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Credere, obbedire, combattere (di quando l’esercito scendeva per strada)

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di Francesca Matteoni

Il 4 agosto è sempre stato un giorno speciale per me: in questa data nel 1792 nasceva infatti nel Sussex Percy Bysshe Shelley, il poeta romantico che amavo da ragazzina. Avevo circa tredici anni – dopo aver letto Ode to the West Wind su una vecchia antologia liceale, mia madre mi regalò un’edizione italiana delle sue poesie con traduzione di Roberto Sanesi. Nella mia fantasia Shelley divenne molto di più dell’autore di poesie o del bel volto efebico dei ritratti – morto giovane, al largo di Livorno, personaggio idealista che conversava con le rovine di regni immaginari, con la maga di Atlantide, con il cantore del mattino (l’allodola, dove Keats che avrei conosciuto dopo, sceglieva la malinconia lunare dell’usignolo) e naturalmente con il turbine di foglie nel vento occidentale, si trasformò in uno spettro inquieto che rispondeva alla mia adolescenza. Il fatto che in realtà non lo “vedessi” se non tra i versi tradotti e le mie prime faticose incursioni nell’originale, non costituiva un problema: avevo collezionato una serie di amici fantastici di cui lui era soltanto l’ultimo ed il più eccezionale.

Un cane dagli occhi neri

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di Gianluca Veltri

Non lo chiamavano ancora Myanmar, quando vi nacque il cantautore Nick Drake. Né Yangoon. Nel 1948 era ancora Birmania, era ancora Rangoon. Nick era il rampollo di una famiglia britannica benestante, papà ingegnere. Il suo destino era una privilegiata vita coloniale, in quel lembo di Sudest asiatico post-bellico gravido di futuri conflitti. Ma il destino si diverte a invertire le rotte, a sparigliare le giocate, e Nick si ritrovò ancora bambino, con la sua famiglia – daddy Rod, mamy Molly e la sorella maggiore Gabrielle – nell’Inghilterra culla dei genitori. I Drake ripararono lì, in Birmania non tirava più buona aria. Warwickshire, campagna in stile Miss Marple, Tanworth-in-Arden. Un villaggetto signorile e discreto, la cattedrale trecentesca intitolata a Maria Maddalena e un’atmosfera che sembrerebbe fatta apposta per attutire i conflitti. Non fu così per Nick, che amò e odiò quel borgo, ne fuggì lontano e sempre lì tornò, fino a morirvi a soli 26 anni, nel 1974.

Aleksandr Solzhenitsyn [ 11.XII.1918 – 3.VIII.2008 ]

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Mstislav Rostropovich
Johann Sebastian Bach, Cello Suite N.2, I. Prelude

[ molte pagine di Arcipelago Gulag furono scritte nella casa di Mstislav Rostropovich, che ospitò e nascose l’amico Aleksandr Solzhenitsyn ricercato dal KGB ]

BRIVIDO D’INVERNO [1867] di Stéphane Mallarmé

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a M…

 
Questa pendola di Sassonia, che ritarda e suona la tredicesima ora fra i suoi fiori e i suoi dei, di chi è stata? Penso sia venuta dalla Sassonia con le lente diligenze, in passato.

(Singolari ombre pendono ai vetri consunti)

 
E il tuo specchio di Venezia, profondo come una fredda fontana, alla riva di serpenti d’oro scrostato, chi si sarà rimirato? Ah! Sono sicuro che più di una femmina ha bagnato in quest’acqua il peccato della sua bellezza; e forse vedrò un fantasma nudo se lo guarderò per lungo tempo.
 
– Villano, tu dici sovente certe cose sconvenienti…

(Vedo delle tele di ragni in alto sulle grandi finestre)

Chiaiano, un’altra verità

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di Maurizio Braucci

“Ogni volta che ci dicono: perché non protestavate quando la camorra sversava i rifiuti tossici? Io salto dalla sedia. Ma come? Negli anni ’80 facevamo i presidi di notte, rischiando la vita, per bloccare i camion che lavoravano per la criminalità organizzata. Come pensate che siano nate tante inchieste dell’antimafia?” E’ Angelo Genovese a parlare, zoologo, ha 48 anni, ex attivista di Legambiente, oggi è tra quanti sono contrari all’apertura della discarica di Chiaiano.”La mia prima denuncia sullo sversamento dei rifiuti tossici risale all’85, allora la gestione stava nelle mani di piccoli clan locali da cui, noi attivisti, subivamo minacce ed intimidazioni perché portavamo alla luce un sistema del tutto abusivo e la legge era dalla nostra parte.”

