introduce il concetto di rovine, frammenti e calcinacci con cui, come Eliot, puntella la propria Terra desolata – ma si nasconde all’inizio della seconda:Francesco Permunian

«La contrada in cui sono nato contava sì e no una decina di case, tutte gonfie di umidità e corrose dal vento salmastro che proveniva dal mare. Piccole case più simili a stamberghe che, viste da lontano, a malapena si stagliavano sopra una landa di campi laggiù nel Polesine. Case in cui oggi si odono ancora, sul far della sera, i rintocchi di campane suonate in altri tempi. E per altre persone… Simulacri di focolari dove, da tempo immemorabile, non entra più anima viva e solo pernottano il gelo e l’oscurità. Luoghi in cui l’odore della solitudine regna sovrano nonostante, fino a non molti anni fa, risuonassero i clamori della giovinezza».

Perché dunque spostare due baricentri del testo in queste posizioni? Permunian dà la colpa alla sua prosa frammentata, «infarcita da materiali di scarto, da mattoni e mattonelle sbrecciate palesemente inadatte per costruirci un solido romanzo». Ma il suo scopo è un altro: prendere il lettore per mano, accompagnarlo nel suo mondo grottesco, mostrargli la verità, la vita, la morte, ma anche l’idiozia degli uomini, le loro insulse ambizioni, le loro fisime, e all’improvviso stordirlo con immagini di violenta bellezza letteraria. È una scrittura emotivamente altalenante, con invettive terribili alternate a picchi di prosa lirica e descrittiva. Il tutto edificato con cura maniacale perché Permunian non è scrittore che lascia spazio alla casualità, anche la singola parola è soppesata e valutata nella sua precisione semantica e musicale, da poeta. È infatti proprio dalla poesia che è incominciata la sua attività letteraria (Il teatro della neve, Arlecchino notturno, Un lungo sguardo silenzioso, ecc.), per poi espandersi nella pianura di una prosa vigorosa e travolgente (La Casa del Sollievo Mentale, Costellazioni del crepuscolo, Il gabinetto del dottor Kafka, Il rapido lembo del ridicolo, Giorni di collera e di annientamento, Elogio dell’aberrazione, per citarne qualcuno). Tanto meno è lasciata al caso la scelta dei titoli, particolarissimi, come si arguisce dai soli esempi qui sopra.

Francesco Permunian in uno scatto di Pino Mongiello

Il libro, si diceva, è diviso in due parti: la prima, uno zibaldone dove affiorano «microstorie» per lo più bizzarre ma autentiche, personaggi strampalati, esponenti della «romanzeria nazionale», ballerine di flamenco, luoghi magici (le cartiere di Toscolano Maderno), figure storiche quali Teofilo Folengo e Bernardo da Chiaravalle, esilaranti reperti burocratici come il Regolamento Scolastico del Tirolo del 1909, scrittori e poeti conosciuti di persona o attraverso letture (Parise, Cioran, Bruno Schulz, Sándor Márai, Gadda, Manganelli, Kafka, Borges, Ceronetti, Zanzotto, Maria Corti, Pietro Citati), fotografi del calibro di Lisetta Carmi, Mario Giacomelli, Mario Dondero, tutto questo in forma di «realismo autobiografico». La seconda parte, L’angelo di Dondero, ricostruisce invece il peregrinare che fece Permunian in compagnia della Leica di Mario Dondero tra i luoghi della Resistenza polesani, dove pullulano i fantasmi dei cittadini inermi trucidati dai tedeschi e dalle Brigate Nere della Repubblica Sociale di Salò. Ne elenca quarantadue, nome per nome, indicando l’età – i più giovani appena quindicenni – e la provenienza. Sono le vittime dell’eccidio di Villamarzana. Per non dimenticare. Perché quelle ombre, insieme a molte altre, continuano ad aggirarsi per le strade polverose e abbandonate del suo amato Polesine.

Scrittura dunque permeata di impegno civile, quella di Permunian, non solo nell’evocazione dei nomi da scolpire nella memoria collettiva, ma anche nel denunciare l’imbecillità del nostro tempo:

«L’odierna assurda e folle monomania di stare sempre sui social. Sembra quasi che tutti abbiano qualcosa d’importante da dire, qualcosa di necessario da comunicare al mondo intero. Anche se poi tutti, o quasi tutti, vogliono soltanto raccontare i fatti e i misfatti della loro vita privata. E più tale esistenza è per loro noiosa e tapina, oltreché disgustosa e miseranda oltre ogni limite, più ne parlano e straparlano chiedendo insistentemente attenzione come dei mendicanti che chiedono la carità per strada. Lungo le gelide e infinite strade del web. In realtà, tutti chiedono comprensione. O forse, alla fin fine, “tutti chiedono compassione”».

Con lo stesso rabbioso sarcasmo denuncia l’impoverimento culturale del settore che avrebbe proprio il compito di elevare la cultura:

«È vero, i libri vanno male ma i festival sui libri vanno bene. Perché ricordano la messa o il circo. Inscenare libri è figo, leggerli è pesante. In fondo restiamo un paese di cultura orale se non visiva nel senso delle figure, che ama l’ammuina e la festa patronale, la battuta o solo la pantomima, ma non la solitudine pensante della lettura».

* * *

Sono temi che, in fondo, lo scrittore di Cavarzere affronta da sempre. Vorrei però soffermarmi su due caratteristiche intorno a cui si sviluppa l’idea letteraria di Permunian. La prima si avverte leggendo semplicemente qualche riga di una pagina a caso, aprendo Tutti chiedono compassione o qualsiasi altro suo libro: la potenza della lingua. Una lingua, come ebbi occasione di scrivere altrove, pulita e tagliente, ruvida e colta, quasi dantesca, di quel Dante – per intenderci – che passa con disinvoltura da espressioni come “Taide è, la puttana che rispuose al drudo suo…” o quella del diavolo “che avea del cul fatto trombetta”, ai termini colti delle citazioni latine ed ebraiche, alla scena amorosa di Paolo e Francesca e alle visioni celestiali del paradiso.

La seconda è un’astrazione che si percepisce solo leggendo più libri di Permunian: il progetto globale della sua opera, di cui ogni libro è un particolare tassello. Come se tutta la sua produzione fosse un unico libro, un libro assoluto che costruisce il mondo visionario e maledettamente reale di Permunian. Un progetto globale, dunque, che si muove in piena libertà e non conosce limitazioni editoriali. Le opere di Permunian sono infatti uscite per un numero incredibile di editori, tutti dotati di un’impeccabile veste grafica: Aragno, Nutrimenti, Meridiano Zero, Quodlibet, Diabasis, Il Saggiatore, Oligo, Rizzoli, Ponte alle Grazie, Edizioni Theoria, Ronzani, Italo Svevo, Chiarelettere. Questa è la volta della napoletana Editoriale Scientifica, che lo ospita nella collana S-Confini diretta da Fabrizio Coscia, con illustrazioni dell’artista giapponese Furuya Korin applicate in prima di copertina e nella rispettiva bandella. Una raffinatezza grafica.

La tentazione di decontestualizzare e il dovere della narrazione. Sul conflitto tra Israele e Hamas

11
Cell No. 1 1992 Absalon 1964-1993 Presented by the Patrons of New Art through the Tate Gallery Foundation 1997 http://www.tate.org.uk/art/work/T07222

Di Andrea Inglese

Un dilagare dell’orrore “senza punti fermi”

Il 9 ottobre, in un articolo apparso sul « Corriere della Sera », Paolo Giordano, noto romanziere, scriveva riguardo all’attacco di Hamas contro Israele, avvenuto due giorni prima: “È uno strano paradosso della nostra epoca: per valutare meglio un evento non conviene più aspettare troppo, conviene quasi, al contrario, affrettarsi e perfino decontestualizzarlo.” Ora, il baratro in cui rischia di piombare Israele, e di far piombare non solo i palestinesi, ma anche tutto il Medio Oriente, l’Europa, e forse il mondo intero, dimostra che questa frase è profondamente sbagliata, ma nello stesso tempo esprime una tentazione che è presente non solo sotto la penna di uno scrittore disinteressato alle astrazioni della geopolitica, ma anche nelle parole e negli atti di dirigenti politici del mondo occidentale. Decontestualizzare, significa semplificare, diminuire i fattori, gli elementi, i dati, le esperienze di cui tener conto, anzi cancellarne una buona parte, e fare in modo che non esistano. L’assurdità di un tale atteggiamento è riscontrabile in un altro passaggio dello stesso articolo di Paolo Giordano, dove si legge: “C’è una storia del conflitto israelo-palestinese che non finisce da settant’anni. Ma ce n’è anche un’altra che è iniziata sabato mattina. Le immagini delle ragazze e delle donne prese in ostaggio sono e resteranno il mio punto fermo di questa nuova storia”. Qui Giordano non fa altro che esprimere, purtroppo, un pio desiderio, ossia il desiderio che in questa storia tra Hamas, i palestinesi, il governo Netanyahu, e gli israeliani, l’orrore si sia fermato con l’azione terroristica e crudele di Hamas il 7 ottobre (almeno 1300 morti e circa 150 ostaggi); ora, in seguito a quell’orrore, si contano – bilancio provvisorio reso pubblico sui media occidentali – già 1900 morti tra gli abitanti di Gaza, di cui 600 sono bambini. Immagini di bambini palestinesi estratti dalle macerie sono state diffuse su giornali e televisioni in questi giorni. Tutti vorremmo che l’orrore trovasse un suo capolinea, una sua immagine finale e insuperabile. Ma in molti casi così non è, e l’immagine dell’orrore dei bombardamenti dell’aviazione israeliana viene ad affiancarsi alle immagini dei militanti di Hamas, che a colpi di mitra o all’arma bianca, avevano ammazzano alcuni giorni prima inermi cittadini israeliani. Se si potesse in qualche modo fissare le immagini del 7 ottobre e non avere che quelle come punto di riferimento, saremmo in grado di confinare l’orrore in uno spazio tempo ben definito: i militanti di Hamas e le loro stragi ingloberebbero tutto il male, tutti i crimini, tutta la violenza irrazionale che ha circolato nei settanta anni di conflitto tra Israele e i palestinesi. Quello che ci dice Paolo Giordano, e che hanno detto innanzitutto dirigenti politici israeliani, seguiti da vari dirigenti politici occidentali, è che dal 7 ottobre il male ha scelto definitivamente il suo campo, e che una nuova storia più chiara, più semplice, si svolgerà: da un lato i cattivi aggressori di Hamas (e un intero popolo che sarà eventualmente una vittima collaterale) e dall’altro le vittime innocenti (il governo e la popolazione di Israele). Solo che questa è una storia che non funziona, non funziona così. Anzi, dobbiamo dirlo: vedere le cose in questo modo, pensare che una situazione di grave e costante instabilità, sia riconducibile a una causa semplice (i terroristi di Hamas), e che la distruzione della causa semplice riporterà la stabilità, è un grave errore, ed è un errore conoscitivo ancor prima che morale. Quando il governo israeliano pensa e dice questo, non sta soltanto cancellando le proprie responsabilità, dimenticando i propri crimini, ma si sta illudendo o, ancora peggio, illude i propri cittadini.

A modo loro, è una storia che gli Stati Uniti hanno raccontato dopo l’11 settembre: ora abbiamo le prove di chi incarna il male nel mondo – i terroristi di Al Qaida – e l’orrore di circa 3000 civili uccisi negli attentati cancella i nostri passati crimini di guerra, come quelli realizzati durante la Prima Guerra del Golfo (bombardamenti sulla popolazione civile). Questa prova, poi, non solo ci assolve retrospettivamente, ma ci permette anche di reagire attraverso una risposta che non ha limiti nell’esercizio della forza. Ma una volta ancora non è tanto l’errore morale a essere il più grave – la volontà di assolversi dai crimini passati, in quanto vittima di un crimine attuale –, ma l’accecamento conoscitivo, che ha provocato, da allora, un accrescimento dei conflitti convenzionali e non convenzionali in tutto il pianeta. Qual è stato uno degli esiti della Seconda Guerra del Golfo durata dal 2003 al 2011? La nascita dello Stato Islamico in territorio iracheno. Vi è intorno a questo nesso rilevante letteratura e documentazione. Quanto alla guerra in Afghanistan, è durata vent’anni, dal 2001 al 2021. Oggi, i Talebani dominano sul territorio, praticando apartheid di genere e repressione del dissenso. Per chi avesse avuto dubbi sull’efficacia della guerra globale al terrorismo lanciata nove anni prima, già nel 2010 la fiumana di documenti segreti dell’esercito e dell’amministrazione, resi pubblici da WikiLeaks e riassunti da grandi testate giornalistiche occidentali, mostrò fino a che punto gli Stati Uniti, anche se fossero stati innocenti prima dell’11 settembre, dopo quella data si stavano macchiando di crimini di guerra realizzati in modo continuativo e senza produrre alcun risultato evidente sul piano militare e politico.

La tentazione di decontestualizzare può essere letta in due modi: o in buona fede (come nel caso di Paolo Giordano): si vuole esorcizzare il trauma, illudendosi di aver circoscritto e messo a distanza il male; o per calcolo cinico – questo riguarda soprattutto i dirigenti politici – si vuole illudere il proprio elettorato, che il male – la fonte dell’instabilità e della violenza – è un bersaglio chiaramente identificabile e del tutto al di fuori di sé, quindi facilmente eliminabile.

.

Quale narrazione possiamo condividere di fronte ad azioni di violenza e crudeltà estrema?

Nei giorni che hanno seguito l’attacco di Hamas contro Israele, ho fatto molta attenzione a capire non solo cosa stava accadendo, ma quali linee di narrazione si sviluppassero intorno agli eventi. Mi sono chiesto, in altre parole, come giornalisti, commentatori, dirigenti politici tentassero di dare senso e rendere intelligibile almeno in parte un evento di eccezionale brutalità e violenza ai limiti dell’insensato. La strage di civili israeliani (e non solo) perpetrata da Hamas in territorio israeliano è stata immediatamente riconosciuta come eccezionale (e quindi per certi versi inverosimile) da tutti i commentatori, dentro e fuori Israele. Diversi i motivi di tale inverosimiglianza: non tanto la barbarie in sé – Hamas aveva già usato in passato il peggiore dei mezzi terroristici: l’attentato alla bomba in mezzo ai civili – ma la modalità dell’attacco (deltaplani a motore), l’altissimo numero di vittime civili e gli errori sia da parte dell’intelligence israeliana prima dell’attacco sia dell’esercito dopo l’attacco. La ferocia dell’atto è stata poi intensificata dalle immagini diffuse dallo stesso Hamas e relative a uccisioni e rapimenti.

Per chi ha vissuto in Francia, e a Parigi in particolare, almeno dal gennaio del 2015 in poi, le immagini di uomini incappucciati che scendono da un furgoncino e sparano sventagliate di mitra su giovani disarmati, suscitano l’eco precisa di un’esperienza comune, quella degli attentati terroristici sul suolo francese: la strage alla sede di Charlie Hebdo e quelle della notte del 13 novembre per le strade di Parigi e al Bataclan.

Tipico dell’attentato terroristico è questa divaricazione tra l’atto e il suo significato, che è vera sia per la vittima diretta (coloro ne sono i bersagli concreti), ma anche per chi ne è la vittima indiretta (i parigini, i francesi che scoprono, attraverso i media, la dinamica dell’evento). Il trauma collettivo nasce innanzitutto da un’eccedenza di ferocia, di violenza gratuita ed estrema, nei confronti di qualsiasi tentativo di attribuire, a quell’atto, un significato, ossia una motivazione. Soprattutto in questo senso si dovrebbe parlare di un’azione “barbara”, ossia di un’azione opaca, che rifiuta di entrare in un discorso di senso, in una narrazione intelligibile.

Si faccia qui attenzione a una distinzione fondamentale. Quando parliamo d’intelligibilità o meno di un’azione, non parliamo di “giustificazione morale” di un’azione, ma innanzitutto di “comprensione narrativa” di essa. È il modo principale che abbiamo per dare senso a un atto, un gesto, un comportamento che, di primo acchito, ci risulta oscuro, immotivato, privo di senso. Faccio un esempio immaginario. Entro in camera di mia figlia, e vedo la foto della sua migliore amica nel cestino della carta straccia. Mia figlia (o qualcun altro) ha fatto una cosa che non capisco. Sarò costretto a chiedere a lei, perché la foto della sua migliore amica si trova in mezzo ai rifiuti di camera sua. Se vorrà rispondermi, se vorrà “spiegarsi”, se vorrà farmi capire il senso del suo atto, dovrà raccontarmi cosa è successo. Questa narrazione potrà essere più o meno lacunosa, ma mi farà capire se non altro che cosa ha spinto mia figlia a fare un tale gesto. Un comportamento inaccettabile della sua amica nei suoi confronti? Un’eccessiva permalosità di mia figlia? Entrambe le cose, combinate assieme?

Situare un’azione in un contesto narrativo non significa per forza “giustificarlo” e concludere, ad esempio, che gettare il ritratto nel cestino era la cosa migliore o giusta da fare, era la cosa che tutti avremmo fatto, se fossimo stati nei panni di mia figlia. Significa, però, sottrarlo alla pura enigmaticità, e comprenderlo come una reazione magari eccessiva, magari sbagliata di una situazione dai contorni chiari.

Torniamo ora agli attacchi di Hamas. Anche quell’evento per singolare, straordinario e terrificante che sia, esige di essere compreso, cioè inserito in un contesto narrativo. Cosa ha fatto Hamas? Sta cercando di liberare la popolazione di Gaza, rompendo gli sbarramenti israeliani? Sta difendendo dei palestinesi sotto attacco da parte di coloni israeliani? Sta ingaggiando uno scontro con i soldati della potenza occupante? Conosciamo purtroppo la risposta: Hamas sta sparando contro delle persone che sono in grandissima maggioranza civili, disarmati, presi di sorpresa. Possiamo chiamare ciò “terrorismo”, possiamo chiamarlo “barbarie”, in ogni caso c’è un linguaggio ampiamente condiviso tra i popoli delle varie nazioni del mondo per definire questo atto, in relazione al contesto in cui è emerso: si tratta di “crimini di guerra”. Il linguaggio in questione è quello del diritto internazionale, che si è concretizzato storicamente in una serie di trattati condivisi da una maggioranza di nazioni, dalle Convenzioni di Ginevra del 1949 allo Statuto di Roma del 1998.

Uno dei caposaldi del diritto internazionale è che, anche in una guerra, ci sono delle norme che non vanno violate. La guerra, che sia tra popoli o Stati, è di per sé, potremmo dire, quanto di peggiore, di più distruttivo, di più irrazionale, gli esseri umani siano in grado di realizzare. Ciò nonostante le guerre continuano a esistere, e se esistono ciò significa che coloro che vi sono coinvolti – sia per ammazzare che per farsi ammazzare – sono convinti che nel loro caso non ci sia altro da fare, non ci sia soluzione migliore che prendere le armi. Se quindi le società umane non hanno ancora trovato un modo per evitare le guerre, esse si sono seriamente impegnate, in modo coordinato, per poterle almeno regolare.

In tale contesto la norma non sta semplicemente a dirmi ciò che dovrei fare in una data circostanza – anche se sei in guerra, anche se subisci un attacco terroristico, non rispondere commettendo “crimini di guerra” – ma mi aiuta a situare la mia azione, qualunque essa sia, quella sbagliata o corretta. Se non ho norme condivise, se non ho frontiere concettuali, non sono più in grado non solo di sapere se sto agendo bene o male, ma di sapere quello che sto facendo.

Se Israele dimentica i propri passati crimini nei confronti dei Palestinesi (il blocco di Gaza, la colonizzazione continua, l’appropriazione delle risorse idriche, la distruzione delle abitazioni civili, gli ammazzamenti ingiustificati, ecc.) e si accinge a commetterne di nuovi, significa che, nel conflitto con i terroristi di Hamas, azzera il linguaggio comune del diritto internazionale, sui cui si misurano non solo le sue azioni, ma anche quelle di Hamas, e di tutti i testimoni terzi, per riconoscere un unico territorio di confronto: quello della legge del più forte.

