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L’impero dei significati

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di Danilo Aprigliano

Nella sala grande al centro del palazzo, flussi di codici producevano segni, testi, contesti, tempi fittizi, modelli proiettivi e interpretativi, bussole spazio-temporali, sistemi di pensiero coordinato. Di tanto in tanto, l’imperatore sporgeva dall’ingresso per controllare i processi: tutto – fin nel dettaglio – doveva seguire la geometria del suo progetto. Del suo dominio – lo sappiamo per certo –, aveva tracciato una mappa – prescrittiva e non descrittiva come le altre. Il suo impero doveva rispondere alla geometria delle sue intenzioni e alla coerenza del suo disegno. Ma, da qualche tempo, un tarlo lo assillava e sperava di trovare risposte tra gli schermi e gli scritti di quella sala.

Vagava di continuo, l’imperatore, attraverso sale tappezzate di verde, di rosso, di viola, di nero. Ognuna destinata a una funzione della giornata, ognuna a gruppi di persone diversi che si ritrovavano negli stessi luoghi a combinare nuclei di azioni e di discorsi, di opinioni e di consigli, di intenzioni e di progetti. Tutto – pensieri, parole, immagini, stanze – erano parte dello stesso sistema. Fare visita a queste sale era, per l’imperatore, come sfogliare i libri di una biblioteca: si poteva sempre ripartire da dove ci si era interrotti. Tra le righe di rodate composizioni, scorrevano note di odori conosciuti – tè verde e mela, tabacco e cioccolato alla menta –; di parole e intonazioni già sentite su politica, mondanità, pettegolezzo; di quartetti d’archi che parlavano di cacce e banchetti o di passioni omicide e folli; di letture intorno ad amori risolti nel veleno e di messinscena cervellotiche. I modelli di riferimento, capovolti o rigirati o invertiti, erano pochi e spesso uguali. Che fossero poi i linguaggi a tradurre questi sistemi concettuali in una rete reale, struttura vera del suo regno, gli sembrava un fatto abbastanza ovvio.

Fino a quanto si potevano spingere le influenze strutturanti e, quindi, portare agli estremi il disegno sulla mappa? Poteva davvero, l’impero, diventare una sola cosa col suo pensiero? Il palazzo aveva la forma di un asterisco. Al centro vi erano, al piano di sotto, la sala grande; a quello di sopra, lo studio del re. Passava molte ore seduto all’enorme tavolo in mezzo, sul quale stava posata la mappa. I muri, a forma di cerchio, erano ricoperti da librerie interrotte da finestre costruite negli spazi liberi tra un’ala e l’altra dell’asterisco.

Evidentemente – continuava a riflettere – il modo in cui il corpo era pensato e in cui era pensato relazionarsi col resto dell’esistente diventava modello di discorso sul mondo. Cambiare questa percezione voleva dire vedere l’universo in maniera diversa. Socializzare il tutto e comporre nuove mitologie combinando in maniera diversa i nuclei essenziali a diventare risposta per qualsiasi nuova domanda sull’esistenza. Osservava gli schermi, l’imperatore, e si chiedeva in che modo quegli habitat e quei miti potessero ancora evolvere e seguire il mutare del suo pensiero. Quali discorsi incentivare, quali storie d’amore far sognare tra i semafori delle grandi città e i filobus della circonvallazione. I locali fumosi con le luci blu e i ventilatori d’acciaio potevano ancora produrre significato congruente alle sue intenzioni?

L’intreccio andava riscritto. Parlava chiaro la mappa: ogni unità si definisce solo in relazione alle altre e ogni elemento trova il suo posto solo se anche gli altri lo trovano. Si catapultò sulla sua scrivania e, tra montagne di scartoffie, appunti dattiloscritti, cartoline di angoli esotici del mondo e di quadri con versi stampati sopra, recuperò storie abbozzate come una partitura contrappuntista in grado di comporsi col resto dei segni a testualizzare nuovi schemi da raccontare.

Quale poteva essere la struttura di una nuova narrazione? Bisognava intervenire sul materiale esistente, manomettere le parole, dare loro il significato che voleva, convertire i significanti a un nuovo significato, scegliere i segni di un mondo nuovo. Perché è solo il racconto del mondo che conta, non il mondo stesso. Manipolando ogni strato con interventi mirati, avrebbe potuto ricomporre l’impero secondo la mappa che stava ridisegnando. La concepì come una cipolla: un insieme di veli. O un insieme di fogli lucidi sovrapposti su una lavagna luminosa.

Passò notti, giorni, ancora notti, ancora giorni a lavorare finché non riscrisse ogni storia, ogni emozione, ogni ricordo, ogni visione, racconto, progetto, edificio, strada, quartiere.

 

Fu tra i sedimenti di uno scavo archeologico che trovai questi appunti e questi disegni. Erano contenuti in un prezioso astuccio di pelle nera. Tra le varie cose, vi erano anche gli abbozzi di colonnati e portici, piazze in cui gli uomini potevano discutere tra loro senza vedersi. Del palazzo non rimanevano che pochi resti, ma bastanti a immaginare come fosse strutturato il resto.

Evidentemente l’imperatore non era a conoscenza di quanto il suo impero fosse uno sfacelo senza fine né forma, che la sua corruzione era troppo incancrenita perché il suo disegno potesse rimetterlo in sesto e condurlo verso un nuovo avvenire. Forze di cui non era a conoscenza lo stavano consumando, come dei tarli, da dentro. Nuovi nuclei tumorali si stavano espandendo e mancava poco ormai perché giungessero al centro e lo facessero implodere.

Dai resti posso facilmente accorgermi di quanto ogni suddito dell’impero fosse collegato agli altri da fili che si intersecavano tra loro come una fittissima rete da pesca. Insensibili impulsi elettronici scorrevano attraverso questi fili veicolando nuclei significanti: informazioni, pettegolezzo, frustrazioni, desiderio, pensiero. Rapporti, funzioni e interazioni potevano essere di svariata natura: ufficiali, ufficiosi, istituzionali e non, politici, gerarchici, giuridici, economici, finanziari, sindacali, religiosi, fisici, sessuali, di forza, affettivi, sociali, culturali, commerciali, di impresa, mediatici, logistici, comportamentali, antropologici, intuitivi, poetici, sentimentali, accidentali, espliciti o impliciti, … e ancora, variamente combinati e interagenti nel tempo e nello spazio (storia e geografia), a scala nazionale o internazionale. La struttura era fatta di Elemento e Opposizione, ma non coincideva necessariamente né con l’uno né con l’altra, poteva identificarsi, sovrapporsi, essere sinergico, neutrale o antagonista. Tra le maglie, spesso, dei bachi intervenivano a ingurgitare impulsi o pezzi di reti e vomitarne di nuovi, digeriti, scomposti e ricomposti sotto nuova forma. L’intera rete, con i suoi impulsi, non era altro che l’enorme racconto in divenire di un impero e dei suoi popoli, la struttura di una visione del mondo progressiva.

Non è facile stabilire da dove partì la distruzione. Se fosse stato uno di quei bachi a impazzire oppure se una lucidità improvvisa abbia portato contemporaneamente ogni suddito a stracciare la rete. Ma una cosa è certa: non partì da un unico luogo. I nuclei del disastro erano sparsi per tutto l’impero. Ma forse sparsi non è la parola giusta: composti insieme, questi nuclei formavano un disegno coerente. È probabile che fosse una sua sottostruttura a impazzire, a ribellarsi, a incancrenirsi e sfracellare, con sé, il resto.

Eppure, la rete stessa possedeva il suo essere e le sue possibili forme, tutto ciò che avrebbe potuto essere e non era, ciò che poteva diventare e ciò che effettivamente diventava. Poteva, a suo piacimento, diventare ciò che non era.

Lost in translation: Tiziana de Rogatis

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Sono ben felice di annunciare l’uscita di un’opera che affronta temi a noi ben cari – l’espatrio che è anche esmatrio, esilio dalla lingua madre- con una proposta originale di rilettura del “valore” della casa dell’origine nella creazione letteraria attraverso un paradigma, il translinguismo, in grado di farci capire fino in fondo quella che Agota Kristof definiva “langue ennemie”. Qui di seguito potrete leggere l’ultima parte dell’accurata introduzione al volume che è possibile leggere e scaricare per intero, in open access  qui. effeffe

L’homing e la nostra contemporaneità

di

Tiziana de Rogatis

Lo sguardo che questo libro rivolge alle storie di migrazione vuole essere quello dei miei studenti, cui questo libro è infatti dedicato. Da dieci anni a questa parte, durante i miei/nostri corsi all’Università per Stranieri di Siena, vedo che loro – i futuri mediatori linguistici e interculturali del nostro Paese e del mondo – guardano a queste narrazioni come a chiavi di lettura e risorse per capire la nostra attualità. Con il tempo, ho imparato a decifrare il loro sguardo e ho capito che non è solo sociologico: non vede cioè questi libri solo come un documento o un repertorio cui attingere per comprendere questioni linguistiche o antropologiche di oggi. Il loro sguardo è simultaneamente anche estetico, se per estetica si intende una forma di rappresentazione anche pre-linguistica e post-linguistica: un modo di raccontarsi e raccontare il mondo per poter sopravvivere ad esso, renderlo umano, abitabile. Da questa prospettiva essenziale e assoluta, generata al tempo stesso da un’emergenza e da una necessità, le storie di migrazione e di translinguismo diventano un repertorio più significativo di altri. Il loro sguardo mi dice infatti anche che oggi siamo tutti in cerca di homing, di ritrovarci.

Queste narrazioni chiamano in causa non solo la convivenza multiculturale ma anche le ragioni stesse del contratto sociale del mondo contemporaneo. Ciò che Salman Rushdie dice degli scrittori translingui postcoloniali, vale oggi nel bene e nel male per noi tutti. Come spiegherò nel secondo capitolo, ancor prima di scrivere in un’altra lingua, diversa dalla madre lingua, gli scrittori translingui postcoloniali provengono da generazioni di «individui tradotti» e cioè «portati di là dal mondo» (Rushdie 1991: 23): storicamente trasportati e inscritti nella lingua coloniale. La loro scelta di adozione rovescia però l’ancestrale subalternità in un atto di homing individuale e collettivo facendo di questo universo traduttivo una esperienza di acquisto e di signoria. In questo tipo di homing translingue, il modo dell’enunciazione può essere rappresentato come «un luogo in cui abitare […], un luogo capace di offrirti la possibilità di una prospettiva radicale da cui guardare, creare, immaginare alternative e nuovi mondi» (hooks 2000: 128). Parafrasando il titolo dell’autobiografia linguistica di Eva Hoffman (Lost in Translation. A Life in a New Language) – una delle cinque opere qui analizzate -, la voce individuale e ancestrale è al tempo stesso persa e rinata nella traduzione. La scrittura translingue postcoloniale rende il più possibile familiare una lingua in certa misura estranea, perché storicamente padronale e nemica. E tuttavia, proprio perché una parte di quella lingua rimarrà anche straniera, questa familiarità va continuamente negoziata, aperta a nuove istanze, ritradotta, rinnovata. In modo analogo, questa età globale ci ha per molti versi sovradeterminato, imponendosi molto spesso come un cambiamento eterodiretto da scelte politiche neoliberiste imposte circa trenta anni fa, e accettate con troppa acquiescenza. Siamo viandanti spaesati, esposti ad un mondo globale al tempo stesso astratto e innervato negli interstizi delle nostre vite. In questo contesto, l’homing è una alternativa tra l’essere parlati dalle lingue imperiali dei padroni coloniali o globali e il rinchiudersi nella babele delle lingue locali e dei dialetti o nell’anacronistico purismo delle lingue nazionali. Homing vuol dire creare quello che Bhabha chiama un «Terzo Spazio»: un punto di vista che recuperi, per esempio, un progetto della modernità in grado di tenere insieme le particolarità – i loro eventuali vissuti di margine, i loro diritti e le loro visioni – con alcuni nuclei condivisi, con un linguaggio traducibile e tradotto. È il punto di vista di un universalismo delle differenze, su cui hanno lavorato studiosi del «cosmopolitismo radicato» come Ulrich Beck (2003) e Anthony Appiah (2007).

Guardare ai testi da tutti questi punti di vista non è un atto politicamente corretto, un paternalismo o maternalismo ideologico, ma vuol dire entrare in relazione anche con un’altra idea di estetica: una dimensione immersiva, antropologica e magmatica. Il mio intento è quello di aiutare a ripensare attraverso queste opere il concetto stesso di estetica della nostra contemporaneità, estendendolo a poetiche, opere e composizioni di mondi narrativi che finora sono stati esclusi da questo riconoscimento. Al tempo stesso, però, questa estensione non può essere ispirata a principi di riconoscimento politico, etico e pedagogico estrinseci alla esperienza narrativa e alle sue forme. Al centro dei miei close readings, c’è invece proprio la relazione tra le storie e i loro lettori: la capacità più o meno riuscita che queste storie hanno di immergere i lettori in uno storyworld. Riallacciandomi al dibattito che le discipline neuro-narratologiche stanno elaborando da venti anni, guardo a queste cinque opere dalla prospettiva dello storytelling, del worldmaking e della sua intensità immersiva (Herman 2009: 105-136, Meneghelli 2013: 144-162). Le storie di migrazione sono prima di tutto accomunate dal loro essere storytelling di un paesaggio corale. All’interno di questa dimensione, il worldmaking (il modo in cui si costruisce un mondo) e lo storyworld (il mondo della storia) sono oggi forme tardomoderne di estetica, decisive quanto quelle della decostruzione stessa delle storie, della loro disarticolazione sperimentale, del montaggio. Da questa prospettiva, non tutte le storie di migrazione raggiungono il livello altissimo o alto di coinvolgimento, immersività e densità figurale espresso da quelle incluse in questo libro. Tutte però gravitano intorno a istanze drammatiche, urti traumatici, immaginari e mondi simbolici che stanno contribuendo – in modi diretti o indiretti – ad allargare l’idea stessa di estetica e di letterario.

 

Les nouveaux réalistes: Yuri Sassetti

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KZN

di

Yuri Sassetti

Il mio CD era OF-3 Cosimi, che rispondeva agli ordini del DGEUMS OF-10 Aresti. Alla SRCC c’erano COMAMFL OF-8 Lucca, quel giorno in VTC con OF-8 Gutierrez della SPAF per discutere della NFZ su MOW, quelli della R&D e OR-4 Falco dell’UGCT. Io ero un semplice VFP1: mi occupavo delle PEC, delle RT e degli SI, sia Ca.1 sia Ca.2, e redigevo i SB.

Mi ero arruolato l’anno prima ma, nonostante al TEEP avessi facilmente imparato ad usare tutti i TOPFAS, specie l’MG34, non mi piaceva uccidere, sebbene a volte lo ritenessi necessario. O forse ho iniziato a crederlo dopo aver sentito le parole di OR-6 Furlan: «Un uomo mezzo morto può ancora spararvi in testa e farvi saltare le cervella.» È da quel giorno che, quando OF-3 Cosimi mi spedisce in un WG o mi ordina di difendere l’OB, conficcò almeno due 7.92×57 mm Mauser del mio VMG27 nella testa dei nemici caduti all’interno della AOO.

Era febbraio e fuori dalla SRCC facevano -28 °C, la giusta temperatura per quel Cocito di ZAD. Due giorni prima eravamo stati costretti ad attivare una TBMD perché la SRCC era diventata il TO della RVSN CCCP. Alla fine, dopo due ore di Asslt, il loro CINC, un uomo che era stato insignito della Zhukov l’anno prima per il CASEVAC del suo CO, aveva ritirato le truppe. OF-3 Cosimi mi ordinò di redigere il SITREP: 13 KIA, 35 WIA, 7 DWRIA; gli RS-24 Yars non sono progettati per fare del bene.

Nonostante le temperature fossero proibitive pure per le ELINT (da venti minuti il SQS chiedeva di inserire il SBC), dentro la SRCC tutti lavoravamo in silenzio. Era un’atmosfera irreale, soffocante, la stessa di quando OF-3 Cosimi mi aggregò al 1° RGS per un CSS. Il TO era JKT, il che significava indossare AMW, essere pronti a un CW e non perdere mai di vista l’A/G. A JKT non si scende mai sotto i 33 °C, quindi il BICES ci informava costantemente della presenza di fonti d’acqua potabile. Avevamo percorso 17 Km senza vedere l’ombra di un TKR e iniziavamo a dubitare delle informazioni dell’OB. Il silenzio di quel luogo sfondava i timpani. Ancora oggi non saprei dire se per l’afa o per quella calma irreale, ma ricordo che VFP1 Nirboni di colpo puntò il suo MG34 e fece fuoco. Di ritorno all’OB, mi fu ordinato di redigere un BU per annunciare la morte di OR-6 Furlan. Da quel giorno, ho paura del silenzio.

Senza neanche   accorgermene,   avevo   preso   a   battere   in   maniera compulsiva l’indice sul tavolo. Non mi ero reso conto che OF-3 Cosimi si fosse avvicinato alla mia postazione, quindi mi rizzai goffamente sull’attenti. «Il NAD dall’HQ ci ha mandato questo OPLAN. Prepara il GFE, è una CIMIC. Il TO è KZN. Guiderò io le truppe dentro l’AOO.» disse OF-3 Cosimi. Con un eccesso di impudenza, replicai che a KZN la gente muore per il CW. «In guerra, la gente muore e basta,» fu la sua laconica risposta. Aveva ragione.

Così ci dirigemmo verso KZN passando per le MSR. A OF-3 Cosimi era stato assegnato il Plt più piccolo: 10 VFP1 e 4 VFP4; quattordici uomini che avevano abbandonato le proprie famiglie per una guerra di cui sapevano ben poco. Alle OB non arrivano giornali, nelle SRCC la situazione non migliora di molto, così i VFP1, come me, e i VFP4 prendono semplicemente ordini da OF- 3, come Cosimi, o OR-7 o OR-8 che apprendono le notizie da OF-8 in VTC. Al TEEP te lo insegnano fin da subito: in guerra non ci si fanno domande, si agisce e basta. Ed è per questo che scoppiano le guerre.

Marciare per la steppa non è più facile di farlo nella giungla. Quelle vaste e brulle praterie non ti esporranno alle imboscate dei TKR o alle spire di un anaconda, ma -28 °C ti congelano gli ingranaggi dell’MG34 e ti appannano l’M40. Senza contare quei fottuti IED sepolti sotto terra. OF-3 Cosimi percepisce il nostro disappunto e ci promette un SO dal DGEUMS OF-10 Aresti se completeremo l’OPLAN in tre ore. Questo al TEEP non te lo insegnano, ma lo impari comunque: nessuno mette a rischio la propria vita gratuitamente. E, a giudicare dai sorrisi di quei VFP1 e VFP4, miei compagni di sventura, anche la vita umana ha un prezzo.

Dall’OB giunse la notizia che KZN distava ormai solo 3 Km. Nonostante i DPI, non mi sentivo più le mani. Inoltre, da qualche minuto, ero stato colto da una fortissima emicrania, che mi aveva costretto a gettare l’M40 a terra. Avevo freddo, ero stanco e indolenzito, e volevo soltanto tornare alla SRCC a mandare PEC, RT e SI. Provai a scrostare il ghiaccio dal mio MG34, ma fu inutile. Mi tornarono alla mente le parole di OR-6 Furlan, ma continuavo a pensare insistentemente al fatto che non fossi fatto per uccidere, che non volessi uccidere, neanche se a volte era necessario, neanche se un uomo mezzo morto poteva farmi saltare in aria le cervella. Ero circondato da VFP1 e VFP4 che avevano abbandonato le loro famiglie per una guerra di cui sapevano ben poco, ma era bastato che OF-3 Cosimi promettesse un SO per imprimere sul loro volto un sorriso ebete. Cosa ci facevo là, in mezzo alla steppa, a 3 Km da KZN, in mezzo a questa gente?

Un fischio mi trafisse le orecchie, poi il silenzio. Non sopporto più il silenzio, da quando VFP1 Nirboni puntò l’MG34 alla testa di OR-6 Furlan e mi fu ordinato di scriverlo sul BU. Ho paura del silenzio, il silenzio soffoca. Ma non riuscivo più a sentire. Vedevo i VFP1, i VFP4 e OF-3 Cosimi marciare verso KZN insieme a me, ma non li sentivo più. Non sentivo il sibilo del vento gelido che mi graffiava il volto scoperto dopo aver gettato via l’M40, non sentivo le comunicazioni dall’OB, non sentivo più niente. Sentivo però l’MG34 più leggero, come se avessi tra le mani, ora tornate a muoversi, l’M1911 che avevo usato al TEEP. Senza neanche accorgermene, puntai e feci fuoco.

Nanga Parbat

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di Orso Tosco

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La sfida è soltanto per gli altri.
Per chi resta in attesa, aspettando impaziente le novità, controllando ansiosamente il meteo, scrutando la roccia e i ghiacci con il binocolo.
La sfida è nelle parole di chi sta per partire e di chi riesce a tornare.
Ma una volta che ci si trova lassù non esiste più alcuna sfida.
C’è qualcosa di molto più prezioso in ballo, qualcosa la cui importanza supera di gran lunga qualsiasi gara e primato da raggiungere: ci sono lo spazio e il tempo, e ci sono uomini e donne che provano a sfuggire a entrambi. Consapevoli che nessun luogo da solo può regalarci una condizione tanto innaturale, privilegiata e terrificante, non le vette degli Ottomila, non lo spazio più remoto, ma soltanto un gesto. Il gesto, puro e definitivo, quello che continuamente spinge a rischiare la propria vita e altrettanto costantemente la salva.
Bisogna immaginare una linea perfetta, tracciata mediante una lunghissima successione di plotoni d’esecuzione scansati all’ultimo secondo, quando le traiettorie mortali sembrano sul punto di ferire e uccidere. E poi bisogna immaginare quella linea capace di uno sforzo se possibile ancora maggiore, bisogna immaginarla danzare, saltare da un punto all’altro, vittima e al tempo stesso complice di ogni soffio di vento, di ogni crepa nella roccia, di ogni raggio di luce riflesso dal ghiaccio verso l’alto, come a voler sfidare i consigli della ragionevolezza, supremo oltraggio alla virtù dell’obbedienza racchiusa nella legge di gravità.
Ogni gesto deve essere feroce e materno, ragionato e viscerale. Ogni muscolo, ogni porzione di tendine e ogni lembo di pelle, l’intera estensione del fiato e lo sguardo, il coraggio, la stupidità, e qualsiasi altra qualità si possieda o si creda di possedere: tutto è chiamato a partecipare e a superare il proprio limite, metro dopo metro, minuto dopo minuto.
Come una sfida che si rinnova ad ogni battito del cuore. Più che una sfida.
Questa è l’avventura magica e mortale dell’alpinismo. Questo è l’incantesimo che unisce chi decide che la parte più importante, la parte più veritiera della propria esistenza deve svolgersi lassù, nel regno dell’intensità assoluta. Un luogo chiaramente inadatto, inospitale, che non ci prevede e non ci vuole, e che proprio per questo regala, a chi è in grado di esplorarlo, la sensazione di essere sfuggito al gioco del mondo o, forse, di aver trascorso qualche istante all’interno del suo cuore nascosto.

Quando negli anni Cinquanta l’Università di Harvard offrì a John Cage la possibilità di visitare una camera anecoica, costruita in modo da ricreare al suo interno il silenzio assoluto, il geniale compositore statunitense colse al volo l’occasione. Ma il risultato di quell’esperienza si rivelò decisamente diverso da quello che Cage si sarebbe potuto aspettare. Invece del silenzio più puro, Cage riferì al tecnico che seguiva quel progetto come da subito si fossero palesati due suoni ben distinti, uno caratterizzato da una tonalità alta, l’altro da una tonalità bassa.
«Quella alta è prodotta dal sistema nervoso in funzione,» spiegò il tecnico «quella bassa dal flusso sanguigno». Questa esperienza portò Cage a fare i conti con l’impossibilità del silenzio assoluto e lo ispirò nella composizione di 4’33, una delle sue creazioni più celebri, in cui gli esecutori sono chiamati dalla partitura a non suonare i propri strumenti, lasciando che sia il suono prodotto dall’ambiente circostante a diventare esso stesso opera d’arte, la vera composizione. Ma a giudicare dai resoconti degli alpinisti, specialmente coloro i quali prediligono le salite in solitaria, viene da pensare che Cage abbia cercato il silenzio assoluto non tanto nel luogo sbagliato – la camera anecoica è acusticamente perfetta per il suo scopo – quanto piuttosto con la «predisposizione» errata. Per ottenere il silenzio assoluto sono necessari elementi che poco hanno a che fare con l’acustica: elementi come la fatica, il gelo, il pericolo, l’esaltazione e la disperazione, il vento, la linea del vuoto, la precarietà del ghiaccio.
Generalmente non è descrivendo il raggiungimento della vetta che agli alpinisti capita di citare il silenzio, quanto piuttosto nel resoconto dell’ascesa o della discesa, ovvero nei momenti più intensi e delicati: è allora che il silenzio assoluto fa capolino. E non viene prodotto dalla negazione di qualsiasi spettro acustico, bensì dalla tensione – insostenibile eppure in qualche modo sostenuta – racchiusa in quei gesti che per non diventare mortali esigono perfezione assoluta.
Osservando e ripercorrendo le imprese degli esploratori e degli alpinisti, è normale se non inevitabile domandarsi cosa li spinga a rischiare la vita arrampicandosi su pareti di roccia e ghiaccio. Cosa li spinga a cercare nuove vie o a ripercorrere quelle più esigenti, a trascorrere giorni e notti in situazioni estreme. Alcuni affermano che è il risultato dell’amore per la libertà e per l’assoluto, il desiderio di vivere una natura meno depredata. Altri, malevoli, sostengono che si tratti di un’ossessione fomentata da una forma smisurata di arroganza e ambizione, che spinge a esaltare la vita in una forma assurda, mettendola a repentaglio in modo apparentemente gratuito.
Come spesso accade, ogni risposta è sbagliata o parziale, ma nondimeno ospita al proprio interno un frammento di verità. Si può ben dire che la montagna, e la sua indagine più spericolata, l’alpinismo estremo, siano capaci di stregare indissolubilmente uomini e donne ai quali, in cambio, concedono momenti in cui la vita è più accesa, più intensa.
Al pari dei mistici, i cui occhi segnati dal bagliore passeggero della grazia inseguono la sua scia in un mondo di ombre, gli esploratori delle vie più impervie, dopo aver assaporato porzioni di vita al di fuori del tempo e dello spazio, le ricercano con l’ostinazione concessa soltanto agli amanti.
L’ossessione, infatti, è la forma d’amore più pura. La meno ragionevole, la più invivibile, ma anche l’unica in grado di modificare esistenze apparentemente consolidate in un battito di ciglia. E come tutte le forme d’amore più pure, è così intensa da risultare contagiosa.

