di
Azra Nuhefendic

Neira, undici anni, mingherlina, capelli lisci, biondissimi, occhi cerulei, un volto dolce e intelligente. E’ vispa, Neira. Ci guarda ed evidenzia con una smorfia che c’è cattivo odore. Due ragazzi passano silenziosi in mezzo a noialtri, che ce ne stiamo seduti per terra. I suoi fratelli. Due maschi. Se ne contano cinque in tutto, in questo gruppo di quaranta donne. Le madri sole, le vedove di Srebrenica.
I fratelli di Neira, vent’anni a testa, rincasano senza dire una parola dopo un’intera giornata di lavoro nei campi, sulle zolle altrui: puzzano di sudore, di terra, di acqua marcia. Vestiti di stracci, le maniche ancora rimboccate. Alti, nerboruti, i capelli scuri, bruciati dal sole, mesti: tutto il contrario di Neira.
La madre parla mentre tesse la lana di un maglione disfatto. Fa un cenno di capo verso Neira: “E’ lei che avrei lasciato”.
A Srebrenica, nel luglio del 1995, ha salutato il marito: lui da una parte, assieme ad altri ottomila uomini bosniaci, nel disperato tentativo di sopravvivere; lei dall’altra, con quattro bambini. I due gemelli legati alla gonna con lo spago, Neira, di appena sei mesi, assicurata al petto con una sciarpa, il figlio maggiore, dodicenne, tenuto per mano. “Se non mi avessero lasciato passare con tutti e quattro, avrei lasciato Neira”.