Naturalmente Israele è uno Stato sovrano, inoltre è appoggiato – seppure in modo non completamente incondizionato – dagli Stati Uniti, superpotenza mondiale, quindi può decidere a livello di governo, con l’assenso più o meno convinto della popolazione, di praticare questa via: estirpare Hamas costi quello che costi in termini di vittime civili, di diritti umani, ecc. Sono più potente militarmente, e quindi sono certo di poter schiacciare il mio avversario, ossia un partito politico e militare, ammazzandone tutti i membri. Situandosi però del tutto fuori dal diritto internazionale, dalle norme che tentano di regolare i conflitti, Israele ottiene un primo risultato catastrofico. Alla fine neppure le opinioni occidentali meno simpatizzanti per il popolo palestinese riusciranno più a distinguere barbarie da barbarie. Già adesso è difficilissimo distinguere i cittadini inermi uccisi da Hamas dai i cittadini di Gaza, inclusi 600 bambini, morti a causa dei bombardamenti israeliani. Già adesso è difficilissimo non riconoscere l’orrore dell’assedio (né elettricità, né cibo, né acqua). Hamas ne uscirebbe vincitore di fronte all’opinione pubblica mondiale, assimilando Israele a sé sul piano morale (entrambi non conosciamo limiti nel conflitto). Il secondo risultato, anch’esso fallimentare, riguarda l’obiettivo a lungo termine di una tale operazione: anche indebolendo militarmente Hamas, anche mettendolo momentaneamente fuori gioco, la volontà di autodeterminazione del popolo palestinese non sarebbe scalfita. I palestinesi per più di settanta anni hanno resistito con tutti i mezzi – quelli legittimi e quelli illegittimi – all’occupazione israeliana. Non hanno un vero Stato, non possiedono una vera terra, vivono in una condizione d’umiliazione permanente, ma ciò nonostante non se ne sono andati, non si sono dispersi, non hanno negato la loro identità culturale e la loro storia. Israele potrebbe al limite ammazzare tutti i membri di Hamas, e con essi un numero enorme di “vittime collaterali” innocenti, ma non potrà comunque sterminare tutti i palestinesi. Questo gli stessi cittadini israeliani (la maggior parte di essi) alla fine non lo permetterebbero. Quindi, dopo aver commesso una gran quantità di crimini di guerra (se non addirittura di crimini contro l’umanità), Israele si troverebbe ancora con i palestinesi al di là dei muri, e in più con nuovi candidati pronti a rilanciare la faida.

Naturalmente non ho nessun suggerimento “positivo” da dare agli israeliani. Non saprei dire come e cosa fare con Hamas. Come rispondere militarmente all’attacco terroristico del 7 ottobre. Con chi immaginare di avviare negoziati. Potrei dire soltanto: è davvero troppo pericoloso farsi guidare in un conflitto da un partito di estrema destra. Storicamente le politiche di estrema destra non hanno mai prodotto grandi risultati per la pace e la stabilità. È davvero pericoloso mettersi nelle mani di un governo che si è contestato con ostinazione per nove mesi, considerandolo corrotto e antidemocratico. Potrei soltanto dire: non trovate giustificazioni per azzerare una volta ancora e più gravemente le frontiere tracciate dal diritto internazionale. Se lo fate, diventate come Hamas, che in nome delle reali e ingiuste sofferenze del popolo palestinese, cancella tutti i limiti nell’esercizio della violenza. Le regole del diritto internazionale sono fragili e imperfette, ma al di fuori di esse non c’è salvezza: c’è l’abisso della forza bruta, della barbarie, di ciò che può disumanizzarsi indefinitamente.

*

Immagine: Absalon, Cell N° 1, 1992.

Risveglio canonico di una mattina canonica d’un’epoca canonica

0

di Giorgio Mascitelli

Al mattino nel momento delicato del risveglio, che per alcuni è rapido ed indolore e per altri è una lunga lenta progressiva battaglia, essendo però tale differenza non dipendente dalla sola complessione costitutiva ma dagli avvenimenti della sera precedente, precisamente cioè dall’orario di coricamento e dalle libagioni, benché resti fermo che la complessione gli umori della quale consentono un pronto destarsi  a parità di condizioni con una dell’altro tipo, i predetti umori della quale producono un risveglio graduale, e ciò dipende anche dalla pressione, sia comunque più veloce, mentre resta sospeso il giudizio sul più interessante caso in cui, data una complessione del tipo dinamico caduta nelle braccia di Morfeo al termine d’una crapula prolungata ed un’altra del tipo vegetativo coricatasi in maniera salutare e sobria, insomma quale delle due dimostrerebbe maggiore reattività, se cioè l’accidente o la sostanza prevalgano, non essendo di interesse alcuno il caso opposto,  salvo che quasi per incantesimo non desse una risultanza opposta a quella prevedibile in tale caso opposto, dovendosi però a questo punto testare un campione allargato adeguatamente randomizzato, tanto più è degno di lode che Matteo Ripetta si rada ogni giorno prima di colazione con il rasoio di sicurezza: in una parola Figaro di se medesimo. Liscia e senza tagli con un fondo appenda d’aroma muschiato.

Lo sbarbato entra in cucina. Accende l’apparecchio radiofonico. Si prepara la colazione. Egli predilige canali radiofonici con musica non con notiziari, egli predilige lo Scheissli con il latte caldo ( è un prodotto lussemburghese, l’unico che sia dato conoscere alle masse oltre alle società finanziarie possedute da società finanziarie che appartengono a società finanziarie il cui pacchetto di maggioranza è in mano a società finanziarie di proprietà delle prime, forse non particolarmente dietetico, ma leggero e gustoso). Consuma la colazione. Si veste. Prende la macchina. Si reca al lavoro. Matteo Ripetta amerebbe non usare la vettura per andare al lavoro, ma deve, data la natura del suo incarico. La sede del suo ufficio è talmente moderna da essere progettualmente immune dall’idea che vi si possa accedere con altro che l’automobile. A Milano al mattino c’è il traffico, che è come dire piove, è mercoledì, sono a Cesena con in più le imprecazioni. La circolazione è resa difficile dall’alto numero di cicli e motocicli che superano da ambo i lati senza rispettare alcun vincolo di sorta. Hanno detto a Matteo Ripetta che tra qualche anno le vetture verranno condotte dal calcolatore ed anzi non abbisogneranno più del parabrezza in vetro, se non per ragioni panoramiche, perché vi saranno delle rappresentazioni simulate su schermo della sede stradale. Il guidatore debitamente talpizzato viaggerà sicuro e senza le tensioni cagionate dalla guida visiva. Matteo Ripetta attende con una punta di impazienza il protendersi di tale innovazione che lo distoglierebbe dalle noie che gli causa la guida in città. Bisogna stare attenti quando attraversano i cani. Il cane che sfugge, il cane che abbaia, il cane che porta a spasso la propria padrona, il cane timido, il cane in braccio, il cane in scatola, il cane del popolo, il cane di marmo, l’ultimo cane. I cani, ci sono migliaia di cani di tutte le razze ad ogni momento del giorno: un autentico melting pot.

Quando è in macchina per andare al lavoro, Matteo Ripetta ha come una malinconia che increspa il suo volto ancor giovane.  Talvolta viene spontaneo chiedersi cosa resta delle dolci speranze  giovanili ( forse deve  già averci pensato qualcuno), di quegli intensi desideri, della sicurezza della propria irriducibilità e novità, ma altre volte non viene spontaneo chiederselo e dunque la situazione si riequilibra da sé. Comunque quelli a cui viene spontaneo chiederselo, oltre a essere chiaramente più perspicaci e fini d’animo, conducono una vita più complessa, più seria, più profonda, in una parola più autenticata di quegli altri che non si chiedono nulla. Quegli altri che non si chiedono nulla sono magari capaci di gentilezze verso gli altri, di slanci, ma poi in realtà è tutta roba a corto raggio.

Colui il quale conduce una vita autenticata ama viaggiare in treno per diporto, se viaggia in treno legge e non chiacchiera, al massimo guarda dal finestrino ( senza sospirare) e, in viaggi di un po’ più di un’ora di durata, si reca eccezionalmente e solo per grave necessità ai servizi. Inoltre respira piano per non far rumore. Colui il quale conduce la predetta vita di cui sopra ama le vie poco battute che preferisce alle rumorose. E’ libero da pregiudizi e per comprensibile reciprocità i pregiudizi sono liberi da lui. Colui il quale fa la predetta vita prende partito per varie conclusioni e per apologia a chi gli allega evidenti ragioni, risponde in intercalare: OPINIONI. E s’incanta a sentire una marcia allegra e sgangherata quasi da fiera di paese.

Il problema consiste precisamente nel fatto che Matteo Ripetta alcune di queste prerogative le rispetta. Altre no. Ma poi c’è il traffico  e all’interno di questo i furgoncini che pretendono di muoversi come libellule e sono invece goffi e pesanti. Si incuneano, superano, si muovono con jattanza, posteggiano agli incroci, suonano senza ritegno se uno ha posteggiato a un incrocio e imprecano come camalli.

E’ difficile avere un atteggiamento univoco: se da un lato la libera circolazione è uno dei capisaldi della civiltà contemporanea, dall’altro la loro esuberanza lascia perplessi e si fa presto a dire asino al prossimo. Il furgoncino nella società contemporanea è un elemento in qualche modo dirompente ed in qualche modo emblematico, ma quando dirompe troppo non diviene l’emblema di un bel nulla.  Certo è difficile ricordarsi di essere membri di una società aperta, quando il clacson isterico trombeggia alle spalle l’annuncio di un giudizio universale che non ci sarà o quando un pachiderma si atteggia a mosca nel valutare i rapporti spaziali con le altre vetture. Eppure si continua ad esserlo.

( questo racconto è apparso in forma lievemente diversa su Qui appunti dal presente n. 4, 2001)

Cherchez les femmes

1

 

Chopin, Fitzgerald, O’Connor: le tre terribili Southeners

di     

Michela Polito

 

Sebbene abbiano espresso sé stesse in maniere peculiari e diverse tra loro, Kate Chopin, Flannery O’Connor e Zelda Fitzgerald hanno molto in comune. In primo luogo, sono “vicine di casa”, affondano infatti le loro radici culturali e identitarie negli stati del Sud. Kate era originaria del Missouri e fu residente per lungo tempo in Louisiana; Flannery, nata a Savannah, fu residente per tutta la vita in Georgia – eccettuata la parentesi universitaria in Iowa; Zelda nacque a Montgomery, Alabama, anche se visse i suoi anni ruggenti fra New York e la Francia degli “espatriati”. Il fatto di essere tre outsider e di provenire tutt’e tre dal Sud forse non è il mero frutto di una felice coincidenza. Gli stati del Sud sono infatti ancora oggi tristemente noti per il loro carattere conservatore, per il fondamentalismo religioso e per un razzismo neanche dissimulato. Non è inusuale imbattersi in bandiere degli stati confederati, benché la guerra sia finita da circa due secoli.

Se questa è la situazione del Sud ai nostri giorni, figuriamoci ai loro tempi. E figuriamoci come vennero accolte le opere di tre donne, che già per il fatto di essere donne ad avere un’opinione, una visione, e addirittura la “sfrontatezza” di esprimere il loro pensiero attraverso la scrittura, in un simile contesto si ponevano in una posizione estremamente scomoda.  Bersagli, seppur non del tutto consapevoli, del moralismo ottuso e paternalista della critica e dell’opinione pubblica dei tempi. Si consideri Kate Chopin. Nata a ridosso della guerra di secessione, scriveva alla fine del XIX secolo; Zelda negli anni ’30, anche se la sua figura è associata al decennio precedente, l’età del jazz, di cui è considerata l’icona; Flannery negli anni ‘50, decennio in cui al Sud era ancora in vigore il segregazionismo, non dimentichiamo che era il 1955 quando Rosa Parks sedeva su quell’ autobus.

Cos’altro ci si sarebbe potuto aspettare da tre libere pensatrici, intrappolate, a parte Zelda, in un simile contesto sociale e culturale, se non che mostrassero segni di insofferenza, che fossero tacciate di scrivere opere immorali e di comportarsi in maniere inaccettabili, e che venissero ripudiate da un’università cattolica perché  i propri scritti non riflettevano i valori gesuiti di Loyola, come nel caso di Flannery, scrittrice notoriamente credente, seppur non bigotta?

Kate fu letteralmente boicottata. La critica e l’opinione pubblica di allora non accolsero di buon grado il fatto che aveva parlato esplicitamente, seppur candidamente, di argomenti quali l’adulterio femminile, come in The Storm ma non solo, o la nascita di figli interraziali (non sia mai!), come in Desirèe Baby. Né, tanto meno, accettarono che avesse sbattuto in faccia al pubblico tout court il fatto che, guarda un po’, anche le donne hanno impulsi sessuali, malgrado l’idea corrente di donna all’epoca fosse quella del frigido angelo del focolare, a cui poco dopo, oltreoceano, Virginia Woolf diede, grazie a dio, il colpo di grazia. Le sue opere non vennero più ristampate per decenni, quando furono riprese e rivalutate dal movimento femminista negli anni ‘70.

Prendiamo il caso di The Storm, il più riuscito dei suoi racconti. Composto nel 1898, non fu mai pubblicato se non come parte della raccolta The Complete Works of Kate Chopin nel 1969. Scritto poco dopo The Awakening, romanzo controverso pubblicato nel 1899, The Storm è la storia dell’incontro sessuale di due persone, Calixta e Alces, entrambe sposate con altri. La circostanza di questo incontro, una tempesta per l’appunto, funge sia da metafora che da espediente affinché questo incontro abbia luogo —il marito e il figlio di Calixta sono fuori casa e sono impossibiltati a tornare finche` la tempesta non cessi—.

La generosa abbondanza della passione di lei, priva di sensi di colpa o inganno, era come una fiamma bianca che penetrava e trovava risposta nelle profondità della natura sensuale di lui, che non era mai stata raggiunta prima di allora. Quando sfiorò il suo seno, gli si concesse in un’estasi tremante, invitando le sue labbra.

La sua bocca era una fonte di delizia. E quando la possedette, fu come svenire ai confini estremi del mistero della vita. Lui rimase accovacciato su di lei, senza respiro, stordito, privo di forze, il cuore battente come un martello sul suo petto. (The Storm) 

 L’accoglienza violenta di pubblico e critica all’uscita di The Awakening, caratterizzato dalla stessa linea di sessualità esplicita del racconto, scoraggiò Kate a tentare la pubblicazione di quest’ultimo, motivo per cui rimase nel cassetto per quasi un secolo.

Dai diari di Zelda Scott fece man bassa, e molti passaggi finirono nei suoi romanzi, come notò lei stessa con una certa tagliente ironia in una risposta che diede a un giornalista del New York Tribune in occasione dell’uscita di The Beautiful and The Damned:

Mi sembra che in una pagina ho riconosciuto una parte di un mio vecchio diario misteriosamente scomparso poco dopo il mio matrimonio, e anche frammenti di lettere che, sebbene notevolmente modificati, mi suonano vagamente familiari. In effetti, il signor Fitzgerald – credo che sia così che scrive il suo nome – sembra credere che il plagio inizi a casa.
(The New York Tribune).

Eppure Zelda non passò alla storia per le sue doti letterarie e artistiche e, anzi, il celebre marito storse il naso di fronte alle richieste incalzanti di editori e giornali che espressero il desiderio di annoverarla fra i loro autori. Ma Zelda era lei stessa un’opera d’arte in carne e ossa. Icona delle flapper, ovvero le ragazze degli anni ‘20 coi capelli a caschetto e la frangia, il rossetto scuro, il kajal marcato intorno agli occhi, e tutto l’armamentario dell’era del jazz, piume di struzzo e sigarette col bocchino incluse, non era certo il prototipo della donnina sottomessa che ci si aspettava dalle sue parti. Ballerina, ribelle, battuta pronta e dialogo arguto, flirtava sfacciatamente con i disgraziati che le capitavano a tiro in quel di Montgomery, e anche dopo sposata fu ben lontana dal mostrarsi un personaggio di facile gestione. Nonostante il suo genio, proprio a causa dei suoi mancati riconoscimenti artistici, per non parlare del suo matrimonio delirante, non visse un’esistenza serena, finendo per venire incarcerata a intermittenza entro varie case di cura, dove concluse la sua vita turbolenta.

E Flannery, forse non bistrattata come le prime due, non era sicuramente meglio integrata nel suo ambiente sociale, che lei stessa ritrasse in un modo per cui, non per niente, le sue opere sono considerate New Southern Gothic, visto il carattere grottesco dei suoi personaggi e, generalmente, delle circostanze in cui sono calati. Mi viene in mente, a proposito di personaggi grotteschi, la famiglia medio borghese decerebrata di A Good Man Is Hard To Find. I bambini sono dei mostri.

La risposta che la ragazzina, June Star, dà alla moglie di Red Sam a proposito del suo locale è emblematica, ma non sarebbe l’unica battuta a far venire voglia di rifilarle un manrovescio:

“Non e` adorabile?” disse la moglie di Red Sam, sporgendosi dal bancone. “Ti piacerebbe venire a vivere qua ed essere la mia bambina?”

“Certo che no”, rispose June Star. “Non vorrei venire a vivere in questo posto che cade a pezzi neanche per un milione di dollari!” e corse di nuovo al tavolo.

I genitori totalmente passivi e vuoti in maniera preoccupante (la madre sfoggia un foulard con le orecchie da coniglio e la faccia di un vegetale: non proprio il ritratto dell’intelligenza): tale era la sua percezione della middle class americana bianca. Tutti sono abusivi nei confronti della nonna, che comunque non spicca di sicuro quanto a intelligenza neppure lei: una mitragliatrice di luoghi comuni. Senza contare il modo in cui parla del bambino di colore che vedono dalla macchina durante il loro viaggio verso la Florida: come se fosse uno spettacolo del circo perché sprovvisto di pantaloni a causa della povertà.

“Oh, guardate quel grazioso negretto!” disse puntando il dito verso un bambino di colore davanti a una baracca. “Non vorreste fare una foto adesso?” chiese, e loro [i nipoti] si girarono e lo guardarono dai finestrini posteriori.  Lui li salutò.

“Non aveva su i pantaloni”, disse June Star.

“Probabilmente non ne ha”, spiegò la nonna. “I negretti nelle campagne non hanno le cose che abbiamo noi. Se potessi dipingere, dipingerei quel soggetto”, disse.

Considerazione che già di per sé rende perfettamente l’idea dell’idiozia del personaggio, fosse stata la sua unica battuta in tutto il racconto. Paradossalmente, l’unico che mostra un briciolo di coscienza in più, e quindi di umanità, è proprio The Misfit, il bandito evaso. The Misfit si eleva dallo stato di ameba in cui vertono gli altri, ponendosi, ad esempio, domande sul peccato e sull’entità della punizione, tanto che il lettore finisce quasi per simpatizzare con lui, piuttosto.

“Gesù ha mandato tutto a gambe all’aria. È stato lo stesso, per Lui e per me, solo che Lui non aveva commesso nessun delitto e invece hanno potuto provare che io ne avevo commesso uno, perché avevano le carte. Naturalmente”, proseguì “a me le carte non le hanno mai fatte vedere. Ecco perché firmo, adesso. Molto tempo fa mi sono detto, inventati una firma e firma tutto quello che fai e tienitene una copia. Almeno saprai cosa, cos’hai fatto e potrai confrontare il crimine con la pena e vedere se combaciano. Alla fine avrai qualcosa in mano per provare che non ti hanno trattato con giustizia. Mi faccio chiamare The Misfit perche` non mi quadrano i conti tra il male che ho fatto e quello che ho dovuto subire per scontarlo. (Un brav’uomo è difficile da trovare)

 

E quando la banda di delinquenti stermina tutta la famiglia, è quasi un sollievo che ci abbiano manlevato da tale prodigio di stupidità, in una scena degna del migliore Tarantino.

Eppure, nonostante tutte le difficoltà, i tormenti e le mancanze di riconoscimenti che queste tre donne affrontarono, restano ancora oggi tre punti focali della letteratura mondiale e dell’emancipazione femminile, tanto che furono considerate, nel caso di Kate Chopin o della southern belle Zelda, protofemministe, e nel caso di Flannery, una fuoriclasse semplicemente meravigliosa, dotata di una visione tagliente e dissacrante della società, lasciandoci lì, alla fine dei suoi racconti, con uno di quei sorrisi tirati del tipo che non si sa se ridere o se piangere.