Immaginiamo quindi la grande alpinista Alison Hargreaves mentre scala la parete nord dell’Eiger, il monte svizzero con cui tutti i grandi scalatori si sono cimentati, e immaginiamola incinta di sei mesi. Ai più una scena di questo tipo rischia di fare paura, persino orrore. Si tratta di una persona non soltanto disposta a rischiare la propria vita, ma pronta a mettere a repentaglio persino quella del proprio figlio non ancora venuto al mondo. Questa è una possibile, ragionevole chiave di lettura. Ma, trattandosi di una storia d’amore e di ossessione, è anche la risposta errata.
Abbiamo a che fare con una grande alpinista, la prima donna ad aver scalato il monte Everest in solitaria e senza l’ausilio di bombole d’ossigeno, e dunque sarebbe sbagliato percepirla come una persona che sta mettendo a rischio la propria vita mentre tenta di farsi strada lungo la ripida e insidiosa parete nord dell’Eiger; al contrario, dovremmo immaginare Alison come una creatura nel proprio ambiente ideale, intenta a compiere una serie di gesti impegnativi e perfetti, puri e decisivi, gli unici che possono consentirle di ottenere quella vita più pura e intensa che tutti quelli come lei inseguono.
E c’è forse qualcosa di più bello, e alto, che immaginare di poter condividere questa magia insieme a chi già abita il nostro corpo? Soltanto un’alpinista in gravidanza può sperimentare una sensazione del genere, e soltanto il figlio di una alpinista potrebbe tentare di decifrarne le conseguenze.
A noi, dall’esterno, resta soltanto da analizzare i dati in nostro possesso. Possiamo leggere la vita di Tom Ballard, il bambino che Alison portava in grembo quel giorno, come già iniziata ancor prima di emettere il primo vagito nella sala d’ospedale.
Già, ma la vita di Tom era iniziata, o forse era segnata? Come va interpretato quel gesto di amore e condivisione compiuto da Alison Hargreaves? È stato il regalo più grande, o al contrario una imposizione – come a voler tracciare la linea da percorrere non soltanto per sé stessa, ma anche per suo figlio?
Nuovamente, la risposta non può che comprendere entrambe le possibilità, e forse molte altre ancora. Questo non perché sia più semplice rifugiarsi nella vaghezza, ma poiché ha ragione Saba, quando afferma che «d’amore non esistono peccati, esistono soltanto peccati contro l’amore» per poi concludere aggiungendo: «e questi no, non li perdoneranno».
Noi non siamo giudici, a noi non spetta perdonare o condannare nessuno, però possiamo, dobbiamo permetterci di affermare che quella decisione di Alison Hargreaves di scalare la parete nord dell’Eiger con il figlio Tom in grembo non fu un peccato contro l’amore.
Fu un gesto d’amore.
E se ogni gesto d’amore è anche e soprattutto un gesto generatore, allora è una condanna alla finitezza, contiene inscritta all’interno un’avvisaglia della propria stessa fine. Non si dona l’amore, e quindi la vita, senza imporre anche la morte. Soltanto ciò che resta protetto nel nulla precedente e successivo alla vita possiede il diritto a preservarsi fuori dal tempo, in uno dei tanti infiniti possibili.
E chissà se Alison Hargreaves avrà mai avuto occasione di leggere i ricordi di Jung, e in special modo quel passaggio in cui il capo indiano pueblo di Taos gli domanda: «Non pensi che tutta la vita venga dalle montagne?». Probabilmente no, e probabilmente non ne ha avuto bisogno. Quella stessa verità deve averla intuita da sola, studiando il profilo e la composizione delle montagne, e meravigliandosi per come fossero in grado di far convivere qualità eterne e immutabili insieme a mutamenti repentini e incessanti.
Forse Alison ha perfino avvertito una strana forma di sorellanza con quelle creature aliene, molto più antiche del linguaggio, e potrebbe aver concluso che, nonostante la loro infinita pericolosità e un’apparente indifferenza, non esistesse luogo migliore per cercare rifugio dalla dittatura del tempo. Dove, se non all’interno di una montagna, dormono per secoli i Sette Dormienti di Efeso e i santi musulmani?
Nonostante il pericolo incessante e l’ambiente inospitale, la montagna rappresenta una figura che genera e protegge la vita. Ma gli alpinisti o, per meglio dire, gli esploratori non si accontentano di contemplarla. Loro salgono dove è quasi impossibile salire, o strisciano e penzolano quando non è possibile camminare, si appendono dove non c’è quasi altro che vuoto e oltre quel vuoto si lanciano, quando i ponti sono crollati e il ghiaccio precipita a strapiombo come il verso lontano degli animali, che mai e poi mai azzarderebbero quelle altezze assassine in cui l’ossigeno diventa rarefatto, vago come un sogno incomprensibile e crudelmente necessario.
I protagonisti di questa storia non sono martiri e nemmeno suicidi, tuttavia ricercano l’asprezza della montagna, hanno bisogno di percorrerla rischiando, di attraversarla sfruttando passaggi in cui l’esplorazione e la violazione si intrecciano e si confondono.
«Conquistatori dell’inutile»: questa la celebre definizione che Lionel Terray diede degli alpinisti, e quindi di sé stesso, essendo a sua volta uno dei più grandi alpinisti di sempre. Ed è una definizione che fa subito pensare alla filosofia zen, alla cui base c’è il culto dell’azione inutile. Ma se nello zen viene coltivato l’agire senza alcuna intenzione, l’alpinismo – il tipo particolare di esplorazione di cui l’alpinismo si occupa – poggia invece sempre su di una intenzione. Nasce dall’intenzione. Gli alpinisti, come i giocatori di biliardo arrivati all’ultimo colpo, sono chiamati ad annunciare i loro azzardi in anticipo. Prima dell’avventatezza e del coraggio vi è lo studio, la preparazione. Prima del contatto con roccia e corde, le dita sfogliano fotografie e mappe. Tutti i nodi ancorati e tutti i dadi inseriti nelle fessure della pietra hanno origini lontane, si nutrono dei tentativi riusciti e dei fallimenti che li hanno preceduti, per poi andare oltre, per poi superarli grazie a sangue nuovo, che porta con sé nuove intuizioni e nuove visioni. E in alcuni casi, inevitabilmente, nuovi sbagli, nuove lezioni che si pagano con la vita.
C’è una montagna che più di tutte le altre esercita un’attrazione irresistibile sugli alpinisti, nonostante la drammatica facilità con cui vi si rischia la morte. Quella montagna è il Nanga Parbat.
La Montagna Nuda, la Montagna Mangiauomini, la Montagna del Diavolo.
È lei la vera protagonista di questa storia, la calamita che fa convergere su di sé storie che hanno origini geografiche e temporali distanti tra loro.
Nanga Parbat. Ragione di vita e ragione di morte. Un miraggio di 8126 metri di roccia e ghiaccio nel Kashmir, in Pakistan. Il luogo in cui Tom Ballard finisce di ripercorrere quella linea tracciata per lui da sua madre trentuno anni prima, trovando la morte in compagnia di Simone Nardi sullo sperone Mummery.
Per provare a raccontare la storia di Tom, per ripercorrere la sua esistenza la cui scarsa durata è compensata da una intensità fuori dal comune, abbiamo tuttavia bisogno di uno slancio, dobbiamo prendere una lunga rincorsa e tornare indietro nel tempo. Ad Albert Mummery e alla sua epoca, la fine dell’Ottocento. E ancor più precisamente alla sua ultima spedizione, quella del 1895, che finì per legare indissolubilmente il nome di questo alpinista e gentiluomo inglese allo sperone su cui, centoventiquattro anni dopo, Tom Ballard e Simone Nardi perderanno la vita.

NdR Questo testo è il prologo del libro di Orso Tosco Nanga Parbat, pubblicato di recente da 66THAND2ND

 

Le parole della scienza 3: da Tito Livio alla terribile “formula”

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Busto di Tito Livio di Lorenzo Larese Moretti
Busto di Tito Livio di Lorenzo Larese Moretti

di Antonio Sparzani
La prima puntata qui e la seconda qui.
Che cosa hanno in comune una Ferrari e il censimento della popolazione nell’antica Roma? Non molto, sembrerebbe, salvo che c’è una stessa parola che è implicata in entrambe. Nell’antica Roma, due millenni prima dell’epoca delle Ferrari, Tito Livio, storico di età augustea, scrisse un’opera immensa, cui si conviene di dare il titolo Ab urbe condita – dalla fondazione della città–per–eccellenza – un’opera che in 142 libri ripercorreva, con partecipazione e devozione intense per le sorti di Roma, la sua storia dalla fondazione all’inizio dell’impero, il tempo di Augusto. Mentre narra degli avvenimenti – in tempo di pace – della repubblica, Livio ha occasione di segnalare l’origine di un istituto importante nella storia di Roma, quello della censura che non designa, in quest’epoca, quel che oggi normalmente s’intende con questa parola (anche se non ne è poi così lontana, e forse tutto è cominciato da qui…), ma l’operazione di censire la popolazione, e censire significa, così ci racconta Livio, qualcosa di più che semplicemente contare e sapere nomi e domicili dei cittadini:

«In questo medesimo anno ebbe principio la censura, istituto che ebbe piccolo esordio, ma che acquistò di poi sì grande incremento. Ché il regolamento dei costumi e della disciplina Romana fu nelle mani del nuovo magistrato, ed il Senato e le centurie dei cavalieri ebbero il discernimento del loro onore o disonore in suo potere; e l’ispezione dei luoghi pubblici e privati, le rendite del popolo romano, furono al suo cenno ed arbitrio.»

(Tito Livio, Ab urbe condita, 4, VIII, trad. it. di Emilio Bodrero.)

Dunque un censimento non proprio neutrale, a quanto dice Livio: il potere del magistrato sembra andare oltre la mera registrazione dei cittadini; ma poiché, continua Livio, mentre diventava urgente eseguire questa operazione, i consoli avevano altre faccende più importanti da seguire,

«Fu presentata al Senato una memoria, nella quale si faceva presente che quella operazione, faticosa e poco consolare, aveva bisogno di un magistrato speciale, dal quale dipendessero gli scribi, i custodi e la cura dei registri, e che regolasse a suo modo la formula del censimento [cui arbitrium formulæ censendi subiceretur]»

(ibid.)

È proprio la parola latina formula, diminutivo di forma ma con un evidente slittamento di significato, che fa la sua comparsa, nel senso di insieme di regole enunciate (stavo per scrivere “formulate”) con precisione, da seguire nell’esecuzione del censimento. Insieme di regole, dunque, purché ben precisate e non soggette ad ambiguità; prescrizioni chiare e distinte.

E sembra anche, secondo il dizionario del Battaglia, che la prima occorrenza in un testo italiano della parola “formola” stia proprio in un volgarizzamento della prima metà del XIV secolo dell’opera di Tito Livio, in questa frase “Il banditore con un trombetta, secondo è costume, s’avanzò in mezzo l’arena donde con solenne formola suole intimarsi la festa.”
Se poi leggete la definizione che della voce formula dà il Battaglia stesso:

“Frase o insieme di frasi rituali che una norma religiosa o giuridica oppure la consuetudine impone di ripetere, secondo un ordine fisso, nelle circostanze previste dalla norma stessa.”

vi accorgete che essa è squisitamente letteraria, nessuna traccia viene menzionata di contesti anche vagamente scientifici.

E oggi la Ferrari non è, forse, per antonomasia, una macchina di “formula 1”? Anche qui la stessa parola è usata, si noti, in un senso molto simile: l’insieme di regole cui è soggetta una certa categoria di automobili per poter partecipare a un ben preciso tipo di gare.
E poi c’è la formula di governo, un insieme di regole, frutto di delicati equilibri ed alchimie, dalle quali è costituita quella che il linguaggio ufficiale chiama “la compagine ministeriale”. O la formula, spesso riservata, di una crema di bellezza, le regole ferree – e commercialmente segrete – con le quali deve essere composta quella crema, per poter avere quel marchio e quel nome.
Su questa strada ci si avvicina ovviamente alla formula chimica di un composto, quell’insieme di simboli, che funzionano secondo precise regole internazionalmente stabilite – N sta per azoto, O per ossigeno, Sb per antimonio, ecc. – e che vanno combinati in modo da esprimere esattamente quali elementi e in quali proporzioni formano il dato composto; H²O (il 2 andrebbe in basso, ma qui l’editor non lo permette) è la formula dell’acqua e ci dà una informazione precisa su quali sono i costituenti elementari dell’acqua: ogni molecola, minima quantità d’acqua che ne conserva le proprietà, è costruita con due atomi di idrogeno e uno di ossigeno. Non è naturalmente una informazione ancora completa su come l’acqua è fatta (problematica in verità non facilissima neppure per gli studiosi), però fornisce una informazione precisa, per quanto parziale, su un aspetto dell’acqua.
Fino ad arrivare alla formula fisica, o, in cima alla scala, alla formula matematica. Sì, la formula matematica di cui tutti i non addetti ai lavori hanno un sacro terrore – ah, io non capirò mai una formula, sono negato – eppure, provate a fare un respiro lungo e a chiedervi per lo meno perché si utilizzano le formule.

Pensate alla musica: se non l’avete mai studiata e guardate uno spartito, provate la stessa sensazione di completa estraneità, mentre se qualcuno vi ha invece iniziato a quest’altro codice, a questo nuovo modo di tradurre simboli in cose che fanno risuonare la vostra testa, allora lo spartito di nuovo acquista vita, ne carpite i segreti, che più tali non sono, esso rimanda anzi a una successione di suoni dei quali potrete innamorarvi o che potrete rifiutare, ma certamente avrà perso la sua natura di enigma. Perché è stato inventato questo codice? Perché sarebbe stato molto complicato usare le parole del linguaggio naturale per descrivere una melodia: ad esempio: si cominci con la nota, chiamata do3, corrispondente a tot vibrazioni al secondo di una corda metallica, poi si suoni la nota che ha i 9/8 della sua frequenza e poi… e poi… . Certamente infattibile. È stato necessario inventare dei simboli per quelle note, un modo per scriverle, usando la posizione rispetto a un rigo fatto di cinque linee parallele orizzontali come simbolo del valore delle loro frequenze, e poi codificare le pause tra le note, la durata di ognuna di esse, il ritmo da seguire, eccetera, eccetera. E tutto diventa chiaro e limpido.

La fisica ormai si serve con grande abbondanza delle formule matematiche<. forse la più famosa — e la più letteralmente disastrosa – delle formule, E = mc², a volerla dire solo in parole, suonerebbe così: “l’energia potenzialmente contenuta in un corpo di massa m è pari al prodotto del valore di tale massa per la velocità della luce elevata al quadrato”, tutto con le opportune unità di misura, naturalmente. Pur di sapere il significato dei simboli E, m, c, la formula riassume tutto ciò. E figuratevi poi cosa può succedere in casi davvero più complicati! Le formule non sono che un’abbreviazione, talvolta inevitabile proprio per la comprensione, da parte di chi conosce il codice, di un’affermazione del linguaggio naturale. Il codice è lungo e complicato? Anche quello della musica non scherza, per non dire poi di quel codice che tutti siamo obbligati a conoscere, che è la nostra lingua naturale.

G come Giallo. Il sillabario di Sinigaglia

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[Per Terra Rossa è uscito Sillabario all’incontrario di Ezio Sinigaglia, presentato al premio Strega da Lorenza Foschini. Ne pubblico la G di Giallo. ot]

di Ezio Sinigaglia

Per convincersi che la letteratura gialla è, o può diventare, una delle armi più sottili escogitate dall’uomo per carpire alla vita almeno un’ombra del suo segreto, non c’è poi bisogno di andar tanto lontano: basta Maigret, il più popolare di tutti gli esploratori dell’universo giallo della follia: un’indagine di Maigret ha sempre qualcosa in comune con la danza di Salomè: la progressiva rimozione dei veli non è finalizzata a quel che sembra: il denudamento di una bellezza, di una perfezione, il ritrovamento di un ordine naturale, lo spettacolo di una verità luminosa: se Erode ha sete della pelle di Salomè, del segreto del suo corpo senza veli, resterà deluso: la nudità del corpo non è che una fase di passaggio, effimera, destinata all’oblio: la verità di Salomè è custodita al di là dell’ultimo velo, e di fronte all’orrore di questa verità sottopelle lo splendore della pelle non conta più nulla: è l’ottavo velo che cade accanto agli altri sette, dei quali non si ricorda più nemmeno il colore: così il lettore di Simenon, che aspettava il premio della verità (lo svelamento del mistero), trova il castigo di una verità più profonda, di una nudità ulteriore: una sorta di squallore abissale e universale che informa di sé ogni ambiente, che si può respirare nell’aria di ogni interno come un odor di cavolo: il lettore resta su questa verità ultima, snudata dalla rimozione dell’ottavo velo: la disperazione della condizione umana non ha in sé nessuna grandezza, e quindi nessuna possibilità di riscatto: è un dolore meschino, turpe, viscido quello che si cela all’interno del delitto: un dolore sordido e ripugnante dal quale vorremmo distogliere gli occhi e dissociarci, quanto meno fisicamente, come dallo spettacolo dell’agonia di un verme: ma non possiamo: come Maigret, che ci ha portati a spasso per tutta la sua indagine losca e saporita, arrostendoci pian piano nel fornello della sua pipa, come Maigret, che ci ha assimilati al suo organismo fino a farci fiutare col suo naso e respirare coi suoi polmoni, come Maigret, per comprendere il delitto, dobbiamo identificarci con l’assassino: comprendere vuol dire far proprio, capire vuol dire contenere dentro di sé: qui non è questione di armonie, come nel caso dei delitti di Agatha Christie e delle indagini di Poirot: l’organo di senso chiamato in causa non è l’orecchio, ma il naso: di conseguenza prendere le distanze è impossibile: bisogna calarsi all’interno dell’ambiente in cui il delitto è maturato, e respirare l’odor di cavolo: Poirot non si pone affatto il problema di capire, bensì quello di dedurre: la sua somiglianza con l’assassino si arresta alla superficiale condivisione dei medesimi principi logici: e tanto basta per rendere l’intero plot piuttosto inverosimile: nelle inchieste di Maigret la verosimiglianza risiede nel capovolgimento della somiglianza: non punto di partenza, ma punto di arrivo: il libro è, a ben guardare, la storia di come Maigret e il lettore, progressivamente e quasi senza avvedersene, si trasformano da investigatori in complici del delitto. In una pagina che per me è rimasta memorabile, Maigret, eccezionalmente espatriato per l’occasione in Olanda, segue una notte un sospetto, a piedi, lungo la riva di un canale: lo segue sull’altra sponda: l’idea ha innanzitutto una sua efficacia narrativa: un pedinamento così anomalo, che si svolge su un terreno separato e non può quindi mai trasformarsi in congiungimento, offre l’opportunità di un’osservazione, paradossalmente, più ravvicinata: se Maigret seguisse la sua preda sulla stessa sponda del canale, dovrebbe mantenersi a una distanza di sicurezza, o di rispetto: avrebbe certo il vantaggio di non perderla mai di vista, di riuscire forse a scoprire dov’è diretta: ma nessun altro: l’interposizione del canale, rendendolo poco credibile come pedinatore, gli consente una maggiore audacia, una più acuta attenzione ai dettagli: in compenso il sospetto potrebbe svanire nella notte, in qualsiasi momento, infilare un viottolo, dileguarsi nei campi: per Maigret sarebbe impossibile corrergli dietro: questo modo di procedere è tipico di Maigret nella parte iniziale di un’inchiesta: la scena del canale offre, direi, una rappresentazione simbolica del suo metodo: fra lui e l’ambiente del delitto c’è ancora un fossato, un confine nettissimo, che non deve essere scavalcato troppo presto: per il momento si tratta di osservare, di orientarsi, ora arretrando per considerare da lontano tutto l’insieme, ora accostandosi per esaminare da vicino un singolo particolare: ma la scena del canale rende immediatamente chiaro al lettore che, per comprendere il delitto e identificare l’assassino, bisognerà ben presto passare dalla sua parte. Passare dalla parte dell’assassino: è questa necessità a rendere giallo il giallo, se davvero il giallo è il colore della follia: si tratta di oltrepassare una linea, una di quelle linee gialle che delimitano le zone proibite o di pericolo: al di qua, si è nell’area rassicurante che la società ammette e approva: al di là, si è nel mondo dei fuorilegge, degli esclusi. Ciò che mi affascina della letteratura gialla è proprio il modo caratteristico in cui mette in agitazione i contorni di questa linea di confine: il margine si allarga e si restringe di continuo: a tratti è così ampio da costituire per il lettore un comodo rifugio, dove sistemarsi beatamente come nel limbo degli ignavi: a tratti si assottiglia a un punto tale che sembra di poter marciare in perfetto equilibrio, con un piede su una sponda del canale e l’altro sulla sponda opposta: poi, all’improvviso, ci si accorge di aver valicato la frontiera, come se la linea si fosse ritratta sotto i nostri passi, lasciandoci di là: allora il mondo straniero diventa automaticamente l’altro, quello dell’approvazione sociale. Il romanzo giallo scava nella psiche umana fino a raggiungere e a mettere allo scoperto il nucleo di autenticità primitiva che vi si annida: un nervo mai addomesticato, pre-sociale, che si ribella all’odiosa necessità di essere perbene.

 

Codex Rubens

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disegni e sceneggiatura di Marco D’Aponte

 

 

 

 

 

 

NdR: le quattro tavole che precedono, e quella iniziale (parziale), sono tratte dal romanzo grafico “Codex Rouge“,  sceneggiato (in italiano) e disegnato da Marco D’Aponte, partendo da una sceneggiatura di Michel Hoëllard e Nathalie Neau, recentemente pubblicato da Töpffer Edizioni. La vita di Rubens, intervallata con una vicenda attuale …

“Privati di Napoli. La città contesa tra beni comuni e privatizzazioni”. Introduzione

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[Per Castelvecchi è appena uscito Privati di Napoli. La città contesa tra beni comuni e privatizzazioni di Alessandra Caputi e Anna Fava, prefazione di Tomaso Montanari. Ne pubblico l’introduzione. ot]

di Alessandra Caputi e Anna Fava

Nella città di Napoli convivono, fianco a fianco, modelli urbani molto diversi tra loro. Le aree situate a Occidente e a Oriente hanno le sembianze spettrali di una città postindustriale che non è ancora riuscita a ripensare la propria identità. Una parte molto estesa del territorio è gravemente compromessa sotto il profilo ambientale, urbanistico e sanitario: le attività industriali hanno lasciato alle proprie spalle macerie e inquinamento. Circa un decimo dell’intero comune, che si estende su una superficie di 11.900 ettari, rientra tra i Siti di Interesse Nazionale (SIN) per le bonifiche. Le aree contaminate occupano complessivamente un’area di oltre 1.200 ettari: zone deindustrializzate mai risanate, discariche abbandonate al degrado ambientale, aree di sacrificio che languono nell’attesa di una nuova speculazione. Tutto ciò che non è funzionale al profitto resta immobile, recintato, si tramuta in rovine. Nel centro storico, invece, la recente accelerazione dell’industria turistica, avvenuta a seguito dell’avvento di piattaforme digitali per le case-vacanza come Airbnb e Booking, ha innescato un rapido processo di estrazione di valore economico. La persistenza di forme di vita tradizionali e l’assenza di marcati processi di gentrificazione hanno reso appetibili le case del centro, da sempre abitate da un mix sociale che comprende anche le fasce sociali economicamente più fragili; grazie ai prezzi più bassi rispetto ad altri quartieri della città, esse sono diventate l’infrastruttura chiave di una crescita turistica incentrata sulla ricerca di esperienze “autentiche”. Ciò ha innescato un incremento dei valori immobiliari, che, a sua volta, ha aumentato la rendita, attirando maggiori investimenti.

Anche il patrimonio culturale della città, ormai associato «al disimpegno e al divertimento»[1], è considerato unicamente come strumento di marketing territoriale. Dalla concessione di piazza Plebiscito a Ferrero per la festa della Nutella, alla promozione pubblicitaria di un fantomatico “brand Napoli” per attirare flussi turistici, fino alla recente, pericolosa idea di affidare il patrimonio culturale alla gestione di una fondazione, il patrimonio è adoperato come attrattore turistico. Il binomio “cultura-turismo”, cioè “cultura-economia”, ha soppiantato quello “cultura-cittadinanza”, in un clima di accondiscendenza acritica, in cui chi osa contestare è tacciato di arretratezza e ostilità al progresso. In pochi continuano a ribadire la funzione civile e politica della cultura e la centralità del pubblico.

Interrogarsi sullo stato del patrimonio e sulla sua funzione, sullo stato dell’ambiente, dei servizi pubblici, del verde, della città e dei suoi quartieri significa interrogarsi sullo stato della democrazia. È con questo spirito che qui cercheremo di tratteggiare le vicende di alcuni quartieri di Napoli e del suo patrimonio ambientale e culturale, con l’intento di fornire spunti utili per un’indagine ad ampio raggio che tocchi questioni relative a debito pubblico e dismissioni, scommesse finanziarie e commissariamenti, mancate bonifiche, turistificazione del centro cittadino e privatizzazione delle acque marine: processi accomunati da un’idea di spazio urbano come luogo chiave della produzione biopolitica del capitalismo contemporaneo. A questo modello, in cui a disegnare la forma delle nostre città è la mano invisibile del mercato, esiste un’alternativa. Negli ultimi anni, nella città di Napoli sono sorti nuovi movimenti di partecipazione civica legati al movimento per i beni comuni, iniziato a Roma con l’occupazione del Teatro Valle. Sulla scia dell’esperienza romana, i protagonisti di quella napoletana hanno rivendicato come bene comune, insieme all’acqua pubblica, anche una parte del patrimonio comunale dismesso o semiprivatizzato, creando spazi di mutualismo, condivisione e autogoverno aperti all’intera città, funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali. Una congiuntura politica favorevole ha consentito di istituzionalizzare questo processo in seno al pubblico, creando, negli interstizi di una macchina politica troppo spesso autoreferenziale e incapace di comprendere le energie vive della città, processi avanzati di «democrazia di prossimità»[2](face to face democracy, come la definisce Murray Bookchin). La nascita di beni comuni, consulte, assemblee pubbliche, osservatori civici ha irrorato il tessuto democratico di linfa vitale. Queste nuove istituzioni hanno segnato la riscoperta di un valore dell’urbano che si oppone al modello capitalistico del profitto e alla governance neoliberale fondata sull’individualismo competitivo[3]. Esse, al contrario, rappresentano una manifestazione concreta dell’idea di bene comune come fondamento della vita collettiva, della democrazia, dell’uguaglianza, della cultura, della libertà[4]. Un’idea che dovrebbe riprendere a guidarci e a illuminare le nostre città.

