di Giorgio Vasta
Il caimano, il nuovo film di Nanni Moretti, è un film di Nanni Moretti.
Questa, che apparentemente è una tautologia, vuole invece valere da definizione, vuole precisare una categoria.
di Giorgio Vasta
Il caimano, il nuovo film di Nanni Moretti, è un film di Nanni Moretti.
Questa, che apparentemente è una tautologia, vuole invece valere da definizione, vuole precisare una categoria.
di Sergio Garufi
Domenica
E’ da poco passata la mezzanotte. Le strade di Milano sono piene di gente per la notte bianca. All’Anteo c’è il tutto esaurito per lo spettacolo delle 00.40. Si proietta Il Caimano. Sul palco sale Moretti con Barbagallo e Jasmine Trinca, accolti da un lungo e caloroso applauso. Il regista ringrazia “gli eroici spettatori” che faranno le ore piccole per vedere il suo ultimo film. Introducendo il suo produttore altera la voce, che diventa più flebile e caricaturale. Chiarisce: “sto imitando Fiorello che imita Moretti”.
di Christian raimo
Spiace parlare di più libri insieme, facendo poi un discorso che va subito oltre quei libri, che sembra farsi sociologico e generico. Ma la necessità di definire un legame, una linea, anche spezzata va bene, tra come gli scrittori trentenni – i migliori scrittori italiani travirgolette nuovi oggi – rappresentino questo paese in questo tempo emerge proprio per il loro evidente individualismo. Il loro essere isolati, un individualismo coatto, verrebbe da dire.
di Alessandro Garigliano
In fondo non la può guardare nessuno, eppure è imbarazzata mentre si abbassa le mutandine in bagno. Si vede l’attesa, sospesa in un cerchio tra le labbra che le si aprono dolcemente come uno spicchio di luna sul volto ovale. Il ciclo è sospeso davvero. Prima che comprenda, si volta d’istinto verso la finestra che incornicia un tramonto luttuoso, e ride. Poi si riguarda le mutandine ancora stirate tra le ginocchia, e davvero non sono macchiate di sangue, ma candide. Non si accende la sigaretta e pensa di uscire per le vie del centro senza prendere la macchina.
di Luisa Muraro e Massimo Adinolfi
[Il 21.03.06 nel quotidiano il manifesto è apparso un articolo di Luisa Muraro che, a partire da altri articoli dedicati al caso dello storico David Irving, affronta la questione della verità in democrazia. A me è sembrato un articolo interessante. Ieri in Left Wing è apparso un articolo di Massimo Adinolfi che discute, mi pare assai utilmente, l’articolo di Luisa Muraro. Li riporto, qui di séguito, entrambi. giulio mozzi]
di Marino Magliani
Lei voltandosi vide il suo occhio sinistro aperto sul soffitto.
– Sei nervoso.
Era sicuro che gli avrebbe detto qualcosa. Sei nervoso o «non dormi» , «ti fa male il braccio». Mai domande. Come se lei stanotte l’avesse saputo che poteva essere soltanto una di queste tre cose a tenerlo sveglio.
Per questo lui aveva abbassato in fretta le palpebre. Lei fece finta di non aver notato niente.
Gli sembrò di aver vinto allora.
A Milano, mercoledì 29 marzo 2006 alle ore 18.00, presso la libreria Archivi del ‘900 in via Montevideo, 9
presentazione dell’antologia IL PRESENTE DELLA POESIA ITALIANA, a cura di Carlo Dentali e di Stefano Salvi
assieme ai curatori e all’editore Camilliti, interverranno alcuni degli autori: Fabiano Alberghetti, Vincenzo Bagnoli, Pietro Berra, Alessandro Broggi, Tiziana Cera Rosco, Paolo Fichera, Patrizia Mari, Andrea Ponso, Stefano Raimondi, Jacopo Ricciardi, Massimo Sannelli e Italo Testa.
di Valerio Varesi
L’ultraleggero assomigliava a un triste uccellaccio notturno dal volo corto e pigro. Di quelli che cantano ai lumini dagli alberi dei cimiteri.
“Non trova che abbia un aspetto sinistro?” domandò il maresciallo toccandosi furtivamente attraverso la tasca dei pantaloni.
Il giovane sostituto procuratore annuì. Davanti a lui il piccolo velivolo maldestramente colorato di nero, si reggeva su quattro ceppi. L’elica giaceva in terra smontata. Era vero: ricordava certi corvi solitari che nella stagione delle nebbie finivano stecchiti e strinati, pancia all’aria e le ali aperte, sotto i tralicci dell’alta tensione. E una sventura l’aveva proprio portata: era stato ammazzato il suo costruttore: Furio Dall’Argine.
di
Francesco Forlani
Ho scoperto Malaparte a dodici anni. Me lo ricordo bene perché era l’estate. È la stagione in cui i sogni dell’adolescenza si fanno più nitidi in nome dei tempi lunghi e vuoti senza scuola. Malaparte entrava nel mio immaginario in modo violento. Doppiamente devastante. Da una parte perché non era attraverso la pagina scritta – quella per cui la parola non sarà mai sufficientemente tenebrosa quanto l’immagine – e dall’altra per il modo del tutto incidentale con cui avvenne.