Ultramarino — di Mariette Navarro

0
© Ornella Tajani
© Ornella Tajani

 

[Questa recensione è apparsa su “Allegoria”, n. 87, qui]

di Ornella Tajani

«En attendant le bain dans la mer, à midi»: si chiude così il componimento Bonne pensée du matin, in cui Rimbaud immagina l’alba dopo il «sonno d’amore» di operai impegnati nel costruire palazzi. È un bagno che resta irrealizzato, perché nella poesia c’è solo la sua attesa: eppure questa è l’immagine che permane dopo la lettura. Insieme ad altri echi rimbaldiani, una simile visione risuona e assume concretezza in Ultramarino, primo romanzo della drammaturga Mariette Navarro, tradotto da Camilla Diez: durante una traversata transatlantica, dopo essersi lasciati le Azzorre alle spalle, i marinai chiedono alla loro capitana di fermarsi per fare un bagno in mare; lei, sempre ligia al dovere, inspiegabilmente acconsente, sebbene resti l’unica a non tuffarsi, a mantenere il controllo di «quelle tonnellate di metallo» diventate di colpo «una farfalla morta, inchiodata, magnifica» (è solo la prima delle trasfigurazioni zoomorfiche che la nave subirà). La ciurma scivola in acqua con incredibile entusiasmo, provando l’eccitazione di una rinascita nelle profondità liquide dell’«Abyssal plain», la piana abissale che comincia ai piedi della scarpata continentale: «Nessuno verrà mai a saperlo, ma loro nascono proprio in quel momento, dall’aria verso l’acqua, espulsi per scelta dalla condizione verticale e dal loro tempo. Per un istante rovesciano l’ordine delle cose, forse da qualche parte degli uccelli spiccano il volo al contrario oppure un fiume, all’improvviso, risale verso la sorgente». Questa nascita è diversa dalla prima, è «più riuscita», perché ora vengono al mondo «adulti e di loro spontanea volontà»: l’Atlantico come liquido amniotico, il mare come madre (i due termini, in francese, sono omofoni). Ma, come si diceva, l’ordine è rovesciato: all’eccitazione del bagno segue il terrore all’idea di essere rimasti soli in mezzo all’oceano; al sollievo provato quando finalmente ricompare la scialuppa di salvataggio con cui l’avventura era iniziata si contrappone la difficoltà di riportare sulla nave un mezzo emergenziale, solitamente impiegato quando dalla nave si fugge. Si percepisce un diffuso sfasamento, un dérèglement: non erano in venti quando si sono tuffati? Com’è possibile che ora, invece, siano ventuno? Tutti risalgono a bordo, la navigazione riprende, eppure qualcosa si è incrinato: la capitana ha ceduto al capriccio dei suoi sottoposti, i motori cominciano a rallentare e sfuggono al controllo, l’orizzonte si tinge di un bianco senza apparenti vie d’uscita; per giunta, in giro per i corridoi c’è un ragazzino biondo che nessuno ha mai visto e che somiglia tanto a un angelo della morte (la sua figura, per un gioco di rimandi che sarebbe piaciuto a Jean Cocteau, ricorda un po’ il più celebre ritratto di Rimbaud). Si scoprirà che la protagonista, unica donna fra uomini, senza che questo sia motivo di turbamento per alcuno o di commento, sta attraversando la densa coltre che porta alla consapevolezza di un lutto: «ci sono i vivi, i morti e quelli che vanno per mare», scrive Navarro in apertura di romanzo, ripetendolo come un mantra; tenerlo a mente è già un passo verso l’interruzione della stasi in cui il «gigantesco animale nave» sembra essersi incagliato. Ultramarino sfrutta tonalità fantastiche, oniriche; l’autrice rende molto bene il piano acustico (i cigolii metallici, i suoni acquatici) e quello visivo, orchestrando una narrazione in costante equilibrio fra il piano del reale e le rivelazioni dell’inconscio. Al di là dei richiami intertestuali da lei dichiarati – Omero, il mito di Ifigenia, Melville, Conrad –, colpisce la quantità di risonanze che il romanzo attiva nell’oceano letterario: oltre a Rimbaud, le riflessioni sulla verticalità dell’esistenza contrapposta all’orizzontalità della vita per mare richiamano alla mente versi di Sylvia Plath: «I am vertical / But I would rather be horizontal»; e l’inquieta protagonista del romanzo potrebbe dire con Anne Carson – che, nella risposta via mail a un giornalista, citava a sua volta Monica Vitti – «I can’t watch the sea for a long time or what’s happening on land doesn’t interest me anymore».

Non ce lo meritiamo

0

di Gianni Biondillo

 

Nel 2017, ospite di un consesso internazionale, mi ritrovati all’Università di Tokyo ad assistere a una conferenza di Fumihiko Maki, architetto premio Pritzker nel 1993.

Maki ad un certo punto proiettò una tabella molto interessante che mostrava quali fossero le cinquanta architetture mondiali del novecento che gli studenti della Columbia University avrebbero voluto assolutamente visitare. Inevitabilmente con gli occhi andai a cercare i nomi degli architetti italiani. Pochi, molto pochi. Praticamente nessuno. C’era Renzo Piano con il Beaubourg, che, ad essere precisi condivideva il progetto con un architetto inglese, Richard Rogers. E poi a Parigi, non in Italia. Insomma, un progetto internazionalista e poco italiano, a ben vedere. C’era la casa Malaparte a Capri di Adalberto Libera, anche se la paternità a Libera è stata messa in discussione ormai da una generazione, al punto che potremmo dichiararla quasi un caso di abuso edilizio auto costruito (da uno scrittore geniale). E poi c’era la Casa del Fascio, di Giuseppe Terragni.

Insomma, un giovane architetto americano, per il suo aggiornamento culturale, se fosse passato in Italia, avrebbe fatto un pellegrinaggio non a Milano o Firenze o Roma, ma a Como.

Mi fece piacere leggere il nome di Terragni (i miei ventiquattro lettori sanno della mia passione insana per lui), ma non mi ha stupito. Giuseppe Terragni è forse l’architetto italiano del novecento più studiato al mondo. E che la Casa del Fascio fosse un capolavoro era cosa palmare fino dai tempi della sua costruzione. Ovviamente solo in Italia una pubblicistica dal vago sapore scandalistico ha fatto del nome dell’edificio un’onta da nascondere. I problemi nominalistici sembrano gli unici che interessino chi di arte nulla sappia. Chiamiamo, in effetti, Palazzo Medici-Ricciardi a Firenze un edificio dove i Ricciardi nulla hanno fatto se non comprarselo nel ‘700 e farlo diventare casa loro. Non hanno altro merito. Anche se forse anche questo è un merito. L’edificio è giunto fino a noi anche grazie alle loro cure. Analogamente potremmo discutere di come chiamare un edificio che è stato solo per nove anni al servizio di un partito e per oltre mezzo secolo sede della Guardia di finanza. Ricordo come da ragazzo sulle guide turistiche dedicate a Como l’edificio non veniva neppure messo in evidenza. Poi, negli anni, segnalato con un generico “Sede della Guardia di Finanza” e persino come “Casa Terragni” quasi fosse il palazzo nobiliare della famiglia comasca. Adesso, a quasi un secolo dalla posa del primo mattone, s’è trovata una soluzione mediana: “Ex-Casa del Fascio”. Cosa che in effetti è. Ex.

E pensare che a pochi anni dalla fine del conflitto mondiale si paventò persino di abbatterla per una operazione di speculazione edilizia. Come reagì la comunità degli architetti e degli amanti dell’arte dimostra come già all’epoca tutti sapevano che si era di fronte a un edificio imprescindibile. E l’episodio la racconta lunga su come una narrativa vittimistica di una certa cultura di estrema destra sia completamente campata in aria. Leggo ancora oggi di epurazioni, di nascondimenti, di censure nei confronti dell’arte fascista. Con un errore metodologico che dimostra come quelle lamentele siano innanzitutto ideologiche. Qui si confonde l’arte fascista con quella che si è prodotta non ostante il Fascismo. Come se Piacentini e Terragni fossero la stessa cosa. Ma se c’era un architetto che Terragni odiava dal profondo del cuore era proprio Piacentini. Non a caso Terragni non costruì mai nulla nella capitale della retorica imperiale, Roma.

Fortunatamente, gli architetti già nel primo dopoguerra sapevano ben distinguere il grano dal loglio. C’è una lettera di Franco Albini che lo testimonia con chiarezza (voglio qui ringraziare la Fondazione Albini che me l’ha fatta conoscere). Albini scrive alla sorella Maria, transfuga a Parigi da un decennio e attiva nella resistenza francese. Siamo nel settembre del 1945. Albini racconta come, finita la guerra, ci sia stato un riposizionamento da parte di quegli “inetti” (così li definisce) “che non hanno mai avuto idee per la testa” e che ora riappaiono “a dire che sono perseguitati dal fascismo e a parlare di libertà: tutti parlano di libertà, che è la libertà di fare i propri schifosi interessi.” C’è descritto molto del carattere dell’italiano medio, in questa lettera privata. Il tipico saltare sul carro del vincitore, più realisti del Re. Albini non ci sta e critica “quei tali inetti, che dicono “arte fascista” a quell’arte che è fiorita qui malgrado il fascismo, e che proprio per il suo carattere internazionale dimostra di essere universale, e per niente legata alla politica”. Albini è un architetto “di sinistra” ma non ha problemi a criticare quegli “artisti, che si dicono comunisti, e che dichiarano di fare l’ “arte comunista” che scivolano verso il contenutismo (un quadro che rappresenta Lenin è più bello di uno che rappresenta Mussolini)”. Concludendo con un esempio preciso, che cita proprio il nostro Terragni: “Bisogna battersi ancora molto nel campo critico, e chiarire che l’arte è arte per sue ragioni particolari e non perché abbia o no una destinazione politica: la casa del fascio di Terragni è arte anche se è la casa del fascio, e il grande monumento a Stalin non lo è.”

Nel 1945 l’avanguardia degli architetti italiani sapeva che Terragni era un maestro. Furono gli stessi che polemizzarono nel 1956 contro l’abbattimento della Casa del Fascio (fra questi Ernesto Nathan Rogers, ebreo perseguitato dal regime, e Lodovico Belgiojoso, sopravvissuto al campo di concentramento di Gusen). Nel 1968 il critico Bruno Zevi (ebreo e antifascista) pubblicò un “Omaggio a Terragni” che portò l’opera dell’architetto comasco nel mondo. Che Terragni fosse o non fosse fascista importava, e importa, davvero poco. La sua opera resta la più luminosa, la più poetica, del ventesimo secolo in Italia. Intere generazioni di progettisti nel mondo l’hanno studiata e approfondita, famosi architetti americani contemporanei si sono rifatti a Terragni quasi fino a plagiarlo.

Eppure l’asilo Sant’Elia, l’ultimo capolavoro di un architetto morto troppo giovane, è da ormai un lustro vuoto. I “turisti colti” di passaggio a Como (quelli a cui dovrebbe mirare un comune lungimirante) vengono per visitarlo e si ritrovano davanti a una staccionata raffazzonata e a un edificio abbandonato. Avendo io a Milano l’esempio del Marchiondi Spagliardi, capolavoro del brutalismo di Vittoriano Viganò vincolato dalla Sovrintendenza e abbandonato a se stesso da decenni, so già, purtroppo, come andrà a finire: infiltrazioni, topi, spoliazioni, scrostature, crolli.

Ci fregiamo, con un campanilismo peloso, di aver dato i natali a geni come Terragni, ma poi, nei fatti, ci disinteressiamo del loro lascito materiale. Non ce lo meritiamo Terragni, questa è la verità. Non ce lo siamo mai meritati.

(pubblicato su L’Ordine del 16 luglio 2023)

Terre di montagna (sillabario della terra # 15)

2
????????????????????????????????????

di Giacomo Sartori

Per molti anni ho avuto la fortuna di occuparmi quasi solo di terre di boschi e alte praterie schiacciate da cieli scostanti e nervosi. Terre di altitudine, percorse da animali selvatici e da rari uomini amanti degli alberi e del silenzio. Terre linde e profumate, mai completamente asseccate, leggere e fresche anche nel pieno dell’estate.

Scavando a mano la mia buca per osservare e raccogliere i campioni avevo la certezza che nessuno era mai andato a curiosare lì sotto, che tutto quello che vedevo era lì da migliaia d’anni. I colpi del piccone e della pala rimestavano odori di funghi, vapori di muffe umide che mi salivano alla testa. Spesso dovevo tagliare delle radici, avevo un apposito seghetto pieghevole molto affilato, e quindi si aggiungeva l’asprigno delle resine. Tutta quella vita che forzavo a mostrarsi era custode di segreti che non si erano mai mostrati agli uomini, che li avevano tenuti lontani.

Lì sotto il mondo minerale, per noi invincibile, aveva la peggio. Le pietre calcaree erano limate dall’acqua, con docce arrotondate e curve sinuose che ricalcavano il percorso dei rivoli sotterranei, facendo pensare a tante sculture astratte del Novecento. Quelle di granito si sfaldavano invece tra le dita, dando una graniglia sale e pepe. Le arenarie molto alterate si mettevano in mostra con i loro gialli o rossi molto vivi, macchie espressioniste che si scioglievano anche loro nel palmo della mano lasciando una pastosità untuosa. Come per magia le pietre più dure avevano perso la loro tenacia: la avevano ceduta alla terra.

A volte mi accompagnava, per pura passione, un collega più anziano e con una vastissima cultura ambientale, anche lui stregato da quello spettacolo intimo: c’è un piacere quasi voyeuristico, nello svelare un universo sotterraneo intonso. È l’eccitazione degli esploratori, perché nemmeno con la più grande esperienza si può prevedere con esattezza la profondità e gli infiniti dettagli di un determinato suolo. Nei fatti ogni buca è almeno per certi aspetti diversa, come è particolare ogni persona, anche restando nello stesso gruppo etnico. La realtà è che a dispetto della nostra necessità di dare nomi e classificare la natura non è mai uguale a sé stessa, cambia sempre.

Non era facile convincere chi di dovere che i miei studi servivano a qualcosa, e avere qualche misero finanziamento. Bussando pazientemente a tante porte qualcuno un po’ bendisposto però lo trovavo. Alcuni botanici e alcuni tecnici forestali intuivano l’importanza della terra per la vegetazione, sapevano che a ogni suo tipo corrispondono piante precise, in un legame che a quei tempi si spiegava solo in parte. Si vedevano gli effetti dell’acidità o della basicità del suolo e della sua capacità di immagazzinare l’acqua, ma si ignorava l’azione dei microorganismi e dei composti emessi dalle radici, che controllano le successioni delle formazioni vegetali e i loro mosaici.

Con gli anni accumulavo dimestichezza. Provavo piacere a riconoscere alla prima occhiata che varietà di terra fosse, e potevo prevedere, in base alla vegetazione e al tipo di roccia e a altri elementi, cosa avrei trovato in una pecceta con un tappeto di mirtilli neri o sotto una lingua di contorti e impenetrabili pini mughi. Non mi importava nulla che fosse un filone di studi qualitativi che stava scomparendo, perfino nel Paese nei quali aveva dato i bellissimi risultati che mi servivano da guida, spazzato via da interessi più circoscritti e più alla moda. Ero un perfetto autodidatta, e non mi dispiaceva esserlo. Credo che gli esseri umani godano profondamente nel capire quello che hanno attorno, trovando una logica nell’apparente disordine, esattamente come godono mangiando buoni cibi o facendo sesso.

Ero solo, con dei mezzi più che ridotti, per non dire inesistenti. La mia fortuna era che un validissimo chimico del compassato istituto regionale di ricerca agricola mi aveva preso a benvolere: con la sua dissacrante indole anarchica eseguiva un grande numero di costose analisi chimiche senza compenso, infilandole tra quelle che svolgeva ufficialmente. Potevo quindi fare le cose un po’ più seriamente. Più andavo avanti e più mi convincevo che la lettiera e gli straterelli organici di superficie, dei quali nessuno sapeva nulla, e che erano spesso ignorati, erano fondamentali. Mi sono messo a osservarli e a confrontare le nomenclature esistenti, valutando i loro pregi e difetti. Fino a diventarne, la concorrenza in realtà era molto ridotta, un vero esperto.

Un giorno mi ha scritto un ricercatore di un ente nazionale, dicendomi che avrebbe volentieri approfondito alcuni aspetti dei suoli che studiavo: ha cominciato a svolgere le sue raffinate indagini sulla mineralogia dei minerali ai campioni che gli spedivo. Grazie a lui le terre che scavavo l’estate sulle montagne della mia regione di origine – vivevo già all’estero – sono sbarcate su una prestigiosa rivista scientifica internazionale.

Siamo stati allora contattati da un professore svizzero che trovava interessante quello che facevamo. Da noi nessuno parlava ancora di cambiamenti climatici, ma da loro era già una pressante preoccupazione. D’improvviso i suoli diventavano centrali, con la loro capacità di immagazzinare nella loro frazione organica quantità di carbonio tre volte maggiore di quella delle foreste e degli altri tipi di vegetazione del Pianeta. E lo divenivano anche gli straterelli organici ai quali avevo dedicato tanto tempo. Abbiamo quindi iniziato una collaborazione, questa volta supportata da tutti i mezzi che aveva la ricerca in Svizzera.

Con i suoi allievi e colleghi il professore svizzero eseguiva indagini ben più approfondite delle mie, addentrandosi nei dettagli più infimi della composizione delle materie minerali e organiche, e le loro evoluzioni nel tempo. Ricerche che presupponevano macchinari all’avanguardia e attrezzature sofisticate, che nel nostro Paese non avevano equivalenti, non in quel settore considerato senza interesse. A quel punto il mio ruolo diventava soprattutto quello di guida locale e di supporto logistico: conoscevo come le mie tasche le terre delle montagne della mia regione, e questo tornava molto utile nel pianificare nel modo migliore i confronti e gli approfondimenti. Gli ottimi risultati che venivano fuori si dovevano anche alle mie conoscenze empiriche e tassonomiche.

Per tutte le certosine e costosissime analisi e le elaborazioni statistiche dei risultati si arrangiavano loro, cosa della quale un po’ mi vergognavo, ma potevo rifarmi nell’esecuzione dei campionamenti e dei prelievi. Sapevo maneggiare bene pala e piccone, mi piaceva prelevare campioni che odoravano di muffa e camminare tra magnifici larici portando dei pesi. E ritornavo poi utile nella redazione degli articoli scientifici, in particolare per quanto riguarda l’inquadramento ambientale e gli aspetti generali dei suoli. Ma inaspettatamente anche nella rilettura e nelle correzioni finali degli stessi. Il mio inglese era così così, con il mio intuito e quello che avevo assimilato nelle mie letture sapevo però creare legami e proporre migliorie. E vedevo quando le frasi tenevano bene e non potevano essere attaccate: lo stile neutro della scienza è un registro retorico come un altro. Con le mie scritture invernali ero allenatissimo a mirare alla forza.

Il professore svizzero sempre sorridente era una micidiale macchina di lavoro, quindi pubblicavamo adesso moltissimi contributi sulle migliori riviste scientifiche. Quello che facevamo attraeva cocciuti ricercatori abituati a lavorare nell’ombra di sottodiscipline telluriche poco conosciute e poco finanziate: a ogni nuovo progetto si univano altri appassionati molto validi, di solito senza chiedere compensi, quando sempre più tutto veniva monetizzato. Spaziavano dagli alberi secolari alle più piccole molecole organiche, passando per il patrimonio genetico di batteri e altri microbi, i vermettini grandi a piccoli, questi o quegli insetti, i carboncini legati agli incendi di migliaia d’anni prima, gli enzimi che controllavano le trasformazioni. Specialisti abituati a andare avanti per conto loro, con tutte le limitazioni annesse e connesse, e che nelle interconnessioni trovavano più senso.