Note

[1] Tomaso Montanari, A cosa serve Michelangelo, Einaudi, 2011, pp. 8-10.

[2] Mauro Pinto, Luca Recano, Ugo Rossi, New institutions and the politics of the interstices. Experimenting with a face-to-face democracy in Naples, «Urban Studies», anteprima online sul sito journals.sagepub.com, 1° maggio 2022 (https://bit.ly/3IMGNNb).

[3] Ugo Rossi, Il centro storico di Napoli e il valore urbano conteso: Turistificazione, beni comuni, innovazione, in Atti del XXXIII Congresso Geografico Italiano (Padova, settembre 2021), pp. 4-5.

[4] Salvatore Settis, Azione popolare. Cittadini per il bene comune, Einaudi, 2012.

 

Alessandro Canzian: “la storia accade ma non se ne ha memoria”

4

 

Estratti inediti da MINIMALIA

Lucio Fontana, Concetto spaziale

 

ma ora sei qui, rosso come un cocchiere

da birrificio, e imprechi col geniale

zuccherino in saccoccia e l’animale

che non vuole arretrare

Jan Wagner

 

[…]

Una cartilagine il mondo.

Rodica la rumena

avvoltola le foglie di

vite a ricordare il marito.

Una vescicola di carne.

 

I capelli raccolti in un rostro.

Dimmi che sono bella

prima che muoio.

La vita è un esercizio.

 

***

 

Ragazzina, vent’anni e

un sapore d’ammoniaca

e fiori sul vestito.

Un rischio per la pietra

comandata dal Signore.

O da altro ufficio.

 

La ragazzina chiede il motivo

della pioggia dopo il ponte.

Non sa nulla di ieri.

Il sapere è una finestra

accesa di lontano.

 

La ragazzina al locale dopo

il gesto di spegnere il caffè

sciogliendoci lo zucchero.

Non pioverà nemmeno oggi

sulla tratta franco-tedesca.

 

La ragazzina bruna conosce

solo i bordi del proprio tavolino

frastagliati al confine.

Amor di patria al proprio limite.

Anche tu sei sola al mondo.

 

La ragazzina vede la rosa

orsuta come un’icona. Ha

lo stesso colore dei suoi slip.

A quest’ora

innaffiano i giardini in tutta Europa.

 

***

 

La ragazzina seduta in piazza

stende le gambe lungo la

frontiera. Domani

risolverà tutti i problemi

bevendo ammoniaca.

 

La ragazzina seduta al caffé

ha visto Kerč fagocitare

uomini donne e istituzioni.

Ieri guardava Notre-Dame

querelando il mondo.

 

La ragazzina seduta a gambe

intrecciate conta le monete

come una strage.

Il mondo passa e non la tocca.

Giovinezza vaga e sconvolta.

 

La ragazzina scorre disinvolta

i giardini di tutta Europa.

E Ucraina. E Polonia.

Cos’altro potevamo fare?

Qui non si ammazza abbastanza.

 

La ragazzina s’alza e se ne va

come nulla sia avvenuto.

L’estate dei rospi e dei cani.

La storia accade

ma non se ne ha memoria.

 

Alessandro Canzian

Igiaba Scego: una Cassandra che predice il passato

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di Davide Orecchio

Appunti su Cassandra a Mogadiscio. Memoir, romanzo epistolare, storia collettiva

«Waris said her grandmother rarely left their council flat in Wolverhampton any more (…), and she’s never stopped mourning everything she’s lost
she lived a well-off lifestyle in Mogadishu until 1991, in a family where all the adult men worked in the family dental practice, until they were killed and she fled here with her daughters
(…)
I haven’t suffered, not really, my mother and grandmother suffered because they lost their loved ones and their homeland, whereas my suffering is mainly in my head
(…)
I’m not a victim, don’t ever treat me like a victim, my mother didn’t raise me to be a victim.»
Bernardine Evaristo, Girl, Woman, Other

«Jirro in somalo significa “malattia”, letteralmente è così, ogni vocabolario ti riporterà questa spiegazione. Persino Google Translate.
Ma Jirro per noi è una parola più vasta. Parla delle nostre ferite, del nostro dolore, del nostro stress postraumatico, postguerra.
Jirro è il nostro cuore spezzato. La nostra vita in equilibrio precario tra l’inferno e il presente.
Siamo esseri diasporici, sospesi nel vento, sradicati da una dittatura ventennale, da una delle più devastanti guerre avvenute sul pianeta Terra e da un grosso traffico di armi che ha seppellito le nostre ossa, e quelle dei nostri antenati, sotto un cumulo di kalashnikov.»
Igiaba Scego, Cassandra a Mogadiscio

Poco meno di un anno fa, in un giorno d’esordio della primavera romana – tarda mattinata, da qualche parte tra il Campidoglio e il Teatro di Marcello –, la scrittrice Igiaba Scego mi raccontò che stava lavorando a un libro molto complicato per lei, e altrettanto necessario (l’aggettivo necessario affiora spesso, enigmaticamente, nelle recensioni o quando si parla e scrive di libri, ma in questo caso adoperarlo è corretto). 

Eravamo seduti fianco a fianco nell’angolo di un tavolo ampio, in attesa che una riunione iniziasse. Scego indossava occhiali da sole, se ricordo bene; io lenti da vista che si appannavano sulla mascherina Ffp2. Paradossalmente tolsi gli occhiali annebbiati per vederla meglio, come se guardare e ascoltare fossero gesti complici, solidali in una sola intenzione, quella di capire cosa Igiaba cercava di spiegarmi.

“Voglio raccontare la storia della mia famiglia, di mia madre e mio padre, dei miei fratelli, del nostro paese di origine – la Somalia – e della guerra civile che l’ha distrutto”, mi disse.

“Quali archivi hai consultato?”

Subito chiesi quali archivi stesse consultando o avesse visitato, perché, quando qualcuno conversando con me evoca la parola storia, penso subito a biblioteche e archivi, a carte, documenti e libri, a parole scritte e tramandate: parole come pilastri, carte come mattoni sui quali edificare, appunto, una storia (e una lingua, e uno stile). 

Ma ormai dovrei sapere che non funziona sempre così. Non esiste un metodo solo. Non esiste una sola ricetta per farlo. Soprattutto: non sempre si può disporre di un archivio, di un lascito familiare, di un deposito genealogico, di lettere o diari preziosi. In realtà avrei dovuto già saperlo mentre Igiaba raccontava il suo progetto. Ho letto ricerche di storia orale; e ho letto Città sommersa di Marta Barone, ricostruzione di un padre perduto senza che lui avesse lasciato una pagina, un solo rigo di eredità.

“Nessun archivio. Li hanno distrutti”

Eppure la risposta di Scego – “Non ho consultato nessun archivio. Li hanno distrutti. Non è rimasto nulla. Nemmeno un pezzo di carta” – mi sorprese molto, direi troppo, e lei se ne accorse. Nessun archivio? Nessuna biblioteca? Come farà? Come ci riuscirà?, devo avere pensato, e Igiaba deve averlo intuito fissandomi, tanto che ha poi deciso di riportare questo episodio nell’opera cui stava lavorando. 

La riunione iniziò e smettemmo di conversare sul libro di Igiaba. Ma ormai mi ero convinto che a questa scrittrice toccasse un compito difficile e lungo, del quale avrei letto l’esito tra chissà quanti anni. Mi sbagliavo anche su questo. Cassandra a Mogadiscio (Bompiani 2023, 368 pagine) è appena uscito. Il lavoro era molto più avanzato e maturo di quanto avessi immaginato. L’ho letto, sottolineato, annotato per una decina di giorni. Poi l’ho posato sul mio tavolo. Poi me ne sono andato in giro nelle mie giornate, nel lavoro, nelle perdite di tempo, ma dedicando sempre al libro di Scego uno scompartimento dei miei pensieri; pensieri che adesso provo a organizzare in questi appunti.

Come ci sei riuscita?

Se qualcuno elaborasse una serie di quesiti condensati in una formula del genere: “Si può raccontare una storia senza possedere documenti, solo attingendo alla propria memoria e alla memoria delle persone che si è deciso di ascoltare? Si può dare voce a un passato ridotto in macerie?”; se qualcuno si ponesse davvero questa domanda, che implica un assillo morale oltre che metodologico, troverebbe la risposta – ed è “sì” – in Cassandra a Mogadiscio. Igiaba Scego l’ha fatto, ha visto e predetto il passato in luogo del futuro, è una Cassandra con gli occhi sulla nuca, veggente della storia, interprete dei fatti di ieri che l’hanno messa al mondo, figlia di una città e nazione distrutta (Mogadiscio come Troia), e ha scritto un libro struggente e prezioso.

Forse si è capito: senza carte a disposizione, l’autrice ha edificato il proprio lavoro sulle fondamenta di interviste e memorie personali. L’esito sulla pagina, però, è letteratura, è scritto, non compaiono quei brani esatti e incontaminati persino nelle sgrammaticature cui la storiografia orale ci ha abituati. 

In un passo della postfazione Scego spiega il metodo adottato, quando precisa che in Cassandra a Mogadiscio

«Ci sono il colonialismo, il trauma della dittatura e la guerra civile. Ci sono le tante ferite provocate alla Somalia da tanti colonizzatori differenti. In queste pagine spero di essere riuscita a cucire il mio pezzo di storia, a unire gli strappi dando un nome al tormento che chiunque abbia vissuto una guerra sperimenta, a quello che viene spesso definito trauma postbellico (anche se nella situazione somala non si può parlare veramente di “post”, perché purtroppo ci siamo ancora dentro): io ho preferito chiamarlo Jirro, usando la parola somala per “malattia Per dar voce al Jirro ho cercato di utilizzare il metodo di indagine memoriale che Alessandro Portelli, grande conoscitore della letteratura afroamericana e storico orale, ha diffuso».

Memoir, e lettera a una nipote

«Il nostro archivio è hooyo (mamma, ndr). E chiunque abbia visto la Somalia prima della distruzione. 
È così, nipote amatissima.
Il tuo aabo (papà, ndr) è un archivio.
Lo zio Abdul è un archivio.
Zahra è un archivio.
Mamma Halima è un archivio.
E naturalmente lo era aabo. Il mio dolce aabo, che mi manca ogni giorno di più.
E anch’io in un certo senso sono un archivio. Perché ricordo.»

Cosa è Cassandra a Mogadiscio? È, per molti versi, un memoir. L’autrice racconta la propria vita, come già le è successo in altre opere. Nata a Roma nei primi anni Settanta, figlia di due profughi somali fuggiti dalla dittatura di Siad Barre, dunque figlia dell’esilio e di un’improvvisa povertà. Separata, lei con i genitori, dal resto della famiglia, innumerevoli fratelli e altri parenti rimasti in Somalia o disseminati nella diaspora tra Europa e America. È dunque la storia di una ragazza italiana e somala che cresce negli ultimi trent’anni del secolo scorso tra pensioni malandate e appartamenti dimessi del quartiere Balduina, tra povertà, amori liceali e malattie, e dolori e sofferenze per la sorte della lontana Somalia (dove soggiornerà solo per un breve periodo) ridotta in cenere dalla guerra civile. Una ragazza che cresce fino a diventare la donna adulta che è oggi, la scrittrice che è oggi.

Ma è anche la storia di un uomo, il padre di Igiaba. Lo incontriamo in momenti molto diversi della sua vita. Giovane colto, intelligente, reclutato come “mediatore culturale” dai britannici nei primi anni Quaranta. Poi esponente politico di primo piano nella Somalia che, negli anni Cinquanta e Sessanta, prova a rendersi autonoma e democratica nonostante la tutela post- o neo coloniale dell’Occidente (attraverso l’amministrazione degli italiani, il colmo: i vecchi dominatori). Quindi messo in fuga dal regime di Siad Barre – che a oppositori e vecchia classe dirigente non consentiva altra scelta –, spossessato di tutto: agio economico, status, professione, figli; ramingo nei piani più bassi della piramide sociale italiana, quelli riservati ai migranti, a chi deve sbarcare il lunario. Infine anziano, malato, disincantato in anni vicini ai nostri e nel suo esito biologico.

Cassandra a Mogadiscio è soprattutto la storia di una donna, la madre di Igiaba, che apprendiamo nelle sue origini rurali, tra vita pastorale e cura dei dromedari nella boscaglia. La vediamo poi crescere: si urbanizza nella capitale, lavora, incontra il suo futuro marito, lo sposa e poi – a differenza di tante altre mogli di politici somali caduti in disgrazia – non lo abbandona, affronta l’esilio con lui, la vita dura di Roma, immigrata, africana, spesso sfruttata.

Attorno a questi tre personaggi ne ruotano molti altri, e in tutti loro risuonano le peripezie, direi le sventure, della Somalia, paese senza pace novecentesca tra dominio coloniale, dittatura, guerra civile, e nel nuovo secolo destinato a un fallimento che pare incurabile: «“Immondezzaio”, così i media chiamano la Somalia. Per il mondo siamo una latrina. Pestilenziale, unta, condannata all’eterno tormento», scrive Scego.

Insomma è una storia collettiva. E, in tutte le sue anime, porge il resoconto di un trauma che ha ferito irrimediabilmente una terra e un gruppo di persone, una grande famiglia articolata nelle sue generazioni. Ma è anche una lettera. La sua forma è epistolare. Una lunga lettera rivolta a un’altra discendente della diaspora, la giovane nipote di Scego: si chiama Soraya e vive in Canada. Lei, rappresentante di tutte le ragazze e i ragazzi della sua generazione, è la destinataria della storia, colei alla quale il racconto deve essere trasmesso.

Indimenticabile madre

«Vedo quanta voglia ha la mia hooyo, la tua ayeyo, quella nonna che ormai è arrivata alla soglia degli ottant’anni, di raccontarti il mondo, il suo, per trasmettertelo. Ma non parla bene nessuna delle tue lingue.
(…)
E hooyo voleva (…) passarmi la sua vita. Perché non si trattava più di una storia famigliare e basta. Era qualcosa che andava oltre.
(…)
“Ascoltami,” mi ordina. “Degheso. Non c’è bisogno che annoti tutto. Usa la memoria. Usa il cuore.”
(…)
E io sono per te anche colei che traduce. Antenata dopo antenata. Virgola dopo virgola. Massacro dopo massacro. Viaggio dopo viaggio. Kalashnikov dopo kalashnikov. Sono la turjumaan, la traduttrice, di una storia ancora da scrivere.»

Dobbiamo questo libro al talento di Igiaba Scego. Ma lei lo deve alla forza e all’ostinazione di sua madre Chadigia. È la hooyo a esprimere il desiderio che la storia sia messa per iscritto e trasmessa. Vuole che la giovane nipote la conosca. Ma non può raccontargliela direttamente. Non hanno nessuna lingua in comune. Non il somalo, non l’inglese né il francese, non l’italiano. E la nonna non sa scrivere, e legge poco e male. È lei a costringere la figlia – la scrittrice, la traduttrice – al lavoro.

Chadigia è un personaggio indimenticabile, e sono indimenticabili le pagine che ce la mostrano: sia nell’atto di ricordare, anziana a Roma, al fianco della figlia e spronandola all’ascolto, sia nell’atto di esistere in questa storia, a partire dall’infanzia e poi nell’avventura della vita. Ma spiccano alcune pagine in particolare. Un cuore più vivido pulsa nei brani sulla guerra civile scoppiata nel 1991. Qui inizia una stagione lunga, silenziosa, pericolosa. Quando la madre, senza capire cosa stia per accadere in Somalia, decide di partire per Mogadiscio. 

«Mise due stracci in valigia e approdò dalla sorella. Era l’unica ottimista in un paese in cui tutti erano diventati improvvisamente pessimisti. Lei credeva che la Somalia avesse un futuro.» 

Di lì a poco Chadigia sparisce, «inghiottita dalla guerra. (…) Tradita. Dalla nazione. E dalla storia». Trascorrerà un anno nel paese lacerato dalla violenza, testimoniando atrocità e cercando riparo come può. La sua assenza trova un controcanto (e un vero e proprio biografema) nello strazio romano della figlia adolescente, che vede la tragedia somala incarnarsi in quella della madre, e in apprensione per lei contrae il Jirro per la prima volta nella vita, sulla soglia dell’età adulta. Una malattia che è davvero patologia storica, politica, dolore collettivo capace di incorporarsi nella carne della ragazza sino a farle perdere il corpo inducendola a un vomito continuo, a un quotidiano rigurgito. Si capisce allora perché sia questa madre l’energia di Cassandra a Mogadiscio, la forza di tutto: è attraverso la sua sorte (per fortuna benigna, Chadigia riapparirà a Roma nel 1992) che Scego prende coscienza della ferocia in cui è sprofondata la Somalia.

La forma e la lingua

«“Allora dille, a quella mia nipote scapestrata e dolcissima, che l’italiano è la lingua dei sogni. Anzi dille che l’italiano è la lingua del più grande sogno di sua nonna. Ritrovarci io e lei presto insieme e parlare. Guardandoci negli occhi. Senza intermediari. Con la forza dei nostri sospiri. Devi dirle che la aspetto. Che sono anni che voglio chiacchierare con lei. E superare l’oblio”.»

Accennavo sopra alla forma epistolare del libro. La lunga lettera di Igiaba a Soraya. Funziona benissimo. Porge una lingua intima e orale, conversazionale, e una narrazione mai lineare ma fitta, invece, di ripetizioni, digressioni, sospensioni, arresti e ripartenze. Esattamente come dovrebbe accadere in una lettera. Forse una lettera scritta a mano, penna e inchiostro su carta, e non scolpita e corretta davanti allo schermo di un computer. 

Il tutto è controllato in un flusso che pare naturale nel suo perdersi e ritrovarsi tra presente e passato, tra personaggi, episodi e diverse epoche in un arco temporale che va dagli anni Trenta del Novecento a oggi. Ma è appunto architettura, scelta stilistica. Questo libro è un tessuto imprevedibile e irripetibile, esattamente come annuncia la sua copertina, là dove incontriamo una fotografia della madre di Igiaba, giovanissima, intenta a spiegare a una donna italiana come si cuce un paio di babbucce: mani e dita intrecciate, ago, filo, sguardi concentrati su una trama che non sarà mai geometricamente simmetrica ma, come rivendica la stessa autrice, caleidoscopica.

Infine la questione della lingua. Si sarà capito che a leggere Cassandra a Mogadiscio s’impara un mucchio di parole somale. Ma si apprende anche l’amore per l’italiano. Non è una questione irrilevante. Stiamo parlando della lingua degli antichi colonizzatori. E poi del gergo burocratico, brutto, ostile, indifferente che accoglie una famiglia di profughi e la umilia con la sua modulistica (permessi di soggiorno e via elencando).

Eppure è una lingua amata e adottata. Chadigia vorrebbe che la nipote Soraya la imparasse. Altro che inglese, francese o addirittura somalo: la nonna vuole parlarle in italiano. E Igiaba in italiano continua a scrivere, non lo “tradisce” per altri idiomi – più appetibili sul proscenio editoriale globale – che un’autrice cosmopolita come lei potrebbe tranquillamente frequentare. È un affetto che colpisce ed emoziona. Forse contiene una specie di perdono storico, non lo so. Sicuramente rivela una superiorità rispetto a chi, italianissimo e razzista, dall’altra parte della barricata storica, fu protagonista di violenze e sopraffazione. 

Italiano. Ecco cosa scrive Igiaba Scego al riguardo: 

«Una lingua un tempo nemica, un tempo negriera, ma che ora è diventata, per una generazione che va da mia madre a me, la lingua dei nostri affetti. Dei nostri più intimi segreti. La lingua che ci completa nonostante le sue contraddizioni. Lingua di Dante, Petrarca, Boccaccio, Elsa Morante e Dacia Maraini. Lingua di Pap Khouma, Amir Issaa, Leila El Houssi, Takoua Ben Mohamed e Diarah Kan. Lingua un tempo singolare e ora plurale. Lingua mediterranea, lingua di incroci».

Hooyo – Chadigia, la madre – non può leggere il libro di Igiaba. Immagino e spero che la figlia lo abbia declamato per lei ad alta voce, dalla prima all’ultima pagina. Immagino l’emozione dell’ascolto, la memoria e la storia che riempiono il tinello di un’abitazione romana, il ricordo di chi non c’è più, la fiducia e l’amore in chi ancora c’è.

Cassandra a Mogadiscio consente un ingresso lieve in una storia importante e cruenta. Pagine colme di amore per la Somalia e per l’Italia insieme (che forse questo amore non se lo merita) offrono un testo privo di rabbia; davvero un miracolo.

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Per approfondire:

Un dialogo tra Igiaba Scego e Paolo Di Paolo (2014)

“Il trauma coloniale”. L’indagine psicopolitica di Karima Lazali

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Alger, 1961 - Ph. RAYMOND DEPARDON

 

Alger, 1961 – Ph. RAYMOND DEPARDON

 

[A fine 2022 è uscito per Astarte Il trauma coloniale. Indagine psicopolitica della colonialità in Algeria di Karima Lazali, tradotto da Barbara Sommovigo, con prefazione di Roberto Beneduce e Simona Taliani. È un volume ricco e complesso, in cui l’autrice, alla luce della propria esperienza di psicanalista, rilegge la storia psichica e sociale del paese e indaga forme e conseguenze del trauma della colonizzazione. Pubblico le prime pagine dell’ultimo capitolo, dal titolo “Uscire dal patto coloniale”, ringraziando l’editore. ot]

di Karima Lazali
traduzione di Barbara Sommovigo

Che cosa ci fa fare, la stronza!
Di chi stai parlando? chiese a Bouzid.
Della libertà.
– Malek Haddad, La dernière impression

Non inventare nuove ferite, ma nuove profondità ai sorrisi e alle gioie:
il mondo è lì, posto nel tuo gesto, come la stella disegnata dallastro della mano.
– Nabile Farès, L’exil et le désarroi

Ancora oggi l’“Algeria”, significante, oggetto e luogo, è associata a una devastazione e a un’esplosione, in un disconoscimento degli effetti a lungo termine della sua storia coloniale. Questa situazione è il riflesso di una colonialità che ha organizzato una sospensione del tempo, una compressione dello spazio e una cancellazione del memoriale per tutti i suoi membri. In Francia, questa storia intesse tanto i mormorii dei discorsi quanto il loro pesante silenzio. Il coloniale e le sue tracce assumono l’aspetto di un’assenza di memoria o, per riprendere l’espressione di Daniel Mesguich a proposito della guerra di liberazione, di un “grande vuoto di memoria”[1]. Questi fruscii, avvertiti nel profondo, che riguardano l’“Algeria” indicano che c’è dell’impossibile da dimenticare, innominato ma pienamente attivo. Ed è per questo che è ancora difficile, dopo molte generazioni, entrare in una storicizzazione e in un racconto degni delle memorie e del tempo del passato: la violenza persiste a vuoto, sorda e assordante. Deve rimanere?

Questa difficoltà di archiviazione, fortemente attiva, va di pari passo con l’oblio. Come abbiamo visto, la colonialità produce uno strano fenomeno in cui, come scrive il romanziere Salim Bachi, «la nascita della memoria è iniziata con l’assenza di tracce»[2]. Si tratta di un paradossale tumulto della memoria, che cattura la Storia nel politico: al lavoro degli storici viene impedito di aprire un dibattito pubblico che avrebbe conseguenze sulla società civile. La passione per l’“Algeria” continua a ossessionare il politico, anche in Algeria attraverso un “nazionalismo” svuotato di progetto politico, evidenziando un “amore incondizionato” per Lei, la patria. Il minimo scarto rispetto alla causa “nazionale” è trattato come un appello al tradimento e al rilancio del colonialismo. L’immaginario della hogra persiste come stimolo al pensiero e al con-vivere.

Dopo la liberazione, l’instancabile reiterazione della colonialità in seno alle soggettività e alla politica

La colonialità è per il politico portatrice di guerra civile. In diverse occasioni, intorno all’Algeria, si è verificata in Francia un’incrinatura negli apparati politici che organizzavano la società coloniale. Ricordiamo che, anche per la “metropoli”, la cosiddetta “guerra d’Algeria” fu guerra civile per via dell’inclusione della colonia nel corpo della Repubblica. Ha altresì portato a un’importante destabilizzazione della politica francese e a un grave rischio di guerra civile sul suo territorio. E infine, questo scontro ha avuto luogo sul territorio algerino in una guerra interna al suo microcosmo, prima nell’estate del 1962 e poi durante la guerra civile degli anni Novanta.

Il fratricidio, strumento della colonialità, indica così una pericolosa filiazione tra essa e il politico. Questa situazione si sposta, e al momento sta minando il Medio Oriente dove, in nome della “democrazia”, si sta dispiegando l’immortalità dell’impero. Il capitalismo veglia sulla sua eternità e sulla sua conservazione, provocando guerre civili e lotte tribali. Viene anche qui confermato il fatto che la colonialità sposti altrove il ​​fratricidio sopito in seno alla Repubblica. Le logiche attuali dell’impero e i suoi attacchi in Medio Oriente sono inoltre quotidianamente e molto vivacemente commentati dai soggetti degli ex paesi colonizzati, tanto che questo legame tra colonialità e politica è diventato per loro una banalità. Mentre, anche all’interno delle ex potenze coloniali, è troppo spesso dimenticato, ricoperto dalle buone intenzioni della “democrazia” e dal pensiero, ancora corrente, di civilizzare il “mondo” attraverso la democrazia, ignorando completamente i presupposti storici.

È quindi comprensibile che a partire dagli anni Duemila, i discorsi e gli atti di guerra dei leader delle maggiori potenze occidentali in Medio Oriente abbiano ravvivato nella popolazione algerina lidea che la loro ricorrente invocazione allademocraziaindicasse un ritorno alla colonialità. Fra le altre cose, questo ha avuto come effetto quello di rafforzare la sfiducia nei confronti di qualsiasi richiesta di democratizzazione a livello della società civile. La domanda dei cittadini di avere accesso alla pluralità politica e al fatto di essere cittadini ne è uscita indebolita. Il dietro le quinte dellademocraziamade in France nasconde infatti, in Algeria, un potenziale di inibizioni e paure di fronte alla prospettiva di porre fine a un certo tipo di schiavitù. Poiché la colonialità – è importante ricordarlo costantemente – si è basata sulla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e del cittadino. In Algeria, questo aspetto rientra nell’indimenticabile, poiché questa dichiarazione per molto tempo è servita come copri-miserie per ben altre poste in gioco: la politica dell’universale è stata solo uno strumento di oppressione e di giustificazione di diverse forme di segregazione. Ciò che ne rimane è una grandissima sensibilità al motivo dell’universo e alla “cosa” democratica come viene praticata oggi dalla politica francese.