di giuliomozzi
Sherif El Sebaie ha pubblicato l’altro giorno un interessante articolo dal titolo: “Un immigrato di destra?“. Vi invito a leggerlo dal principio alla fine. Qui faccio qualche considerazione al volo, appoggiandomi a brevi citazioni. (Di Sherif El Sebaie merita attenzione anche la campagna: “Adotta il voto di un immigrato“).
di Mattia Paganelli
Rafik Schami: «L’ esilio è una condizione amara ma può anche essere liberatorio»
Lo scrittore Rafik Schami è nato nel 1946 nel quartiere cristiano aramaico di Damasco. Nel 1971 si è rifugiato in esilio in Germania. È appena uscito in libreria «Il lato oscuro dell’ amore» (Garzanti, pagine 858, euro 22)
Intervista di Claudio Magris a Rafik Schami pubblicata sul Corriere della sera del 12 marzo 2006.
Claudio Magris: La globalizzazione cancella alcune identità, ma ne crea altre, accresce diversità e meticciati. Sul piano letterario, incrementa un fenomeno stimolante, già esistente in passato, l’ opera di autori che – in seguito all’ esilio, all’ emigrazione, allo sradicamento – scrivono i loro testi in una lingua diversa da quella materna, come un tempo Joseph Conrad oppure oggi, in Italia, uno scrittore quale Giorgio Pressburger. Rafik Schami, siriano immigrato in Germania all’ inizio degli anni Settanta – è nato nel 1946 -, è divenuto un narratore tedesco di grande successo, anche in Italia, col suo libro Il lato oscuro dell’ amore, tradotto da Rossella Zeni (Garzanti, pp. 858, euro 22). È un affresco epico, un tappeto orientale in cui i fili di innumerevoli destini individuali si intrecciano in un disegno in cui vive il Medio Oriente nel crogiolo delle sue stirpi, religioni e culture. Per uno scrittore la lingua non è solo comunicazione, ma si identifica con la percezione del mondo e l’ ordine che gli si dà; scrivere in tedesco questa storia araba – gli chiedo – implica pure un altro sentimento della realtà? Se l’ avesse scritto in arabo, il libro sarebbe stato diverso?
Il 17 febbraio 2003 Abu Omar veniva sequestrato a Milano, in pieno giorno, come risultato di un’operazione gestita da 25 agenti della CIA. Stava camminando da casa alla moschea quando due uomini in uniforme della polizia italiana lo avrebbero forzato ad entrare in un furgoncino. Da qui è stato portato alla base di Aviano, il giorno successivo a Ramstein in Germania a infine in Egitto come meta finale. Circa un anno dopo, Abu Omar fu rilasciato e messo agli arresti domiciliari. Dall’Egitto telefonò a Milano alla moglie ed alcuni amici. Si lamentò di essere stato torturato con scosse elettriche fin quasi ad essere ridotto in fin di vita. Le telefonate furono intercettate e registrate dalle autorità italiane. In seguito a queste telefonate, evidentemente intercettate anche dalle autorità egiziane, Abu Omar fu rimesso in carcere e da allora non si sono avute molte notizie ma sembra essere ancora in Egitto stando alle ultime riluttanti comunicazioni del governo egiziano.
di giuliomozzi
Mi trovo a bere una birra con il mio amico Sauro. Ci conosciamo da trent’anni. Sauro è laureato in filosofia, ma il suo mestiere è elaborare software per il trattamento delle immagini. E’ un lavoratore a tempo indeterminato. La sua automobile è una Ka gialla. Sauro pratica il Bdsm. Ogni tanto succede che ne parliamo: non perché Sauro esibisca la cosa, ma perché io sono curioso.
“Vedi”, dice Sauro. “Tu dici: amore. Ma il campo semantico della parola amore è assai vasto; e il termine amore, oggidì, è diventato una delle parole più usate e abusate, alla quale si annettono significati del tutto differenti tra loro”.
“Sì”, dico io. “Basti vedere, tanto per stare alla cronaca di questi giorni, per quale e quanto diverso amore di patria hanno ricevuta una medaglia tanto Nicolò Calipari e Fabrizio Quattrocchi”.
“Dài”, dice Sauro. “Non buttarla subito in politica”.
“Va bene”, dico. “Vai avanti”.

L’attuale Presidente del Consiglio italiano è l’editor migliore del mondo. Grazie a lui ho imparato un sacco di cose, senza bisogno di andare alla scuola Holden. Grazie a lui negli ultimi anni ho imparato ad avere orrore delle frasi fatte, a espellere la bassa retorica dalla mia lingua, a soppesare scrupolosamente la verità di ogni sillaba. Grazie a lui ho sviluppato un’ossessione per i rapporti di causa-effetto, per la tenuta logica di ogni paragrafo che scrivo. Grazie a lui ho espulso il narcisismo che abitava nei miei primi testi, l’ho messo fuori dalla porta come un gatto puzzolente.