Da Da Da Da Da Da Da Da Da Da Da Da Da Da

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DADA NE SIGNIFIE RIEN
Dada non vuol dire niente

Se uno lo crede futile e se uno non perde mica tempo con una parola che non vuol dire niente…Il primo pensiero che si aggira per quelle teste è di tipo batteriologico: trovare la sua origine etimologica, storica o psicologica, quanto meno. Si viene a sapere dai giornali che i negri Krou chiamano la coda di una vacca sacra: DADA. Il cubo e la madre in non so quale regione italiana: DADA. Un cavalluccio di legno, una balia, sissì in russo e in rumeno: DADA. Esperti giornalisti ci vedono un’arte per neonati, altri santoni Gesùchiamaaseipargoli del giorno, il ritorno a un primitivismo scarno e rumoroso, rumoroso e monotono. Uno non costruisce la sensibilità su una parola; ogni costruzione converge nella perfezione che tedia, idea stagnante di una palude dorata, relativo prodotto umano. L’opera d’arte non deve essere la bellezza in sé; perché la bellezza è morta; né allegra né triste , né chiara né oscura, rallegrare o maltrattare gli individualisti servendo loro dolci delle sante aureole o i sudori di una corsa a schiena bassa attraverso le atmosfere. Un’opera bella non è mai bella, per decreto, oggettivamente, unanimemente. La critica è allora inutile, non esiste che in modo soggettivo, per ciascuno e senza il minimo carattere di universalità . Uno crede di aver trovato una base psichica comune al genere umano?

(…)Così nacque DADA da un bisogno d’indipendenza, di diffidenza verso la comunità. Coloro che ci appartengono conservano la loro libertà. Noi non riconosciamo alcuna teoria. Non ne possiamo più delle accademie cubiste e futuriste: laboratori di idee formali. L’arte si fa forse per soldi e per lisciare il pelo dei nostri cari borghesi?

da Manifesto dada 1918

Il giallo ha cambiato Garlasco

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di Franz Krauspenhaar

Stereotipi che resistono nel tempo. Saldano l’evento al luogo dove esso è avvenuto e quel luogo si imprime nella memoria collettiva richiamando in simbiosi l’evento. Lo smemorato di Collegno, la saponificatrice di Correggio, il boia di Albenga, la banda della Magliana. E nel tempo a noi più vicino il mostro di Firenze, i “fidanzatini” di Novi Ligure, il delitto di Cogne, il giallo di Garlasco.
Garlasco è una cittadina della Lomellina, in provincia di Pavia, a pochi chilometri dal confine col Piemonte e non lontana da Milano. Una cittadina del profondo nord, composta da villette perlopiù unifamiliari. Un posto tranquillo, non particolarmente caratterizzato, un posto umido d’inverno e ancor più nelle altre stagioni. Zanzare killer, d’estate, salgono come esercito dalle risaie; il riso, qui, si coltiva da sempre. Garlasco si trova nell’epicentro della coltivazione, come il Vercellese e il Novarese, zone umide e languide, spesse di nebbia d’inverno e di un sole coperto d’estate. Il luogo è provinciale e sonnolento: le giornate si tagliano uno dietro l’altra come le fette di pane bianco della prima colazione. Civiltà contadina; ma i valori tradizionali si sono persi ormai tra i tavolini dei bar popolati, come in altri mille posti, da vecchi superstiti, che biascicano la parlata del luogo, come fosse un milanese più grasso, più unto.

Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato 2

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[18 immagini + lettere invernali per l’estate; 1

di Andrea Inglese

Cara Reinserzione Culturale del Disoccupato

io ci terrei che il lavoro
quando riuscissi a trovarlo
(entrando all’improvviso con il foglio
di giornale ripiegato
magicamente sotto il braccio
e le parole dell’annuncio
tutte evidenziate, azzurre)

io vorrei che il lavoro stesso
trovasse me
e nella più agile e audace delle posizioni
di una prontezza spontanea
completamente sincera

Le ragioni del ritorno

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Eraldo Affinati risponde a Massimo Rizzante

Massimo Rizzante
Comincerei da una delle tue ultime fatiche, Compagni segreti. Storie di viaggi, bombe e scrittori (Fandango, Roma 2006). Questo libro – anche se ha una parte letteraria dedicata agli scrittori che formano il tuo «museo immaginario» – assomiglia alle tue opere precedenti (spesso alla frontiera tra finzione e documento). Anche qui sei presente come autore e allo stesso tempo come protagonista. Da una parte, infatti, scrivi su altri scrittori, dall’altra non rinunci a essere quel personaggio-viaggiatore intento ad «agire», a toccare con mano luoghi e misfatti della storia del XX secolo. Potremmo proprio partire da qui, dalla memoria del secolo dei «totalitarismi», specificando che chi investiga e ricorda, come più volte hai scritto, non ha direttamente vissuto le esperienze fondamentali di cui narra e che in ragione di ciò si sente un «reduce» (l’etos del reduce, al contrario di quello del malinconico che viaggia cercando di smarrirsi nel paesaggio e nella Storia, è contraddistinto dall’entusiasmo di chi, sperimentato il limite, comprende il valore del ritorno a casa, il valore del ricominciare ogni volta dai propri limiti). Non è un caso, quindi, se all’inizio di Compagni segreti, troviamo il personaggio-viaggiatore in Giappone, a Hiroshima…

Eraldo Affinati
Compagni segreti è effettivamente un libro di viaggi in cui racconto i miei reportage da alcuni luoghi resi tristemente noti dagli eventi della seconda guerra mondiale: Hiroshima, Nagasaki, Stalingrado, Cassino, Berlino

RADIOBAHIA: racconti per canzoni [012]

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di Marco Ciriello

RADIOBAHIA: suona

“Between the bars”
di Elliott Smith

12.
Un futuro pieno di pioggia, acqua per cuori assetati, prevede la veggente chiamata La Paca. Ha forma di un bambino, invece, per Erika Pérez, poliziotta a Città del Messico. Incinta e senza compagnia, appena uscita dal quartiere di Tepito, un posto più pericoloso della striscia di Gaza, porta la vita sulla spalla della morte.

Per non lasciare le penne

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Passaggio all’atto
di
Isabella Borghese

La tua telefonata. Sei tu, vero? Era lui l’ Editore, sì, il caro Mio Editore. Doveva dirmi che avevano in mano la copertina. Invece, No. Lui c’era ma a dirmi che saltava la pubblicazione, chiudeva la collana. E così mentre la sua voce stronza gracchiava a esortarmi di uscire dalle mie storie, da Glavaise, da Angel, da Sofia e di scrivere di me senza costruzioni e di tornare da lui dopo un anno poiché mi avrebbe letto, io concludevo, Credimi pure, stronzo!, non tornerò mai da te, clic, e andavo a strappare il mio contratto.
Ho lanciato il cellulare sulla scrivania accanto al letto dove ha dormito Jacques in quella notte romana. Mi son persa per ore in quello schermo bianco a percepirlo quasi ingombrante, a sentirmi ai tempi di scuola quando rimanevo per momenti infiniti nell’incipit di un tema. Quello schermo, ora, non l’avrei mai riempito con la mia vita. Era il mio pensiero fisso alla sua eco, caro Mio Editore, intende?

Mobilità

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di Marco Rovelli

Ci sono uomini che traversano deserti, e popolano terre di nessuno. Un viaggio necessario, inarrestabile. “Ma voi davvero pensate che è possibile fermare una marea umana di questo tipo? Pensate davvero che riuscirete a frenarci?” – così grida un senegalese appena rimpatriato dalla Spagna, e così inizia A sud di Lampedusa di Stefano Liberti (minimum fax, 14 euri), giornalista del manifesto, a cui quel grido era rivolto. Questo libro non è una raccolta di articoli ognuno dei quali parla di un luogo diverso dei tanti che costellano il cammino dei migranti africani. Certo, Liberti ci racconta nel dettaglio gli itinerari, le facce, le parole, le speranze, i paesaggi. Dà un corpo, insomma, a quel travaglio che precede l’apparizione degli uomini neri sulle nostre coste. Ed è questo il primo livello della lettura, quello che tocca: i volti e i contorni delle persone e dei luoghi incontrate lungo il viaggio, figure indimenticabili. Ma più a fondo A sud di Lampedusa è un percorso critico nei “luoghi comuni”.

un’estate al mare

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di Chiara Valerio

Come un uomo, non poté fare a meno di pensare prima di addormentarsi.
Ma non era un uomo; e molto tempo infelice sarebbe passato prima che lo fosse.