L’attuale situazione dei paesi del Medio Oriente rafforza quindi in Algeria la parte indimenticabile della storia coloniale. Qualsiasi cambiamento strutturale del politico comporta un rischio di degenerazione con molteplici poste in gioco. Nel 1959 Frantz Fanon scriveva:

[…] un bambino di sette anni, segnato da profonde ferite provocate da un filo d’acciaio con cui è stato legato mentre i soldati francesi picchiavano e uccidevano i suoi genitori e le sue sorelle. Un luogotenente lo ha costretto a tenere gli occhi aperti, affinchè vedesse e ricordasse a lungo…. […] Ebbene, crediamo sia facile far dimenticare a questo bambino l’assassinio dei suoi genitori, e il suo enorme desiderio di vendetta? Questa infanzia orfana, che cresce in un’atmosfera da fine del mondo: è questo il messaggio che lascerà la democrazia francese?[3].

Come uscire da quella logica di ciò che non si può dimenticare, marchiata da un ferro rosso che ha instaurato nel tempo un’atmosfera di minaccia e di suscettibilità?

Da un lato, in Algeria, la colonialità è diventata una matrice storica: continua a occupare le soggettività e il politico, e funge da causa univoca per ogni questione legata alla responsabilità. D’altro lato, in Francia, tende a scomparire dalla Storia pur essendo pienamente attiva negli spazi bianchi dei discorsi e delle pratiche politiche. A questo proposito, un esempio è il modo in cui il politico cerca di spogliarsi, in Francia, della storia coloniale, preferendo pensare che si tratti solo di un affare degli ex “colonizzati”. Qui e là, la colonialità continua quindi la sua opera di “annullamento” [mise à blanc] attraverso l’espropriazione, la cancellazione e la sparizione.

In Algeria, la questione dello spossessamento è al centro della governance e del rapporto con l’altro. Il gesto coloniale è ribadito dal potere politico, ma questa situazione si ritrova anche e soprattutto al centro delle soggettività, qualunque sia l’appartenenza sociale degli individui. Spogliare l’altro di un presunto potenziale di cui potrebbe disporre rimane una costante nelle relazioni interpersonali: non si tratta solo di monopolizzare il potere al fine di accumulare profitto, ma quasi di spogliare per il gusto di spogliare. Tutto accade come se il tempo si fosse fermato nel momento in cui si trattava di sottrarre all’altro qualcosa che possedeva. Lì risiede la vera traccia invisibile dell’opera coloniale, che si trasmette tale e quale, generazione dopo generazione.

Il politico è dunque la traduzione in atto delle deflagrazioni lasciate nelle soggettività. Viceversa, i soggetti in quanto cittadini partecipano alla costituzione degli apparati di potere, come diceva Frantz Fanon nel 1961: «Un governo e un partito hanno il popolo che si meritano. E a più o meno lunga scadenza un popolo ha il governo che si merita»[4]. Uno strano monito sul modo in cui i cittadini, chiunque essi siano, si adattano e soprattutto partecipano alle scelte del regime, quand’anche lo denuncino e gridino costantemente al “tradimento nazionale”. Non basta quindi evocare la possibilità di un’identificazione con una posizione di coloni dei detentori dell’attuale potere politico algerino, occorre anche pensare al modo in cui le soggettività dei cittadini sono esse stesse attrici dell’assoggettamento al quale contribuiscono al fine di riaffermare nel microcosmo il tempo iniziale dello spossessamento.

Ecco perché la liberazione acquisita non significa un’uscita dalla colonialità. L’indipendenza può ricreare una modalità di legame coloniale che funge da bussola nel legame sociale. La liberazione è un momento fondamentale per accedere al senso dell’esistenza e della cittadinanza. Ma questa liberazione può trasformarsi in un rifiuto di separarsi dal momento traumatico dell’irruzione coloniale. Qualcosa impedisce di emergere definitivamente come un essere separato, preso nella Storia senza essere identificato con essa. Questa non-separazione con lo spirito del coloniale fa della Storia un fatto del presente.

Lo spettro coloniale ritorna dunque a invadere la psiche e il politico. Questo aspetto è essenziale, poiché, in Algeria come in Francia, l’interferenza memoriale è al servizio di un rifiuto di separazione, che mantiene inaffrontabile la passione “Algeria”. La cancellazione e le difficoltà di archiviazione danno a questa passione i suoi pieni poteri. Lo spossessamento della Storia e del senso delle responsabilità è la continuazione dell’ordine coloniale nell’epoca contemporanea. Significa forse che i coloni e i colonizzati vi restano aggrappati? Come abbandonare, allora, il gesto coloniale di spossessamento che opera come memoria e Storia su entrambe le sponde del Mediterraneo?

Il lavoro storico perde di continuo la necessaria autonomia, a volte spogliato del politico in Francia, a volte messo sotto il sigillo del politico in Algeria. Lo spossessamento in Algeria, come abbiamo visto, ha colpito gli ancoraggi simbolici per indurre un ripopolamento delle menti attraverso lo spazio bianco. Questo meccanismo ancora operante è una memoria in atto, celebrata e condivisa da tutti i membri della colonia, anche se i crimini, la distruzione e l’ossessione della sparizione fanno parte dell’indivisibile. Qua e là, questa vicenda attraversa il tempo e lo spazio inalterata. Esiste forse uno strano “patto coloniale” (Frantz Fanon), firmato in bianco senza autori né responsabili? E come pensare allo stesso tempo alla simmetria del patto e all’asimmetria che lo ha costituito? Infatti, se c’è stato un patto tra coloni e colonizzati, questi non lo hanno stipulato né allo stesso modo né allo stesso tempo. La violenza dell’effrazione coloniale è stata infatti la prima e senza precedenti nel suo grado di distruzione e nella sua trasmissione alle generazioni successive. A posteriori possiamo porci questa domanda: a che cosa acconsente la parte colonizzata ribadendo il gesto coloniale all’indomani di una liberazione?

Una lettura eccessivamente militante degli scritti di Frantz Fanon ha spesso contribuito a schiacciare i suoi contributi decisivi come psichiatra. Tuttavia, è proprio dalla pratica clinica con gli “indigeni” oltre che con gli “Europei” affetti da disturbi psichici che, dal 1953 al 1956, ha messo in discussione le posizioni del colono e dei colonizzati come operatori del sistema e non semplici esecutori testamentari o vittime[5]. Così, quando nel 1961 scrive che «il colonizzato sogna sempre di impiantarsi al posto del colono»[6], ritaglia un’altra porzione di comprensione. Perché l’invidia funziona come corollario dello spossessamento, in assenza di un ricordo che restituisca la vicenda come risultato di uno shock vissuto in passato. La reiterazione si ripete infatti in assenza di un testo memoriale su cui potrebbe basarsi per creare punti di sosta. L’indebolimento degli ancoraggi simbolici comporta che l’iscrizione ricercata, non potendo essere incisa, scompare a sua volta.

Si è quindi verificata la falsificazione del luogo di ancoraggio (e della Storia) e la cancellazione delle filiazioni per far scomparire un popolo. Le conseguenze di questa «ferita genealogica»[7] sono un attacco al simbolico, come ciò che tiene insieme il corpo, la lingua e lo psichismo. La distruzione del luogo ancestrale nella colonialità ha spinto ogni “indigeno” in varie forme di malinconia e abbandono. Scrive Nabile Farès:

Ho spinto la porta del luogo e qualcosa si è spezzato in me. Come una lama. O un piacere. Disarmato. Ho spinto la porta del luogo e sono riuscito a raggiungere l’interno della mia durata, perché l’interno si era appena incrinato[8].

 


[1]  Cfr. capitolo 3.

[2]  Salim Bachi, Le chien d’Ulysse, Gallimard/barzakh, Paris/Alger 2001, p. 287.

[3]  F. Fanon, L’anno V della rivoluzione algerina, in Scritti Politici, vol. 2, p. 33.

[4]  F. Fanon, I dannati della terra, p. 140.

[5] F. Fanon, Écrits psychiatriques, in Écrits sur l’aliénation…

[6]  F. Fanon, I dannati della terra, p. 18.

[7] N. Farès, Le champ des Oliviers, p. 126.

[8] N. Farès, Le champ des Oliviers, p. 37.

 

Trasporre guardando. Su “Le pupille” di Alice Rohrwacher

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di Lisa Ginzburg

Un colpo di genio, spontaneo e rapinoso come ne capitano agli artisti, ha fatto scegliere ad Alice Rohrwacher di trasporre al femminile testo e tema di una lettera che Elsa Morante scrisse a Goffredo Fofi, fraterno amico e mordace critico ma in nuce, non noto e prolifico come oggi, per quanto già allora vivacissimo interlocutore, anche in senso polemico, della scrittrice. Era vicina ai sessant’anni e presumibilmente stava lavorando al romanzo “La Storia”, Elsa Morante, quando pensò di offrire come dono natalizio all’amico, sotto forma di lettera, un apologo, contenuto in una vicenda da lei sentita dire, risalente a quasi cinquant’anni prima, e dall’evidente contenuto allegorico / morale. Le risonanze che le suggerivano quell’omaggio epistolare erano due. Si trattava di un regalo di Natale (la lettera data 21 dicembre 1971) che narrava qualcosa occorso intorno a natale; e poi, la storia riportata si svolgeva in Umbria, stessa regione di cui Fofi è originario. Inventare un convento al femminile, per Alice Rohrwacher sembra avere avuto funzione propulsiva, dinamizzante, e anche di inveramento: guardando i trentasette minuti del suo film “Le Pupille” (ora candidato agli Oscar) tutto pare più credibile e fluido rispetto alla versione originaria dell’epistola di Elsa Morante, quella al maschile. Più efficace, la resa filmica, non tanto per mera questione di genere, quanto perché le dinamiche di repressione / colpevolizzazione contenute nella vicenda, calate nel consesso di donne si fanno se possibile più sottili, e cruente. Così per la rigida, severissima temibile madre superiora (Alba Rohrwacher), così per il personaggio esterno e inventato di una donna, un’elegante signora (Valeria Bruni-Tedeschi) che in segno di richiesta di prece da dedicare a un uomo che ama, offre al Convento la sontuosa torta zuppa inglese che subito diventa oggetto di desiderio per tutte le ragazzine, e dinamo scatenante dell’intera narrazione.

Altra invenzione, questa anche insolita ed efficace sia visivamente che da un punto di vista narrativo, la scelta di “animare” la lettera – in clima natalizio, per brevi momenti inscenando un coro che ha molto del presepe vivente. “Caro Goffredo” intonano in coro le ragazzine all’inizio del film, e di nuovo alla fine, declamando l’incipit e la chiosa della lettera morantiana, e dando vita alla stessa missiva/apologo. Quella che viene a crearsi è un’alternanza tra parlato e cantato il cui effetto da lontano può ricordare i film dl Jacques Demy (Les demoiselles de Rochefort quantomeno), uno schema dove, nella sua parossistica levità, il cantato acquista autorevolezza e forza – forza morale soprattutto, trattandosi di apologo. Un piccolo film pieno di grazia, e che accanto alla grazia conta la virtù della compattezza, di un ritmo che non si smarrisce neanche un momento, e il nitore cromatico: tutto è nitido, intonato nei colori nelle luci nell’ambientazione, senza che mai venga perso di vista il contesto storico e il frangente umano, né mai si noti un sovrainterpretare o eccedere in soluzioni visive. Misurato, appassionato quanto lucido traporre guardando, ovvero mai perdendo di vista un contesto inventato e tenuto sempre vicino, tenuto accanto, chiarissimo e scandagliato e amato . Trasposizione visiva di un testo letterario dove le immagini rendono più vivido ancora l’affresco prodotto dall’infallibile “pennello” della penna di Elsa Morante, e non solo per già detta  armonia cromatica, anche perché nella brevità della misura “tutto si tiene”, ovvero nulla è in eccesso, nemmeno un fotogramma, analogamente a come nel  testo originario della missiva avrebbe potuto essere  per una virgola di troppo. L’osmotico confronto di cinema e letteratura insomma in un congegno del genere, così preciso e compatto, è fluidamente chiaro: personaggi, dinamiche, snodi, scenografia,  tutto invera quel che sulla pagina restava da finir di immaginare. Una bellissima favola natalizia, che lascia, come fanno le favole, attoniti e incantati, custodi in qualità di spettatori della memoria di un luogo che diventa luogo della mente, di un’atmosfera che, a distanza di tempo dalla visione, resta dentro come un punto di luce, un punto reimmaginato a.cui quando lo si vuole poter fare ritorno, in libertà, ogni volta  rinnovando stessa sorpresa intatta. Impressioni che riuniscono qualcosa di infantile e assolutamente adulto insieme, come infanzia e maturità asintoticamente si toccano quando si ascolti, si legga, si guardi raccontata una storia che in sé contenga una riflessione o insegnamento morale. Evviva “Le pupille”, trentasette minuti girati in stato di grazia.

Il fotogramma

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di Giuseppe Raudino

 

Mi sono passati accanto due uomini della guardia civil in sella a due splendidi andalusi bianchi. Zoccoli scalpitanti, muscoli tesi, una linea di schiuma come un febbrile sudore. Andatura possente. I simboli di virilità si sprecano, così non capisco quei berretti dalla visiera corta e quelle camicie azzurrine da polizia municipale.
Sono seduto su una panchina a Parc de la Mar, proprio dove è avvenuto il fatto. A malapena riesco a vedere uno dei due rosoni dell’imponente cattedrale di Palma. Ci sono punti in cui si riflette tutta sull’acqua, ed è uno spettacolo di linee gotiche che scorrono sulla superficie vibrante, di pienezze e vacuità e chiaroscuri che tremano appena sull’incresparsi dello specchio salmastro.

Immagino che la macchina, cadendoci dentro, abbia generato prima una scia, come quelle che lasciano le papere in navigazione sugli stagni, e poi sia crollata a picco dopo qualche metro.
La forma della cattedrale specchiata nella notte sarà stata simile a una lacrima che vibrava nella fioca controluce di una candela, mentre l’abisso notturno si inghiottiva i due passeggeri. Che tragedia. Un uomo e il figlio della compagna. Una tragedia, un incidente inevitabile. Ma siamo sicuri che sia stata davvero una fatalità?

Diamo subito i nomi, perché se continuiamo a chiamarli con appellativi generici rischiamo di non percepirli per quello che sono: esseri umani veri a cui è capitato qualcosa di inaccettabile. Uomini, donne, bambini, vittime, cittadini, padri, madri e figli: quelli sono tutti e nessuno, nessuno e centomila. Le vittime di questa storia sono tre: Juan Carlos, alla guida; il piccolo Giancarlo, sul seggiolino accanto a lui; e Veronica, che li stava aspettando a casa e che da allora continua ad aspettarli.

Conosco Veronica da vent’anni, ben prima che dall’Italia si trasferisse a Maiorca, prima che nascesse Giancarlo dalla precedente relazione e prima che conoscesse Juan Carlos.
Appena mi è giunta la notizia, ho preso il primo aereo e sono corso qui. Non so se lei abbia capito, compreso a fondo. Sta nel suo letto, non parla, non mangia. Si lascia fare le flebo per tenersi viva e tenere così vivo il dolore. Le ho promesso che farò del mio meglio, ma non so se abbia capito anche questo. Non posso condurre un’indagine come in Italia, non ho contatti ufficiali con la guardia civil. Qui sono solo un turista, il poliziotto posso farlo solo a Roma.

Poco prima di partire, mi sono andato a guardare su Google Earth tutti i punti citati dagli articoli di cronaca dei giornali maiorchini. Me li sono studiati da ogni angolazione tramite Street View e poi li ho incrociati con i percorsi probabili di quella sera.
Il piccolo Giancarlo era andato a una festa di compleanno. Veronica preparava la cena e Juan Carlos era andato a prendere il bambino per riportarlo a casa. Vivevano da sei mesi insieme, lei si era trasferita nell’attico di lui appena fuori il centro. Veronica mi aveva mandato le foto e mi aveva invitato ancora una volta perché venissi a trovarla. Avrei preferito accettare l’invito in circostanze più gioiose…
Dicevo dei percorsi. Tra l’indirizzo della festa e l’attico di Juan Carlos, Parc de la Mar non è di passaggio. C’è stata di certo una deviazione, una deviazione inaspettata, forse.
Non sappiamo quando l’auto sia caduta in acqua, perché non ci sono testimoni, per cui non sappiamo nemmeno se, dopo aver preso alla festa Giancarlo, Juan Carlos sia andato direttamente là, nel luogo dell’incidente, oppure abbia prima incontrato qualcuno da quelle parti. Gli inquirenti stanno cercando di capirci qualcosa su orari e percorsi andando a visionare le immagini delle telecamere di sicurezza sparse un po’ ovunque, ma ci vorrà del tempo. Forse avrò accesso a qualche dato per mezzo dell’avvocato di Veronica, che le ho immediatamente consigliato di consultare e che mi pare segua un po’ troppo pigramente il caso.
Quello che sappiamo finora è che non sono state trovate tracce di frenata prima del salto in acqua, per cui si ipotizza un colpo di sonno.

A me l’ipotesi del colpo di sonno non sembra plausibile. Non alle nove di sera. Veronica dice che non era stanco né stressato, questo è riuscito a farmelo capire. Prima di mettersi in macchina non aveva toccato nemmeno una lattina di birra. Non usava droghe o medicinali che potessero influire sulla guida.

In genere, era una persona nell’apparenza equilibrata. Veronica l’aveva conosciuto a una mostra d’arte in Italia e i due si erano subito piaciuti. A quel tempo era separata da poco. Giancarlo aveva due anni circa ma Juan Carlos non si era lasciato scoraggiare quando aveva appreso che lei aveva già un figlio. E così le aveva fatto ugualmente la corte in modo spudorato e l’aveva invitata da lui, alle Baleari. Doveva essere una vacanza di una settimana e invece c’era rimasta per tutti questi anni. Le piaceva la vita isolana, meno caotica di quella di Roma, eppure non meno divertente. C’era a Palma un modo diverso di occupare il tempo, con meno traffico e più ristoranti di pesce. Aveva trovato facilmente un lavoro in una agenzia immobiliare dove cercavano qualcuno che parlasse l’italiano e in cambio le fornivano un appartamento in centro niente male a un prezzo molto conveniente. Ciò che le restava dello stipendio al netto delle spese era una somma discreta, e in più aveva sole e mare tutto l’anno. I fine settimana li dedicava a esplorare l’isola e, quando si ricordava di questo vecchio amico dell’università che sarei io, mi inviava qualche foto: la spiaggia dove nuotava Anais Nin, lo studio di Picasso, il pianoforte con cui Chopin aveva composto una celebre sonata, la casa di Robert Graves, la tomba di Raimondo Lullo. Sembrava che tutti i grandi fossero passati da Maiorca in punta di piedi.

Io non andai mai a trovarla. Mi sentivo a disagio perché lei non conviveva con Juan Carlos e loro due conducevano una vita quasi da fidanzati piuttosto che da partner stabili. Mi imbarazzava l’idea di lasciarmi ospitare da lei mentre il fidanzato abitava nel suo appartamento qualche chilometro più in là. E così mi trovai sempre qualche scusa. Invece ci incontravamo a Roma, immancabilmente per una pizza o almeno un caffè, quello sì, perché lei tornava un paio di volte l’anno a trovare i suoi. Juan Carlos non l’accompagnava mai. Io Juan Calos l’ho solo in visto in foto: da vivo, e ora anche da morto. Tutti i quotidiani non hanno pubblicato altro, negli ultimi giorni. Perfino una foto di lui con Giancarlo, che hanno reso irriconoscibile per deontologia professionale e per pietà, coprendo gli occhi con un rettangolo nero che rende l’immagine ancora più triste.

Juan Carlos non mi è mai piaciuto. Ripeto, non lo conosco affatto, ma uno che non viaggia mai insieme alla propria compagna… Mi pareva volesse tenere le distanze. Non so, non riesco a farmene un’alta opinione.

***

Il mio spagnolo parlato è molto arrugginito ma a leggere me la cavo benissimo. Sfogliando un quotidiano, mentre sono in cerca di indizi, mi cade l’ occhio su un trafiletto: un’orchestra italiana dà un concerto alla cattedrale proprio questa sera. Ho sentito parlare di questo direttore, un pallone gonfiato che però sa il fatto suo. Sono incuriosito e decido di andare.
Il concerto è prima di cena, al vespro, e quando sono nel mastodontico edificio capisco il perché di questa scelta insolita. Il rosone, al tramonto, si lascia attraversare da un fascio luminoso perfettamente allineato che ne proietta i colori esattamente sotto il secondo rosone, sulla facciata opposta. La figura proiettata conserva la stessa policromia e i due cerchi si sfiorano, quasi a formare un otto.
Che spettacolo: mentre l’orchestra suona divinamente, si forma sulla parete dell’abside questo otto gigante. Se il sette è il simbolo cristiano della perfezione, come i giorni per creare l’universo, che è perfetto, come la somma tra Dio trino e i quattro punti cardinali terresti; l’otto è il sette più uno, ovvero la perfezione in sovrabbondanza, come la celebrazione delle ottave, come l’intervallo musicale ascendente che corrisponde all’estasi.
Dentro la cattedrale mi pareva di assistere anche a me a un’estasi, alla transverberazione dell’infinito, che poi l’infinito si rappresenta con una cifra che è un otto coricato.

***

Quando esco dal concerto sono scosso. La vista di quella proiezione policroma, unita all’armonia sovrannaturale della musica suonata dall’orchestra sotto la direzione di quel talentuoso maestro, mi hanno fatto sentire sospeso come in un altro mondo. Contemplavo le volte gotiche, il soffitto altissimo, le campate e le navate, l’altare appena nascosto dai musicisti, il silenzio profondo di quel luogo sacro. Mi sentivo quasi a contatto col mistero divino.

Appena uscito fuori ho riacceso il telefono e sono comparse alcune notifiche. Tra di esse, ho subito notato quella di un mio amico che si intende molto di social e di ricerche online, tanto che lavora come responsabile per la comunicazione di una nota influencer italiana, una stella nel mondo del fashion blogging.
Avevo chiesto aiuto a questo mio amico per reperire materiale online sull’incidente che è costato la vita a Juan Carlos e al piccolo Giancarlo. Per questo ho aperto il suo messaggio con apprensione. Mi scrive di essere riuscito a trovare un fotogramma di un istante prima dell’incidente. L’ha reperito in un gruppo privato di forze di polizia su Facebook. Ha preteso di essere una giovane recluta della guardia civil in procinto di essere assegnata a Soller e l’hanno ammesso. Che gran figlio di puttana, questo mio amico: a forza di viaggiare con la sua bella amica influencer, parla tante lingue e mastica bene persino il catalano.
Ad ogni modo, questo fotogramma non è stato ancora acquisito agli atti dal giudice, ma rivelerebbe una grande novità secondo gli agenti che se lo scambiano online per un confronto di opinioni: il fotogramma mostrerebbe un tentativo di frenata. Strano che la perizia non abbia rilevato tracce di pneumatici sul luogo.

Un fotogramma,dunque. Solo un fottutissimo fotogramma. I commenti parlavano chiaro: non era un’immagine estrapolata da un video ma piuttosto una foto vera e propria, come quella di un autovelox.
Io me la sono guardata e riguardata a lungo, questa foto. Torno al Parc de la Mar per capire quale congegno l’abbia scattata, e si tratta proprio di un apparecchio che entra in funzione quando un veicolo accede a quell’area interdetta al traffico. Lo scopo è quello di immortalare il numero di targa e risalire al proprietario del mezzo per recapitargli una bella multa. La macchina fotografica è fissata a un palo, in alto. Evidentemente scatta la foto anche dal lato opposto, dopo che il veicolo è entrato nella zona pedonale, così può riprendere la targa anche se si tratta di una moto.
La foto è di una nitidezza incredibile. Sembra in tonalità di grigio, come le se le immagini fossero state riprese grazie a un sensore a infrarossi. Malgrado il buio, dunque, si vedeva nitidamente la scena dentro l’abitacolo, e questo mi ha fatto impressione. Mi ha fatto impressione vedere la faccia tesa di Juan Carlos pochissimi istanti prima della sua morte e, accanto a lui, la faccia di Giancarlo seminascosta da un palloncino della festa da cui si era appena accomiatato. Il palloncino è chiaramente uno di quelli gonfiati con l’elio, in grado di volare e trattenuti da un filo, la cui estremità è generalmente ben serrata nelle mani di un bambino.
La foto non lasciava spazio a dubbi: il palloncino, non solo fluttuava contro il tettuccio della macchina, ma era tutto proiettato contro il parabrezza, spinto chiaramente in avanti per inerzia. Qualunque altro oggetto non ancorato e libero di muoversi si sarebbe comportato così, scagliandosi in avanti contro il parabrezza, appena il guidatore avesse pigiato il pedale del freno.

