di Sergio La Chiusa
Sul finestrino sinistro del treno si srotola rapidissimo un paesaggio orripilante, smisurati stabilimenti industriali, serbatoi stragonfi, ciminiere fumanti, tralicci d’acciaio, e poi una distesa ininterrotta e disordinata di casermoni di cemento armato bucherellati come moderni termitai, casupole di legno scuro circondate da giardinetti e tutte irte d’antenne, palificazioni che sostengono pesantissimi grovigli di fili della luce e del telefono, groppi di tagliolini elettrici con gli scatoloni dei trasformatori e, come nuovi aggressivi intrusi, grattacieli di vetro supermoderni, marziali, indipendenti feudi del capitale che si lanciano sfide a distanza. Sono le città del litorale pacifico che, sterminate e disorganiche, si succedono senza apparente confine in una striscia di terra iperedificata e iperpopolata oltre la quale non si riesce nemmeno a indovinare la presenza dell’oceano pacifico. Ci si domanda come possa, sull’altro finestrino, elevarsi con tanta celestiale purezza il perfetto cono vulcanico del Fuji.