La prima volta che ho letto Agostino era estate, il millenovecentonovantuno e sulla spiaggia vendevano il cocco fresco e fiorivano molti ombrelloni multicolori ma nemmeno una cabina. In due parti del mondo e del tempo differenti io e Agostino detto Pisa condividevamo imperativi la medesima età e la stessa lancinante richiesta di attenzione a genitori assenti. Guarda me, scegli me, prendi me. Il padre di Agostino era morto e il mio impegnato con gli esami di maturità, la madre di Agostino era sul patino con Renzo e mia madre sul bagnasciuga a costruire castelli con le mie sorelle. In realtà erano così piccole che forse scavavano semplicemente buche. Non mi ricordo. Mia madre scorgendomi con Moravia poggiato sulle ginocchia aveva chiesto inquieta Non sarà meglio che cominci con Racconti surrealisti e satirici?, ma io che valutavo la letteratura a peso (ponderavo?) e ci tenevo molto ai pomeriggi sulla pianta di fico a tirare pietre le avevo risposto Ma Agostino sembra Il signore delle mosche che mi è piaciuto tanto.

Una guida

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di Antonio Sparzani

Non so se si tratta di una guida pratica all’eternità, certo è una guida a conoscere un mondo complesso e quotidiano, intriso di fantasia e di cruda realtà, di metafore ardite e di torte di fango.
Una ventina di racconti. Brevi, esili, sembra, però dei flash, accesi per un attimo su un intrico di realtà, che si srotolano alle porte di Roma, intorno a quella stazione che vedete nell’immagine.

Sullo sfondo di tutto sta la costruzione di un centro per i giovani, meglio se sfigati assai, e la presenza di un sacerdote eccezionale, ovunque nominato come don Mario, che questo centro ha voluto e ottenuto con un’energia e un coraggio incredibili.
Fabrizio Centofanti, tra autobiografia e metafora, ci infila a poco a poco in questo mondo, senza pesantezze e senza trattati, ma con mano sicura, forte di una vita spesa senza risparmio vicino a realtà al di là di qualsiasi border-line.

Manicomio e Fortuna come le sigarette

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di Giuseppe Rizzo

Laura è accovacciata sul cofano della macchina. I vetri sono appannati, fuori piove, ma io sono abbastanza sicuro che sta piangendo. Si tiene la testa con le mani, ogni tanto si gira e mi guarda. La cosa va avanti finché non scendo io, e allora lei sale.
La supero senza guardarla, per paura che mi possa trasformare in una statua di sale. A piazza delle Vergogne, sotto l’acqua, mi guardo le statue bene bene, una a una, lentamente; poi, sempre lentamente, giro la testa verso l’aquila sopra il portone del Municipio, e cerco di darmi fuoco.
Il fatto è che piove. È mercoledì delle ceneri, e piove. Davanti palazzo delle Aquile e lungo tutta via Maqueda non c’è nessuno – Palermo non è animale da farsi piacere l’acqua.

Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato 1

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[18 immagini + lettere invernali per l’estate, una alla settimana]

di Andrea Inglese

Cara Reinserzione Culturale del Disoccupato,

che io sia malato, o che sia mai stato malato, o che possa
sotto i tuoi occhi, o i miei stessi, indossando quello che indosso,
(certe scarpe nere coi lacci)

ammalarmi

lo reputo della più assodata
improbabilità.

Eppure esisto,

Nati per correre

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di Luca Ricci

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Il corridoio è proprio bello. Somiglia a una di quelle corsie lunghe e strette in cui vengono ripartite le piste da corsa. Non sono un esperto corridore, questo no. Trovo perfino noiose le Olimpiadi in televisione, figurarsi.
– Quant’è?
– Cinque metri e venti.
Segno il numero su un blocchetto. Mia moglie è all’altro capo del nastro. Preme un bottone e le ritorna in mano. Cioè si arrotola e finisce dentro una scatolina. Così è comodo procedere. L’ho comprato apposta. Prima di oggi non avevo mai dovuto misurare niente, a quanto pare. In ferramenta mi hanno detto che mi serviva una rotella metrica. Io ero andato con l’idea di chiedere un semplice metro. Mi ricordavo di quelli pieghevoli, in legno. Quando ero piccolo ce n’era uno simile, in casa. Ma quello era lungo al massimo un paio di metri. Adesso ho potuto scegliere tra cinque e otto. Ho comprato quello da otto.