Che lui lo sapesse o meno, e che il suo esempio agisse in realtà per contrasto, non conta poi tanto. Il Presidente mi ha insegnato tutto quel che serviva, e lo ha fatto gratis! Bastava osservarlo e fare tutto il contrario.
Il colonnello
traduzione di Alessandra Mosca e Paolo Trama
Essendo prologhi, prefazioni, introduzioni e altri preamboli destinati a non essere letti, ne approfitterò per dire due o tre cose che meritano di essere ascoltate.
Ho conosciuto Léo Baboulène grazie alla mia vicina di pianerottolo, la signora Molinari, la cui figlia, Zézette, era, ed è tuttora, mentre traccio queste righe, infermiera all’ospedale militare di Laverain. Il vecchio venerando, ex combattente della Grande Guerra, era alla ricerca di un orecchio per raccogliere i suoi ricordi e di una penna per stenderli sulla carta. Io fui quell’orecchio e quella penna. Nei dintorni del Vecchio Porto, gli scrittori non mancano, alcuni sono conosciuti non solo a Marsiglia, ma anche nel resto dell’universo – per evitare di dimenticarne qualcuno non ne nominerò nessuno – ma, ahimè, il tempo stringeva, e il veterano prese quello che aveva a portata di mano: me. Spero che lì dove si trova adesso non se ne penta.
di Marco Mantello
1. Questa storia di prendere un bosco
che attraversa l’intero paese
ed arriva diritto in Sassonia
mi sa tanto che già la conosco.
di Luca Bidoli
Scrivo d’impulso, di getto, senza curarmi troppo né di forma né di costruzioni, solo badando, se è possibile, ai contenuti, in modo che quel poco o nulla di pudore, che mantengo nei confronti del mio paese, mi trattenga dall’essere ancora più sdegnato, per certi aspetti ancora più intorpidito. Ho letto. Ho letto le dichiarazioni del cardinale Ruini riportate sui quotidiani, sulle prime pagine di ogni giornale. E già questo, per se stesso, sarebbe sufficiente ad inquietarmi, forse farebbe bene anche ad inquietare chiunque, in un paese che si voglia definire civile, laicista, realmente democratico.
3
di Gianni Biondillo
Non ostante sia il primo postato, piuttosto che il pezzo sul volume Scrivere sul fronte occidentale ho sempre reputato l’effettiva nascita di Nazione Indiana il secondo post, la lettera al ritorno dall’Argentina di Moresco (In attitudine di combattimento e di sogno).
Esattamente tre anni fa.
Tre anni sono tanti sul web, tante cose sono accadute. A fine maggio del 2003 (Questo è un sito in costruzione) si faceva l’elenco dei partecipanti al progetto. Molti di quelli che io credevo fossero fra i fondatori (tipo Montanari, o Nove, ad esempio) non c’erano. Dei soci fondatori ne restano 4. Molti si sono aggiunti strada facendo, molti se ne sono andati.
Io, ad esempio, il mio primo commento da lettore credo di averlo fatto attorno a ottobre (o novembre, non ricordo) di quell’anno. Poi i miei pezzi sono stati pubblicati una volta da Scarpa, un’altra volta da Voltolini, o Guerriero, o Saviano. Solo a dicembre del 2004 ho pubblicato il mio primo post con la mia password nuova di zecca.
Tutto scorre, non possiamo sapere dove saremo fra tre anni. So che questo pezzo di strada l’ho fatto volentieri, con tutti voi. Assenti e presenti. Postanti e commentatori.
Sono in studio, al “lavoro”, non ho da brindare. Mi fumerò una sigaretta.
Auguri, insomma.
(continua il florilegio, iniziato qui e continuato qui a cura di) Alessandro Canzian
Apro il mio laboratorio
MARCELLO FOIS
Io non parlo l’italiano o il dialetto, ma parlo due vere e proprie lingue. Il nuorese, fino all’età scolare è stata la mia unica lingua, e spesso mi rendo conto di pensare in sardo. Camilleri, in fondo, si può dire che abbia costruito un siciliano quasi «virtuale». In realtà, i personaggi dei miei libri che parlano in sardo, non potrebbero fare altro. Io ho scritto in dialetto quando certe frasi erano intraducibili, ma essenziali in bocca al personaggio. Credo che «una lingua in più», non sia un disvalore, non voglia dire provincialismo: al contrario; e poichè l’Italia è anche molteplicità di espressioni e di espressività, semmai può essere solo un elemento che accresce la cultura. Si può fare una letteratura nazionale, senza usare una lingua nazionale.
di Franco Arminio
Sembra di stare in un incubo. Ci muoviamo nella scontentezza che ci gira in testa e in quella che vediamo intorno a noi. Sembra un sanatorio. Adesso si è ammalato anche quello che ostentava felicità e ottimismo. Ha preso a zoppicare, male momentaneo, ha preso il nervosismo, male nazionale. Il guaio è che molti hanno un nervosismo inerme, rassegnato.