L’ultimo progetto, che metteva al centro proprio gli straterelli della lettiera sui quali mi ero intestardito, fu una cosa imponente. Partecipavano ricercatori di tanti Paesi e di campi diversissimi, molti tesisti, molti studenti. Nei rilievi in campo, sempre in quella regione dove nessun ente mi prendeva davvero sul serio, sembrava un formicaio, ognuno prendeva misure e riempiva sacchettini, trovava soluzioni e aiutava gli altri, con un entusiasmo e una energia che non avevo mai incontrato sul lavoro. Mi davo da fare con questo e con quello, ma mi sentivo un po’ escluso, io che non appartenevo in forma stabile a nessun organismo e che non avevo dietro un laboratorio, che ero ormai uno schiavo della scrittura. Tirava le file una perentoria professoressa della Germania ex-comunista con entrature nelle istituzioni europee, tarchiata e amante dei buoni vini bianchi aromatici, specializzata nella traduzione dei processi dei suoli in modelli matematici.

Sotto la sua guida risoluta tutti i dati confluivano e venivano macinati in folte equazioni, e a me sembrava che perdessero per strada tutta la loro forza, la loro verità, il loro riflettere le particolarità di ogni situazione. Mi pareva che le previsioni che sputavano fuori quei presuntuosi arnesi matematici fossero banali e insulse, per non dire molto approssimate, se paragonate alle mie conoscenze empiriche e alla mia intuizione. Mi sembrava soprattutto che non avessero più nulla a che fare con me, le terre che amavo e il mio lavoro di tanti anni. Ma certo ero io che non avevo dimestichezza con quegli strumenti, per ignoranza e forma mentale, e forse i risultati non erano poi così meschini come mi apparivano. Dopotutto approcci e linguaggi separati entravano per la prima volta in contatto e cercavano di parlarsi. Bisognava forse solo continuare su quella via.

In ogni caso non fu possibile continuare quell’esperienza così unica, come avremmo voluto, nessun organismo era disposto a finanziare tutti quei fanatici sordi ai discorsi dominanti, nessuno capiva le esplosive potenzialità di mettere assieme competenze e visioni così disparate, quelle lingue all’apparenza così inconciliabili, per capire come funziona la terra. Tutti parlano di ecologia, ma le maglie ecologiche sono complesse e difficili da indagare. Nemmeno la volitiva professoressa teutonica aveva gli agganci all’altissimo livello che ci sarebbero voluti.

Nel frattempo c’era stata del resto una crisi finanziaria, e il mondo si concentrava ancora di più sulle questioni ritenute importanti, ben legate al cosiddetto sviluppo economico. Dove non c’era certo spazio per la caccia alle interrelazioni più recondite nei suoli  non impattati dall’uomo, vero e proprio ginepraio ecologico senza ricadute finanziarie immediate. O detto meglio, senza che nessuno sapesse ancora vederne i vantaggi anche economici che senz’altro sarebbero arrivati con l’avanzare della crisi ambientale.

Non lo sapevo, ma per me era finita un’epoca. Non avrei più vagato tra i larici dai tronchi screpolati carico dell’attrezzatura, spiando i criptici segnali che lasciavano intravedere i suoli, non avrei più riesumato le zaffate di funghi e fresca umidità che mi piacevano tanto, non avrei più lavorato fianco a fianco con quelle persone appassionate dei segreti della terra e assetate di risposte. E non avrei legato a qualche giovane quello che sapevo: ben che andasse in futuro si sarebbe condotto qualche studio settoriale, senza una visione d’insieme, senza cercarla, senza badare alle reti di relazioni. Il progresso era quello, la settorializzazione delle conoscenze, e la definitiva perdita di contatto con il tempio dove tutto era legato, la terra.

Giornata mondiale della salute mentale – 180 passi indietro

4

“Il nostro Paese destina alla Salute Mentale un ottavo di quanto allocano Francia e Germania, un quinto del Regno Unito e molto meno di Spagna e Portogallo”. La Stampa

di Mariasole Ariot

Esiste una zona d’ombra, nel fondale, un buio di silenzio dissotterrato in anni passati e che ora torna a farsi muto. Se negli anni della riforma basagliana la percezione che i muri venissero abbattuti e che l’abitare la soglia – per usare le parole di Peppe Dell’Acqua – fosse una direzione possibile, se la percezione era quella di un’apertura dialettica, critica e dialogica che portava anche all’emersione di voci fino a quel punto tappate, oggi i muri sono stati nuovamente eretti, e con un materiale forse anche più denso. La densità dell’ipocrisia, di una patina di chiaro che dice apertura, quando invece, in quella zona d’ombra non detta perché indicibile, il pensiero dominante e le pratiche dominanti, non si sono (solo) fermate: si sono mosse in direzione contraria, girate di spalle e tornate indietro.

Se il termine “salute mentale” circola di bocca in bocca, dalle dimensioni micro a quelle macro, è pur vero che questo, anche da un punto di vista politico, può torcersi in una vera e propria dispercezione all’occhio di chi, da fuori, vede o ascolta: se ne parla, è perché ce ne si sta occupando.

La realtà, pur con le sue sfaccettature, è però molto diversa: ce ne si sta occupando veramente? E in che modo ce ne si sta occupando?
Non è il significante salute mentale che dev’essere messo in discussione, piuttosto l’uso che ne fa un certo potere politico e sociale, che, in alcuni casi, ad eccezione di zone interstiziali, può utilizzarlo in una ripetizione incessante negli ovunque, per coprire ciò che sta dietro, ciò che non viene visto, ciò che non si vuole vedere, ciò che non può essere mostrato: ciò di cui in realtà, fuori dalle parole, non ci si sta occupando. O ce ne si sta occupando in termini di sottrazione e cancellazione.

I ricordi di Peppe dell’Acqua e di chi ha vissuto gli anni pre basagliani – il “giro medico” di un professore in camice bianco che illustra con dovizia di particolari i segni osservabili dei malati, destoricizzati e desoggettivati, ad una processione di studenti, le sbarre alle finestre, le porte chiuse a chiave, elettroshock e uomini legati ai letti, per chi non ha visto le strutture psichiatriche di questo presente, possono apparire come immagini legate ad un passato remoto, ma per chi né ha fatto esperienza diretta o indiretta, quell’immaginario non suscita stupore (piuttosto angoscia e disperazione): il presente è nuovamente questo e si muove velocemente in direzione di un futuro già presentificato.

Reparti psichiatrici che, anche da un punto di vista territoriale, vengono separati, o presentati come separati, demarcati da un confine tra un noi ( malati ospedalizzati per altre patologie) e un voi (malati psichiatrici come oggetto scarto).

Corridoi dalle pareti scrostate, le sale fumo impregnate di storie non riconosciute e posaceneri arrugginiti, corpi legati, terapie che, con una sottile manovra che cambia il nome ma non la sostanza, sono tornate in auge (ora terapie elettroconvulsionanti o magnetiche transcraniche, allora elettroshock), una scansione temporale di un quotidiano che sottrae alla persona la dimensione del tempo, per trasformarla in un rituale consequenziale di misurazioni e pratiche organizzate, prestabilite, ripetute nel quotidiano: sveglia, colazione, peso, pressione, defecazione, peso, carrello dei farmaci, l’ora nei corridoi in attesa che le stanze chiuse a chiave – e sbarrate – vengano arieggiate, non stare per terra ma le panchine non ci sono, gli specchi lastre di alluminio, togliere i lacci o le scarpe, “ricevere il dono” del proprio telefono solo a brevi orari del giorno, non fotografare, non dire, solo 5 sigarette al giorno, controllare la comunicazione, sequestrare quell’effetto personale che poteva dare sicurezza: un profumo, un crocifisso, un braccialetto, una crema da barba: frammenti di “casa” nelle proprie tasche.

Corpi misurati e controllati. Il giro medico in forma di commissione (o confessione), e poi ancora, di nuovo: il carrello delle medicine, la cena, l’ora dell’andate a letto.
E in quel “giro” non una domanda alla persona, non alla sua storia: cartelle di dati clinici osservabili, sintomi, risposta al farmaco, ha dormito, non ha dormito, aumentiamo il farmaco, diminuiamo, cambiamo. Non una persona al centro, ma un cervello-macchina malfunzionante da rimettere a posto. Per una diagnosi data in due giorni.
Il resto è un tempo svuotato, di segno e per cognizione: ridotto all’andrivieni dei degenti nei corridoi alla richiesta spasmodica di una moneta per un caffè, l’ennesimo che possa risvegliare dalla sedazione farmacologica. O i giornali: i giornali del giorno prima, o di mesi prima, persino di anni.

Se per Gabriel Tarde, il senso di straniazione nel ritrovarsi in un caffè e accorgersi di leggere il giornale del giorno prima – disconnesso quindi dall’attorno, dagli altri – è stato un ironico episodio che ha aperto a riflessioni, questo rifilare come scarti agli scarti i quotidiani di un quotidiano passato, fa inchinare la testa con un senso di rossore e vergogna.
Quale pensiero del “tanto non se ne accorgono” – o, se se ne accorgono, “così passano il tempo e non si lamentano”.

Piccoli gesti, anche i più minimi, portano il peso di un’asimmetria non solo di potere, ma anche valoriale della persona ridotta ad oggetto.

Se negli spdc la dimensione è questa, esposta nella sua crudescenza, nelle case di cura private o convenzionate, l’esterno è: il verde degli alberi, le belle strutture imbiancate, la pulizia, la postura più gentile del personale, un certo fare paterno o materno, una differenziazione di forma che però non tarda a mostrarsi nella similitudine della sostanza: resta il rumore dei carrelli, la scansione del tempo con colazione, spuntino, cena, orario della buonanotte, i farmaci, la misura, regole di buona condotta, se ne infrangi una, anche fosse un bacio: espulsione, ammunizione.

Degenti per mesi o per anni inseriti in una macchina psichiatrica che osserva sintomi, li incasella, e li trasforma in etichettature. Talvolta non osserva nemmeno: lo sguardo è cieco, si limita ad un fotogramma decontestualizzato.

I pazienti appena entrati, tanto più se sono reduci da degenze in reparti psichiatrici ospedalieri, portano in sé un senso (breve, e che durerà per poco) di meraviglia e gratitudine: qui è tutto diverso – dicono ai familiari, facciamo un sacco di cose.
Queste cose possono essere gruppi psicoterapici gestiti da personale specializzato, o attività ricreative. Nulla di male, certamente. Il problema si pone nella misura in cui questi vengono strutturati e proposti, e nella maggioranza dei casi, sfortunatamente, restano nella sfera della soluzione/assoluzione: insegnare ai pazienti come sia giusto essere, comportarsi, relazionarsi, a prescindere dalla singolarità di ciascuno, dove sbagliano, cosa sbagliano, e come il comportamento e il pensiero possa essere corretto da un allenamento addomesticato alla vita.
Se però non si può negare che in alcuni contesti la figura di uno psicoterapeuta individuale (più raramente di uno psicoanalista), sia prevista e si incarni in una comunicazione con l’altro soggettivato, all’interno di un incontro anche significativo, rispetto alle “attività”, là la zona d’ombra che riduce i soggetti a persone in minore, di serie b, si riapre.

In un passaggio di Asylum, Goffman scrive:

“Negli ospedali psichiatrici c’è ciò che viene ufficialmente conosciuto come terapia industriale o ergoterapia; i pazienti devono svolgere attività, di solito molto umili, come rastrellare foglie, servire a tavola, lavorare in lavanderia o pulire i pavimenti. Sebbene la natura di questi compiti derivi dalle necessità dell’istituto, la spiegazione abitualmente data al paziente è che queste attività lo aiuteranno a reinserirsi nella società, e che la capacità e la buona volontà che dimostrerà, sarà presa come evidenza diagnostica del suo miglioramento” [1]

Nonostante Asylum sia stato scritto nel 1961, la realtà delle cliniche psichiatriche non è cambiata. Si aggiungono, alle pratiche nominate da Goffman, altri piccoli “premi”: l’ora di cucito, la plastilina, una morbida ginnastica di movimenti lenti e goffi “su misura per chi non è capace”. Tant’è che, dopo un primo periodo di entusiasmo, queste attività, se non obbligatorie, vengono abbandonate presto : perché anche la persona imbottita di dieci pillole al giorno (in alcuni casi si può pure arrivare a venti, comprendendo quelle che servono per tamponare gli effetti collaterali delle prime), se anche non in modo verbalizzato, vive nel proprio corpo una dimensione di indegnità, di penuria, di disagio, talvolta il sospetto (fondato) che siano metodiche “a ribasso”, a misura di incapaci, menomati.

Il richiamo alla terapia industriale o ergoterapica torna poi nei luoghi del fuori, le cooperative per persone con disabilità psichica. Lavorare per committenti, prevalentemente con lavori di assemblaggio, di cucito, manuali. Pazienti addetti all’ autogrill dei matti, la vendita delle borderbag, lo schizocinema – esempi trentini – che anche là dove esiste un intento destigmatizzante, sfortunatamente rincarano una demarcazione noi/loro.
Nessuna retribuzione: siamo noi che stiamo offrendo a voi qualcosa, la possibilità di occupare il tempo. Ma questo tempo – che è lavoro – non viene ripagato com’è giusto accada per ogni lavoro degno di questo nome. Il risultato è: restare a carico delle famiglie, là dove spesso il disagio è cominciato, con una tendenza alla cronicizzazione.

Secondo due direttrici, queste modifiche graduali ma sempre più problematiche, da un lato hanno subito una percossa a causa dei gravi taglia alla sanità pubblica (drastica riduzione del personale nei centri diurni e dei servizi di salute mentale, scomparsa degli spazi pubblici che aprivano le porte non solo a un “reinserimento” del malato verso l’esterno, ma anche ad un’entrata dell’altro verso l’interno creando così una zona di soglia, trasformazione dei centri attivi in centri maltrattati da un aiuto economico statale che, per la presa in carico di persone in difficoltà ,riescono a dedicare pochi minuti al mese in cui viene valutato solo l’andamento farmacologico in modo sbrigativo – e il concetto di “cura” viene così a scomparire, ma anche una deriva, tanto più pericolosa, in un senso propriamente teorico e clinico della psichiatria italiana: si è tornati ad una visione dell’altro non come persona sofferente ma come cervello malato, un altro da raddrizzare e correggere (e qui l’immaginario richiama l’opera citata da Foucault, L’orthopédie ou l’art de prévenir e de corriger dans les enfants les difformités du corps di N. Andry), e che se non si raddrizza, se sfugge alle caselle, diventa un altro (se di altro si può parlare) problematico, non gestibile: griglie, misure, manuali diagnostici sono rassicuranti. La storia del soggetto non lo è: allora la cancellazione, l’ammutinazione di ogni segno al singolare, sintomi declinati a fotogrammi che diagnosticano nell’immediato senza contestualizzalizzazione all’interno di un tragitto esistenziale al singolare.

E’ sicuramente più facile rapportarsi con un paziente iperfarmacologizzato e arreso alla terapia che non ad un paziente che dà voce alla sua voce. Diventa ingombrante, un peso. E la voce si spegne, la bocca si cuce.

Ma esiste anche una posizione opposta, ostinatamente contraria a questa, che può però, pur con nobili intenti, esercitare un’altra riduzione e semplificazione: quella del “ in fondo siamo tutti folli”.
No, non siamo tutti folli: abitare la soglia e comprendere il dolore e la sofferenza psichica dell’altro malato deve comunque essere riconosciuta in quanto tale, significa non ridurre il soggetto alla malattia e riconoscerlo in quanto essere al singolare, ma rispettarne e ammeterne la condizione drammatica in cui vive, la qualità oggi sempre più penosa della sua vita, le difficoltà di essere ascoltato anche nel suo silenzio: e allora ricordarci che non tutti, per citare la poetessa Amelia Rosselli, vivono e transitano in una Serie Ospedaliera.[2]

[1] Asylum,Goffman, 1961
[2] Serie Ospedaliera, Amelia Rosselli, 1969

*il testo (qui ampliato) è stato pubblicato precedentemente nel sito http://www.news-forumsalutementale.it

FRAGiLiCiTY festa per il ventennale di Nazione Indiana

0

Nazione Indiana ha compiuto vent’anni nel 2023! Siccome non tutti i compleanni sono uguali, Nazione Indiana ha deciso di festeggiare il suo ventennale con due iniziative: nel marzo scorso a Parigi e adesso a Milano, città in cui è nata. Infatti sabato 21 e domenica 22 ottobre si terrà al parco Trotter [al Teatrino e all’ex chiesetta, MM1 Rovereto] FRAGiLiCiTY festa per il ventennale di Nazione Indiana, nella quale  redattori e amici di Nazione Indiana discuteranno di alcuni temi significativi nel panorama politico culturale odierno.

Si comincia sabato 21 ottobre alle ore 15 presso il Teatrino con Fragilità degli ambienti urbani: l’evoluzione della città vista da scrittori e architetti [partecipano Gianni Biondillo, Davide Borsa, Stefano Casciani e Andrea Inglese]: proprio ai confini di quella curiosa creatura urbana che è NOLO si rifletterà su significato e conseguenze sociali e culturali della gentrificazione, di altre trasformazioni urbanistiche.

Alle ore 17 di sabato sempre presso il  Teatrino si prosegue con Dall’ispirazione alla sostituzione: la scrittura letteraria di fronte all’IA [partecipano Emanuele Bottazzi, Lisa Ginzburg, Nicola Ludwig, Giorgio Mascitelli, Silvia Pareschi, Giacomo Sartori]: l’introduzione di ChatGpt e altre innovazioni dell’Intelligenza Artificiale sembra investire direttamente la pratica della letteratura e si discuterà sia sulle novità effettive sia su quelle solo annunciate.

Alle ore 21 sempre di sabato ci si trasferisce alla vicinissima Ex chiesetta (entrata da via Angelo Mosso 7) per Letture ed escandescenze indiane: i redattori di Nazione Indiana presenti [Mariasole Ariot, Gianni Biondillo, Lisa Ginzburg, Andrea Inglese con il musicista Gianluca Codeghini, Helena Janeczek, Giorgio Mascitelli] leggeranno loro testi poetici e narrativi apparsi su Nazione Indiana o inediti.

Domenica 22 alle ore 11 si torna al Teatrino del parco Trotter per un incontro sui 20 anni di Nazione Indiana: ritorna sul luogo del delitto Antonio Moresco e con lui dialogano Helena Janeczek, Francesco Forlani, Davide Orecchio e Jan Reister.

La redazione di Nazione Indiana ci tiene a ringraziare la scuola Casa del Sole e in particolare il dirigente scolastico prof. Francesco Muraro per l’ospitalità e la cortese disponibilità.

Les nouveaux réalistes: Mirco Salvadori

6
Scatti di Stefano Gentile

                                           

Scatti di Stefano Gentile

 

  f r a m m e n t i

di

Mirco Salvadori

Saper dosare la banalità e il paradosso: è tutta qui l’arte del frammento: proprio una gran frase ad effetto. L’aveva trovata in rete e ne ignorava l’autore, filosofo nato in Transilvania e vissuto a Parigi.

Aveva trascorso ore incollato davanti al portatile alla ricerca di una frase convincente, qualcosa che mascherasse la sua inettitudine traducendola in svogliato gesto di colta concessione: frammenti, azioni nate dall’incompiutezza che da sempre lo perseguitava e che ben sapeva usare, al pari dei mille pezzi di un Ravensburger, quel gioco di composizione da sempre odiato, un rutilante insieme di cartoncini a cui solo un asceta poteva sperare di dare un senso quantomeno visivo, che per il resto era materiale da pura discarica.