***

Rientro a casa di Veronica, la trovo sotto sedativi. L’infermiera che la accudisce mi consiglia di riposare e di rilassarmi con un bel bagno caldo, perché la donna si sarebbe svegliata solo il giorno successivo.
Decido di seguire quel consiglio e mi preparo un bel bagno profumato. La vasca è enorme e lussuosissima. Appena mi immergo, sento il mio corpo fluttuare. Avverto una leggera sonnolenza, mi appisolo un istante e quando mi sveglio sono nel mio appartamento romano immerso nella vasca da bagno a casa mia.
Che brutto sogno. Ma che fortuna che sia stato solo un sogno. Oggi in ufficio ho avuto una giornata pesante e queste sono le conseguenze. Mi sento risollevato per il piccolo Giancarlo, eppure in me prevale quel sentimento di strazio che ho provato sognando e che adesso si attarda a svanire nonostante sia sveglio, come un cattivo odore che non vuole abbandonare una stanza malgrado si vadano ad aprire tutte le finestre. Forse so come far dissipare quell’afrore: devo parlare con qualcuno di questo sogno strambo e così l’incubo sarà libero di volare via. Ovviamente non posso confidarmi con Veronica, perché sarebbe di cattivo gusto; se fossi sposato, ne avrei parlato con mia moglie; con i colleghi poliziotti non è il caso, hanno già tanti pensieri tetri con cui convivere. Non mi resta che parlarne con mio padre, che è un vecchio professore di matematica in pensione ed è ben lieto di ricevere telefonate che interrompano la sua solitudine. Non è la persona più adatta con cui discutere di faccende legate ai sogni e all’inconscio, ma per lo meno sa ascoltare bene.
Afferro il telefono. Il suo numero è tra le mie ultime chiamate in uscita. Ho ancora l’asciugamano attorno ai fianchi e cammino scalzo fino all’armadio in cerca di qualcosa da mettere. Dopo qualche convenevole, vedo al sodo e gli racconto tutto i sogno, senza tralasciare alcun dettaglio.
Quando ho finito lui sospira a lungo. Mi chiede se ricordavo la storia del rosone e gli allineamenti di luce. Me l’aveva raccontato lui anni prima, quando gli avevo parlato dell’imminente trasferimento di Veronica a Maiorca. Mi dice che il fenomeno avviene il 2 di febbraio e l’11 novembre, date simmetriche al solstizio d’inverno. Gli allineamenti astrali lo hanno sempre affascinato, perché ci sono i numeri dentro, e questi numeri li conoscevano già alla perfezione gli astronomi del passato. Poi mi dice una cosa che, se possibile, mi scuote ancora di più: che il palloncino di elio che si schianta contro il parabrezza non è un segno di frenata ma di accelerazione.
Mi riprendo subito dallo shock e gli faccio presente che non ha senso quello che dice. Deve essersi sbagliato, non è logico: un oggetto si proietta in avanti per inerzia in caso di frenata, come un passeggero sull’autobus che cade in avanti se all’improvviso scatta il rosso e l’autista pigia il pedale del freno troppo bruscamente.
Mio padre mi risponde che invece è logico ciò che mi ha detto lui, cioè che il palloncino, in caso di frenata, non va in avanti come tutti gli altri oggetti, ma indietro. La forza di inerzia è in questo caso trascurabile, perché l’elio è leggerissimo, addirittura più leggero dell’aria. Il palloncino è soggetto alla legge di Archimede, come un corpo umano che entra in una vasca: avendo il corpo umano un peso specifico più leggero di quello dell’acqua, riceve una spinta verso l’alto, contraria alla forza di gravità che invece lo spinge in basso. Lo stesso l’elio con l’aria: l’elio è specificamente più leggero e allora l’aria circostante, nella quale è immerso, lo spinge verso l’alto.
Continuo a non capire perché il palloncino, in caso di frenata, dovrebbe andare verso il lunotto posteriore anziché verso il parabrezza. Mio padre mi risponde dicendomi che il principio del grande Archimede vale anche in orizzontale: la macchina, frenando, sposta per inerzia – quello sì – un quantitativo d’aria maggiore verso il parabrezza. Schiaccia l’aria dell’abitacolo verso il parabrezza. L’aria là davanti dentro la macchina diventa più concentrata, più “pesante”. La reazione del palloncino d’elio è quella di essere spinta verso dietro, con una forza di verso opposto, che punta verso i sedili posteriori. Generalmente l’unica forza che si applica al principio di Archimede è quella della gravità terrestre, verso il basso, e la reazione avviene verso l’alto. Ma se la forza applicata al principio di Archimede avviene in avanti, la reazione si avrà nel senso opposto, cioè verso dietro.

***

Chiudo con mio padre, che ha il tatto di non darmi dell’ignorante, e chiamo Veronica. Sembra contenta di sentirmi. Chiedo in generale come va. Mi pare che la mia domanda sia un grilletto che faccia scattare l’esplosione. Va male, malissimo, e in più ha fatto uno strano sogno su Giancarlo. Dice di averlo visto in compagnia di tanti altri bambini su un arcipelago tropicale. Lei non riusciva a raggiungerlo e Giancarlo viveva là in una specie di stato selvaggio e primordiale, desiderando di tornare a casa ma impossibilitato a farlo. A una madre basta uno sguardo per capire quello che passa per la testa e per il cuore dei propri figli. Erano tutti bambini soli e dovevano arrangiarsi senza genitori e adulti. Mi racconta pure che ultimamente non va tanto bene con Juan Carlos: è nervoso, si incazza per qualsiasi sciocchezza, soprattutto per il disordine che porta in giro Giancarlo, sempre più pasticcione e curioso di sperimentare. Fogli, matite colorate, mattoncini Lego dappertutto, mobili, maniglie e telecomandi toccati con le mani unte di patatine.
Le faccio qualche domanda più specifica, per capire la serietà di questi atteggiamenti di Juan Carlos. Non sono uno psicologo, ma i criminali li conosco e sono noiosamente prevedibili. Li puoi raggruppare in poche categorie archetipiche che si contano sulle dita di una mano.
Più risponde alle mie domande, e meno la faccenda mi piace. Gli chiedo dove si trovi adesso Juan Carlos, da come mi parla liberamente ho capito che non è in casa.
Veronica mi dice che è assente per lavoro e tornerà tra un paio di giorni.
Ascoltami, le dico, penso che tu e Giancarlo siate in pericolo. Prendo il primo volo e ti raggiungo. Anch’io ho un sogno da raccontarti, ma lo farò di persona. Se pensi che possa rincasare prima del previsto, vai con Giancarlo in un albergo e aspettami lì.
Veronica si fida. Non protesta, non sminuisce. Forse la mia telefonata era ciò che aspettava senza saperlo, ciò di cui aveva bisogno.
Arrivo a Fiumicino in meno di un’ora, faccio il biglietto e mi imbarco. Una hostess mi fa accomodare al mio posto. La guardo: io ho un debole per le donne dai capelli biondi, ma questa, per essere una brunetta, è molto carina, anzi è proprio bella. Quando siamo in volo, porgendomi una tazza di caffè, non posso fare a meno di notare il suo polso pieno di braccialetti tutti tintinnanti che mi ricordano i sonagli di un trastullo per neonati.

Veronica si fida. Non protesta, non sminuisce. Forse la mia telefonata era ciò che aspettava senza saperlo, ciò di cui aveva bisogno.
Arrivo a Fiumicino in meno di un’ora, faccio il biglietto e mi imbarco. Una hostess mi fa accomodare al mio posto. La guardo: io ho un debole per le donne dai capelli biondi, ma questa, per essere una brunetta, è molto carina, anzi è proprio bella. Quando siamo in volo, porgendomi una tazza di caffè, non posso fare a meno di notare il suo polso pieno di braccialetti tutti tintinnanti che mi ricordano i sonagli di un trastullo per neonati.

(l’immagine: la cattedrale di Palma di Maiorca)

“Ferrovie del Messico”, il romanzo massimalista italiano, Bolaño, la morte

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di Fabrizio Maria Spinelli

Ho letto Ferrovie del Messico di Gian Marco Griffi nell’ottobre del 2022, un po’ per caso; l’avevo comprato mesi prima, insieme a tanti altri libri, per via del tam-tam mediatico (ci torneremo) che lo aveva segnalato come libro imprescindibile della solita magra stagione letteraria italiana. Mi aveva poi incuriosito la trasformazione di Giulio Mozzi, editor della collana fremen di Laurana per cui è uscito il romanzo, in instancabile ufficio stampa. Sono un consumatore banale: se una cosa è pubblicizzata tanto mi convinco del suo valore, o perlomeno la acquisto. Ho iniziato a leggere il libro un pomeriggio in cui non avevo molto da fare, aspettando il momento esatto in cui iniziasse a piacermi. Un’attesa vana. Ricevevo stimoli divergenti, un totale disinteresse per la trama e l’atmosfera ad alto gradiente sentimentale in cui l’azione si svolge (siamo alle battute finali della seconda guerra mondiale, nella repubblica di Salò, ma i personaggi sembrano usciti per metà dal Favoloso mondo di Amélie e per metà da un qualsiasi film indipendente presentato al Sundance), mi scoprivo infastidito dai giochetti postmoderni derivativi (la quest, il manoscritto che non si trova, un mondo letteralmente abitato solo da poeti, il cosmopolitismo forzato) ma la scrittura aveva dei tratti indubbiamente interessanti, o perlomeno insoliti, un procedere magmatico, ipertrofico, un ritmo ben cadenzato che portava con sé detriti e scorie provenienti da mondi distanti, dominato dall’analogia, dall’accumulazione e da una sorta di ontologia olista. Certo, non sempre questa scrittura era ugualmente convincente, accanto a frasi e a riprese che blandivano il mio gusto, a specialismi o dialettalismi che ho dovuto googlare (e per cui ringrazio sempre uno scrittore), il torrente tipografico portava con sé luoghi comuni, movenze ed espressioni del traduttese («le protesi mammarie in silicone sono una cannonata», espressione – che una cosa è una cannonata – ripetuta più volte da diversi personaggi e che non ho mai sentito in italiano pronunciata da qualcuno in carne e ossa ma letta solo nei libri giovanili di Wallace), ingenuità, elementi kitsch, effetti di comico involontario, o semplicemente associazioni mal riuscite (nel libro ogni sensazione che uno dei personaggi avverte può essere accompagnata anche da mezza pagina da similitudini, similitudini che spesso sembrano più che altro un esercizio di scrittura automatica, riescono a farci dimenticare di cosa si stava parlando in partenza, non sono un supporto euristico o visivo, ma solo un affastellarsi di cose, un rumore di fondo). Un po’ di esempi: «Il termine che utilizzò – stronzate – pronunciato da lei suonò sgraziato come la ciccia attorno la vita di un pugile, come una puzzola addomesticata a forza», in che senso? «ciccia», brutto; «un giorno Achille Brera risorgerà, dannandosi e imprecando e trascinando con sé un’infinita poesia, sublime e inattesa come versi di Saffo letti sulla corazza di un carrarmato germanico», anche no; «Le mattine invernali che seguono una notte di neve sono come silenzio africano dipinto da Michelangelo se il silenzio si potesse dipingere, come un deserto di confine raccontato da un vecchio americano, oppure come certi paesi nascosti nella campagna incolta; sono belle come l’invenzione della poesia e taciturne come un ricordo felice», cringe; «Lui non aveva mai creduto né nel dio minuscolo né nel Dio Maiuscolo. Se fosse esistito uno dei due, una divinità trascurabile di mezza tacca o un Onnipotente, la sua vita terrena non sarebbe stata che una lunga miseria nell’attesa della resurrezione della carne, la sala d’aspetto di un dentista, e quel pensiero gli frullava in testa inammissibile. Non c’era un cazzo, pensava […]», cringissimo, «mezza tacca», un pensiero che «frulla in testa», un «cazzo» buttato lì, fuck: solo nei romanzi italiani.

Ad ogni modo, ho continuato la lettura anche nei giorni seguenti. Mi annoiavo, sottolineavo una frase che ritenevo bella, andavo a mangiare una merendina colma di grassi saturi, mi divertivo per una trovata che si ramificava nella mia immaginazione (la fabbrica di colori, la macchina per far parlare Tilde), ma poi mi annoiavo di nuovo e mi ripetevo che ok, forse era il caso di chiudere il libro e non riprenderlo più il giorno successivo. Tuttavia il pomeriggio dopo tornavo a leggerlo, era diventato un gesto tranquillizzante, mettersi sotto il piumone in orario ancora lavorativo e aprire Ferrovie del Messico, meglio che studiare o leggere poesia o rischiare di iniziare un romanzo che mi piacesse davvero, movimentando così l’entropia dei giorni con un entusiasmo dovuto. I momenti in cui un libro accende i nostri sensi possiamo permetterceli con parsimonia noi rifiuti umani.

Le recensioni che finora ho letto di Ferrovie del Messico hanno tutte un gran pregio: non dicono niente. Ripetono che si tratta di un libro importante (ok, usano un’aggettivazione meno cauta), ne riassumono in parte la trama (siamo nel 1944 ad Asti, Cesco Magetti ha un terribile mal di denti e deve disegnare in una settimana una cartina contenente la rete ferroviaria del Messico, perché i nazisti la vogliono, perché forse esiste una città nascosta che serba una pericolosa arma, o un mistero), e poi elencano quelle quattro/cinque caratteristiche per cui il romanzo appartiene a quel genere che solitamente chiamano opera-mondo, un corredo morfologico che appartiene a centinaia di romanzi (a volte ne elencano qualcuno, solitamente quelli citati da Griffi stesso o dal suo postfatore, non problematizzano la definizione), ma che per loro è la garanzia che il libro di cui si sta parlando contenga un qualche valore (ho il ricordo vivido di me in primo liceo che ascolto un ragazzo di terza dire a una mia compagna di classe: «tu hai un mondo dentro, dobbiamo uscire insieme»). L’appartenenza a una forma simbolica come autovalidazione. Il ragionamento è più o meno questo: Ferrovie del Messico è lungo, c’è (apparentemente) molta confusione, quindi è un’opera mondo, le opere mondo sono belle e solitamente sono quelle che il canone occidentale preferisce selezionare, Ferrovie del Messico è un capolavoro, Griffi è il Bolaño italiano.

Devo ammettere che gli articoli che ho letto non hanno totalmente torto: Ferrovie del Messico ambisce ad essere un romanzo massimalista (definizione più precisa, che riprendo dal saggio di Stefano Ercolino e che preferisco alle varie systems novel, mega-novel e all’opera mondo morettiana), ma lo è, in qualche modo, in salsa italiana. Prima di spiegarlo, un altro po’ di sociologia. Qual è la prima caratteristica che Ferrovie del Messico condivide con i romanzi a cui è stato (il più delle volte ingiustamente) paragonato e che formano questa classe testuale? La lunghezza. L’arcobaleno della gravità, I detective selvaggi, Infinite Jest, Europe Central, sono libri lunghissimi, stratificati, iperistruiti, difficili da leggere. Anche Ferrovie del Messico è un libro lungo. Lungo, ma non enormemente lungo. 800 pagine ma i caratteri sono generosi, il formato del volume è 19×12. E poi tutto sommato è un romanzo molto scorrevole, i vari rimandi iper e intertestuali sono sempre intuitivi (livello primo anno di università ma saltando le lezioni, il teschio di Amleto, la pazzia di Astolfo ecc.), al punto che se Wallace diceva che per leggere con cognizione di causa il suo romanzo sarebbero serviti due anni, per Griffi bastano i pomeriggi di una settimana lavorativa (il che non è una cosa negativa di per sé). Quindi, lunghezza, o meglio, in questo caso, la mole. Il libro è grande, pesa, è scomodo da portare nello zaino. Questa quantità si trasforma in un correlativo oggettivo della sua qualità, secondo uno slittamento consueto del mercato editoriale. Il lettore è convinto, acquistando il romanzo, di accaparrarsi una grande quantitativo di Cultura, e che questa dose massiccia lo renderà una persona migliore. Il libro come merce. Come feticcio identitario. Il piacere della voluminosità. Il grande successo in termini di vendite dei libri grossi, in una cultura fondata sulla sacralità delle opere gigantesche (l’Iliade, l’Odissea, la Bibbia, la Divina Commedia, il Paradiso perduto, Faust, il manuale di anatomia, l’Ulisse, Proust, Infinite Jest, il codice di giustizia civile). C’è un’altra particolarità che spiega tutto questo entusiasmo per Ferrovie del Messico, e cioè che l’autore non è un accademico, o un intellettuale affermato, ossia, sostanzialmente, secondo molti, un delinquente, un bandito, un raccomandato, uno stronzo, un massone. Gian Marco Griffi gestisce un campo da golf ad Asti, non è un affiliato del velenoso mondo delle bellelettere. E questo ci è ricordato in continuazione nelle recensioni, e perfino nella postfazione del libro redatta da Marco Drago, come fosse un merito. Marketing, ancora.

I giovani studenti di Filologia moderna a Bologna sono piacevolmente sorpresi dal fatto che anche un outsider sappia scrivere, e scrivere bene, che un romanzo così letterario sia opera di una persona che non ha passato i propri vent’anni sul Trattato teologico-politico di Spinoza o su Allegorie della lettura di de Man, un individuo che al posto di guadagnare o curare il corpo non trascorreva le proprie giornate parlando di Roland Barthes al bar dell’università, che non è arrivato ai trenta facendosi gli agganci giusti alle presentazioni o sulle piattaforme social, che non si è fatto venire il reflusso gastroesofageo per tutti gli aperitivi letterari a cui è andato. I giovani studenti impareranno presto una lezione fondamentale del tempo in cui viviamo, la crux perenne degli scrittori quarantenni che vedono i loro libri ingiallire nell’indifferenza: ci sono troppe persone che sanno scrivere, anche discretamente, non credo che in Italia ci siano mai state simultaneamente tante persone che sapessero scrivere bene come accade oggi, addetti al marketing, narratori promettenti che curano le relazioni di compagnie edilizie del Veneto, che fanno i centralinisti in Calabria, che traducono male articoli per i siti a 6 euro al pezzo ma hanno un contatto in Mondadori. Il picco dell’alfabetizzazione. Una generazione di intellettuali precari, troppo vecchi per Tik-Tok. Stati Facebook composti con una tale sapienza retorica che sembrano dire cose vere.

Uno dei tratti principali che definisce il romanzo massimalista e su cui tornano favorevolmente le recensioni a Ferrovie del Messico è la coralità/polifonia. Viene in mente un piccolo classico della psicologia cognitiva: il problema del cocktail party. Andiamo a una festa con molti invitati, la prima sensazione è un rumore indistinto. Poi riusciamo a focalizzare l’attenzione su una conversazione, isolandola dal tappeto sonoro. Anche se delle persone si frappongono tra noi e la persona che stiamo ascoltando parlare, riusciamo a capire cosa questa dice. Una cosa non possiamo fare: prestare attenzione a due conversazioni simultaneamente. Ed ecco che arriva Joyce: l’errore è proprio il volersi soffermare su qualcosa, restringere il campo, concentrarsi. L’uomo moderno è un saggio sulla distrazione, non ascolta realmente niente, ma ascolta tutto. Registra passivamente. Leopold Bloom oggi alle tre di notte guarderebbe i reel sullo smartphone fino a quando non gli tremano le mani, Molly Bloom andrebbe in bagno per twittare che è insoddisfatta, «yes», lovereactato.

James O. Incandenza, regista cinematografico e protagonista occulto di Infinite Jest, suicidatosi mettendo la testa nel microonde, si pone un problema simile nelle ultime pagine del romanzo, quando appare (come spettro) a Don Gately. Quando nei film tradizionali due personaggi parlano al bancone di un bar strapieno non sentiamo mai le conversazioni degli altri avventori, ma solo quella degli attori principali. Ciò che i film sacrificano è «il blaterio vero ed egualitario della vita reale delle folle senza figuranti […] di una folla ogni membro della quale era il protagonista centrale e distinto del suo intrattenimento [= del suo film]». In questo modo non si rende un buon servizio alla mimesis. Così J. O. Incandenza sviluppa nei propri film quello che chiama “realismo uditivo” [aural realism]: nelle scene girate in luoghi pubblici non è possibile per lo spettatore isolare le conversazioni narrative centrali, o meglio, distinguerle da quelle periferiche e casuali. Viene automatico pensare che Wallace, tramite J.O.I., stia in realtà parlando di Infinte Jest. Tante voci, tanti personaggi, tanti stili, Wallace è un ventriloquo: He do the police in different voices (Eliot aveva scelto questo modo di dire come titolo originario di The Waste Land). Griffi è un bravo scrittore, ma la sua polifonia regge solo apparentemente. Innanzitutto la focalizzazione sembra interessare quasi esclusivamente Cesco Magetti, il protagonista, e quindi la polifonia riguarda soprattutto gli interlocutori con cui questo entra in contatto. Ed effettivamente ogni gruppo tende ad avere il proprio gergo (come quello, molto ben congegnato, dell’Aquila Agonizzante), e ci sono personaggi caratterizzati da una lingua forte (il sardo della curandera, ma in una scena minuscola, il romano macchiettistico e goffo e wanna be gadda del capo di Cesco, la lingua blasfema di Lito Zanon). Si tratta però solo di parziali allontanamenti (e tutti limitati alla variabilità diastratica) dalla lingua superfetata che fa da cornice e contenuto del romanzo. È difficile trovare una differenza linguistica o stilistica tra le lettere di Isotta o le ruminazioni di Tilde, tra i ricordi di Bardolf Graf e i pensieri di Cesco. E questa lingua, per quanto eclettica e variegata, si muove secondo dei moduli abbastanza fissi: torsioni espressionistiche, una tendenza al “poetichese” nelle selezioni aggettivo-verbo o predicato-complemento oggetto, una preferenza per similitudini “a compasso largo”, una coazione quasi patologica verso l’elencazione paratattica agglutinante. Questa super-lingua, come già detto, a volte funziona a volte meno, ma soprattutto pervade tutte le scene del romanzo, che si tratti di beghe di ufficio alla stazione ferroviaria di Asti o di poeti sperduti nel profondo Messico. Questa lingua è insomma una sorta di colla, ed è il vero elemento strutturante di Ferrovie del Messico. Al suo interno si innestano elementi dialettali e gergali, che sicuramente aggiungono colore, ma sono fenomeni estemporanei, secondari. Non c’è quindi alcun tipo di realismo uditivo, di polifonia, di democrazia delle voci, ma sempre una gerarchia, un rapporto centro (lingua superfetata) – periferia (variazioni).

Possiamo così introdurre un altro elemento di critica al romanzo (o meglio, di critica a come il romanzo è stato presentato), quella che Ercolino chiama l’esuberanza diegetica. I romanzi massimalisti sono pieni di storie. Storie nelle storie, storie a incastro, storie a specchio, metastorie, come un avvelenamento fungino. Storie-batterio. Un’epidemia di personaggi. E questo per Ferrovie del Messico è vero, ancora una volta, solo in parte. L’impressione che ho avuto è che queste storie siano più che altro evocate, nominate, mai realmente narrate, tolto nel caso (abbastanza breve ma rilevante nell’economia narrativa) di Bardolf Graf e dei peregrinaggi in Messico dello scrittore Gustavo Adolfo Baz in compagnia di Lito e Mec. Per il resto è difficile perdere di vista la trama principale. Il motore che fa aumentare i giri della narrazione è centripeto, non centrifugo. A ben vedere, il mondo a prima vista così vasto del romanzo si riduce a una manciata di luoghi significativi, che attraggono i pochi personaggi rilevanti (non più di cinque) come una calamita. Un mondo grande, ma tutto sommato fatto di pochi spazi e poche persone. Che si apre a delle infinite possibilità, ma non le esplora. Non a caso uno degli stilemi più ricorrenti di Ferrovie del Messico è del seguente tipo: «Lei mi parlò del suicidio e della precessione degli equinozi»; «Lui mi parlò di scheletri che camminano tenendosi per mano. Di astrazioni vorticose e radiazioni cosmiche. Parlò di onde magnetiche e generali baffuti e marionette monche. Parlò di apocalissi e diavoli. Di uomini che cadono dal nulla nel nulla. Parlò di donne blu e di uccelli contorti e di mostri tentacolari. Parlò di aurore chimiche e di strali lucenti magnetici». Da notare che nel primo caso la “lei” è Tilde, nel secondo il “lui” è Ennio, un amico partigiano di Cesco che ha disertato e si sta recando in Svizzera: sembrano la stessa persona. Sono frasi belle, potrebbe averle scritte Breton, ma all’interno di un romanzo denotano un dominio pressoché endemico del «tell» sullo «show». È come se Sherazade si limitasse a fare al sultano solo una sinossi delle storie nella realtà dovrebbe raccontare. È come se il Decameron fosse composto soltanto dalle rubriche che aprono le dieci giornate e non dei racconti della brigata. Ancora: «Raccontò la storia di come Mec lo aveva ritrovato all’ufficio oggetti smarriti della stazione di Asti accanto agli amori inutilmente assecondati, alle minestre rovesciate e al senno dei paladini [sic], e lo aveva riassemblato, predisposto e messo in funzione. A un certo punto scrisse “avventure di Mario Emilio Carlo Bertone sulle ferrovie del mondo”, cominciò a descrivere le vicende di Mec in Germania, in Angola, in Argentina, poi si interruppe bruscamente a metà di una frase»; e poi pochissimo dopo: «mi raccontò di fotografie e verità, dei gesti antichi impressi sulla pellicola fotografica e della lingua garifuna parlata in Centroamerica […]» e così avanti per un’altra pagina. Direbbe un attore romano in Boris: «‘o dimo».

Lo straniamento che solitamente attraversa il lettore alle prese con un’opera massimalista è in Ferrovie del Messico abbastanza contenuto. Il romanzo è tutto sommato un romanzo tradizionale. Il mondo ideologico-verbale è compatto e omogeneo (riduzione della polifonia entro l’intreccio, effetto strutturante della super-lingua agglutinante, simultanea e onnipresente, quasi un’invariante). I salti temporali o prospettici tra i diversi paragrafi (uno dei pezzi forti di Infinite Jest, Underworld e dello stesso Bolaño) non sono quasi mai netti, ma sempre anticipati da una clausola didascalica, più adatta a un saggio che a un romanzo sperimentale (un esempio che vale per tutti – le transizioni sono fatte più o meno così: segmento lungo su Cesco Magetti, Cesco Magetti fa cose, parla con un cartografo samoano ad Asti, fa altre cose, e proprio alla fine del segmento il narratore ci dice che «In strada benedii mentalmente Pietro ed Ennio, pregando che stessero bene»; ovviamente il segmento successivo racconta la storia di Pietro ed Ennio ecc.). La sintassi paratattica dei diversi frammenti, che con la loro autonomia e indipendenza sono lo strato testuale dell’ideologia debole del romanzo massimalista (bibliografia sterminata in merito: dai Prolegomena ad Homerum di F. A. Wolf, 1795, a Jameson) tende qui piuttosto all’ipotassi, alla subordinazione, a un’organizzazione del senso abbastanza tradizionale. Il montaggio ejzenštejniano come giustapposizione dell’eterogeneo è qui il più delle volte lineare e omogeneo. Il lettore non rischia mai davvero di perdersi, non c’è un reale caos da controllare e organizzare, Griffi non è uno scrittore da frattali (così importanti per Pynchon, Wallace, Fernadez Mallo ecc.). Ferrovie del Messico sta ai grandi romanzi massimalisti come un laser game alla guerra. Dopo mezz’ora passata in una stanza polverosa illuminato dagli infrarossi, vestito come un cretino, nascosto dietro uno scatolone di polistirolo, inizi ad abituarti all’illusoria grandezza degli spazi, inizi a conoscere a perfezione il perimetro in cui ti muovi, hai imparato a prevedere le mosse degli avversari (soprattutto di quel tuo amico di infanzia che fa il commercialista a Barcellona, che si è sposato con la ragazza di cui eri innamorato da bambino, e che ti ha costretto a pagare 20 euro per fare questa stronzata, in nome dei vecchi tempi). Ci sono ovunque frecce e indicatori che aiutano ad orientarti. Il fucile che hai in mano è troppo dozzinale per essere credibile, è un giocattolo sovrapprezzo, non diverso da quello che tuo fratello ha comprato a suo figlio per Natale. Il patto mimetico si rompe dopo poco. Ogni cosa ti ricorda che fortunatamente sei a Segrate, non in Siria o a combattere gli alieni per salvare la terra. Prima di tornare a casa devi comprare gli hamburger vegetali.

