di Giorgio Vasta
Da un po’ di tempo avevo intenzione di ragionare a fondo sulla fiction televisiva italiana contemporanea, sulla sue premesse culturali, sulla sua fattura e sui suoi obiettivi, partendo dall’idea che la fiction tv è un dispositivo narrativo che produce una determinata lettura del mondo e che genera un immaginario popolare. Poi, qualche settimana fa, il ministro delle comunicazioni Landolfi, rispondendo a una dichiarazione di Prodi, ha affermato che la fiction televisiva italiana, in questo specifico momento, è di sinistra, quasi comunista, portando l’esempio del Commissario Montalbano e del Grande Torino, in onda in quegli stessi giorni. Questa affermazione mi ha colpito e mi ha suscitato una serie di considerazioni. Rendendomi conto che non era possibile affrontare il discorso da solo, ho chiesto a chi lavora nella produzione della fiction (sceneggiatori, head writer, script-editor, story-editor, produttori) di discutere di questo argomento, riassumibile in una frase: come si fa la fiction tv in Italia, e che cosa fa la fiction tv all’Italia?





Accantonato frettolosamente come un abito smesso, ritenuto ormai liso e sorpassato, oggi postmoderno non è più quella parola feticcio utile a designare e nobilitare qualsiasi cosa – fosse un romanzo, un risotto o un bikini -, di cui si riempiva la bocca soprattutto chi ne ignorava il significato; ma è diventato un epiteto infamante, la quintessenza di ogni nequizia artistica.
Negli scontri tra i Fantastici Quattro e il Dottor Destino mi sono sempre ritrovato a parteggiare per il caro vecchio Victor von Doom. Ero un ragazzo piuttosto turbolento: dopo una sospensione scolastica o un litigio furibondo con i miei, capitava che mi rifugiassi nei fumetti Marvel importati in Italia dalla Corno. Condividevo i complessi di Peter Parker, mi affascinava la marginalità degli X Men, ma ogni volta che mettevo piede al Baxter Building ero preso da un sentimento di disagio, di repellenza, di incestuoso decoro. 
di Tommaso Pincio