di Umberto Fiori
“… il poeta, presuntuoso, patetico, importuno, come sono soliti esserlo i poeti, questa persona che sembra satura di possibilità e di grandezza, anche di grandezza etica, e che tuttavia, nella filosofia dell’azione e della vita, raramente giunge alla comune onestà”.
Friedrich Nietzsche, La gaia scienza
Tra i tanti grimaldelli vecchi e nuovi che ingombrano gli scaffali della nostra critica letteraria ce n’è uno che varie volte mi ha morso nel vivo e sul quale ho deciso, a un certo punto, di tornare a riflettere: si tratta della categoria di “poesia onesta”.
Onesto: velenoso attributo. Mentre loda, ridimensiona in effetti ciò che qualifica, gli sottrae ogni valore specifico, lo riduce -per così dire- alla sua bontà. Si chiama onesto, in genere, qualcosa o qualcuno che non ha troppe pretese, che si limita a svolgere modestamente, decorosamente, mediocremente, la propria funzione. Una tale pacca sulla spalla, chi ambirebbe a riceverla? Attribuire una simile virtù equivale, il più delle volte, a dire che chi la possiede non ha talento sufficiente, sufficiente coraggio, sufficiente astuzia, per imporsi con le buone o con le cattive, con l’eccellenza o con l’inganno. Applicato alla poesia, poi, il complimento rischia di suonare un po’ come quelli che si fanno alle ragazze che la natura non ha favorito: “E’ un tipo”, “E’ tanto brava”, e simili.