Insomma, il decentramento, la coralità, l’abbondanza diegetica, la polifonia, elementi che caratterizzano il romanzo massimalista a cui Griffi evidentemente si ispira, sono qui molto contenuti. Nonostante la varietà (mai eccessiva, sempre misurata) dei personaggi e delle storie, c’è sempre un centro narrativo ben riconoscibile, una storia principale che procede senza grossi intoppi. Viene da chiedersi se i recensori di Ferrovie del Messico, che calcano la mano proprio su questi elementi (analessi, prolessi, stacchi, montaggio, multifocalità, polifonia, plurilinguismo) che sono invece come “normalizzati” da Griffi, abbiano mai letto un romanzo negli ultimi 70 anni, o perlomeno visto una serie che non sia La casa di carta o sfogliato un manga fatto come si deve o giocato a un videogioco di Hideo Kojima.

C’è infine un ultimo elemento di domesticazione della narrazione massimalista: l’indeterminatezza. I romanzi massimalisti non finiscono. Non tanto perché sono troppo lunghi e i loro autori non hanno avuto il tempo di finirli (Bolaño e Proust sono stati letteralmente uccisi dai loro libri; la forma definitiva dell’Ulisse è stata stabilita dal tipografo parigino che si è rifiutato di accettare gli innesti che Joyce gli proponeva in corso di stampa), ma perché l’apertura è una loro caratteristica sostanziale, per ragioni narratologiche ed estetiche. Wallace scrive in una lettera al suo editor che, finito Infinite Jest, il lettore deve essere a conoscenza di una porzione di trama non superiore al 20%. Narrazioni che aprono talmente tante porte da non poterle poi richiudere. In Ferrovie del Messico invece la quest si conclude. È vero che non sappiamo quasi niente di questa Santa Brígida de la Ciénaga, ma alla fine ce ne dimentichiamo, perché Cesco Magetti redige la sua mappa del Messico, cresce, matura i suoi sentimenti partigiani, diventa uomo (= antifascista), l’arco narrativo è sostanzialmente compiuto. E non solo, compiuto positivamente. Se prendiamo i grandi romanzi di formazione del XIX secolo (a cui forse il libro andrebbe ricondotto: siamo più nella zona del Wilhelm Meister che nella polifonia spinta del secondo Faust), sono canti di soccombenti: Wilhelm Meister non fonda il teatro nazionale tedesco, Julien Sorel non diventa il nuovo Napoleone, Lucien de Rubempré non diventa uno scrittore, Frédéric Moreau non ecc. Alla fine, cioè che a Griffi manca dei grandi narratori (ed è forse il vero motivo per cui il libro mi è piaciuto così poco) è la crudeltà. Il suo libro è consolatorio. C’è una differenza manichea tra i personaggi positivi (i quali contengono tutti, come la mia compagna di classe, «un mondo dentro»; Cesco Magetti è un idiota, ma è ipersensibile come un idealista tedesco) e quelli negativi (nazisti). C’è una sorta di lieto fine.

Opera mondo, romanzo massimalista abbiamo detto, sì, ma impiegatizio. Filtrato da un bot della scuola Holden programmato per una progressiva semplificazione e schematicità. Il mondo di Ferrovie del Messico tende a una continua produzione di senso, a una continua rivelazione, ma posticcia, come l’iscrizione trimestrale a un corso di yoga. Rubo un’espressione a Moretti: dilettantismo monumentale. Concludo con due punti, secondo me molto importanti, che un critico più sistematico e preparato di me dovrebbe analizzare. Il primo: l’influenza (nociva) di Bolaño sulla letteratura italiana. Parto dal presupposto che a me Bolaño piace molto, fatta esclusione per I detective selvaggi, libro tremendamente sopravvalutato (se vi piacciono libri come I detective selvaggi o Rayuela guardatevi allo specchio: o siete al primo anno di lingue, sognando un erasmus a Parigi, città che avete visto da piccoli coi vostri genitori prima che divorziassero, o siete dei potenziali elettori del PD); ciò che di bello c’è in Bolaño però non sono tanto i giochetti metanarrativi o le trovate alla Borges (per quanto mi riguarda, il tema del manoscritto ritrovato o del poeta di cui si sono perse le tracce si conclude con Fuoco pallido di Nabokov), ma proprio la grana (irripetibile) della sua scrittura, quell’odore di siero, di libri vecchi e di acqua da bagno stantia che hanno le sue storie, come annusare una banconota da mille lire trovata nel comodino di tua nonna il giorno prima che morisse. Quindi basta parlare di droghe, di gruppi oscuri di scrittori, di Sudamerica ecc., se non siete bravi come Bolaño (e non lo siete) o perlomeno mezzi sudamericani o eroinomani. Secondo punto: la polarizzazione della narrativa italiana contemporanea. Tranne pochi luminosi esempi (non li farò, ma li conosciamo tutti, se però proprio li volete sapere scrivetemi in privato, la parola d’ordine per farvi rispondere è PROPRIOCETTIVO), il campo letterario (che brutta espressione) si divide in libri mainstream scritti in quel famoso italiano ipermedio di cui parlava già diversi anni fa Giuseppe Antonelli e libri che definirei giovannei, i quali ambiscono (il più delle volte fallendo) a essere fatti solo di scrittura, inseguendo il fantasma di Gadda, D’Arrigo, Manganelli, insomma, dei mostri sacri del Novecento italiano. Questi libri, venendo bollati come eccentrici rispetto al canone italiano contemporaneo (fatto sostanzialmente di un solo personaggio e di una sola voce), finiscono poi per diventare anch’essi mainstream. Ed è quello che è successo a Gian Marco Griffi, che non solo non è Gadda (ci mancherebbe), ma non è nemmeno Davide Orecchio o Giordano Meacci. E non vedo perché dovrei ringraziarlo (o tesserne le lodi) per non essere Ammaniti.

David Laurenzi: “mille aghi di pino e una cicala morta”

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È recentemente uscito per Fve editori il romanzo di formazione Ruggine al sole di David Laurenzi. Ospito qui una selezione di estratti.

 

1.

L’anno è quello di un vecchio telefilm di fantascienza. Ne ho visto qualche episodio insieme a mio padre. Racconta della terra che esplode e della luna che, schizzata via dalla sua orbita, inizia a vagare per l’universo con sopra gli astronauti che ci vivono. Si chiama Spazio 1999.

Il posto è sul Mar Tirreno.

Io e mia madre combattiamo con le formiche da quando ci siamo arrivati, tre settimane fa. Il tempo dà sul brutto. L’umidità e il freddo aumentano, anche se ufficialmente siamo ancora in alta stagione e il calendario dice estate.

Con la pioggia che va e viene non mi stupisce che le formiche corrano a decine a rifugiarsi nella nostra roulotte.

Mia madre, comunque, combatte più per senso del dovere che per odio sincero. Delle formiche in realtà non le frega più di tanto; se non ci fossi io a lamentarmi probabilmente neanche ci farebbe caso.

“Vammi a comprare le sigarette.” mi dice stando stesa sul più alto dei letti a castello. Sembra ignorare che lo spaccio del campeggio, adesso che è notte, è chiuso e che il distributore automatico più vicino è nella piazza del paese; a piedi ci vogliono venti minuti. Sembra anche ignorare che io ho solo dodici anni. Compiuti da poco.

Ci guardiamo a lungo, in silenzio, finché non prendo i soldi dal comodino e mi allontano.

 

2.

Il giorno del compleanno ho avuto un bellissimo cappello con la visiera, di un rosso acceso, con davanti la faccia di due famosi wrestler. Me l’ha regalato mio padre e non me ne separo mai. Anche adesso lo rigiro tra le mani mentre percorro la statale buia tra la pineta e i campi. La preferisco alla pista ciclabile che si snoda parallela, a fianco della spiaggia. Lì c’è troppa gente, troppe luci, troppi campanelli squillanti, troppe risate e troppi baci.

Io odio i baci, come deve averli odiati Cristo dopo quello di Giuda.

Il distributore è sotto i portici della piazza. Sto recuperando il pacchetto e il resto quando alle mie spalle arrivano tre ragazzi grandi. Avranno quindici, sedici anni. Nella penombra non riesco a vederne bene le facce.

“Non lo sai che il fumo fa male, che ai bambini è vietato comprare le sigarette?” Parlano sovrapponendo le voci, sghignazzano. “Le prendi per il paparino o per la mammina?” insistono dandosi di gomito. Dall’accento capisco che sono del posto.

“No, sono per me.” In realtà non ho mai fumato e fumare mi fa schifo, anche se mi piace l’odore che lascia addosso alle persone, soprattutto a mia madre.

“Ah, così sei tu la ciminiera di casa! Dài, facci vedere.”

“Non ho l’accendino.”

“Sei proprio un fumatore di merda, tieni!” mi urla all’orecchio il più alto, mettendomene in mano uno di cui mi colpisce il colore: arancione.

Disperato, strappo il cellophane e apro il pacchetto, m’accendo una sigaretta e inizio a fumare, fumare, aspirando fino al fondo dei polmoni, come ho visto fare tante volte ai miei genitori.

“Bravo, così! Sparati il fumo fin dentro lo stomaco! Sì, così!” mi incitano gli altri.

Dopo poco arriva il sudore freddo sulla fronte, la nausea, qualche conato di vomito. Getto la sigaretta a terra. Mi piego in due dalla tosse.

Sento i passi dei ragazzi che se ne vanno, le loro voci che rimbombano sotto i portici come ombre ubriache. Sono solo e in mano mi è rimasto l’accendino.

E se quello che me l’ha dato si accorge di esserselo scordato? M’immagino gli altri prenderlo in giro senza pietà, dargli del coglione, del ritardato peggio di me. Potrebbe tornare a cercarmi, furibondo, per riprendersi quello che è suo. Ho paura.

Lascio cadere l’accendino per terra come se fosse fatto di metallo incandescente e scappo.

 

3.

Con le mie diciannove stramaledette sigarette rientro al campeggio sano e salvo. Si fa per dire.

La statale è vuota, silenziosa, in balia dell’odore dei pini e del fruscio del vento. Al sottofondo discreto degli uccelli e degli insetti aggiungo il rumore ritmico delle mie scarpe da ginnastica, stupito di come tutti questi suoni invece di rompere il silenzio lo rafforzino.

Ho ancora in bocca il sapore del fumo e del cibo che m’è tornato su, dolciastro. Due merendine e un ghiacciolo, tutto quello che oggi ho mangiato, insieme a un po’ di pasta in bianco.

Solo tre macchine tagliano, come lame luccicanti, il buio molle intorno a me. Rombano via veloci lasciandosi alle spalle una scia fatta di terrore ed eccitazione. L’ultima mi affianca suonando ripetutamente il clacson, prima di dileguarsi a tutto gas.

Rientro evitando l’ingresso principale con la guardiola, la sbarra bianca e rossa, gli scooter pronti a scortare i clienti, i custodi occupati a chiacchierare e fumare.

Passo dal buco sul reticolato, dietro le grandi siepi che nascondono i cassonetti dei rifiuti. Da lì sgattaiolo fino alla nostra roulotte che sta vicino al barbecue e ai bagni chimici di riserva. Un posto sfigato a causa della puzza e dei rumori.

Faccio per entrare, ma la porta della roulotte non si apre. Strano, mia madre la lascia sempre aperta. Provo e riprovo, poi alzo la voce e la chiamo, anche se mi scoccia perché so che a lei scoccia e che a volte questo la fa diventare pericolosa.

“Mamma!” urlo, facendo precedere l’acuto da alcuni abili colpi di tosse, “sono io, aprimi!”

Riprovo, stavolta chiamandola per nome, una cosa meno da moccioso. “Irene! Irene, dài apri, sono tornato!” grido alla porta bianca, concludendo il mio assolo da cantante strappalacrime. Che nessuno applaude.

Mi sembra di percepire un bisbiglio e un paio di piccoli tonfi all’interno della roulotte. Poi più niente. Solo allora vedo lo scooter parcheggiato nella nostra piazzola, dietro la sdraio, la cui ombra lo rende quasi invisibile.

Sputo sulla porta e me ne vado; ma dopo una decina di passi mi ricordo delle sigarette nella tasca. Ritorno davanti alla roulotte e, obbligandomi a non sentire quello che forse immagino solo di sentire, tiro fuori il pacchetto, lo strizzo e lo accartoccio, con tutte le sigarette dentro.

Lo getto sullo zerbino azzurro di plastica, nelle cui fessure stanno incastrati mille aghi di pino e una cicala morta.

Il missile

1

di Alberto Pascazio

  Odio i vecchi perché sono sopravvissuti a se stessi. Non è una cosa di cui vado fiero, ma non riesco a non vedere in un vecchio il simulacro dell’uomo che era. Una lunga fine indignitosa, insieme umida e secca, pronta per il commosso saluto. Ecco quindi il signor Franco che arranca mentre scendo per le scale. Lo saluto con una cordialità parossistica, per ricordargli che sta per morire, nel caso l’avesse dimenticato. L’incontro mi acciglia; i miei occhi sono già scappati fuori. Mi sento tirato in avanti, come da un elastico, o da un guinzaglio. Questo pensiero occupa gli ultimi sette passi: la vista può sempre scappare più veloce del corpo.

La città mi accoglie con un cielo trasparente, né grigio né azzurro; un’infinita sala operatoria. Scruto i passanti. Finché non ci parlo, sono solo comparse: girato l’angolo, evaporano. Provo a immaginarli tutti sotto i ferri, aggrediti da quella luce immanente, sul marciapiede, sulle strisce, seduti al bar. È la prima operazione di massa. Un’epidemia di delusione e nevrosi ha contaminato il quartiere. Decine di medici rovistano con i bisturi nelle viscere di questi poveretti, si asciugano la fronte col camice, sciamano come api sui corpi, ma ormai è andata. Un arabo in attesa dal barbiere, cui stanno asportando un nodulo di invidia dall’ascella, si accende una sigaretta. Il tabacco mi brucia nell’iride e mi riporta a me stesso. I medici spariscono e le comparse tornano a bere i caffellatte, a parcheggiare le macchine, a berciare di nulla che io sappia.

 

Doveva essere solo una passeggiata; niente da fare, nessuno da raggiungere. Allora scelgo una direzione e comincio a camminare. Sorpasso gli isolati in numero indefinito. Capita che a un certo punto voglia sdraiarmi per strada. Mi succede abbastanza spesso, una o due volte al mese. Se il lavoro mi affligge più di un po’,  se certi ricordi torreggiano, se vedo un gruppo di liceali lunghissime fumare fuori da scuola, gobbe di zaini e a gambe all’aria, ecco che voglio accasciarmi sul viale. Prendere posto in mezzo al marciapiede, accucciolarmi sull’asfalto, trovare il mio rifugio lì dove lo voglio. Immagino di appisolarmi nel caos, come quando da bambino mi addormentavo in spiaggia e il vociare si mescolava al mare: mi aspettava una notte serena. Non lo faccio, neanche stavolta, e mi maledico un attimo dopo: tra la gente che scende da un tram, scorgo un beota che conosco, il Chinazza. Neanche provo a sperare che non mi veda, è praticamente sceso salutandomi. Vorrei avere con me le chiavi di tutti i palazzi della città, per sgattaiolare via dai ladri e dai conoscenti.

«Ué, grand’uomo!». È un simpatico, il Chinazza.

«Chinazza, quanto tempo!»

«Dall’ultima rimpatriata. Come stai?»

«Bene!» le lettere mi rimbalzano in bocca per quanto non le ho pensate. Mi schizzano proprio via, come in un flipper. La bi addirittura mi screpola le labbra. In ufficio dirò che è herpes.

«Dai! Anche io bene». Il cervello gli balbetta… «dovremmo vederci un giorno».

«Lo abbiamo appena fatto.»

«Sei sempre il solito coglione!»

«Chinazza, mi offendi! Sono ogni giorno un coglione diverso».

Farlo ridere funziona sempre. Chinazza si vergogna quando gli scappa da ridere. Cioè scappa letteralmente a ridere di nascosto. Se è all’aperto, va proprio via, si dilegua.

«Allora ti chiamo!»

«Spengo il telefono!» Gli do il turbo per farlo ridere via.

 

Allontanatosi il maledetto Chinazza, la voglia di sdraiarmi è passata. Sono quindi costretto a ricordarmi di lui. Chinazza fa il giudice di pace. L’ho conosciuto appena arrivato in città, a un corso serale di stand-up comedy. C’erano salatini vecchi, poca birra, da dividere disperatamente nei bicchierini da caffè, e una ragazza dolce in sedia a rotelle, che ogni volta mi mordevo la lingua quando diceva “stand-up”. Al giro di presentazioni, Chinazza aveva cominciato a ridere ancor prima di parlare. E quindi ogni tanto scappava sul posto, ci dava le spalle e si piegava un po’. E noi lì ad aspettarlo, masnada di gonzi, con il sorriso sommesso e tremendo di chi è costretto ad aspettare la battuta dopo le risate di chi sta per farla. Quella di Chinazza, che rivendicava di dirla ogni giorno in tribunale, era “oh, non sono mica qui per giudicarvi”. E giù a ridere da solo, di spalle, come un malato di tisi espettorando.

 

Gli inutili ricordi di Chinazza mi hanno già teletrasportato in centro. Un buon chilometro di potenziali pensieri elevati e ragionamenti arguti, sprecato a camminare così, per niente. E quanti bei culi non notati. Per la rabbia mi viene fame. Entro in un baretto preimpostato, aperto col franchising della speranza di svoltare, di quelli con due parole nel nome: Sale&Pepe, Dolce&Salato, Break&Go. Dalla faccia del barista, mi accorgo che la speranza l’ha tradito alla prima occasione.

«Buongiorno, vorrei un toast».

«Un toast come?» Buongiorno anche a lei, signor coglione.

«Un toast! Prosciutto e formaggio».

«Non li facciamo. Abbiamo solo il Pastrami Toast e l’Avocado Special». Comincio a simpatizzare per la speranza fedifraga.

«Mi dia pure un Pastrami Toast».

«Da bere?»

«Niente, grazie».

«Sicuro? Il Pastrami Toast è un po’ asciutto». Il tono monocorde mi fa sentire che si sta sinceramente prendendo cura di me.

«In tal caso, prendo una coca zero».

Mi accomodo a un tavolaccio bianco nuovissimo. Spazzo via due briciole col dorso della mano, come valesse meno del palmo, e guardo fuori mentre aspetto il mio pranzo. Un tassista sta scaricando i bagagli giganteschi di due coreani minuscoli, che assistono sull’attenti. Un vistoso concierge di un altro secolo apre loro la porta del Majestic. La coreana zampetta dentro, lui la segue traslando, senza muovere le gambe. Immagino abbia delle ruote a scomparsa. Fantastico sull’uscire in fretta, seguirli nella hall e sedurre lei sfacciatamente. Si schermisce, mi guarda: c’è lui di fianco, uomo italiano, e non capisco quello che dici. Ma non può resistere al mio fascino arruffato. Abbandona il coreano e sale con me nella loro alcova. Facciamo l’amore e lei piange, si dispera, telefona alla mamma. Cosa aveva fatto fino a ora? L’ho scaraventata fuori dalla caverna di Platone e le ho mostrato cosa volesse dire scopare. Il coreano, lì fuori, non protesta nemmeno. Sono leggi di natura. Esco, il mio compito iniziatico è assolto. Torno a mangiare il mio Pastrami Toast, che, oltretutto, non è ancora arrivato. Una vecchia, solo passandomi davanti, mi fa dimenticare la faccia della coreana e sono di nuovo seduto qui. Sento proprio la sedia sotto il culo, gli atomi che si toccano: una sensazione che solo guardare una vecchia può farmi vivere così vividamente. Dietro il bancone, il barista preme sulla piastra del mio toast. Mi chiedo se anche il suo cervello si perda dietro le donne, fantastichi sullo stravolgere loro la vita con una sola scopata, come nessuno, nessuno mai. Mi rispondo di sì, che tutti gli uomini lo pensano. Mi assolvo, come un tossico tra i tossici. Che poi non è neanche il sesso. La mia ossessione, il mio puntiglio, il mio cruccio, è farle innamorare tutte. Pensare che se avessi tempo ed energia infiniti, passerei in rassegna l’intera popolazione femminile e tutte, nessuna esclusa, si perderebbero irrimediabilmente. Le figlie e le madri. Le madri delle loro madri. Le nipoti, le sorelle, le zie. Le vicine di casa, le migliori amiche, le ritardate. Le suore, le farmaciste, le mogli dei mafiosi. È un fantasticare che diventa sublime quando sono accompagnate o qualcosa mi fa capire che lo sono: una telefonata che si chiude con un ti amo annoiato, uno sfondo del telefono in cui accampa il faccione di lui, un anello un tantino più prezioso. E comincio a pensare che basti un mio bacio dietro l’angolo, in un androne, o sulle sponde del metrò, a creare l’abisso sotto i loro piedi, a scatenare le sinapsi e rinnegare tutto, a bagnarsi come donnole al fiume. Ovviamente non è vero. Non sempre. Quasi mai.

 

Sono ancora le tre del pomeriggio e il panino è finalmente arrivato. Il barista aveva ragione: è denso come una nana bianca e caldo come la superficie del sole. Un compendio di astronomia. Apro la lattina di coca e tiro un sorso. Desiderandone la freschezza, dimentico l’impeto dell’anidride carbonica. In un attimo, mi ritrovo a sputacchiare per prendere respiro. Le goccioline ambrate piovono sul telefono distorcendo la notifica appena apparsa. È il promemoria per la medicina.

 

Ci siamo lasciati quattro mesi fa e ancora non riesco a eliminarlo. Pigrizia, mi dico.

Pulisco lo schermo con la manica. Il promemoria arriva dopo pranzo, ogni ventiquattro ore: ai tempi del Noi serviva a ricordarle di prendere la medicina, arrivare con un bicchiere d’acqua e aspettare che la buttasse giù. Nulla di grave, ma da prendere ogni giorno. Ai tempi del Me, serve a non staccarmi da Lei, a ricordarmi di soffrire, per sperare ancora un po’. Avevo messo in conto che avremmo potuto lasciarci. Il piano era ben definito: mollare tutto, vendere il vendibile e trasferirmi alle Azzorre. Comprare una casupola, trovare un lavoro manuale, sporco, catartico e mangiare sano. Non imbruttirsi, mettersi in forma, imparare a nuotare. Integrarmi con i locali, diventare uno di loro. Avere un soprannome, addirittura. Essere visto con indifferenza, all’inizio. Scherzato, dopo un po’, e infine accolto nella fredda convivialità dell’isola, segreta e settaria, incomprensibile ai forestieri. Una comunione carbonara che passa per lo più dall’accesso ai prezzi ribassati di cibo e sigarette. Avrei imparato un pessimo portoghese direttamente lì, da un pescatore, e nel frattempo avrei insegnato l’italiano ai miei figli, che avrei amato poco, non essendo nati da Lei. Li avrei fatti con una tedesca bislacca e delusa. Tutto questo avrei fatto, se non fosse stato per la Tari arretrata, che ancora mi incatenava alla città. Quand’è finita davvero, fatalmente, la paura si è trasformata in fatto, scongelando i propositi che tanto avevo lavato e porzionato. Scioltasi la patina di ghiaccio, mi ero accorto che quei propositi non mi andavano affatto, proprio come il petto di pollo dimenticato nel congelatore.

 

Faccio volare via la notifica con una nocca e la fame mi passa d’un tratto. Al suo posto, caldo come un tuorlo, comincia a germinare l’odio. Sento la prima cellula sdoppiarsi nello stomaco. E poi sdoppiarsi ancora e ancora. Si nutre delle piccole cose, del Chinazza, dei vecchi, del caldo. Tutto ormai può farlo crescere, ma la sua genesi è in quel promemoria. Nella fine di una storia cui credevo di non poter sopravvivere e che invece mi trova qui a provare i piccoli piaceri esattamente come prima, persino il pastrami. È la consapevolezza peggiore: constatare che posso sopravvivere a tutto e che quindi, in fondo, ogni cosa è priva di un senso intrinseco. Ne acquisisce solo se io provo qualcosa a riguardo, in un preciso istante, e quando quella cosa non è più davanti a me, diventa una fotografia, un numero civico, un promemoria sul telefono. Forse per questo odio i vecchi: perché mi somigliano. Cellula dopo cellula, la crisalide dell’odio si trasforma nella farfalla della rabbia. Continua a crescermi dentro, catturando la luce attorno a sé. Dove la porto quando il toast finisce? Al prossimo pasto? Al cinema? Al lago? Il barista mi fissa: devo essere paonazzo. Si avvicina, pulisce le mani sul grembiule, poi ne poggia una sulla mia spalla: «Allora, com’è?». Le dita mi squarciano i vestiti, la pelle e i muscoli, aprendo la strada alla farfalla, che vola via, libera dal giogo della decenza. Apro la bocca per urlargli tutto addosso. Poi, il boato.

 

I calcinacci mi tengono fermo a terra. Posso alzare la testa solo di un po’ e al costo di un dolore inaffrontabile, come se il collo diventasse una lama telescopica che mi trafigge tutto, prolungandosi fino al coccige. Ci provo per l’istinto, più umano che animale, di capire cosa stia succedendo invece che rifuggire il dolore. Riesco a guardare non più su di mezzo metro rispetto alla terra e per quasi un secondo. Attraverso il fumo nero, scorgo piedi che corrono, scintille e un’auto in fiamme; scarpe, articolazioni e zaini alla moda. Un’AirPod è finita sulla cacca di un cane, come su un cupcake, una voce recita il Padre Nostro, un rivolo di sangue riflette nuvole immacolate e veloci.

Riabbasso la testa, il collo rientra nel suo meccanismo e mi dà tregua. Piagnucolo un po’. Provo a sollevare la schiena per divincolarmi dalle macerie; non ci riesco: urlo. Due voci si liberano dal caos avvicinandosi sempre più. Le sento parlare di me come se non ci fossi: “liberarmi, tirarmi fuori, salvarmi”. Sono lì in mio aiuto, ma stento a voler loro bene. Quando riesco ad alzarmi, e la polvere mi svela come un mago, abbraccio una delle due voci in segno di gratitudine. Così ho imparato a fare. L’altra voce aspetta, col sorriso imbarazzato di chi sa che è stato scelto per puro caso come secondo abbraccio. Eppure il caso vorrà dire qualcosa, se un moribondo appena salvato, io, ti sceglie come seconda voce da abbracciare invece che come prima. E giù di affliggimenti interiori: “sarò brutto? Sarò basso? Sarò schifoso, poco carismatico?” Così ragioniamo tutti. O tutti noi, che viviamo nella grande città. Abbraccio la seconda voce in un attimo, dandole in parte ragione, e mi accorgo di non aver niente di rotto. Ero solo incastrato. Il povero barista, invece, ha la testa fracassata dai mattoni. Poche gocce del suo sangue macchiano la mia scarpa destra. Distolgo lo sguardo ed esco da quel che rimane del bar. In strada, mi colpisce un’allegra macchia di colori, che spicca nel disastro. Sono i vestiti dei due coreani, disseminati dalle valigie esplose. Piumini rigonfi, stivali lucidissimi e borse di pelle dipinta. Loro due, i coreani, giacciono disarticolati poco più in là, ben più tristi e organici.

