di Sergio Pasquandrea
Jazz is not dead, it just smells funny.
(Frank Zappa)
Strano come a volte le cose si catalizzino tutte d’un colpo.
Erano mesi che avevo in mente di scrivere qualcosa sul jazz. Le idee, tante, mi giravano in testa senza trovare un punto di sedimentazione.
Poi, qualche giorno fa, in un programma di file-sharing ho visto un messaggio che diceva “Esbjörn Svensson RIP”. Così ho scoperto che Esbjörn Svensson era morto il giorno prima, il 14 giugno, durante un’immersione subacquea. Svensson, per chi non lo conosce, era il leader dell’Esbjörn Svensson Trio, noto anche come E.S.T. Tra fine anni ’90 e i primi anni del nuovo decennio avevano avuto un notevole successo in tutta Europa e persino in America con una musica che fondeva la raffinatezza armonica e lo strumentario acustico del jazz con ritmiche rockeggianti e melodie di cantabilità quasi pop. Hanno avuto un’influenza decisiva sul jazz europeo, e oggi molti nuovi gruppi (ad esempio gli [em] di Michael Wollny in Germania o il trio di Neal Cowley in Inghilterra) si ispirano a loro.
Secondo me gli E.S.T. sono stati originali per due o tre dischi, poi si sono avvitati in una formuletta senza più uscirne. Ma comunque ci sono rimasto male. Svensson aveva appena quarantaquattro anni e al di là delle mie opinioni sulla sua musica era una persona onesta, ironica, una persona perbene.
Poi sono venuto qui su Nazione Indiana, ho visto il pezzo di Gianni Biondillo sui Radiohead e sul rock contemporaneo, ho letto i nomi di Coltrane, di John Zorn, dei Weather Report.
E allora qualcosa ha ingranato, e ho pensato di buttare giù qualcuna delle idee che da un po’ mi attraversavano la mente.