di Giorgio Vasta
Camminando per Palermo, una volta con il piede prendo un osso. È bianco, calcinato dalla luce della luna, a forma di pugno, completamente spolpato. Lo tocco con la punta della scarpa e poi me lo passo da un piede all’altro per un po’ di metri, schivando i platani e lanciandolo in avanti sul marciapiede. Quando torno in città ed esco a camminare ne trovo spesso, di ossa. Sono piccole esplosioni secche e dure. Eruzioni. Credo vengano fuori dal cemento della strada. Si trovano le ossa degli arti, un pezzo di colonna vertebrale, una mandibola. Animali che muoiono e restano lì in laboriosa decomposizione, i gas che scoppiettano nel silenzio della notte, la giostra degli insetti visibili e invisibili che brulica e si nutre, una specie di festa biologica, necrologica (nella misura in cui a Palermo, ogni giorno, biologia e necrologia coincidono in modo naturale, senza strepiti), che prosegue nel corso dei giorni con la pietra che assorbe i resti, con la loro restituzione quando dopo la pioggia l’acqua reflua porta fuori quello che stava nel profondo.




di Francesca Matteoni


di Nicolò La Rocca