Spesso si chiedeva chi fosse, lo faceva in special modo quando l’immagine allo specchio gli rimandava il lavoro che il tempo aveva prodotto sui suoi lineamenti di anziano in costante anticipo sul divenire degli avvenimenti che lo riguardavano, un anticipo dovuto al disastroso ritardo che pesava sulle sue spalle di immobile viaggiatore temporale verso una interiore crescita reale giunta assai dopo il dovuto o forse mai avvenuta. Il suo metro di valutazione era da sempre la Musica, trasformatasi dopo molti anni di ascolto in Suono. Pur non amando particolarmente questo gesto, abitava comunque e costantemente il ricordo e questo gli permetteva di visionare i vecchi filmati che tale frequentazione consentiva: il suo primo vinile da ragazzino, l’infinito percorso attraverso i vasti territori dei vari generi musicali ai tempi non così diffusi, l’impatto sonoro provocato dalla fine degli anni settanta sul vinile stampato dai cantautori italiani e il grande e frenetico salto nella filosofia musicale degli ottanta compiuto quando la giovinezza ormai se ne stava andando. Da quel momento in poi il meccanismo temporale segna un costante anticipo causato dal ritardo, il rock indipendente si trasforma nella vibrazione elettronica negli anni novanta, il nuovo millennio lo trova alle prese con echi sempre più densi e distanti dall’ascolto massificato, fino a giungere ad oggi, seconda decade di una realtà sempre più vicina allo spavento come reazione ordinaria e normale, tradotta in ascolti capaci di tradurre tale sensazione in maniera lucida e immersiva. Sapere di avere come compagni di cuffia esclusivamente giovani ragazzi o ben che vada adulti con anni in meno sulle spalle, gli donava quel senso angosciante di ritardo anticipato contro il quale nulla poteva, così come nulla poteva contro il procedere del tempo.

L’esperienza di tempiternità è vivere il presente come esperienza intensa dell’istante senza riferimento al passato che fu o al futuro che sarà. E’ il presente sempiterno nel quale si realizza un’azione veramente tale, ovvero autentica e quindi, unica. La tempiternità sta a significare che l’essere e il tempo sono interrelazionati in modo tale che non v’è nulla che rimanga non toccato dal tempo, neppure l’eternità. Al contempo l’aspetto temporale della realtà totale è “soltanto un aspetto parziale della natura tempiterna delle cose”. Non vi era cosa più lontana dal suo intimo e profondo essere, del pensiero di un sacerdote filosofo e guru spagnolo. Eppure quelle righe gli donavano come una sorta di pace e calma interiore, aiutandolo ad affrontare il grande mostro che ogni cosa trasforma e trascina con sé: il tempo.

Per quanto tendesse a nascondere tale ossessione, il tempo era il metro con il quale misurava le cose, un po’ come la musica prima e il suono poi. La visione del mondo e del suo mondo interiore, era tutta racchiusa in bilico sul margine di un consumato righello che non segnava i centimetri ma gli anni. Sapeva di non essere il solo a subire questa maledizione ma mai avrebbe pensato di condividerla con chi il percorso della vita lo aveva iniziato molti anni dopo il suo.

Per la prima volta aveva adottato un comportamento per lui stupefacente: era onesto con se stesso. Aveva  abbandonato l’incoscienza e i giochini nel passato, viveva quell’incontro avvenuto per caso nella chat di un gruppo Facebook chiamato The Soulsavers, come il duo anglo-americano, con ovvia curiosità e molto interesse ma al contempo con la consapevolezza dei ruoli che sempre lui, il tempo, ora imponeva alle due figure ora in bilico sopra quel logorato righello.

Complicato per me pensare di conoscerti immergendomi nel tuo digitare, non posso sapere quanto del tuo intimo silenzio trasformi in profonda condivisione travasandolo sui tasti che ci connettono. Non intendo certo forzare la pressione delle tue dita o la loro velocità sulla tastiera. Faccio ciò che mi risulta più naturale per collegarmi con chi a sua volta non mi conosce: ti invio suono. Mi basta per raccontarti chi sono e chi mai probabilmente sarò, lui le scriveva. Credimi io ti assorbirei, come una perilinfa nel canale uditivo/sbalorditivo. Non voglio leggere di te da internet. Non l’ho fatto finora e non lo farò. Voglio sapere di te quello che ti va di dirmi di te. E tutto questo suono che sei, che sgorghi, io lo assorbirei. Till last drop, lei gli rispondeva.

 Se mai ci incontreremo dammi 15minuti del tuo tempo, dovró abbracciarti per donarti quel poco rimasto del mio non ancora andato disperso, lui le scriveva. Quel tempo che sembra fermarsi che ferma tutte le cose è il tempo che conosco, in cui sto bene.

 

15mila minuti, lei gli rispondeva.

 

Sapeva che mai l’avrebbe incontrata; non era certo l’oceano che li divideva geograficamente il motivo, ma la rarissima purezza di uno scambio che lo stupiva per la sua troppo intima essenza giunta dal nulla, senza preavviso alcuno e il terrore che la magia scaturita dal vorticoso mescolarsi dei loro pensieri, potesse realmente finire proprio con un lungo e sincero abbraccio seguito dal suono delle loro voci non più tradotto dalla tastiera del pc. Questo, ma anche la consapevolezza del suo essere costantemente fuori tempo e luogo, in ritardo dentro una chat il cui nome apparteneva ad una formazione che, a dirla tutta, non aveva mai amato granché.

 

Riesumò da una cartella il testo scritto per un reading sonorizzato da un grande poeta del minimalismo elettroacustico italiano, Sono Nato Storto recitava il titolo: Da sempre abituato a navigare in mari distanti e difficili da narrare a chi poco è abituato a navigarli io insisto. Non ho notorietá e forse neanche mi interessa averla, ho scelto un percorso diverso piú complicato e da decenni affronto le tempeste e le supero. Sono nato storto vado alla ricerca dei gorghi e dei fondali dai quali spuntano scogli che possono in un attimo spezzare la spina dorsale ma vado avanti. Attorno a me solo la furia del mare e la violenza del silenzio interrotto di tanto in tanto da voci amiche, limpide come i fondali di quella laguna che prima o poi troveró. Ricordò questa intima e ai tempi per lui furiosa confessione perduta nelle pieghe del passato, proprio per il finale nel quale brillavano come squame di mille sirene danzanti nella tempesta, quelle voci amiche con le quali ancora aveva la fortuna e il piacere di intrattenersi, sempre storto e sul limite della vecchiaia in un consesso di lontane anime non ancora toccate dal pensiero della fine.

 

Cliccò e il copia incolla si trasformò in veloce messaggio capace di varcare l’oceano in meno di 15 secondi.

 

Che altro nascondeva quella frase letta all’inizio dei suoi intricati pensieri, quelle parole legate alla banalità. Forse che nel suo intimo sentiva bruciare la fiamma del finto e ridicolo nichilismo? O più semplicemente, era un metodo di fuga ben studiato per evitare le frane, gli smottamenti di un lungo percorso, affrontato preferendo sempre la pianura e mai il ripido sentiero che si inerpica nel fitto bosco delle difficoltà, quei faticosi passaggi capaci di tradursi in insperate e discontinue possibilità: Saper dosare la banalità e il paradosso: è tutta qui l’arte del frammento.

scatti di Stefano Gentile

 

 – f r a m m e n t i –

                                               

Siamo ferocemente esondati uno nell’altra. Abbiamo travolto gli argini non appena il tempo ha smesso di sorvegliarci a vista, eruttato come lava ardente quando nulla avrebbe potuto frenare il nostro scivoloso e incandescente tragitto che ogni cosa fondeva. Siamo costantemente vissuti in un frastuono di promesse, progetti, desideri, sogni, racconti, confessioni, indossando le nostre anime strappate al costante silenzio di chi diffida. Ce la siamo scordata, quella linea temporale superata oltre venticinque anni or sono. Lei ora ci ha raggiunto soffiando sui nostri sguardi tutta la cenere che ci siamo lasciati alle spalle. E’ un molesto fardello che pesa e rende lento il procedere spoglio di  promesse, progetti, desideri, sogni, racconti, confessioni. Si fosse in grado di vivere in bilico sul margine di un consumato righello che non segna i centimetri ma gli anni, potremmo iniziare a mantenerci in equilibrio, convinti di riuscirci senza precipitare. Ma il tempo pesa e sbilancia e schianta, prima di sussurrarti che sei alla fine.

 

Dalla sua amata compagna di una vita ricevette solo un breve messaggio di risposta; conteneva la descrizione di un sogno fatto quella stessa notte:

 

nell’esperienza onirica ero una sospiratrice, non un Maestro vetraio che semplicemente soffia, bada bene. Io cesellavo con il sospiro il Frammento. Eravamo in pochi, rimasti nei nostri vetusti frammentatoi. Si continuava isolati e imperterriti da anni in quell’arte per altro mai riconosciuta. Un bisogno inspiegabile ci spingeva ogni giorno a sospirare creando. Conoscevamo il Frammento in ogni sua declinazione e lo plasmavamo a nostro piacere. Al pari di free climber, ci arrampicavamo aggrappandoci alle fessure invisibili che solo il nostro sospiro poteva percepire e indagavamo ciò che la parete delle altrui banalità nascondeva ai più. Chi non possedeva il dono del sospiro ci descriveva al pari di stupidi vetusti nichilisti; in verità eravamo semplici e meravigliosi Sognatori destinati a svegliarci, le dita ferite ancora ritratte nella posizione dell’artiglio che nulla però riesce più a trattenere.

 

Addio.

 

 

                                             f r a m m e n t i –

 

Due promontori gli stringono le tempie mentre assetato cerca di raggiungere l’insenatura, quell’apertura la cui calda onda attende di sgorgare e verso la quale una forza primitiva, ancestrale, lo sta spingendo.

 

Le due lingue di vellutata epidermide che serrano il suo capo si vanno via via restringendo, la loro morsa è una scossa che si perde nell’ansimare di una bufera pronta ad esplodere, pronta a far esondare quel mare nel quale immergersi per rinascere.

 

Come un nuotatore esperto allunga ogni organo del corpo per superare la potenza tellurica scatenata dai muscoli tesi contro cui nuota, immerso nella densitá di un cielo rosa sussulto.

 

GUARDAMI!

 

Lo sente quel richiamo, conosce alla perfezione il verde insostenibile da cui giunge. Con un gesto improvviso si libera dalla stretta e salta verso quell’ansimare, dritto come un fuso nella tempesta.

 

GUARDAMI, ADESSO GUARDAMI!

 

Quante declinazioni puó avere il colore verde, quanto il delirio della sua profondità quando, soddisfacendo la richiesta e fissandola negli occhi, lei aziona la sua aggressiva voglia di frantumarlo, finirlo, sgretolarlo, polverizzarlo, annientarlo, amarlo.

 

Inerpicarsi giù giù dove quel mare schiuma e urla e poi risalire su su nell’attesa dell’onda che nuovamente trascina nel profondo, a un centimetro dall’estremo dono, a un milionesimo di millimetro da quel verde insostenibile.

 

Lontano miglia dall’amore, follemente perduto nella ferocia della fine, nell’estrema tensione di muscoli e nervi che improvvisamente formano un arco dentro il quale spinge e viene spinto, getta la sua anima sfinita nel fuoco dell’illusione di un atteso gemito che urla che si trasforma in respiro affannoso che si trasforma in un lungo sospiro che si trasforma in un sorriso che si trasforma in un abbraccio che si trasforma in un in-finito sogno colorato dalle mille sfumature di un iride al quale si è inchinato, sulle spalle il scivoloso peso del piacere.

 

Guardami ancora, ora.

    

 

 

                                             f r a m m e n t i –

 

 

Il passaggio è stato lento, troppo lento. Il passaggio è stato doloroso, maledettamente doloroso ma ora, nulla di quanto ho vissuto e sofferto più mi appartiene.

 

Non so dove mi trovo, lo sguardo di un tempo più non serve, non basta per comprendere in quale realtà sono immerso.

 

Una sola percezione: sento di essere poca cosa, un indefinito non descrivibile che possiede dimensioni infinitamente piccole e al contempo sconfinate.

 

Ascendo.

 

Qualcosa di inimmaginabile, vasto, immenso, senza limite mi sorregge ma la mia vista è ancora legata a ciò che ero e vedevo. Non riesco a descriverlo ma sento, lo sento!

 

Lo sento e il suo lieve abbraccio è un contorcimento che mi devasta di bellezza!

 

Ma non ricordo

 

in un solo attimo ho dimenticato il pianto, più non ricordo come accenderlo con la fiamma della beatitudine.

 

Io non ricordo perché più non sono.

 

Ora mi innalzo nel tutto e il tutto mi solleva tenue in uno stato di grazia che non appartiene a nulla di quanto visto o studiato o immaginato.

 

è… è…

 

È suono! Posso solo definirlo con questa parola, una delle ultime che ancora non si sono lentamente sbriciolate assieme al ricordo.

 

Ascendo!

 

Immobile al termine dell’ascesa, levito sospeso nel tutto che contribuisco a creare ed espandere.

 

Sento che giunge

 

la chiamata giunge possente, puro delirio cosmico moltiplicato per miliardi e miliardi di impossibili lacrime di stupore, gioia, paura, terrore, incredulità o forse altro ancora raffigurato come vecchie emozioni ormai perdute nell’eternità di questo attimo.

 

Ci sono.

 

Sono lì dove il per sempre è un baleno.

 

Sono giunto e vedo

 

distinguo il nulla e il tutto di cui faccio parte, distinguo l’immensa vastità del mio non essere e al tempo stesso sentirmi.

 

Sono immenso cullato dall’inesauribile.

 

Sono giunto e ora vedo!

 

Sono essenza.

 

 

**  mail del 17.06.2023  ore 03.18 

invio recensione best year song per il Mensile Musicale Approaching Silence. “Anchor”  by All Hands Make Light – Constellation Records 2023accludo link Bandcamp per ascolto:  https://allhandsmakelight.bandcamp.com/album/darling-the-dawn

 

                                          

scatti di Stefano Gentile

                                          

 

                                          f r a m m e n t i –

 

Nella calma del mezzogiorno estivo, all’improvviso partiva il rombo del bicilindrico.

Mia madre si girava di colpo correndo verso quel rumore che ben conosceva  sapendo benissimo cosa significasse: una decisione che a lei proprio non andava giù:

 

Marco dove ti va?! Tra poco xe pronto in toa!!

(Dove stai andando Marco! Tra poco è pronto in tavola!)

 

Mio padre la guardava con il casco giá allacciato e il cancello spalancato.

 

Irma! Manca el pan, vado a torlo!

(Manca il pane, corro ad acquistarlo).

 

Ma se eo gavemo tolto stamattina??!!

(Ma se lo abbiamo preso stamattina??!!)

 

Ah vero, manca ea ua e e banane!

(Vero, mancano comunque l’uva e le banane!)

 

Gavemo tolto anca quee!!

(abbiamo preso anche la frutta!!! Spegni quella moto che stai facendo un rumore infernale!!)

 

Vovi? Crekers? CocaCola? Me par che manca.

(Uova? Crackers? CocaCola? Mi sembra manchino)

 

STUA QUELL’OSTIA DE MOTO E VIEN SU!! CHE XE PRONTO DA MAGNAR!!

(Spegni quella moto maledetta e torna su che è pronto in tavola!!)

 

Questa era una scena ricorrente nelle estati trascorse al Lido: mio padre (ז״ל)** non perdeva occasione per inforcare la sua bicilindrica e scorrazzare lungo le strade dell’isola; le occasioni le inventava, nel caso non fossero credibili. L’altra attrice principale della splendida commedia era mia madre (ז״ל )** che puntualmente cercava di bloccarlo urlandogli dal balcone che affaccia sul giardino.

Confesso che era uno spasso, una vera commedia nella quale i due attori eccellevano nell’interpretazione.

 

Oggi per la prima volta in vita mia, ho inforcato quel rombo che il tempo non è riuscito a zittire e come mio padre, sono andato a fare spese nel piccolo supermercato vicino casa.

 

Prima di uscire dal cancello ho alzato lo sguardo: li ho visti affacciati a quel balcone, sorridevano.

 

                                           f r a m m e n t i –

 

Siamo frammenti di ciò che vorremmo esser stati

di ciò che mai saremo

di ciò che solo la fortuna vorrà noi si divenga

 

Siamo frammenti scagliati con forza nel sottopasso che la vita ha scavato per ridurre le distanze tra le nostre delusioni e l’abitudine a riprendere la corsa

 

Frammenti immortali nel fluido istante della carne, unico attimo nel quale apriamo gli occhi nel capogiro dell’esplosione che ci scaglia mille miglia fuori rotta

lontano da ciò che vorremmo esser stati, saremo o ciò che solo la fortuna vorrà noi si divenga.

 

** Onorificenza per i defunti nella religione ebraica: ז״ל – zl” – zikhrono livrakha (maschile) o zikhronah livrakha (femminile)- “il suo ricordo sia una benedizione”.

 

 

frammenti  

– mirco salvadori – parola

– stefano gentile – immagine

 

Venezia, 18.09.2023

 

 

 

 

Da “Stati di quarantena”

0

di Luigi Severi

.

Così tanti uccelli, che resto stordito. Mi svegliano all’alba, tengono l’intero quartiere in ostaggio con una febbre elettrica, per uno, due giorni. I rami si flettono fino a sfiorare terra, volano foglie e piume a ogni passaggio. Fibrilla l’aria, le macchine si coprono di sterco. Al terzo giorno si apre la sua porta, e appare lei stupefatta, persino mi si avvicina. Che cosa pazza, dice, e forse per sbaglio mi sfiora la mano. Neanche mi ricordavo più della sua voce. In questi mesi forse ha cambiato taglio di capelli. Ma la mattina dopo mi risveglia un silenzio. Il mondo è tornato spigoloso, grigio. Una macchina che si accende in lontananza, qualcuno bestemmia per tutto quella lava di escrementi. Dall’altra stanza, il silenzio è persino più duro. Deve essere di già chiusa al lavoro.

Colleziono arti. Di fronte alla resistenza delle cose, mi intestardisco, tento il tutto per tutto. Colleziono parti, interiora in barattoli, unghie. Le filmo dissolversi, illiquidirsi, evaporare negli anni fino a una macchia inodore. Seppellisco i film così ottenuti, magnifici, nel bosco, sotto terricci, pietre; li incastro in buchi d’albero. Riemergeranno, e quando? Metto alla prova, è chiaro. Rilancio la sfida come posso.

Ammettiamolo, sembrava proprio che il ragazzo la prima volta fosse entrato nel giardino per rubarmi le arance. Ecco perché mi ero avvicinato a passi svelti, già pronto ad usare certi metodi. Maledetti stranieri, era la formula; vi insegnerò il rispetto. Ma quando fui più vicino, e scorsi il profilo del ragazzo, così sognante ma al tempo stesso intento a contemplare, la rabbia si raffreddò in un attimo. Quell’espressione concentrata, quegli occhi che scrutavano, millimetro per millimetro, la corteccia liscia e marrone della pianta. Si trattava, non c’era dubbio, di un demente, ma di quelli innocui. Ne ebbi conferma di fronte al suo silenzio testardo; ai gesti e ai toni mortificati di suo nonno, che si scusava con tutto l’inchinarsi del suo corpo, visto che la loro lingua non era comprensibile a nessuno. Gli feci cenno di portarselo via, con accigliata ma clemente fermezza. Non avevamo bisogno, dopo quello che era successo e stava succedendo, di gente migratoria; osservandoli, così chini e dimessi, capivo infatti che venivano da zone calcinate, cretti cementizi, polveri esplose, solo ora più frequenti anche da noi. L’epoca del Disfacimento aveva gradi diversi; loro erano scappati dal peggiore. Richiusi quindi il cancelletto, fino al clac e alle due ombre che si allontanavano amare, giù dalla parte dei garage. Me ne rimase un’impressione, che quasi mi fece compagnia i giorni seguenti. Non fui allora stupito quando, al principio di una grigia alba, scorsi di nuovo il demente, stavolta di fronte al gelso nero, quasi in dialogo stretto coi suoi rami, in attenta valutazione della sua corteccia troppo desquamata, delle sue foglie tormentose, alterne. Fui invece più attento, incuriosito, quando lo vidi avvicinarsi, emozionato, allo scotano. Sembrava quasi grato, di fronte a quell’arbusto prostrato, alle sue ramificazioni, al tappeto della sua infiorescenza dai peduncoli piumosi. Sembrava studiarne, con una leggera pressione delle dita appena intruse nella terra, la forza propagata delle radici; per poi scuotere la testa, insoddisfatto. Credetti che, aspirando come il più valido giardiniere l’aroma di trementina e tannino delle foglie, apprezzasse il grado di salute della pianta, restando poi in contemplazione della sua propagata, sebbene già fragile, bellezza.