 

Noi sopravvissuti ci guardiamo attorno in cerca di sguardi che abbiano capito qualcosa, ma quegli sguardi non ci sono. Una signora pingue scesa in strada in pigiama abbraccia il panico di un uomo in giacca e cravatta. Alle loro spalle, scintilla fumante quel che resta di un missile. Un missile vero, come quelli dei film e dei musei. La livrea grigia, ancora riconoscibile sebbene in parte deflagrata, non rileva segni, scritte o simboli. Qualcuno ha lanciato un missile in pieno centro. Uno: non due o nessuno; e in tempi di pace, una pace lunghissima e depressiva. Davanti a una tale inaspettata tragedia, per un istante infinito, vedo le differenze annullarsi. Una sfaccendata coi rasta si prodiga nel confortare i più impauriti. Un enorme businessman si accuccia e piange di sgomento. Sangue freddo e atterrimento si distribuiscono nei modi più inaspettati, attingendo all’animo profondo di ognuno, celato dagli abiti, dal censo, dal genere, dagli orologi.

Quando il terrore si affievolisce un poco, per strada si eccita una nebulosa di caos. Mi cruccio di non avere uno sguardo divino, poter avere una visione d’insieme, di dovermi invece concentrare su un dettaglio alla volta e lasciarmi sfuggire tutto il resto. Sapere chi risponde ai dolorosi telefoni che vedo carezzare le guance, dove si dirige chi corre via, se fugge solo dal missile o ha una meta precisa, un bambino da abbracciare, una bocca da baciare. Sapere cosa si dicono i capannelli che confabulano confusi, le teorie che accampano, le parole più dette. Leggere nella testa di tutti, senza però impazzire. E in questo lampo di guerra, mi chiedo se sia davvero possibile essere Dio, piuttosto che se esista.

 

Arrivano le sirene. Prima quelle della vita, poi quelle della legge. Medici e infermieri non si muovono confusamente come nelle mie fantasie mattutine, ma mi sorprendono per rapidità e rigore. Passano in rassegna ogni corpo con una cura razionale che fa male a vederla. Dalle volanti della polizia rotolano giù agenti e ispettori. I primi danno conforto e ristoro alla gente, i secondi cercano risposte. Ne trovano solo una, plebiscitaria: all’improvviso è arrivato il missile. Il missile, appunto. Sta lì come un totem incastrato nell’asfalto. I poliziotti gli girano attorno lentamente, sporgendosi per osservarlo, come una tribù indiana.

Arriva il primo giornalista. Poi un altro. Poi le telecamere. Qualcuno si affida allo smartphone in cerca di una spiegazione: “Un missile ha colpito la città”, “Città bombardata: è guerra?”, “La guerra in città”. Sono i titoli di chi sa ancora poco. Quelli da agenzia stampa. Per capire qualcosa, ci vorrà qualche ora.

I due ispettori si appartano per sfuggire ai giornalisti e discutere tra loro. Uno cammina avanti e indietro con le mani dietro la schiena. L’altro lo ascolta immobile, a braccia conserte. Visti dall’alto disegnano un pendolo; e l’oscillare dei loro pensieri scandisce il passare del tempo. Siamo quasi al crepuscolo, quando arrivano i periti del Genio. Il missile viene così analizzato: alcuni strani aggeggi ne registrano forma, colore, materiali, ma la comparazione con qualsiasi missile presente in commercio non dà risultati. È un missile simile a qualsiasi altro, ma non ne esistono di uguali. La notizia rimpolpa le scarse informazioni dei giornali. Appaiono anche le prime teorie. Guerra all’Europa, terrorismo islamico, un’esercitazione sfuggita di mano. Qualcuno sui social si spinge ad accusare il governo, senza grandi argomentazioni, se non quella di sapere quello che gli altri non sanno.

Arriva anche il primo bollettino: i morti accertati sono quattro. Dopo aver letto la notizia, scelgo il poliziotto meno indaffarato e mi avvicino con discrezione:

«Scusi, posso chiederle un’informazione?» Ha la faccia rotta di stanchezza e il manganello in tiro.

«Dica».

Tentenno un po’: «Si sa chi sono i morti?»

«È un parente? È arrivato adesso?»

«Ero in quel bar quando il missile è arrivato».

«E a che le serve sapere chi sono i morti?»

«Uno di loro era il barista, mi aveva appena servito, e altri due li ho visti in strada un attimo prima. Vorrei sapere chi fosse il quarto…»

«Perché?»

Già, perché? La domanda mi ammutolisce. Comincio a chiedermi se la farfalla della rabbia sia scappata via o sia morta dentro di me. Blatero un “non lo so” sommesso.

«Non posso dirle chi è. Comunque, è proprio qui dietro, davanti al tabacchi».

Alcuni poliziotti fanno così; non ti dicono la cosa che vuoi sapere, ma te ne dicono altre che comunque non potrebbero dirti.

Lo ringrazio e mi avvicino al tabacchi. C’è un corpo coperto alla bell’e meglio. Mentre gli giro intorno, l’ammasso diventa quadridimensionale, distorcendo il tempo e fermandolo, quasi. Quando raggiungo il volto, i muscoli delle gambe mi vibrano come alla fine di una maratona. Devo sporgermi per guardarlo bene. Nascosto, come in un’ultima pudica risata, riconosco il Chinazza. La sua faccia è un buco nero e io ormai ci sono dentro.

 

L’urlo del poliziotto mi risucchia fuori dall’orizzonte degli eventi. Pensavo fosse impossibile. Mi raggiungono in tre, correndo; lui e i due ispettori. I loro sguardi mi attraversano, immobilizzandomi. Poi, mi immobilizzano davvero.

Ci raggiunge un altro poliziotto, mi fanno salire su un blindato. I poliziotti escono e resto solo con i due ispettori. La panca è freddissima, come la luce del neon che ci colpisce dall’alto. Fuori, tra le barre del finestrino, vedo frenare una berlina nera. È il Presidente del Consiglio. Uno dei due ispettori tira giù una tendina e mi si siede di fianco, accavallando le gambe. L’altro, come prima per strada, cammina da un lato all’altro del vano:

«Allora, perché volevi sapere chi fosse quel poveretto?»

«Non lo so, davvero». Non ho più paura, sono solo stanco.

«A me sembra strano. Collega?» L’altro annuisce, quello riprende:

«A me sembra strano, perché in una tragedia così, uno resta praticamene illeso e rimane sul posto per ore, senza chiamare nessuno, per poi chiedere a un poliziotto quanti morti ci fossero – si ferma davanti a me e si piega per guardarmi negli occhi – e non solo, ma poi sa anche chi sono i morti, tranne uno, e quest’ultimo lo vuole sapere, lo vuole sapere a tutti i costi, tanto da andare a controllare di persona». Fa una pausa, come per recuperare la pazienza: «Allora, ci vuole dire che c’entra lei con questa storia? Perché lei qualcosa c’entra».

Alzo lo sguardo: «Non c’entro niente. Non ho mai visto un missile in vita mia».

«E c’è sempre una prima volta. Perché nessuno qui ci è venuto a chiedere chi fossero i morti. Tranne i giornalisti. È giornalista lei?» Non rispondo.

«E allora, visto che è così curioso, le dico che ci hanno appena comunicato che c’è un altro morto. Vuoi sapere anche questo chi è?» L’ironia della domanda esplode in una curva di accento palermitano. «E io glielo dico, tanto siamo qui per capire, no? È un anziano, sugli ottanta, si chiama Franco Annibali. Ha avuto un attacco cardiaco mezzora fa. Lo conosce? Sa chi è?».

Le parole mi rimbombano in testa. Il sangue mi pulsa nelle tempie. Forse la farfalla è rimasta dentro. Il signor Franco. Il signor Franco, Chinazza, il barista, i coreani. Cinque morti, cinque persone che ho incontrato. Che ho odiato, o concupito, che ho sporcato con i pensieri più violenti e istintuali. Che ho posizionato con cura sull’altare del dolore e sciroppato nella melassa dell’odio. Un odio che ha cominciato a zampillare dalle crepe dei muri, dalle pieghe del divano, dai cassetti, dallo shampoo, dai libri e dalle pentole. E poi fuori, dai marciapiedi, dai tombini, dai tubi di scarico. Da quando te ne sei andata.

 

«Cos’ha detto?» Il poliziotto si intromette tra me e me.

«Niente, stavo solo pensando».

«No, lei ha detto qualcosa».

L’altro ispettore parla per la prima volta, sbirciando dietro la tendina, come non gli importasse: «Ha detto “sono stato io”. Ecco cos’ha detto».

«Ecco, allora avevo capito bene. E adesso ci racconta finalmente? Ci spiega cosa vuol dire?».

«Sono stato io. Stamattina sono uscito di casa pensando a Lei. Ero triste, arrabbiato. Sarete uomini anche voi. Esseri umani. Ho incontrato il signor Franco sulle scale, abitiamo nello stesso condominio, e puzzava di giacca e di vecchio e l’ho odiato. Poi sono uscito e mi sembrava tutto così insulso. Inutile. Siete inutili anche voi, adesso. Miliardi di miliardi di cose inutili, ogni giorno. Anche oggi. Ho fatto una passeggiata, ho desiderato sparire, sciogliermi dietro l’angolo, come una delle mie comparse. E invece no. Ho incontrato il Chinazza. Ho odiato anche lui, capite? Capite dove voglio arrivare?».

«A dire il vero no, ma continui, ci parli del missile».

«Ho parlato con il Chinazza, non ci vedevamo da tempo. Poi sono arrivato qui e ho ordinato un toast nel bar alla nostra destra. Il barista era insopportabile. Mentre aspettavo il toast, ho visto la coppia di coreani scendere dal taxi per entrare al Majestic. Mi è venuta voglia di scopare. Ho fantasticato su di lei, potete immaginare. Ma anche su di lui, sul farlo soffrire. Li ho odiati, in un certo altro modo. Poi è arrivata la notifica».

L’ispettore mi interrompe, riprende a camminare: «La notifica. Un segnale? I suoi complici. Da dove l’avete sganciato?»

«La notifica è quella della sua medicina. Da quando non c’è più, mi serve a tenermi insieme. A mantenere acceso un flebile segnale elettrico, la radiazione cosmica di fondo di quello che eravamo. Ed è stato quell’impulso a fare infiammare la tanica di odio che mi sbatacchiava nello stomaco. Non capite? Il missile l’ho lanciato io, da quel bar. È la cristalizzazione materica della tragedia. È una lega di acciaio e dolore, piombata dal cielo al mio segnale. Provate ad analizzarlo. Provate! Ci troverete il mio DNA. E forse anche il suo».

Per la prima volta, anche l’altro ispettore volge lo sguardo verso di me. L’altro si ferma di nuovo, è attonito, sgomento: «Il suo di chi?»

«Il suo».

 

Mi fanno scendere dal blindato. Chiamano un medico, mi indicano, confabulano. Mentre aspetto, il freddo comincia a farsi sentire. Una signora, passandomi di fianco, mi urta leggermente il braccio. La guardo storto, le bofonchio dietro un insulto, sicuro di non farmi sentire. Cosa ho imparato dal missile?

Poesia secondo istruzioni, a cura di Guy Bennett # 5

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Quinto e ultimo episodio sul progetto promosso da Guy Bennett, poeta statunitense. Si tratta di un’opera collettiva di poesia generativa che ha coinvolto 60 poeti, artisti e designer per un totale di 140 testi prodotti. Non vi è un’unica lingua di riferimento, anche se la maggioranza dei testi è stata scritta in inglese e in francese. Infine tutti i testi sono stati raccolti in un catalogo digitale con un’introduzione e un ricco apparato paratestuale che potrete scaricare gratuitamente. In quest’ultima campionatura: sette nuovi testi di sette autori diversi (e altrettante istruzioni di riferimento). Le tre campionature precedenti qui, qui & qui. E il primo episodio  – che include: progetto + intervista al curatore + 99 istruzioni trilingue – qui.]

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Frédéric Forte, Plutonisme, (Instruction 1)

Sean Pessin, Untitled, (Instruction 37)

Paul Fournel, Sans titre, (Instruction 8)

Guy Bennett, A destiny manifest?, (Instruction 22)

Nicolas Tardy, Sans titre, (Instruction 28)

Kevin Thomas, Untitled, (Instruction 37)

Philippe Annocque, Sans titre, (Instruction 58)

⇓   •   ⇓

PLUTONISME

1 : Un poème en une seule unité (lettre/mot/vers/strophe).

  • Frédéric Forte

 

[Obtenu après réduction à l’unité des lettres de l’énoncé « un poème en une seule unité » : u – n – p – o – e – m – s – l – i – t, lettres qui, associées, ne peuvent donner en français qu’un seul mot : plutonisme, à savoir une théorie géologique obsolète selon laquelle les roches ignées formant la Terre seraient issues d’une activité magmatique intrusive qui, graduellement et de façon continue, aurait altéré, érodé des roches qui se seraient ensuite déposées sur les fonds marins où, sous l’effet de la chaleur et de la pression, elles se seraient reformées en couches sédimentaires ; ce qui constitue une assez bonne description du procédé mis en œuvre ici pour écrire le poème.]

 

UNTITLED

37: Plans for a poem.

  • Sean Pessin

 

Try not to end on a poignant line where

the central metaphor of your poem is complicated

By the surprise of a sensuous observation.

Instead, place the incredulous flavor of your tears

Or the bold color of the blood issuing

from your gnawed-on tongue in the middle,

where sandwiched adjectives stack like cow langue in

numerological relevance. The beginning can

Be from anywhere; no one knows a poem

in the first line, but if your readers don’t

know it by the middle or they suspect

that they don’t know it by the middle

They might not think the poem

has anything to say. By the end,

the reader should suspect

the poem has something to say;

the suspicion must occur earlier.

 

SANS TITRE

18 : Un poème comprenant lexpression « voir rouge ».

  • Paul Fournel

 

Ayant terminé la bouteille de blanc

 

Il vit rouge

 

A DESTINY MANIFEST?

22: A three-part inverse serial poem: synthesis, antithesis, thesis.

  • Guy Bennett

 

1 : c

Certain non-non-white US-ians

are oblivious to history and irony impaired.

 

2 : b

As if non-non-white US-ians have not been

forcibly replacing non-white ex post facto US-ians

since the 17th fucking century!

 

3 : a

Certain non-non-white US-ians actually fear

non-white US-ians will replace them.

 

SANS TITRE [extraits]

28 : Un poème qui, paraît-il, traite des apparences.

  • Nicolas Tardy

 

invite le spectateur à une expérience

une pancarte énonçant au delà du contexte

la potentialité des différences dans

effets de textures et variations chromatiques

à partir d’une grille tracée au crayon

*

pratique artistique aux contours évanescents

est une concrétion d’idées marquée par une

véritable connivence des dimensions

révélant un certain malaise sous-jacent

se retranchant dans des lieux privés ou déserts

*

en attendant de le découvrir de visu

de belles matières colorées qui imprègnent

la manifestation de la plasticité

artistes conjuguent et jouent avec les contrastes

pour mettre en lumière de multiples visages

*

à travers l’expérimentation des limites

une artiste trace d’un geste des figures

qui occupent cet espace incertain fait de

la multiplicité des représentations

et des conventions graphiques des magazines

*

un très grand objet sculptural qui est l’artiste

ne se contente pas d’accumuler tout ce

qui peut devenir une partition incluant

la matière noire et brumeuse du fusain

l’humour qui caractérise sa réflexion

*

déchirant des pages de bandes dessinées

lanceurs d’alertes ont pu révéler les moyens

que nous avons pris l’habitude de nommer

qui se subdivisent en formes fractales sur

les dernières productions connues de l’artiste

*

l’observateur formé à l’investigation

fait apparaître un grand nombre de scenarii

pour sculpter des œuvres dont le contour évoque

alors mise en scène spectaculaire d’une

figure de l’artiste dans son atelier

*

dans son travail sur la visualisation

artiste voit ses monochromes comme des

modèles d’une carte de navigation

destinée à jaunir avec le temps qui passe

sur le sol en dehors de toute référence

*

sur la toile la notoriété grandissante

par ses dimensions évoque un lit parental

sur lequel se jetterait avec frénésie

peinture acrylique rouge tirant sur la

volonté de rendre visible mécanismes

*

les recherches picturales et conceptuelles

conduisent vers un pigment de couleur gris taupe

qui traverse les derniers récits modernistes

où la tonalité juste naît de la manière

dont on ressent la puissance d’une décision

*

les personnages ne vieillissent pas à vue

consistent en des cubes de mousse recouverts

par un mapping de collages combinatoires

revenant sur la nature de ces images

grands aplats sont peints sur des papiers d’emballages

*

un tissu institutionnel artistique et

une pratique placée sous le signe de

recours aux logiciels de retouche d’images

avancent au fil de la singulière carrière

comme sortis d’un costume de carnaval

*

une image insaisissable fait vaciller

la polysémie sur une photographie

outil habituellement analytique

éliminant l’usage du pinceau et du

mélange peinture à l’huile et eau de javel

*

la caméra bien mal camouflée au milieu

qui se tourne vers des matériaux nouveaux comme

devant un drap blanc tendu à la verticale

au sein du musée ou de la galerie d’art

influe sur le comportement des visiteurs

*

nature tridimensionnelle ne suffit pas

constitue un ensemble significatif

formel et iconographique qui s’inscrit

de partie à partie et des parties au tout

relève du domaine de l’imaginaire

*

mouvements des rideaux indiquent de la vie

offraient un cadre rassurant et familier

testant les potentialités du all-over

on dépose régulièrement du pigment

lors de la séance photo préparatoire

*

certains mouvements ont été sélectionnés

accueillent le visiteur en présentant une

surface lisse des côtés versus rugueux

l’essentiel réside peut-être davantage

dans des effets de moiré dans la mise en crise

*

se contenter d’une photographie frontale

et jusqu’où son corps peut physiquement aller

consiste en une salle blanche dans laquelle

corps servant encore d’interface iconique

est un fragment dans un univers de couleur

*

l’alliance des mots aux choses de l’idée à

des bandes horizontales de couleur unique

laisse transparaître les enjeux plastiques et

affecte la perception que les spectateurs

absorbent et dynamisent simultanément

 

UNTITLED

37: Plans for a poem.

  • Kevin Thomas

 

poem title: APRIL or april or April. alternatively, use the numbers on the right side of the sonogram as the title.

the body of the poem would mirror the body of a pregnant woman. not would, not could – will. It will mirror the body of a pregnant woman. plan to write the poem, not to merely plan the poem.

first stanza: 3 lines. each line moves time forward. no adverbs. no commas. no, commas are acceptable, but no widows or orphans.

(If the poem begins in november, and each stanza is a month = 6 stanzas to get to April.)

[note to self: before writing the poem, you should interrogate your feelings of loss. that feeling of never having a thing. of never knowing until knowing became synonymous with misplaced longing. i can barely think coherently about the story (as if there’s a linear space where it would make more sense. some other temporal reality i could/can inhabit while writing the poem. a linear past that starts with miraculous inception and ends at a communal table on the patio of a restaurant in venice. {not the venice that’s sinking, the venice that is now the land of tech bros.} we sat across from each other and we both cried ugly. we tried again, to be together, but the missing piece was too hard to replace. you should get the timeline straightened. then you can layer images on top of feelings, emotions bolted down to physical landmarks across the los angeles cityscape. massive rivets on the underside of your constructed memories. and then there was the call i answered in tacoma, wa, at my grandparents’ house — thanksgiving, possibly.).]

second stanza: 5 lines. ask krystle about appropriate rhyming scheme for second stanza. or, should this be a poem free of constraints? or, a progressive rhyming scheme that builds with each stanza but is forgotten in the final third of the poem?

[note to self: 3 stanzas, max. you should really nail down the timeline. 1st, there was the immaculate miraculous conception. no, first is cervical cancer and localized radiation, then, months later, conception. 2nd, break up. 3rd, cancer comes back. 4th, false negative pregnancy test. 5th, coffee at urth in b hills where i hugged her and was the closest to my __ that i would ever be. {name the object, in the realized poem. name the name.} 6th, the tacoma call about a procedure she was scared to go through with ➙ the confusion about her fear around a routine cancer-related procedure ➙ her admitting feeling alone, scared ➙ how to reframe the past with future knowledge? 7th, the meeting on the patio in venice where we cried oceans, sat on the beach afterwards, watched our waves. 8th, sonogram in email ➙ subject line “it’s a girl”.]

third stanza: 8 lines. an apology. both ways, my explanation and me asking for forgiveness. an infinite amount of lines. if faith is the constant act of reaffirming belief and progressing in your understanding of whatever higher power you’re aligned with, this stanza is the inverse, an eternal work of defining the reasonable reasons why April became a name and not a month housing a due date. there is no faith here, only concrete definitions and facts.

[final note to self {i promise}: is it worth recounting my post-knowing drop into despair? a drunk call to a friend at 2am from the corner of 2nd and los angeles before or maybe after an attempt to sober up with thick ramen before driving home. the assurance from the other end that it would be okay. the eventual break down on the floor of the church off fountain in hollywood beneath the long shadow of the blue scientology worship center. the way the person sharing at the front seemed to be speaking directly to me. the falling to my knees. the futile effort we made to try again, still trying to replace or recapture what we had before the before was knowable. to put something back inside.]

after the third stanza, one final line: i named her April — 4/?/11

SANS TITRE

58 : Un poème alternant pléonasmes et oxymores.

  • Philippe Annocque

 

Cette page blanche d’écriture

sera-t-elle ce poétique poème

où je m’évertue en dilettante

à alterner par roulement

oxymores pléonastiques

et pléonasmes redondants ?

Su “My People. La mia gente” di Oodgeroo Noonuccal. Intervista a Margherita Zanoletti

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Rainbow Serpent Banner, Oodgeroo Noonuccal, 1988, Painted textile

 

Rainbow Serpent Banner, Oodgeroo Noonuccal, 1988, Painted textile

 

a cura di Sara Elena Rossetti

Nel 2021 è uscito per Mimesis My People. La mia gente di Oodgeroo Noonuccal [di cui su questo blog si è già parlato qui, ndr]. L’intervista-dialogo che segue nasce dagli incontri tenuti presso la Biblioteca civica di Bresso (MI) e il Liceo linguistico “Erasmo da Rotterdam” di Sesto San Giovanni (MI) tra il novembre 2022 e il gennaio 2023.

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SER La prima domanda è d’obbligo. Chi è Oodgeroo?            

MZ Un’artista, intellettuale e attivista australiana della seconda metà del Novecento. “Grande signora della nostra cultura” la chiama Alexis Wright, autrice di un testo contenuto nell’edizione italiana della sua antologia My People (Mimesis 2021).
Nel 1964 Oodgeroo passa alla storia come prima poeta delle First Nations, cioè di discendenza aborigena, con We Are Going: un’opera di denuncia sociopolitica che accende un fenomeno mediatico. Da quel momento, la sua voce di donna, nera, povera e autodidatta, diventa la voce di un popolo schiacciato che rialza la testa.
Alla fine degli anni Sessanta, Oodgeroo è tra i promotori della campagna referendaria per far sì che i popoli indigeni australiani acquisiscano i diritti di cittadinanza. Nel 1970, raduna i suoi versi in un’antologia che dedica alla sua gente, My People. Fino alla morte nel 1993, si dedicherà in particolare alle giovani generazioni, scrivendo versi e racconti. Oggi le sue opere sono studiate a scuola e nelle università, tradotte in pièce teatrali, produzioni di fiction e composizioni musicali. My People continua a vivere.

SER Leggo nella prefazione che il suo nome all’anagrafe era Kath Walker. Come mai nel 1988 decide di cambiare nome?

MZ In segno di protesta contro l’invasione britannica, che portò guerre, genocidi, razzismo ed altre atrocità. Contro le celebrazioni per il bicentenario dell’approdo della First Fleet (Prima Flotta) sul continente australiano, l’autrice abdica al suo nome anglosassone e diventa Oodgeroo della tribù Noonuccal. Il nome Oodgeroo vuol dire “melaleuca”, cioè albero del tè, una pianta endogena utilizzata da sempre in Australia per le sue proprietà curative; ma significa anche “corteccia”, ovvero il supporto usato da millenni dagli aborigeni per dipingere e quindi raccontare le loro storie tradizionali.

SER Ora veniamo all’origine di questo progetto editoriale. Cosa ti ha portata in Australia e come hai incontrato la poesia di Oodgeroo?

MZ Il primo viaggio in Australia è avvenuto proprio grazie a Oodgeroo. L’ultimo anno di università decisi di fare la tesi sulla sua poesia, e dato che in Italia non c’era nulla sul suo lavoro, grazie a una borsa di studio volai a Sydney e ci rimasi sei mesi per consultare materiali d’archivio, raccogliere testimonianze e fare ricerca. Non immaginavo che dopo la laurea sarei ritornata in Australia e ci avrei vissuto anni. L’incontro con Oodgeroo ha segnato il mio percorso umano e di ricerca.

SER Com’è strutturato My People. La mia gente? Puoi dirci qualcosa riguardo ad Alexis Wright, che firma il testo in apertura del libro?

MZ Alexis Wright è probabilmente la scrittrice delle First Nations vivente più importante e conosciuta al mondo, e con lei si apre il libro. Il suo testo celebra Oodgeroo come la “mamma” della letteratura indigena australiana, di una letteratura che ha cura del pianeta. Segue un’introduzione su Oodgeroo e su My People. La raccolta include settantasette scritti, proposti in lingua originale con la traduzione a fronte. Infine, c’è un glossario con una lista di parole afferenti al mondo indigeno, presenti nei testi di Oodgeroo e che mi è parso utile spiegare al lettore italiano.

SER In coda alla raccolta c’è un testo in prosa intitolato Custodi della terra. Di cosa si tratta?

MZ Di una prolusione tenuta da Oodgeroo i1 22 aprile 1989 ricevendo il dottorato honoris causa dalla Facoltà di studi umanistici della Griffith University. In questo discorso Oodgeroo dichiara: “La terra è nostra madre. Noi non possiamo possederla; è lei che ci possiede”. Questa semplice frase riassume un tratto base comune alle molte culture aborigene d’Australia: l’uomo è custode della terra. L’uomo appartiene alla terra, non il contrario. L’uomo è la terra.