I boschi ombrosi e l’arte dell’oblio

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di Marco Palasciano

[ Si pubblica uno studio-racconto che ritengo di grande rilievo. Lo scrittore Marco Palasciano fa chiarezza sulla realtà dei rifiuti campani, ovvero la complica terribilmente. D.P. ]

Prologo.

Presso «de l’ombre il vasto impero» (Orfeo, atto III)

__Un’Europa si aggira tra i fantasmi. Rifugiatasi nella loro caverna, la ragazza affannata dalla corsa sulla riva – un fiore d’ibisco le cade dai capelli – prova a afferrare per un lembo una, un’altra, né mai riesce a far presa, di quelle figure vane, a gridare nei loro orecchi sordi che c’è un toro che la insegue. Ma lei per le ombre è un’ombra; camminano senza vederla, intente al loro niente; e già un mugghito ottenebra la soglia.
__(Quest’Europa non è Europa, è Campania; e quel toro non è Zeus innamorato, ma un mostro sbranatore, metà ragno, affine al kraken che aspettava Andromeda.)

Last Walser

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Walser, il narrare è come la fuga di un brigante
di
Riccardo De Gennaro

“Edith lo ama. Ma ci ritorneremo su”. È il sorprendente inizio del romanzo “Il brigante” di Robert Walser (1878-1956), che inspiegabilmente non è ancora stato tradotto in Italia (ma forse Adelphi, che ha pubblicato molte sue opere, colmerà presto la lacuna). Siccome non so il tedesco, mi sono procurato “Il brigante”, o meglio “Der rauber”, in francese (“Le brigand”, Folio) ed ora credo di poter garantire che si tratta di uno dei romanzi nello stesso tempo meno conosciuti e più innovativi del Novecento. Walser, che qualcuno ha definito “il più solitario tra i poeti solitari”, vi esercita gli straordinari poteri dello scrittore con la massima libertà e disinvoltura, intrattenendo ad esempio un dialogo diretto ed esplicito con i suoi stessi personaggi e operando continue digressioni narrative, senza poi preoccuparsi di tornare dov’era partito. In sintesi, il libro è l’avventurosa storia di un simpatico e anonimo antieroe, detto appunto “il brigante”, il quale altri non è se non l’alter-ego dello stesso Walser, che a un certo punto invita addirittura il protagonista a partecipare con lui alla stesura del romanzo.

In cima…

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AOSTA – Una famiglia distrutta da una banale scivolata su un ghiacciaio. Sono morti in quattro, padre e tre figli: Olandesi, nel loro ultimo giorno di vacanza sulle Alpi, precipitati per 500 metri dal Mont Dolent (3.823 metri), sul massiccio del Monte Bianco, in Valle d’Aosta. La madre ha assistito alla tragedia 200 metri più sotto.
continua qui

…al limite, proprio
di
Carlo Grande

Non è questo che cerchiamo, in montagna? Non solo scampo all’afa di città, ma l’evasione dalla vita di tutti i giorni, il frisson dell’imponderabile, la possibilità di misurarci con le nostre forze. Non si cerca la tragedia, ma la si corteggia, a volte. Si sfiorano i nostri limiti e se non si conoscono o si sottovalutano, o se interviene l’imponderabile, si entra “nella zona della morte”. Invisibile ad occhi inesperti ma a volte drammaticamente vicina, anche a quote turistiche.

RADIOBAHIA: racconti per canzoni [011]

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di Marco Ciriello

RADIOBAHIA: suona

“Sunday Morning”
dei Velvet Underground

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Sognando in modo percettibile, Bull Montana si vide davanti all’oceano, sembra la California, «sta succedendo davvero?» su e giù nell’ombra, «quale è il livello successivo?» Il sole splende a tutta forza, nessuno gli tiene la mano, lui si sente ancora una volta perduto. È davvero curioso come accumulando fatti lontani fra loro uno possa costruire una storia. Pensa.