Questo, per i pochi mesi della nostra silenziosa conoscenza, divenne un rito. Poiché non avevo più nulla da fare, aspettavo il demente fin dal momento dell’aurora, che rivelava i bordi rugginosi dei balconi, la noia delle parabole divelte, le piramidi di lamiera in lontananza. Col passare dei giorni, mi accorsi che molto meglio di me comprendeva, a prima vista, la sofferenza smagrita dell’ontano, o la rassegnazione del roveto ardente, cresciuto un tempo in forma libera e ora così lacero, da produrre deboli foglie opache, nate morte. Il demente seguiva, ogni mattina, con una tenerezza serena e composta, lo svigorirsi insensato delle mie piante, cercando di confortarle per vie segrete, tattili; o forse viceversa; non lo so. Quel che so, è che quando anche il prugnolo si ammalò, e le sue foglie minime decaddero, e i rami scheletriti misero a nudo nidi deserti da anni: allora il demente si sollevò in piedi, uscì dal cancello, e così com’era venuto si dissolse.

Cammina in modo da non dover mai incontrare la sua ombra. È una delle strategie che ha dovuto mettere a punto. Per fortuna la vita in un monolocale, il lavoro a distanza, la posizione seduta gli ha permesso di ridurre al minimo gli incontri con se stesso. Più che con la luce diurna, il problema è quando i lavori si protraggono. È stato sufficiente un gioco di illuminazione (del resto, lavora nel settore), un’accorta distribuzione e inclinazione di faretti e luci dall’alto, schiaccianti, per sterminare al massimo le ombre a cui dava vita, tutte scorie di sé, quella prole fantasmatica e fluttuante che letteralmente iniziava ad aggredirlo. In attesa del buio, che lo salva. (Non fosse per il respiro monotono, per i rumori interni, acquei e meccanici, che lo assordano da dentro nottetempo).

Marco, ci sei? Puoi dirci la tua opinione, su questo contratto?

Potrebbe, in effetti.

Ma: 1. Il nome Marco comincia a detestarlo. 2. La sua voce, sempre uguale, produce nuove categorie di fastidi uditivi, attinenti assieme alla fisica e alla sua privata biologia. 3. È alle prese con un pensiero che da tutta la giornata lo affligge.

Il pensiero in questione riguarda sempre più strettamente alcune intempestive pressioni nel suo corpo. Si è accorto infatti che la sua vita diurna consiste in continue assunzioni di cibo, le quali peraltro comportano sempre il disfacimento di corpi altrui, vegetali o animali che siano. Ma non è di tempra filosofica o morale, il suo problema, quanto grettamente pragmatica. Non soltanto infatti deve avere a che fare col movimento frequente e rumoroso delle mandibole, lo sgretolamento delle carni d’altri, la liquefazione schiumosa in bocca delle fibre, ma anche con la sempre più pericolosa e concreta percezione dei propri liquidi, flussi, acidi, secrezioni, succhi vorticanti, nonché delle molteplici colonie batteriche che popolano i suoi anfratti più bui, e che non ha mai avuto modo di vedere, con cui non ha mai apertamente pattuito, fosse stato possibile, la gestione di spazi o di risorse. Peggio ancora, per una legge erronea, questo magma di cibo digesto, variamente lavorato in zone intestine del proprio corpo che neanche può visualizzare o percorrere (si domanda perché gli occhi siano solo puntati verso l’esterno, quando è il mondo d’interiora che più conta), quel fluido scorrente verso il basso dopo tanto oscuro percorso diventa giocoforza liquame, così sudicio e infetto, così umiliante e rivelatore, che ormai lo lascia giacere sul fondo nauseoso di un catino, perché nessuna corrente idraulica artificiale possa dissolverne, a evacuazione finita, la coscienza.

Marco puoi sentirmi, puoi rispondermi.

Ma la risposta, decide all’improvviso, è negativa, perché la sua lotta contro tanto ripugnante espressione di sé, anzi contro tutte le sue più vili e disturbanti manifestazioni è ormai una guerra – ha deciso da tempo – senza quartiere, e nessun alimento da giorni si muove più, orrendamente, nei suoi tubi oleosi, e quella pressione sfinterica, quella tensione liquida e urinaria che lo provoca e sfinisce non lo vincerà più, pensa di nuovo con un filo quantomeno di soddisfazione, mentre contempla dentro il catino, a sfida, quel movimento caotico di insetti e sozzura sobbollente, cui non contribuirà più, finalmente orgoglioso di sé, avviato a qualcosa di pulito; che sia esempio.

Il bambino di cinque anni aveva una sua consistenza morbida, acquea. Aspettava sulla soglia di casa la madre che rientrava, mentre il maggiore di là giocava a qualcuno dei suoi giochi pieni di rumori, sagome sul computer. La madre era sempre molto stanca, dopo tutte quelle ore di lavoro, ma lo abbracciava lo stesso fino in fondo, ne palpava la consistenza acquea ed assorta, in fioritura lenta, come se stesse aspettando qualche cosa.

Sta aspettando, abbiate fiducia, aveva detto la dottoressa delle parole. Lui la ricordava bene, la dottoressa delle parole. Era donna, aveva quel profumo e molti capelli intorno al viso, una raggera di capelli neri e mossi, come avessero sempre il vento dentro. Gli parlava, gli faceva muovere cubi con colori, disegni, lettere. Il suo preferito era quello con sopra una rana. Prendi la rana, lei gli diceva. E lui la prendeva. Ora prendi la formica. E lui la prendeva, docile. Poi gli diceva di prendere molti altri cubi, e sempre si meritava il consenso della dottoressa delle parole, che poi di là diceva: non capisco, sa tutto, ma sceglie di non parlare. Sta (secondo me) come aspettando.

Lui, infatti, aspettava. Aspettava per esempio la madre, che quando lo vedeva dopo molte ore poi lo abbracciava, sebbene molto stanca, fino in fondo, a fondere acqua e ossa. Oppure l’uomo, che tornava e gli piaceva di meno, così slegato e assente com’era, coi lineamenti duri, l’odore di fumo e cose acide nei vestiti, negli occhi incisi di rosso. Aspettava anche i due bambini magri e duri, che lo battevano il giorno dopo, col dorso della mano o con le nocche, quando la maestra non vedeva, perché lui era lo scemo della classe, e tutti ne ridevano, mentre il sole tagliava in obliquo l’aria della classe.

Ma aspettava soprattutto il rospo, quell’essere molle e fragile, che ogni sera vedeva spuntare da dietro il cespuglio. Non era il primo, e sapeva sempre come sarebbe finito, perché il bambino di cinque anni conosceva soprattutto attraverso i ricordi. Il cespuglio era là dietro, e nessuno sapeva neanche che esistesse, perché da quella strada uscivano soltanto macchine, o ci rientravano, e in fondo c’erano eco di metalli sbattuti, odori di oli stagnanti, di accumuli.

Invece, senza alcuna ragione al mondo, e senza che nessun altro lo sapesse, da dietro quel cespuglio si ostinavano a nascere rospi dai corpi enfi, esseri muti e morbidi, acquei. Lui conosceva l’ora giusta; usciva, aspettava; poi i due si guatavano, a lungo. Per certe creature il tempo ha una durata diversa, comincia e se ne va in unico involucro rotondo; e solo chi ci sta dentro può incontrarsi.

Poi succedeva sempre: che una di quelle ruote passasse troppo presto, o troppo tardi. Il rospo allora svaniva in acqua, e il bambino rientrava nell’odore, nel corpo duro e acido della casa, pensando a qualcosa come a un numero, qualcosa che non finiva mai, che si aggiungeva sempre, un po’ alla volta; come le gocce dal rubinetto nella notte.

Giorno 1. Mi sveglio e non riesco ad alzarmi. Tanto il dolore. Provo a infilare la mano, e dentro c’è qualcosa. Resto incredulo, ma i fatti sono i fatti. Quando lo estraggo, lo osservo e scopro che è un tamburo, di quelli per bambini, di squallida plastica. Mi domando che scherzo sia questo, e chi mai di notte abbia deciso di impiegare del tempo per mettermi un oggetto, inutile in partenza, nella pancia. Confuso e dolorante, provo a andare a lavoro, persino a dimenticarmi della cosa.

Giorno 2. Però la mattina dopo ci risiamo. Mi sveglio di nuovo rattrappito. Grande il dolore, al centro del ventre. Invece è solo un oggetto di elettronica, qualcosa come una sveglia, oltretutto di scarse dimensioni. Sdrammatizzo: magari funzionasse, una sveglia poteva anche servirmi. L’ironia, penso tra me mentre mi alzo, potrebbe essere una chiave di distacco.

Giorno 10. La cosa ha preso invece questa piega. Non so spiegarmelo, nessuno sa spiegarmelo, ma sta di fatto che accade. Capita solo a me? Sono vittima di un’azione dimostrativa? Di un esperimento sugli oggetti, cui non ho mai aderito, e il gioco sta proprio in questa inconsapevolezza? Le domande sono molte, le risposte nessuna, tranne quella più ovvia. I dieci oggetti sullo scaffale. A questo punto so che la cosa non può smettere, se non trovo quanto prima un bandolo.

Giorno 13. Così non posso andare avanti, lo capisce? Alla fine, sbottando, gli ho detto di aprire gli occhi. Chissà che in quella grossa pancia anche lui non abbia mille oggetti, e non se ne accorga per via della sua semplicità, o noncuranza. Questo ho detto, al dottore che mi guardava, e non capiva per cosa dovesse farmi un certificato di malattia. Mi ha guardato in silenzio. Mi ha prescritto una settimana di riposo. Ma quel suo sguardo non mi ha tranquillizzato. È ovvio che non mi abbia creduto. O forse anche lui è parte del gioco.

Giorno 16. Dolore. Troppo lo strappo, all’estrazione. Anche se gli oggetti sono piccoli, possono sempre essere puntuti. Niente mi ha dato più dolore delle pinzette per ciglia e sopracciglia, stamattina. Passerò l’intera giornata a riprendermi. (Né so per quanto riuscirò a resistere).

Giorno 22. Altri oggetti di elettronica. Confusi, senza capo né coda. In coppia. Forse prototipi, o rottami inservibili. Sta di fatto che striscio, se voglio arrivare a bermi un sorso d’acqua; tanto il male.

Giorno 24. Che ingenuo sono stato, a fidarmi. Mi vedo questo signore, stamattina. Gli indico la caterva di oggetti, sullo scaffale. Che apra gli occhi. Discorso, il mio, chiarissimo. Eppure fa mostra di non capirlo, di non capire affatto. Prende appunti, sembra tecnico e in ascolto, ma quando poi mi guarda vedo bene che non mi crede, o finge di non credermi. Che sia anche lui parte del gioco? Mi dà gocce da prendere nell’acqua, compresse, per vedere come va il dolore, dice lui. Per vedere se passa questo fenomeno, dice lui. La parola fenomeno va bene? Mi posso fidare?

Giorno 31. Non riesco più nemmeno a cucinarmi. Ieri quel pupazzo in gomma era gentile, ma oggi qualcosa come un flessibile o altro mi ha disfatto. Mi sento squarciato, ormai allo stremo.

Giorno 33. Comincio a intuire una logica. Stanno dimostrando qualcosa attraverso di me. Gli oggetti, di ogni specie, mi sogguardano, da quello scaffale. Allineati, molteplici; là sopra. Sono stati parte di me, arrivo persino a rispettarli. C’è un codice, che ancora non riesco a intendere. Sono stato il libro scritto in un codice nuovo, indecifrabile. Fatto di cose, simboli corporei.

Giorno 34. Ma lascio ad altri, io sono così stanco, che non arriverò in fondo. Finisce qui la mia testimonianza.

Chiara ha denti sottili, si muove con piedi abili e svelti. Quando qualcuno si accorge che c’è, dentro la stanza, lei si difende sorridendo, e dalla linea delle labbra lascia uscire quei denti piccolissimi, da latte. L’altro si disarma, e di fronte a quella stranezza silenziosa lascia andare, si applica ad altro. Per qualche secondo gliene resta una scia di particelle, poi più niente. Chiara preferisce certi frullati bianchi, d’altra parte; e se è costretta a mangiare, lo fa aspirando frammenti dagli angoli; molliche.

*

[immagine: Andrea Inglese]

Sotto la campana di vetro dell’America puritana

0

di Mauro Baldrati

Questo è l’unico romanzo scritto da Sylvia Plath. Almeno così risulta, perché il beneficio del dubbio serpeggia. I suoi testi sono stati curati dal marito, il poeta inglese Ted Hughes, il quale ha distrutto molte pagine dei diari perché “non volevo che i figli li leggessero”. Ma forse si parlava anche di lui in termini non proprio edificanti. Probabilmente, nel romanzo, alcuni suoi tratti rivivono nel personaggio di Buddy Willard, che doveva essere il promesso sposo della narratrice, Buddy l’ipocrita. Verso di lui va e viene, come una sorta di Yin Yang (an)affettivo che corre sulle pagine, un sentimento doppio di attrazione e repulsione, che potremmo definire la “cifra” dell’intero testo. Infatti Esther, la brava ragazza bostoniana, efficiente, la prima della classe, quando si trasferisce a New York vive proprio questo dualismo positivista/negativista, che ci accompagna per tutto il romanzo.

Ma è un romanzo? L’aspetto biografico è palese, infatti Sylvia lo pubblicò nel 1963 con uno pseudonimo, temendo che diversi personaggi potessero riconoscersi nei loro profili letterari niente affatto smart. Già, perché la Plath non concede sconti, li fa muovere in un teatro dello straniamento, del grottesco addirittura. Un po’ come nella Recherche, dove alcuni modelli dei favolosi, aristocratici cicisbei si offesero a morte e tolsero il saluto all’autore.

Potremmo definire La campana di vetro un’autofiction tardo-antichista, perché il filtro letterario depura e/o drammatizza ogni interfaccia dell’autobiografismo, in particolare il già citato dualismo partecipazione-distacco, azione e osservazione, con la crepa del paradossale, del triste, dell’inutile. Esther vive da prigioniera sotto la campana di vetro dell’America puritana reazionaria degli anni ’50 (in particolare del 1953, quando il racconto parte con una considerazione sull’imminente esecuzione dei Rosemberg) dove l’aria è irrespirabile, cercando, forse sognando di omologarsi, di aderire alle alle regole senza pietà del conformismo. Una fra tutte il matrimonio, l’ossessione delle ragazze di quel periodo, imprigionate dalla fitta grata dell’arcigno pensiero patriarcale:

“Stavo pensando che se avessi avuto il buon senso di rimanere nella cittadina dove ero nata, magari avrei potuto conoscere quella guardia carceraria a scuola e sposarla, e a quest’ora avrei avuto una caterva di bambini. Sarebbe stato bello abitare in riva al mare con mucchi di bambini, maiali e polli, vestita con uno di quei grembiuli da lavandaia, come li chiamava la nonna, e passare le mie giornate in una bella cucina dal linoleum allegro a bere, le braccia belle grasse appoggiate sul tavolo, tazze su tazze di caffè.” (Pag. 125)

Ma 55 pagine più indietro ha scritto, molto proustianamente:

“Era sempre la stessa storia: adocchiavo un ragazzo e da lontano sembrava perfetto, ma non appena si faceva più vicino scoprivo che non mi piaceva più.

Era uno dei motivi per cui non intendevo sposarmi. L’ultima cosa che desideravo era la “sicurezza assoluta” ed essere il punto da cui scocca la freccia dell’uomo. Io volevo novità ed esperienze esaltanti, volevo essere io una freccia che vola in tutte le direzioni, come le scintille multicolori dei razzi il 4 luglio (…). Provai a immaginare come sarebbe stata la mia vita con Constantin come marito. In piedi alle sette a preparargli uova e pancetta, pane tostato e caffè, poi, quando lui fosse uscito per andare al lavoro, girare per casa in vestaglia e bigodini a lavare piatti sporchi e a rifare il letto; e lui, al ritorno alla sera, dopo una giornata intensa e affascinante, avrebbe preteso una cena come si deve e io avrei trascorso la serata a lavare altri piatti sporchi, finché sarei crollata a letto, sfinita”.

Desiderio di uniformarsi, forse per trovare una via d’uscita dalla campana di vetro, ma una impossibilità, in parte personale per una ragazza che sogna di essere una freccia che vola in tutte le direzioni, in parte per l’ostilità politica e culturale dell’esterno che non ammette deroghe né felicità, lo neutralizza. Esther fa tutto a New York. Cerca di godersi i piaceri della metropoli, va agli appuntamenti mondani come inviata della rivista di moda per la quale lavora come tirocinante grazie alla borsa di studio (Mademoiselle nella realtà), convive con le altre borsiste, conosce uomini, riceve inviti e corteggiamenti. Ma resta straniata, un’osservatrice implacabile che registra tutti segnali del grottesco: quei ragazzi tonti, volgari, li liquida con battute crudeli, come quando un’amica la trascina a un ballo con due tipi raccattati in un locale, ma a lei tocca un “tappo”, che non sopporta perché è di statura alta; e anche più avanti, quando un’altra amica vuole trovarle un accompagnatore teme di imbattersi in un ennesimo “tappetto” del piffero.

Il romanzo autobiografico procede svelto, supportato da una splendida, estrosa scrittura materialista, che qua e là evoca un’altra formidabile stilista: Goliarda Sapienza.

Corre verso la svolta, quando il desiderio – il sogno? – di integrarsi nella società si scontra con l’opposizione granitica di un mondo che non ammette libertà individuali, ma anche col proprio dolore interno, fino alla frattura del disordine mentale. Esther torna a Boston e inizia a stare male, molto male. Si sente “fuori”, si sente matta, fa cose assurde. E proprio come la sua autrice viene ricoverata in un ospedale psichiatrico, dove regna una gentilezza spettrale, diretto dal mellifluo, inquietante “dottor Gordon”. La sottopongono a elettroshock, più volte, in un turbine di medici imperturbabili, infermiere, altri pazienti, tutte figure aliene, distanti, che lei osserva con un binocolo rovesciato, che ascolta da un altoparlante isterico e afono. Non ci sono sfoghi né vittimismi, ma un’operazione letteraria raffinata che allarga il sentimento di dolore e di solitudine privata in collettivo, scardinando l’intero sistema che cauterizza il disagio e la diversità, suscitando un istinto di rivolta nel lettore. Il tutto con un distacco non privo di ironia che rende lo scenario una sorta di paesaggio lunare, che richiama un enunciato che tutti noi, chi più chi meno, conosciamo: “Ma io che diavolo ci faccio qui?”

 

Colfiorito

1

di Nadia Agustoni

Colfiorito
(qualcosa di bianco)

Sera a Colfiorito
nel garrire di rondini
in un’amnesia di cielo
e penombra
sull’ascia dei temporali
portammo radici di voci
e alveari.

A dicembre con Silvia
gli orti di Assisi a terrazza
uno spiovere di salite e azzurri
pensando ai container
ai vecchi che gelano
all’anno che finisce freddissimo senza case.

Mi sovviene — scandalosamente leggero —
il settembre bellissimo
gli olivi i solchi le colline vuote
un sole arreso il sonno una bugia fragile
un’amica che dice tu dormi con occhi che tremano
ma chiudo le imposte, con lei faccio l’amore fino al mattino
mentre i paesi crollano
in una luce senza terra
che finisce sul mare come un cosmo.

Dai margini del fiume, in un angolo,
la cagna allatta i cuccioli
senza badare al resto della vita
o a cosa il tempo faccia dei volti
o se l’attesa è una crepa, un oscurarsi,
o qualcosa da compiere
qualcosa di bianco.
 
 
[Questo testo è apparso nel libro “Poesia di corpi e parole” edizioni Gazebo 2002. Qui una versione in parte modificata.]