SER L’introduzione al libro contiene una presentazione dettagliata dell’autrice, dei testi e della traduzione. Alcune tabelle riassuntive aiutano a orientarsi tra le poesie nelle varie edizioni. In sintesi, quali sono le tematiche chiave?

MZ In primis, la denuncia sociopolitica. Raccontando fatti storici, stragi, stupri, bugie e strumentalizzazioni, Oodgeroo mette a tema la discriminazione e la violenza contro la sua gente. Alcune poesie pongono l’accento sul processo di costruzione di rapporti positivi tra popolazioni indigene e non, implementando riforme legislative tese a favorire l’unità.
Il secondo tema tocca personaggi, paesaggi e narrazioni legati all’immaginario spirituale del Tempo del Sogno, cioè il tempo della creazione del mondo, un tempo mitico che si rinnova continuamente, anche nel presente. Oodgeroo mette in scena personaggi, aneddoti e racconti legati al sapere e alla mitologia tradizionali. Talvolta con nostalgia, talvolta con vena umoristica e anticonformista.
Un terzo nucleo raccoglie componimenti autobiografici: poesie dedicate ai figli, poesie che rivelano sentimenti e aspirazioni, poesie sulla guerra. In “Vita morta”, Oodgeroo dipinge la guerra come un male diabolico e distruttore. Riflette sulla disumanità dell’uomo, sull’annientamento delle potenzialità umane.

SER In un’intervista recente, hai definito Oodgeroo “rappresentante di un movimento transindigeno”. In che senso?

MZ Negli anni in cui, di pari passo con l’attivismo politico e l’impegno civile a difesa della sua gente, Oodgeroo utilizzava la poesia come mezzo di lotta per i diritti del suo popolo, stava succedendo qualcosa di simile in varie parti del mondo. L’anno di pubblicazione di We Are Going, il 1964, coincide ad esempio con l’uscita di No Ordinary Sun, il primo libro dell’autore māori Hone Tuwhare, e con la pubblicazione della prima raccolta di poesie di un nativo americano, Raising the Moon Vinesdi Gerald Robert Vizenor. Negli Stati Uniti, il Black Arts Movement nasce ad Harlem nel 1965 per opera di Imamu Amiri Baraka. Il paesaggio storico-letterario a cui l’opera di Oodgeroo appartiene è internazionale, interetnico e transindigeno.

SER Oggi, a tuo avviso, la letteratura e la poesia possono ancora avere un ruolo educativo e in qualche misura anche politico?

MZ Nel 2022 il Festival di poesia civile di Vercelli ha premiato Aleksandr Michajlovič Kabanov, un poeta ucraino che scrive in russo, “nella lingua del nemico”, per usare il titolo del suo libro. Il suo lavoro (e non è il solo) dimostra come il mezzo poetico possa e debba parlare in favore della pace. Quindi sì, mai come oggi la poesia ha un ruolo politico e un ruolo etico, educativo, diplomatico e mediatico.

SER Torniamo al tuo lavoro di cura e traduzione. La voce di Oodgeroo è lontana da uno stile aulico e accademico, è vicina al parlato, imita l’interloquire quotidiano. È insieme poetica e conativa. Nel tradurre la sua poesia, quali sono state le difficoltà e le soddisfazioni maggiori?

MZ La traduzione è un processo lungo e una conquista provvisoria. Tradurre poesia è particolarmente complesso, perché la poesia stessa è un altro modo di vedere le parole e il mondo.

Nel mio caso, mi sono posta il problema della credibilità. Come faccio io, italiana, bianca, istruita, dalla vita facile, a restituire l’esperienza dolorosa di Oodgeroo? Come trasmettere la sua urgenza, evitando uno sguardo paternalistico e onnisciente? Vivere in Australia, a contatto con artisti di oggi e con persone che l’hanno conosciuta, mi ha permesso di vedere e toccare luoghi, di accedere a testimonianze di prima mano. Di aiuto è stato poi il confronto con la poeta afroamericana Betty Gilmore. L’obiettivo è stato rendere la scrittura di Oodgeroo in un italiano interessante, con rispetto, senza scimmiottarla. A tal fine, ho deciso di preservare intatti i vocaboli di derivazione indigena, rimandando al glossario in calce al volume.

SER Ti sei occupata in passato anche di arte aborigena e hai curato alcune mostre. C’è qualcosa che ti ha sempre affascinato?

MZ Potrei dire che il mio interesse per la cultura australiana si sviluppi sin dall’inizio come interesse per il legame tra le parole e le immagini. Ciò che più mi attira è la capacità di raccontare storie. La poesia contemporanea, come i dipinti, racconta storie. Apre un mondo. Fa viaggiare. Insegna qualcosa di antico con un linguaggio dinamico e modernissimo.

SER Cosa impariamo, in particolare, grazie alle poesie di My People?

MZ Che la distruzione dell’ambiente naturale in favore dello sfruttamento economico demolisce la vita e che, a fronte di questa frattura, il ritorno della terra è un fattore chiave di sopravvivenza. Nella percezione mitica dei popoli aborigeni, in passato come oggi, la terra non è solo fonte di riparo e sostentamento, ma è l’aspetto centrale della condizione umana e ha un profondo significato spirituale. La terra lega a sé gli uomini e fornisce cibo, vita e linguaggio. Questo tema è attualissimo, profetico rispetto alle sfide connesse al cambiamento climatico in atto. Da millenni, gli Aborigeni e gli Isolani dello stretto di Torres hanno presente l’importanza e la delicatezza dell’ecosistema terrestre.

SER Credi che Oodgeroo abbia ancora qualcosa di importante da raccontare e insegnare ai nostri ragazzi, agli studenti di oggi?

MZ Rispondo con le parole di Alexis Wright: Non sappiamo cosa ci riserverà il futuro. Il futuro richiede a noi tutti di pensare in modo molto più fantasioso e di essere molto più visionari su come continueremo a vivere in un mondo in grande cambiamento. I problemi del mondo richiedono con urgenza a ciascuno di noi di darsi da fare di più per raggiungere obiettivi comuni a tutta l’umanità. […] Oodgeroo Noonuccal fece questo nella sua poesia.”

 

I pappagalli stocastici e la retriva ostilità del linguaggio al progresso

2

di Giorgio Mascitelli

 

ChatGpt è una rivoluzionaria chatbot, ossia un tipo di programma nato per imitare le conversazioni umane, che a detta dei suoi numerosi ammiratori determinerà una svolta nella storia dell’umanità perché porterà inevitabilmente alla fine di tutte le professioni basate sulla scrittura creativa. Dev’essere proprio così perché mi è capitato di leggere una sua produzione scritta, presentata su facebook come un perfetto articolo che qualsiasi supplemento culturale di giornale avrebbe fatto a pugni per pubblicare, anche se a me è sembrato un testo del livello di un tema scolastico forzatamente generico, di quelli a cui non si può nemmeno dare il massimo dei voti perché sono sì scritti bene, senza errori, ma si capisce che l’estensore non comprende  l’argomento e si limita a ripetere anodinamente quel che ha sentito in giro. In compenso il testo era accompagnato da una serie di commenti in cui utenti ammirati e stupefatti annotavano le sbalorditive prospettive dei progressi futuri, se tale era l’inizio, insomma ce n’est qu’un début.
Mi colpisce sempre, sia detto tra parentesi, che nel nostro discorso pubblico scienza ed economia sono gli unici due ambiti in cui chi si riferisce al futuro può parlarne senza ricorrere a quelle formule cautelari e dubitative che caratterizzano le previsioni in qualsiasi altro ambito discorsivo. Ciò che sostiene viene sempre considerato certo per convenzione. Per esempio negli anni novanta si scriveva e si diceva che il progetto di mappatura del genoma umano avrebbe consentito addirittura la scoperta del segreto della vita, oltre a tutta una serie di rapidi benefici nella ricerca medica. Oggi, a programma concluso e riuscito, si può dire che esso è servito a creare un kit che si vende in farmacia per scoprire il proprio patrimonio genetico e a raccogliere una serie di dati che magari saranno utili per ricerche successive, come è sempre stato. Un tempo questi entusiasmi e queste sparate erano tipici dei profani e vedevano negli scienziati i realisti,  perché conoscitori della materia, smorzatori di quegli entusiasmi, oggi non sempre è così. Temo che dipenda dal fatto che un tempo la ricerca scientifica era prevalentemente gestita con fondi e criteri pubblici, con un certo spazio per quella di base e programmi di medio e lungo periodo; oggi il modello americano in cui si indirizzano grandi quantità di fondi su alcuni settori, che sembrano poter realizzare risultati applicativi spendibili nell’immediato, stimola una competizione più selvaggia non solo tra varie istituzioni di ricerca, ma anche tra i vari settori e autorizzare speranze e aspettative eccezionali rientra tra i metodi più efficaci di marketing.
Per tornare a ChatGpt, è probabile che tra le sue stupefacenti qualità rientri quella di trovare quella risposta alla domanda di Socrate che nel Protagora Ippocrate non riesce proprio a dare: ‘ <Ma il sofista, di quale parte del sapere è esperto?>, cosa gli risponderemmo? Qual è il suo ufficio? – Che altro diremmo Socrate, se non che è sofista chi sappia rendere gli altri abili nel parlare?-  Forse, risposi, diremmo il vero, ma non in modo adeguato; in realtà la nostra risposta richiede un’altra domanda: su quale argomento il sofista rende abili nel parlare? Il citaredo, ad esempio, rende senza dubbio abili a parlare su quello che sa, cioè intorno alle regole per suonare la cetra. Non è vero? – Sì – E va bene! Ma il sofista in cosa rende abili nel parlare? Evidentemente in ciò di cui si intende? – E’ naturale- Già, ma in cosa consiste ciò di cui il sofista è esperto egli stesso e rende istruito il suo seguace?’ ( op. cit. 312 d-e ). Allora il rivoluzionario programma calerà la sua risposta spiazzando definitivamente Socrate, eppure non potrà comprendere che la cosiddetta scrittura creativa assoluta di cui è produttore condivide i limiti della tecnica della retorica dei sofisti e che si potrebbe sintetizzare nella domanda: di cosa scrive ChatGpt quando scrive? La risposta è che non scrive di nulla, come del resto è ovvio per un pappagallo stocastico, tale infatti è il soprannome di questo genere di software, e anche per quello pennuto, se è per questo. E a cosa serve una scrittura creativa che non scrive di nulla?
L’impressione è che si tratti di una macchina per tagliare il brodo, la cui finalità è resa opaca dal fatto di essere confezionata nell’elegante cofanetto regalo chiamato Intelligenza Artificiale. Il che, suppongo, consentirà sempre a qualcuno di spiegarci che le fette di brodo sono il futuro o meglio the next thing, come recitava una pubblicità di qualche anno fa. Se invece mi sbaglio, avrà un impiego per creare testi di carattere compilatorio sempre sottoposti a un’ultima lettura di un editor umano e naturalmente per fare temi a scuola, nel caso il prof si sia dimenticato di ritirare i telefonini prima del compito.
La vicenda di ChatGpt è interessante però come esempio di ideologia corrente, visto che come tutti i prodotti IA essa ne veicola una, che  in questo caso possiamo dividere in due livelli. A un primo livello più basso, troviamo la convinzione, tipica di una certa mentalità grezzamente positivistica, che ogni discorso del linguaggio naturale, specie quelli creativi e strani degli umanisti, siano solo chiacchiere perché lontano dall’esattezza delle scienze dure e pertanto sia una sorta di flatus vocis riproducibile da un programma. Insomma il ChatGpt provvede a rinsaldare l’idea dominante, cioè  delle classi dominanti, che tutti quegli strani discorsi che chiamiamo con il nome di cultura siano assimilabili agli elaborati di un programmino e pertanto non valga la pena perderci tempo. A un secondo livello, troviamo invece un riduzionismo affetto da una concezione computazionistica del linguaggio, per cui il linguaggio è un codice replicabile dalle macchine e produce automaticamente testi. Temo che sfugga agli arditi programmatori, che la natura della comunicazione umana sia legata a un intento comunicativo, che non possa essere sostituito da processi stocastici. Infatti sul piano filogenetico il linguaggio naturale che esprime il pensiero umano nasce da quella che viene chiamata un’intenzionalità condivisa, ossia da un’attività collaborativa e da comunicazioni cooperative che preesistono alla nascita del linguaggio convenzionale. Ne segue che qualsiasi testo, scritto od orale, elaborato o frammentario, perfino quello più nonsense che si possa incontrare nelle opere dadaiste, è caratterizzato da questo intento non riproducibile da una macchina, senza il quale non c’è comunicazione ma solo parole galleggianti nel vuoto.
Forse però faccio torto alla natura utopica, qualcuno potrebbe dire distopica, di questo programma ancorandolo così brutalmente ai dati grezzi; forse veramente il suo valore risiede nel sogno di una società in cui la scrittura creativa coincida con  un’accozzaglia di frasi memorizzate e ordinate plausibilmente su un determinato argomento. Verrebbe a identificarsi così con il sogno di una società perfettamente governabile, una sorta di leggenda del grande inquisitore 4.0, che avrà sicuramente i suoi estimatori.

i poeti appartati: Elvio Carrieri

5

Mi colpiscono i versi che hanno storia e un corpo, una passione che è fuori tempo massimo, scolpiscono la pagina, e mi lasciano sorpreso senza aggiungere nulla nè togliere alle cose, che è cosa ancor più rara. effeffe

Cinque poesie inedite

di

Elvio Carrieri

 

Eῖδος
Su un esemplare di scheletro

Non è disprassìa
Sono i tratti della bocca
Che proprio non mi piacciono
Fanno paura
Quanto un’antica maschera cinese
Sono i muscoli striati
Maledetti, inesistenti
Lavativi corrotti sicuramente
Abominevoli
Che si rendono al cospetto della mente
Non è disprassìa
Non è una colite che mi semplifica
Fosse solo così facile
Dissolversi nella malattia
Non è neanche la gola
Che perderò con la giusta postura
A rendere giustizia
Non sono le anche, il costato
Gli accenni di scabbia
O forse è la signorìa
Di quel ventre colluso e sprezzante
E di quel feudo che chiamo stomaco
Che mi rigo come una bestia
E trasporto come una missiva
A rendere giustizia è la paura
Non è mica disprassia
Questa assurda involuzione
In-volontà di muoversi
Forse è solo lo scheletro
Forse fargli giustizia è impossibile.

 

*

Ci ho messo appena tre anni

Ci ho messo appena tre anni
Per farti capire
Che quelli che scrivo non sono ditirambi
Sottesi, o peggio ancora
Poemetti in prosa, o sperimentazioni
Illuminate, contusioni insomma
Di una qualche singolare zona del cervello
Ho tentato addirittura
La mossa del malmenato
Dell’uomo scheletrico
Un Kafka ancora più secco e ancora più magro
Ci ho messo appena tre anni
Per capire e poi dimenticare
Effettivamente cosa fosse un ditirambo
C’era poco da fare in fondo
Oltre che tornarmene da solo a scavare.

*
A un Bestiario del passato

È facile sorprendersi se a tratti
Anche l’ombra soggiace a un’altra ombra
Tanto diversa quando si compone
Copre per sé, come se fosse il tutto
Come se a un tratto il buco nell’asfalto
Lo scheletro sventrato dell’uccello
Mi ricordassero che sono un uomo
Che sono vivo e anch’io porto uno scheletro
Ed anche lui con me si porta un’ombra.
Dal bianco dei miei occhi calcinati
Li stringo in mano, annodo le falangi
Sciolgo le trecce e il groppo delle vene
Dalla stanca parabola che formo
Sul limite, sul bordo della strada
Fino a dove la calce si costringe
Sento la crepa, il tratto che non bada
A ricongiungersi, la mente che straborda
E non recide, e neanche mi determina
E non occorre il ghigno del coltello
L’amplesso che fa il rame nell’acciaio
Non occorre il silenzio del portone
Altre falangi, altre capigliature
Luoghi migliori, altre nevrastenie
Tutto ciò non occorre per salpare
L’ombra comparirà, si farà netta
Verso una consuetudine che attende
L’ombra che niente vuole e niente prende
Fino a dove la calce si costringe.

*
Neuköln

La turbolenza scorre sotto i polsi
Allora in ordine
Cedono petto viscere carni
Caviglie accorpate nel decollo
La convinzione
In aria c’è l’odore di una congiura
Dove dorme il dolore
Commisto alle orme
La turbolenza scorre sotto i polsi
Così con eleganza si ripiega al padre
Che faccia la sua volontà
Ma non troppo di getto
Non in modo così barbarico
Qui fuori da me la convinzione
Il tanfo delle biomolecole che brama
Sono pronto a disgiungermi
Dov’è la presunzione
Nel credermi parte di questa creazione sigillata
Il capitano parla in portoghese
In aria c’è l’odore di una congiura
E il vecchio con l’occhio bionico
Ancora non si siede
Chissà che aspetta a farsi volontà
Cosa gli costerà mai arrivar fin qui
Stracciarmi il doppiopetto
Coprirsi il volto sfigurato dalle piaghe
Guardarmi nelle tempie
Aprirsi l’epicardio
E sputarmi nel cuore
E dirmi sono qui per te che tremo
Non così
Non in modo così barbarico
Il padre non può cedere alle mie lusinghe
La mia volontà
deve farsi signora
La mia congiura deve avvelenarmi da sola.

*
Quasi un Lied

Certo mi guardi
Come farebbe un’avèrla
Sul palo che è il ramo
Dove poi finirei scorticato
Credo fra poco
Dovrei darmela a gambe senza ritegno
A che pro finire poi
Con un rametto in mezzo allo sterno
A mo’ di antica preda
Tu avèrla che mi sanguini
Inumata a sacrificio metropolitano
Certo l’istante
Di me col collo aperto in due
Sopra un’antica quercia
Le mani soppresse
Braccato come un selvatico
Odore di muschio felci sorprese
Sotto di me che muoio
Sopra di me che sanguino
Tu avèrla che mi guardi
Di me non puoi farne che questo.

Dentro una frase di Chris Marker

2

 

 

di Ornella Tajani
con la partecipazione di Serena Cacchioli

Ricevo da Serena questa frase, tratta da Sans soleil di Chris Marker, che non avevo mai visto e che ho guardato subito dopo. La trovo magnetica, nei giorni successivi continuo a rileggerla, ad attraversarla, quasi che nello spazio di poche righe possa prendere corpo (è sempre e solo questione di corpi) una verità fondamentale, il senso stesso di un’esistenza; ma, quando arrivo al punto finale, mi sembra di averla persa, come se intanto si fosse bruciata.

Qui a dit que le temps vient à bout de toutes les blessures ? Il vaudrait mieux dire que le temps vient à bout de tout, sauf des blessures. Avec le temps, la plaie de la séparation perd ses bords réels. Avec le temps, le corps désiré ne sera bientôt plus, et si le corps désirant a déjà cessé d’être pour l’autre, ce qui demeure, c’est une plaie sans corps.

Sento il bisogno di appropriarmene, di penetrare il significato in qualche modo, quindi faccio l’unica cosa che mi viene in mente: la traduco.

Chi ha detto che il tempo guarisce ogni ferita? Sarebbe meglio dire che il tempo guarisce tutto, tranne le ferite. Col tempo la piaga della separazione perde i margini reali. Col tempo il corpo desiderato scompare in fretta, e se il corpo che desidera (— — —), resta solo una piaga senza corpo.

È una stesura di getto, ci avrò messo mezzo minuto — e si vede: è tutto un po’ traballante, non mi convince fino in fondo aver eliminato una ripetizione, quel “venir à bout” iniziale pare uno scoglio insormontabile, così visivo e al contempo astratto, così infinito e insieme perfettamente banale. Per giunta, io che di solito traduco sempre tutto sin dal primo momento, lascio uno spazio bianco: lascio in bianco il corpo desiderante che “a déjà cessé d’être pour l’autre”, forse perché è un pezzo di frase in cui sprofondo.
Mentre cerco on line il nome giapponese che nel film porta il presunto autore di questa frase, mi imbatto in una traduzione italiana, può darsi che sia quella del doppiaggio o della sottotitolazione ufficiale:

Chi ha detto che il tempo cura tutte le ferite? Sarebbe meglio dire che il tempo cura tutto tranne le ferite. Con il tempo, la sofferenza della separazione perde i propri reali limiti. Con il tempo, il corpo desiderato scompare in fretta, e se il corpo desiderante ha già smesso di esistere per l’altro, quello che rimane è una ferita… disincarnata.

La traduzione mi colpisce: mi colpisce che la “plaie” sia intesa in senso figurato, che i “bords” siano diventati “confini” (sono i “bords de la plaie”, i due lembi — i due corpi che si separano). Non è una brutta frase: “col tempo, la sofferenza della separazione perde i propri reali limiti”; forse sono persino d’accordo, ma mi sembra che stia dicendo qualcosa di piuttosto diverso da quello che recita il testo francese.
Leggo: “il corpo desiderante ha già smesso di esistere per l’altro”. È detto semplicemente, ed è esatto, riconosco il baratro: l’inaccettabilità di un corpo desiderante che non esiste più per chi è desiderato.
E poi la “ferita… disincarnata”: chi ha tradotto ha usato una bella soluzione per ovviare al problema di non aver scelto “plaie” per “piaga” poco prima. Seduce, la ferita disincarnata, ma dista anni luce dalla “plaie sans corps”: la “plaie sans corps” è il correlativo oggettivo dell’assenza, che non è mai assenza di sofferenza. La “ferita disincarnata” è letteraria, trasfigurata; i puntini sospensivi, che producono enfasi, creano una tonalità emotiva lontanissima dalla concretezza tragica che la frase di Marker esprime.
Scrivo a Serena e, senza anticipare granché di quanto detto finora, le chiedo una sua traduzione. Eccola:

Chi ha detto che il tempo cura tutte le ferite? Sarebbe meglio dire che il tempo cura tutto tranne le ferite. Con il tempo la ferita del distacco perde i contorni reali. Con il tempo, il corpo desiderato presto smetterà d’esistere e se anche il corpo desiderante smette di esserci per l’altro, quel che resta è una ferita senza corpo.

Poi commenta:

Ho tradotto sia blessure, sia plaie con ferita… non trovavo sinonimi migliori. All’inizio avevo messo «il segno» del distacco, ma la ferita è una ferita, non un segno… e nemmeno una piaga.

Serena ha inoltre tradotto “séparation” con “distacco”, che è una soluzione cui riflettere. Non sono invece d’accordo sul non scegliere il termine “piaga”: la piaga è visiva, è l’apertura infinita, la voragine. Quando mettiamo il dito nella piaga tocchiamo il punto focale della sofferenza, l’assenza da cui originano dolori e desideri.
Prima di farmi leggere il suo testo mi aveva mandato un vocale in cui stava per commentare la traduzione di “venir à bout” nei sottotitoli portoghesi al film, rivisto quella sera in un centro culturale di Lisbona: è un vocale che, per evitare di farmi influenzare, avevo interrotto. Lo ascolto ora:

Inizialmente avevo visto il film con i sottotitoli in italiano, quindi sono influenzata da quella traduzione; proverò a dimenticarmela. Quando poi l’ho visto con i sottotitoli in portoghese, c’era quel venir à bout che in portoghese era tradotto… insomma, mi ricordo che in italiano era tradotto con “cura”. E infatti il tempo cura le ferite.

Così, la traduzione portoghese si perde nel non detto. Il tempo forse cura le ferite, è vero: ma non le guarisce, è proprio questo che la frase francese indica. La cura implica un lavoro costante, potenzialmente ininterrotto; non è un venir à bout, non c’è necessariamente una riuscita, una risoluzione. Marker forse concorderebbe sul fatto che il tempo cura le ferite, ma qui gli preme sottolineare che non le guarisce.
Mi viene voglia di guardare una delle traduzioni spagnole del testo:

¿Quién ha dicho que el tiempo vence a todas las heridas? Mejor sería decir que el tiempo vence a todas las cosas, excepto a las heridas. Con el tiempo, la herida de la separación pierde sus contornos reales. Con el tiempo, el cuerpo deseado ya no lo será más, y si el cuerpo deseado ha dejado de ser para el otro, lo que queda es una herida sin cuerpo.

Un nuovo scarto dalla norma: se di solito in spagnolo «el tiempo cura las heridas», qui addirittura il tempo vince le ferite, forse sul modello di «el amor todo lo vence».
L’idea del superamento del dolore, che non implichi un vero attraversamento, è una delle più errate e nocive narrazioni del contemporaneo: superare il dolore come se si trattasse di un ostacolo, di un intralcio, e non di uno stato fondamentale dell’essere; il corollario evidente è che il mancato superamento del dolore costituisce un fallimento senza appello.
Su questa scia, l’immagine della «vittoria» contro la ferita rimanda a un modello esistenziale in cui regna il mito del successo a tutti i costi: il successo come una colata di cemento sopra ogni caduta o strappo, sulle asperità inevitabili di cui è costellato il quotidiano.
Almeno, la ferita è rimasta «sin cuerpo», senza corpo, mentre nella traduzione inglese ritorna ciò che trovavamo nella versione italiana:

Who said that time heals all wounds? It would be better to say that time heals everything except wounds. With time, the hurt of separation loses its real limits. With time, the desired body will soon disappear, and if the desiring body has already ceased to exist for the other, then what remains is a wound… disembodied.

Durante questi andirivieni linguistici ho ripensato la mia traduzione, pur non avendola ancora appuntata. Il finale che avevo scelto all’inizio («resta solo una piaga senza corpo») non funziona, non chiude magnificamente il cerchio come in francese: è troppo repentino, è piatto. Provo così: “ciò che/quello che resta è una piaga senza corpo”. Ma manca sempre qualcosa, manca la pausa data dalla virgola, che prepara al colpo di grazia: ed è una virgola possibile solo in francese, per via della struttura col presentativo; in italiano mai inserirei una virgola tra soggetto e verbo, o tra proposizione soggettiva e proposizione principale, come in questo caso.
Mi chiedo come mai ho un’immagine grafica dell’ultima frase: di colpo mi ricordo che, nel copia e incolla fatto da Serena, qualcosa era stato inavvertitamente messo a capo. E allora:

Chi ha detto che il tempo guarisce le ferite? Bisognerebbe dire che il tempo guarisce tutto, tranne le ferite. Col tempo la piaga della separazione perde i margini reali. Col tempo il corpo desiderato scompare, e, se il corpo che desidera ha già smesso d’esistere per l’altro, ciò che resta è una piaga
senza corpo.

Non è una fine, ma un inizio. La traduzione come avvicinamento, continuo attraversamento: on n’en vient jamais à bout. In fondo, anche la traduzione è una piaga senza corpo.