“Non sono una donna, io”: alle origini del femminismo nero di bell hooks

0

 

 

di Daniele Ruini

«Per me il femminismo non è semplicemente una lotta per porre fine al potere maschile o un movimento per assicurare che le donne abbiano gli stessi diritti degli uomini; è un impegno a estirpare l’ideologia di dominio che permea la cultura occidentale a vari livelli – sesso, razza, classe, solo per citarne alcuni – e un impegno a riorganizzare la società statunitense in modo che la crescita
della comunità abbia la precedenza sull’imperialismo, sull’espansione economica e sui desideri materiali.»
(bell hooks)

 

Dopo i testi pubblicati negli ultimi anni, prosegue la meritoria riproposizione da parte della Tamu edizioni dei lavori della femminista e studiosa afroamericana Gloria Jean Watkins (1952-2021), nota come bell hooks; e come già accaduto con Il femminismo è di tutti e Da che parte stiamo, anche Non sono una donna, io: donne nere e femminismo (Ain’t I a Woman: Black Women and Feminism) è qui offerto per la prima volta al pubblico italiano (grazie alla traduzione di Federica Fugazzotto). Tuttavia, l’occasione di questa uscita è forse ancora più interessante, trattandosi dell’opera prima di bell hooks, edita negli Stati Uniti nel 1981 (lo stesso anno di un altro importante libro sugli stessi temi come Women, Race and Class dell’attivista di colore Angela Davis).

Dedicato alla madre Rosa Bell Watkins (dal cui nome bell hooks ha tratto la prima parte del suo pseudonimo), Non sono una donna, io affronta di petto una delle questioni centrali del femminismo intersezionale, ovvero il rapporto problematico tra la lotta per la liberazione delle donne nere e il movimento femminista. Quest’ultimo avrebbe infatti colpevolmente del tutto trascurato la situazione di inferiorità sociale delle donne di colore, finendo per perpetuare un’ideologia razzista che assimilava l’esperienza della donna bianca a quella della donna americana tout court, e negando per principio qualunque possibilità di condurre una lotta che intrecciasse la questione razziale e quella sessista. Non ci si potrà stupire, allora, se le donne nere –che pure nel XIX secolo si erano esposte in prima persona contro il sessismo– finirono per allontanarsi dalle organizzazioni femministe.

La ricerca pionieristica di bell hooks nasce quindi dalla necessità di rifondare un femminismo nuovo, capace di riconoscere i vari livelli di oppressione di cui gruppi di donne diverse sono state e sono ancora vittime. Iniziato quando l’autrice era studentessa universitaria, Non sono una donna, io impiega programmaticamente un linguaggio semplice per poter arrivare a tutti, compresi lettori con un basso livello di istruzione: un’impostazione influenzata dalla delusione dell’autrice per gli ambienti accademici, dove i Women’s Studies erano dominati da studiose bianche e incentrati quasi esclusivamente sulla condizione delle donne bianche. Ma bell hooks non si fa scrupoli nemmeno ad evidenziare i limiti delle opere delle più importanti attiviste di colore, come per esempio Black Macho and the Myth of the Superwoman (1979) di Michele Wallace, incapace a suo dire di dimostrare l’impatto che il sessismo ha avuto sulle donne nere.

Animata dal desiderio di uscire dalle aule universitarie e di sedersi nelle cucine delle donne di colore per ascoltare la loro voce, bell hooks si rende conto, ai tempi dei suoi vent’anni, che le donne nere del dopoguerra avevano di fatto rinunciato a valorizzare la loro femminilità, adattandosi al maschilismo della società; in questo modo finivano per negare una parte di loro stesse usando la questione razziale come unico elemento di identificazione. D’altra parte questa loro remissività era raccomandata dagli stessi leader del movimento dei diritti dei neri, dato che Malcolm X, Martin Luther King e tanti altri erano «fermi sostenitori del patriarcato» (p. 152) e non tolleravano le poche donne nere che osavano esporsi pubblicamente a favore dell’emancipazione femminile. La conseguenza fu che le donne nere si trovarono «obbligate a scegliere tra un movimento nero che faceva principalmente gli interessi dei patriarchi neri e un movimento delle donne che faceva principalmente gli interessi di donne bianche razziste.» (p. 29)

Eppure un secolo prima c’erano state numerose attiviste di colore impegnate nella lotta contro il sessismo e a favore dei diritti di tutte le donne. Tra di esse un ruolo di primo piano spetta a Sojourner Truth, che nel 1851, durante un raduno contro la schiavitù, si scoprì il seno domandando più volte al pubblico se per loro non era una vera donna: «Ain’t I a Woman?» (una domanda che bell hooks ha significativamente scelto come titolo del suo libro). Queste donne hanno cercato innanzitutto di ribaltare lo stereotipo secolare, fatto proprio anche da alcuni maschi neri, per cui le donne di colore sarebbero state immorali e dissolute, ovvero il simbolo di una sessualità selvaggia; e si sono impegnate attivamente per far uscire le donne nere da quel recinto di prostituzione e povertà in cui erano spesso confinate. Tuttavia la mancanza di solidarietà da parte delle donne bianche, preoccupate di conservare una superiorità gerarchica nei confronti dei neri (come dimostrò la loro frustrazione quando negli Stati Uniti venne introdotto il diritto di voto per i maschi neri) condusse, nel XX secolo, al progressivo disimpegno delle donne di colore nella lotta femminista.

Uno dei punti fermi dell’argomentazione di bell hooks è che l’atteggiamento delle donne bianche risalirebbe all’epoca della schiavitù degli afroamericani. Infatti di fronte alle molestie sessuali e agli stupri che le schiave dovevano subire da parte dei loro padroni (i quali sommavano al razzismo una feroce misoginia tramandata da secoli di ideologia patriarcale), le donne bianche tendevano ad incolpare non i mariti ma le schiave nere, additate come tentatrici sessuali la cui lussuria avrebbe indotto gli uomini al peccato. E talvolta le mogli stesse degli schiavisti partecipavano in prima persona alla brutalizzazione delle schiave.

L’aggressione sessuale alle donne afroamericane è continuata molto a lungo anche dopo la fine della schiavitù, e senza che ciò attirasse grandi attenzioni (contrariamente a quanto accadeva quando le vittime di stupri erano bianche): la società americana aveva infatti completamente interiorizzato l’immagine –veicolata anche dal cinema e dalla televisione– delle donne di colore come sgualdrine sessualmente sempre disponibili e prive di ogni moralità. E siccome il sessismo razzista della cultura patriarcale bianca era stato assorbito anche dai maschi di colore, accadeva non solo che anche questi ultimi si macchiassero di violenza verso le donne nere ma che tale violenza fosse passivamente accettata nelle comunità di colore. Come sottolinea bell hooks, «questo è solo un altro esempio del modo in cui la pervasiva preoccupazione che le persone nere nutrono nei confronti del razzismo permette loro di ignorare, opportunisticamente, la realtà dell’oppressione sessista.» (p. 115).

Ciò su cui l’autrice insiste a più riprese è insomma come il razzismo e il sessismo siano aspetti costitutivi della società capitalistica americana e come questa (in)cultura dominante abbia finito per contagiare anche gruppi minoritari in lotta per i propri diritti. Ecco allora, per esempio, che la diffidenza dei maschi neri verso le donne di colore che entravano nel mondo del lavoro non era altro che una replica dell’analogo sentimento provato dai maschi bianchi, i quali vedevano nella donna lavoratrice una minaccia alla propria posizione sociale e alla propria virilità. E come si è già detto, a promuovere un tale sguardo erano gli stessi uomini alla guida del movimento per i diritti degli afroamericani: una colpa molto grave agli occhi di bell hooks, dato che questo ha contribuito a spegnere lo spirito di rivalsa di molte donne di colore, spingendole ad abbandonare la prospettiva di una lotta collettiva contro la duplice oppressione, sessista e razzista, di cui erano vittime.

Invitando a superare quegli steccati gerarchici che hanno a lungo tenuto le donne di colore fuori da organizzazioni femministe rivelatesi razziste e classiste, bell hooks riconosceva la necessità di un profondo lavoro culturale e politico: è solo così che si possono creare le condizioni per una vera sorellanza femminile in grado di immaginare una rivoluzione femminista che conduca all’eliminazione –per ogni donna– dell’oppressione sessista. Fino a quando non si ribalterà alle radici lo stesso sogno americano –«un sogno essenzialmente maschile di dominio e successo a scapito degli altri» (p. 178) e che sprona i maschi a credere che l’oppressione delle donne sia un passaggio necessario per la propria affermazione personale– ogni lotta rischierà infatti di rimanere isolata e di riprodurre quelle stesse dinamiche di potere contro cui si batte.

Sono passati quarant’anni da queste riflessioni; e se in Occidente molti passi sono stati fatti verso una maggiore consapevolezza delle discriminazioni razziali e di genere, ciò che continua a succedere nelle nostre società rende la lucidità combattiva della giovane bell hooks ancora più attuale che mai.

 

I poeti appartati: Nicola Vacca

0

Poesie

di

Nicola Vacca

Oscurare dio

Il riverbero di un dio oscuro
toglie la luce
alle ultime permanenze.
Ci aspetta
una lunga stagione di idoli
venerati per nascondere la paura
di noi che finiremo per spegnerci.

Oscurare dio
per tornare alla luce
un gioco blasfemo che deride
la vigliaccheria dei devoti.

 

Eresia del Cristo velato

Cristo si copre gli occhi
perché non vuole vedere
gli orrori che ha creato suo padre.

Lui che è anche finito sulla croce
senza una parola di conforto di nessun dio
ha buone ragioni per farla finita
con le ferite aperte nel suo costato.

 

Libro delle bestemmie

 

Non trovo risposte
a tutte queste rincorse.
Qui è un macello
e di fughe neanche a parlarne.

Aspetterò che dio
mi chieda perdono
per i suoi misfatti di finta misericordia.

Mi pongo domande mentre vaneggio
di bestemmia in bestemmia.

 

Senza un dio

C’ è chi crede

nel dio denaro

 

chi si masturba

con il dio della fede

 

c’è chi osanna

il dio dell’ego

 

c’è chi si inventa un dio

perché ha sempre bisogno di una metafora

 

essere senza dio

è una salvezza

 

averne più di uno

è la condanna

 

La preghiera del cecchino

 

Sono la negazione del quinto comandamento

nel vuoto dell’infelicità uccidere

è la fede che ho nel tempo degli assassini.

 

Anche un cecchino ha la sua chiesa

e una preghiera che puzza di piombo.

Sia sempre fatta la volontà del dio del massacro.

 

Il male nel mirino

 

Non ama l’odore del sangue

ma la sua vista a distanza.

Nei suoi occhi c’è tutto l’odio

che prova per le vite sconosciute che abbatte.

Dal nascondiglio del suo appostamento

sopporta il mondo che non gli appartiene.

 

Siamo fatti tutti della stessa materia del male

e sappiamo che la deflagrazione non tarderà a venire.

Il mirino è già puntato

il fucile ad alta precisione

difficilmente sbaglierà bersaglio.

 

Per il cecchino che ci portiamo dentro

anche oggi  è giorno di mattanza.

 

Bestemmio ergo sum

 

Questa epoca non vuole nessun dio

non sa che farsene dei devoti

che lo pregano genuflessi.

Questo è il tempo delle bestemmie

e non dei chierici allineati e coperti.

 

Facciamola finita

una volta per tutte

con il giudizio di dio.

 

Lo disse anche Antonin Artaud

il poeta nero con la follia veggente.

 

Tutti i perché mancati e la poesia che ci scrive

 

 

Sul tavolo due libri di Ghiannis Ritsos e Mark Strand.

Il poeta greco e quello americano

in questa mattina di nuvole malinconiche

mi fanno compagnia mentre guardo fuori

un cielo che precipita sulla terra.

“Il presente è sempre buio.

Le sue mappe sono nere”.

Scrive Mark che è sempre vissuto

in un quadro di Hopper.

“Dopo il crollo degli dèi, nessuno sapeva

più da che parte voltarsi”.

Ghiannis  lancia come pietre le sue parole crude

centra sempre il bersaglio:

noi, colpiti e affondati.

 

Leggendo Majakovskij in una giornata grigia

 

Il marcio divora l’aria

un grido è inghiottito dalla disperazione

nel frenetico rumore del tempo

i nervi si schiantano sulla disfatta.

 

Il cuore è di ferro

non credo che ci sarà salvezza

in questa realtà che puzza di ipocrisia.

 

La repubblica

non uscirà dal fango

dalla finestra si vede l’inferno

e Don Chisciotte muore per sempre

Questi nostri giorni del Qohélet

 

La sento addosso

la notte di dio

in questa oscurità

freddata da un colpo secco.

 

Le mani non bastano

per scavare nei turbamenti

qui dove tutto è vanità

 

la vita offre

un numero limitato di giri di giostra

 

verrà la morte e avrà i nostri occhi

questa è la verità

che dovremmo tenere a mente

mentre collezioniamo bugie per sopravvivere.

 

da Libro delle bestemmie (in uscita  da Marco Saya Edizioni)

 

 

 

 

L’amore da vecchia. Intervista a Vivian Lamarque

0

 

a cura di Andrea Carloni 

Vivian Lamarque scrive poesie fin da bambina e ne pubblica da cinquant’anni. Nel 2002 uscì con Mondadori la raccolta di tutte le sue poesie dal 1972, ma lei ha continuato e continua a scriverne. Ha collezionato numerosi premi (il Montale, il Carducci, il Morante, il Saba…) e con l’ultima sua silloge L’amore da vecchia del 2022 per Lo Specchio – Mondadori è stata finalista allo Strega e ha vinto l’ultima edizione del premio Saba e Viareggio, ques’ultimo lo stesso premio che si era aggiudicata all’inizio della sua carriera nel 1981.

L’amore da vecchia ci offre tanti aspetti dell’amore quante le sezioni (nove) in cui sono articolate le poesie: “I nomi degli amanti, Poesie con foglie, Gli animali addormentati, Poesie familiari, Poesie ferroviare, Io sono autobiografica, Come nel film, Io non sono morta io sono nata, Poesie sulla poesia”.

Di questi suoi nuovi versi sono qui a parlare con l’autrice, che voglio sinceramente ringraziare per aver accettato di rispondere ad alcune mie domande.

Vorrei cominciare dall’inizio, quindi dal titolo di questa sua ultima raccolta di poesie: L’amore da vecchia. Cosa può raccontarci della scelta del sostantivo “amore” assieme all’aggettivo “vecchia”?

Se ben ricordo, tutti i titoli dei miei libri di poesia sono apparsi prima delle poesie stesse, hanno dato il la. Unica eccezione Madre d’inverno che giunse a libro terminato. Il titolo L’amore da vecchia nacque nel 2016 contemporaneamente all’uscita di Madre d’inverno, il giorno del mio settantesimo compleanno. Proprio in quei giorni mi capitò come una sassata un colpo di fulmine (in assenza di metà fulmine però!), una specie di stordito innamoramento. Poesie come se piovesse, precedute dal fulmineo nuovo titolo: L’amore da vecchia. Amore naturalmente non rivelato all’interessato (anzi al disinteressato). Intanto le recensioni al libro precedente, pur ottime, mi parevano ruotare troppo intorno alla mia biografia, mea culpa pensai, nel prossimo libro guai a me se toccherò ancora il tema infanzia, solo versi d’amore. Ma avevo fatto i conti senza l’oste, cioè senza le poesie stesse. Dopo un anno (mi ero festeggiata zitta zitta anche l’anniversario del fulmine), camuffate di rami e foglie come nella foresta di Birnam, sono avanzate di nuovo, striscianti, le poesie sui soliti temi prediletti. Allora nove sezioni anziché l’unica prevista. E della prima, “I nomi degli amanti”, salvate solo metà delle poesie.

e perdono chiedo ai fidanzati.

Tutti dimenticati?

No, i loro nomi ho ancora dentro bene

incisi, ma come per nebbia

confondo un poco rami e mani, colore

delle foglie e dei capelli.

Oh presto saremo boschi tutti quanti insieme?

Sua aperta dichiarazione in questo libro è difatti quella autobiografica, forse mai così netta come in queste pagine. Quale rapporto intercorre oggi fra le sue vicissitudini e le sue poesie?

Siamo in guerra! Più giuro di non parlare mai più d’infanzia, più loro insistono. Devo informarle che ho quasi ottant’anni, che sono ridicole, che la smettano. Niente, imperterrite si camuffano, veda nella risposta precedente la foresta di Birnam. Tempo fa avevo studiato una strategia: iniziai a scrivere la mia autobiografia, in prosa naturalmente, pensando così di tacitare quel tema in versi. Fallimento totale: e per di più invasero anche la prosa.

I am an orphan! I am an orphan!

Ma, sorpresa, orfano lui non era affatto.

Come io non lo sono

come voi non lo siete

come tutti –

lo siamo.

In copertina appare il disegno essenziale della curva di una linea; fa pensare all’avvolgimento di un filo. Come nasce questa immagine e quanto è casuale?

Le copertine sono le mie croci. Le vorrei solo con titolo e nome dell’autore, fine, come nei vecchi Specchi color seppia. Le vorrei fisse nel tempo, come avviene con la bianca Einaudi o con gli Adelphi. Le prime copertine che mi proposero per L’amore da vecchia mi spaventarono. “Aiuto, sul mio corpo avete messo una testa non mia”, scrivevo disperata a Elisabetta Risari e a Luigi Belmonte. Nel 2002 avevo ottenuto di disegnarmela da me la copertina dell’Oscar, idem anni dopo quella di Poesie per un gatto e poi quella di La gentilèssa. Per L’amore da vecchia chiedevo meno segni, più vuoto, infine dopo una quindicina di prove, ecco giungermi l’attuale. Nel centro del filo c’era una specie di occhio inquietante, ottenni di eliminare pure lui e sì, ha ragione, il risultato è un filo e, me ne sono accorta dopo, in quarta di copertina la poesia parla di un filo da ricamo, felice casualità.

Finito, già finito

l’incantato tempo

dei rami in fiore?

Come quando

sul più bello del ricamo

finisce il filo da ricamo? 

L’ironia e soprattutto l’autoironia sembrano essere compagne fedeli dei suoi componimenti, anche in una delle sezioni più intense: “Io non sono morta io sono nata”. Scrivere poesia può quindi far incontrare il sorriso anche delle circostanze più definitive?

È la mia arma, la mia salvezza. Imparai a farne uso fin da bambina. In un tema di seconda o terza elementare, dovendo parlare del babbo Dante morto quando avevo 4 anni, dopo tante belle dovute parole, si infilò nel pennino l’invidia per gli altri bambini che il papà lo avevano ancora: “ci sono anche altri colleghi del mio babbo morti, ma pochissimi!”. Dire e non dire, oppure dire modificando l’alfabeto: in una letterina di Natale dettata dalla maestra e che cominciava con “Cari genitori”, per un lapsus calami, firmai anziché Vivian, Viviam. Imperativo esortativo del verbo vivere, fa niente se uno dei due genitori era morto!

Nessuno si meraviglia

se uno alla sua età

muore.

Nessuno.

Ma lei sì!

Lei che sarei io, sì.

Sì, lei si meraviglierà,

io mi meraviglierò.

Tanto

Fra i suoi versi compaiono i nomi di tanti poeti del passato, Pascoli, Caproni, Gozzano, Saba… Rivolgo a lei la stessa domanda della sezione “Poesie sulla poesia”: non ce ne inviano più di poesie i morti, nemmeno una?

Ha ragione. La sua domanda mi fa pensare che in fondo anche da là ce ne inviano ancora, a tonnellate. Perché, se rileggo oggi a 80 anni poesie che avevo letto a 30, mi dicono molte cose in più, nuove, nuovissime, grazie poeti! Per esempio grazie Lello Baldini, che sto rileggendoti in questi giorni.

Dipenderà dalla poesia e dalla rosa

una tra i fogli l’altra tra le foglie –

se di qualche millimetro col tempo

cresceranno, o se resteranno lì inerti

sul foglio e nel vaso, senza una nuova

parola, senza una foglia nuova.

 

VIVIAN LAMARQUE (nome suo, cognome coniugale), nata nel 1946 a Tesero-Cavalese (TN) da madre valdese ma, per volere del nonno Moderatore e Teologo, data a 9 mesi in adozione in quanto illegittima. A 4 anni perse il padre adottivo, giovane grande Vigile del Fuoco. Ha insegnato italiano agli stranieri e letteratura in istituti privati. Opere: Teresino, Il signore d’oro, Poesie dando del lei, Il signore degli spaventati, Una quieta polvere, Poesie 1972-2002, Poesie per un gatto, La Gentilèssa, Madre d’inverno e L’amore da vecchia. È anche autrice di una quarantina di fiabe, a partire da La bambina che mangiava i lupi. E di fiabe musicali tratte da opere di Mozart, Schumann, Ciajcovskij, Prokofiev, Stravinskij. Per l’infanzia ha pubblicato anche Poesie di ghiaccio, Poesie della notte e Animaletti vi amo. Ha tradotto tra gli altri Baudelaire, Valéry e favole di La Fontaine, Céline, Grimm e Wilde. Dal 1996 collabora al Corriere della Sera. Ha una figlia e due nipoti.

 

Su “L’osso, l’anima” di Bartolo Cattafi

0

[Questo articolo, dedicato al libro di Bartolo Cattafi, L’osso, l’anima (a cura di Diego Bertelli, Le Lettere, Firenze, 2022), è apparso sul numero n° 7/8 (luglio-agosto, 2023) de “L’Indice”.]

.

di Andrea Inglese

Con la riedizione del suo libro più intenso, L’osso, l’anima, uscito per la prima volta nel 1964, e ristampato per Le Lettere nel 2022 a cura di Diego Bertelli, possiamo dire che Bartolo Cattafi ha cessato di essere un poeta dimenticato o sottostimato criticamente. A partire da Spalle al muro del 2003, una monografia critica di Paolo Maccari – anch’egli poeta – si è assistito a un crescente interesse per l’opera di Cattafi (1922-1979) soprattutto da parte delle più giovani generazioni di critici e autori, che ha avuto come importante coronamento la pubblicazione di Tutte le poesie nel 2019, sempre per Le Lettere e a cura di Bertelli, con introduzione di Raoul Bruni. Secondo quest’ultimo, il poeta siciliano va annoverato tra gli “irregolari” del Novecento, con Delfini, Landolfi, Morselli – ma la lista, lo sappiamo, sarebbe più lunga –, che non sono stati, per varie ragioni, considerati degni di adeguata attenzione critica. Innanzitutto, Cattafi ha mostrato una certa noncuranza nei confronti della corporazione poetica del suo tempo, e non si è prestato a una facile catalogazione nelle categorie critiche disponibili – a lui spettò, con una certa approssimazione, l’inclusione nella “linea lombarda”. A rileggere oggi L’osso, l’anima altre parentele sorgono, anche se inaspettate: con il Kafka dei racconti in forma di parabola, con l’anti-lirico Henri Michaux (L’espace du dedans, titolo di un’antologia ripubblicata nel 1966), con i romanzi surreali (ma non surrealisti) di Witold Gombrowicz. Il curatore, nel suo saggio introduttivo, esplora con attenzione le ragioni di questa mancata assimilazione della poesia cattafiana nel canone del secondo novecento, citando però anche coloro che, come Raboni o Luigi Baldacci, seppero cogliere la forza e l’originalità della sua opera, riconducibile “alla tradizione europea anziché al contesto nostrano”.

La diade lessicale del titolo c’introduce non tanto alla contraddittoria coesistenza tra mente e corpo, tra anima e carne, che tanto ha marcato la civiltà occidentale da un punto di vista filosofico e religioso, ma all’enigma della loro vicinanza, che potrebbe rivelare una forma di reversibilità: non l’osso e l’anima, ma l’osso è l’anima – “(…) è casomai in sequenza analogica e appositiva, scrive Bertelli, che dobbiamo interpretare i due termini”. Possiamo intenderlo in questo modo, allora, il titolo di Cattafi: lo spazio del di dentro è altrettanto opaco che lo spazio del di fuori; non solo la coscienza non fornisce all’essere umano nessun privilegio morale nei confronti della turpitudine cosmica, ma neppure le sue facoltà conoscitive le permettono un vero controllo sul destino. Accenti leopardiani attraversano la poesia di Cattafi, ma con una disinvoltura e un’ironia tutta novecentesca. D’altra parte, L’osso, l’anima, sembra eleggere come proprio osservatorio privilegiato la soglia tra soggetto e mondo, lo schermo della coscienza nel bilico che separa l’io dall’azione, il principio dalla sua messa in opera, l’enunciato dalla cosa a cui si riferisce.

Un’altra caratteristica della voce di Cattafi è la perentorietà degli attacchi e la versificazione martellante che li sviluppa. Evochiamone qualcuno: “Quanto secchi e squadrati / i nostri metri di mondo. / (…)”; “Lascia stare le fredde geometrie, / i faticosi conti della serva. / (…)”; “Giunse quindi il momento di buttarci / a capofitto, / ariete sprizzaschegge / che squassa scardina divelle. / (…)”; “Ti spiattello in faccia / come vanno le cose: / vanno male. / (…)”; “La tua grande bravura / infilare nel quadro colori / tesi, drammatici, scattanti. / (…)”. La brevità e la causticità dell’epigramma sono messe qui al servizio di un’intenzione allegorica, che inscena brevi parabole, micro-narrazioni, dialoghi interiori, che quasi mai fungono da espressione lirica diretta di un’esperienza. Un riferimento italiano pertinente, per questo e altri libri di Cattafi, è allora il Caproni allegorico del Franco cacciatore, ma già punti di contatto possono stabilirsi con il quasi coevo Il muro della terra, che è uscito nel 1975, ma include componimenti degli anni Sessanta. La differenza con Caproni è riscontrabile soprattutto nella più ampia mobilità figurativa di Cattafi, che pur funzionando anch’egli per “variazioni su tema”, rifiuta di confinare i suoi componimento entro una cornice allegorica unitaria e ben definita (la caccia, in Caproni).

Come già ricordato, la scena ricorrente in Cattafi è quella di un programma razionale, di conoscenza o azione, che s’infrange puntualmente contro il mondo (o il proprio sé inconsapevole e animale); in questo la sua tragicità e l’”antiumanesimo integrale” di cui ha scritto Baldacci. La parola poetica è una constatazione d’impotenza nei confronti degli eventi che circondano l’uomo, nonostante la sua presunzione di conoscere e controllare la realtà. E non vi sono zone di conciliazione (religiosa) o di riparazione (etico-politica) possibili. Nemmeno margini di montaliana saggezza. Ma vi è l’esistenziale energia, l’eros insopprimibile, che Albert Camus aveva visto nello sforzo vano di Sisifo, e che Cattafi celebra in questi fronteggiamenti con il mondo nella sua ambigua carnalità: ora calda e afferrabile, ora sfuggente e illusoria.

Cronache del mondo sommerso

0

di Giovanni Di Benedetto[1]

Lo sentimmo arrivare da lontano, il mare, annunciato dalla presenza insolita di uno stormo di gabbiani che volava basso nel cielo, all’altezza dell’incrocio della rue de Crimée con la rue d’Aubervilliers, alle porte della città. Nel giro di pochi minuti l’intera parte nord-occidentale fu ricoperta dalle acque. Fu così che ebbe inizio la nostra vita nel mondo sommerso.

Dalla Rue d’Athènes la torre dell’orologio della Gare Saint-Lazare si ergeva tra i campanili come uno dei bastioni eretti lungo la frontiera che separa le città al di là dello Stige. Le sirene segnalavano l’inizio del coprifuoco come se stessero annunciando la resurrezione dei morti.

Eppure, nei primi mesi, nonostante le maree, la nostra vita continuava come sempre. Quando nel cielo i pesci si sostituirono agli uccelli quasi non ce ne accorgemmo. La meraviglia era parte integrante del nostro amore e cosa del tutto naturale per noi due.

Le cose iniziarono a cambiare al ritorno di Orlando da Napoli. Come testimoniavano le foto che aveva realizzato nel corso della sua spedizione, la città era ormai ricoperta dal sale e dalla fitta vegetazione marina:

Durante il soggiorno a Napoli, Orlando era riuscito ad acquistare al mercato nero i diari di L.B. Amalfitano, un Enciclopedista noto per aver compilato le cosiddette Cronache del mondo sommerso. In questo libello, seguendo la regola millenaria dell’ordine degli Enciclopedisti, Amalfitano aveva riportato, con minuzia di particolari, gli eventi che fecero di Napoli la prima delle città del mondo sommerso. I diari non contenevano solo il materiale preparatorio a quest’opera ma anche gli appunti delle ricerche condotte da Amalfitano per conto della Società della Grande Enciclopedia Universale. Un diario in particolare aveva catturato l’attenzione di Orlando, quello che copriva il periodo di oltre vent’anni durante il quale Amalfitano aveva viaggiato nei territori costieri del Mediterraneo occidentale. Le indagini di Amalfitano lo avevano portato a ipotizzare che i Fenici, oltre alla coltivazione dell’uva rossa, avessero introdotto la coltivazione delle statue in un vasto territorio che andava da Tiro fino a Hyères. Nel corso delle sue spedizioni nei differenti porti del Mediterraneo, Amalfitano aveva raccolto il materiale necessario alla compilazione di una scheda enciclopedica che descrivesse i riti e le pratiche connesse a questa usanza di cui la storia aveva cancellato quasi ogni traccia[2]. Tuttavia, la ragione per la quale Orlando volle mostrarci il diario era un’altra. In quelle pagine era raccontata anche la storia tra L.B. Amalfitano e Luz Florival, il personaggio a cui sono dedicate le Cronache del mondo sommerso[3]. Il racconto del loro primo incontro è descritto fin nei più piccoli dettagli. Orlando ci raccontò l’episodio per metterci in guardia dalle conseguenze dell’amore al tempo della grande marea.

Quel giorno Luz era seduta alla terrazza di un bar nei pressi del porto di Hyères[4]. Amalfitano leggeva un commento settecentesco del celebre umanista francese R.F.P. Brunck ad alcuni epigrammi di Meleagro di Gadara contenuti nell’Antologia palatina. Luz beveva una Coca-Cola a un tavolino di fronte al suo. Quando il campanile sulla piazza indicò le tre del pomeriggio, il sole scomparve e il bar fu inondato dall’ombra. Luz si tolse gli occhiali e Amalfitano vide per la prima volta i suoi occhi verdi corrosi dal sole. Amalfitano mise il libro in una tasca e si avvicinò a Luz chiedendole il permesso di sedersi con lei. Continuarono a parlare fino al sopraggiungere della sera, quando decisero di fare due passi e andare a guardare il mare. Camminarono insieme lungo il Boulevard de la Marine e fumarono una sigaretta sulla spiaggia antistante. Parlarono fino a tardi e all’alba si incamminarono verso la fermata dell’autobus che li avrebbe riportati nella città vecchia. Si salutarono davanti al portone di casa di Luz e promisero di rivedersi il giorno dopo. L’indomani s’inoltrarono nel dedalo di stradine del centro. Le voci e i passi si intrecciavano l’uno con l’altro mentre si raccontavano le rispettive vite. Durante quella deriva urbana i due sembravano attraversare e sezionare, senza soluzione di continuità, il cuore e la città vecchia di Hyères. Luz gli parlò del suo villaggio natale, del mare dei Caraibi e della barriera corallina, del cielo stellato che vedeva dal giardino di casa sull’isola della Désirade, dei suoi antenati, del nonno e di come questi le avesse insegnato ad accendere il sole. Amalfitano le raccontò la storia della sua città, le gesta remote della sua fondazione da parte dei coloni greci, e poi quella delle sue innumerevoli distruzioni, delle sue dominazioni e delle epidemie di peste che ne decimarono a più riprese la popolazione. Le raccontò poi delle strade e dei palazzi sventrati dal sole e della pietra vulcanica con la quale l’intera città era costruita, il tufo, e di come questa configurasse sulla sua superficie spugnosa interi ed inesplorati microcosmi lunari.

Quando arrivarono nei pressi di una piccola spiaggia di ciottoli nei dintorni del porto, Luz decise di raccontare ad Amalfitano una storia ben anteriore a quella che gli aveva appena raccontato, la storia delle diverse trasmigrazioni della sua anima e di come la sua prima sembianza umana avesse preso forma soltanto nel 1510, l’epoca in cui conobbe per la prima volta l’amore. Al termine di quell’esistenza umana, l’anima di Luz Florival iniziò a trasmigrare e prese le forme più diverse. Durante i secoli che seguirono, fu prima un ramo di baobab del Madagascar, nei pressi di Majhanga, non lontano dal mare, poi un’ape regina, poi Jusepe de Ribeira, il pittore spagnolo di cui si persero le spoglie in seguito ai continui rimaneggiamenti architettonici che aveva subito la Chiesa di Santa Maria del Parto nella quale era stato sepolto nel 1652. Luz raccontò poi la sua successiva trasmigrazione in un arancio del giardino dell’Alhambra di Granada e quella in un sarago del Mar Nero, quella brevissima in una zanzara dell’Amazzonia e continuò poi ad enumerare il resto delle numerose forme e sembianze della flora e la fauna delle due parti del mondo che precedettero la sua sembianza umana attuale. Dopo una breve esitazione Luz disse che tale sembianza precedeva la sembianza della pietra, lo stato finale verso cui tendono le anime prima di spegnersi per sempre, una pietra come quelle che facevano della spiaggia un immenso cimitero eroso dal sale. Alla pietra sarebbero poi seguite la polvere e la sabbia e dopo ancora, l’eternità silenziosa delle stelle morte. Amalfitano sarebbe stato per lei l’ultimo tentativo che avrebbe avuto l’amore di inscriversi nella storia prima di confondersi con l’antimateria dell’oblio per il quale ciò che è stato non sarà più.

Fu in seguito a questa conversazione sulla spiaggia di Hyères che Amalfitano propose a Luz di partire con lui alla volta di Napoli. Nel corso delle sue ricerche Amalfitano era arrivato alla conclusione che Napoli fosse la terra nella quale si rifugiarono i Babilonesi in esilio[5]. Amalfitano sosteneva che fossero stati i Babilonesi a scoprire le qualità taumaturgiche del tufo. La forma spugnosa che aveva la pietra era una prova tangibile del fatto che essa fosse la sola sedimentazione minerale capace di custodire la memoria assorbendo i ricordi e resistere così all’antimateria dell’oblio. Amalfitano mostrò a Luz la trascrizione che aveva fatto della superficie di una pietra di tufo che aveva prelevato a Napoli:

Amalfitano e Luz partirono per Napoli nell’Anno Domini 2023. Si amarono, vissero felici, ebbero modo di vedere la loro sembianza umana invecchiare e deperire. E poi arrivò la catastrofe e Napoli divenne una delle città del mondo sommerso. A nulla servì l’iniziazione all’alchimia a cui era stato introdotto Amalfitano durante i suoi ultimi anni di vita. Il mare arrivò e sommerse la città e il sale erose le sue pietre millenarie ed erose poi la storia e tutto fu come se nulla fosse mai esistito. Tutto divenne un fondale marino e l’amore una nuova faglia del globo terrestre.

Quanto a noi due, dopo quei primi mesi in cui tutto sembrava continuare a scorrere come d’abitudine, tutto ebbe fine come al risveglio da un sogno o come l’addentrarsi nel sonno, in apnea, sentendo l’abisso fendere lo sguardo e poi la caduta, il nulla, le stelle morte, il vertiginare del cuore, il tuo viso che scompare.

Il giorno dopo la grande mareggiata preparai la mia valigia e mi inoltrai anch’io lungo la strada che conduceva sulla Luna, l’unico luogo in cui, secondo la leggenda, forse avrei potuto ritrovarti.

FINE

[1] La presente edizione è stata curata dal professor Isidoro Da Capua a partire dal codice anepigrafo Nap. 213. Il manoscritto, custodito oggi presso la Biblioteca dei Girolamini di Napoli, appartiene a un fondo sopravvissuto al terribile incendio che distrusse parte della Bibliothèque Nationale de France nel corso della quarta decade del secolo Ventunesimo [N.d.E.].

[2] Amalfitano suggerisce che la coltivazione delle statue sia stata una pratica di origine indoeuropea precedente e in concorrenza con la sepoltura dei morti. La Zikhrone (trascrizione fonetica di זכרון, “zkhrwn”, parola che indica anche il lessema “memoria”) è una statua composta da elementi vegetali di varia natura dedicata a un antenato. Sul corpo principale della statua sono innestate delle specie precise di arbusti o di piante, la Dracaena reflexa e la Commiphora pervilleana in particolare. La Commiphora era chiamata dai Fenici Mt-y (מת-חי, letteralmente: “morto-vivente”). Questo arbusto era utilizzato nell’attività agropastorale come supporto dei recinti per le pecore. Il Mt-y è un arbusto che durante la stagione secca perde le sue foglie. In questo periodo la fotosintesi è assicurata dal suo tronco dalla corteccia fine e screpolata: pur sembrando morto, il verde delle parti visibili del tronco mostra una vita ancora attiva. Inoltre, esso si riproduce per talea poiché dà origine a nuovi esemplari a partire dei suoi frammenti.
Considerando i materiali fragili con le quali le statue sono coltivate, appare evidente la necessità che richiede la loro coltura al fine di preservare la memoria dell’antenato per il quale la statua é stata edificata: la minaccia della decomposizione dei materiali vegetali che la compongono richiede un’attenzione periodica da parte della famiglia che implica la volontà dei discendenti di tramandare i ricordi dei loro antenati. [N.d.E.]

[3] L’episodio dell’incontro con Luz Florival e del viaggio a Napoli costituisce uno degli esempi più compiuti del metodo di lavoro di L.B. Amalfitano. Una notizia biografica riportata nella S.O.U.D.A. di Ibn Khwârizmî (Alessandria, 2024 – Taranto, 2052) riferisce come Amalfitano fosse cresciuto, fin dalla sua prima infanzia, con una paura maniacale di perdere la memoria. Per questa ragione nei suoi diari erano annotati, senza un ordine apparente, i dettagli più effimeri della vita quotidiana: liste della spesa, citazioni erudite, i riferimenti bibliografici di opere consultate in biblioteca, il numero d’inventario di un oggetto osservato in un museo. Le note sono spesso accompagnate da commenti circostanziati e da alcune relazioni riguardanti la sua vita privata. Per separarli dal labirinto di dati e informazioni raccolte durante le sue inchieste enciclopediche, Amalfitano incornicia questi testi all’interno di alcuni riquadri disegnati da lui stesso. Gli episodi e gli aneddoti narrativi trascritti si possono classificare in un ordine cronologico in grado di restituirci l’itinerario di una vita: il materiale autobiografico fa da cornice al materiale enciclopedico raccolto da Amalfitano nel corso delle sue innumerevoli spedizioni. Cfr. Ibn Khwârizmî, S.O.U.D.A.Sunagogé Onomastikès Ulès Diaphorôn Andrôn, Cambridge University Press, Cambridge, 2046, trad.it. a cura di G. Di Benedetto, Raccolta del materiale onomastico di differenti uomini. [N.d.E.]

[4] Secondo una versione apocrifa dell’Odissea rinvenuta nel 2018 su una tavoletta d’argilla databile del III secolo d.C., la città era una colonia fenicia di Sidone. Cfr. Ansa.it, 11/08/2018 [N.d.E.]

[5] Cfr. Diodoro Siculo, Bibliotheca historica, II, 47. [N.d.E.]

Mots-clés__Luna

0

 

Luna
di Paola Ivaldi

Lucio Dalla, L’ultima luna -> play

___

___

Giovanna Rosadini, Saremo sempre profili in controluce
(da Fioriture capovolte, Giulio Einaudi Editore, 2018, pag. 21)
I.
Saremo sempre profili in controluce
incisi sulla linea d’orizzonte, sospesi
sopra il blu fondo e salino che regna d’estate
nel tempo senza tempo di ogni infanzia
II.
Saremo sempre in quel tondo di luna
magrittiana appeso sopra i tetti di Milano,
a respirare l’aria leggera della sera mentre
fa scuro, e l’ultimo cielo si colora di presagi
III.
Saremo sempre l’intuizione
dentro lo sguardo scambiato
al primo incontro, aver visto
nell’altro il fermo immagine
che il tempo non intacca,
la forma di un’infanzia
che dura e non si stacca
IV.
Saremo sempre quell’eco di passi
nella nebbia che stinge le calli,
Venezia culla d’acqua
in cui nuotiamo in attesa
del mondo che verrà,
pesci pilota che, smossi,
si cercano e si sono trovati